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RIFLESSIONE ai GIOVANI A GAMOGNA
Eremo di Gamogna, 24 settembre 2016
24-09-2016

Cari giovani, è bello essere qui in questo luogo di pace, fondato, secondo la tradizione, da san Pier Damiani. Sulle sue orme desideriamo metterci alla scuola della Parola e in ascolto di Dio. Guardando a voi, così numerosi, viene da avere speranza per la Chiesa che è in Faenza e Modigliana. C’è ancora futuro per il cristianesimo qui in Romagna. Vi sono giovani che se ne fanno carico, ricevendone il testimone da grandi santi che hanno onorato questa terra e l’hanno resa casa di Dio, popolo ricco di fede e di opere, grazie all’evangelizzazione e alla testimonianza del Vangelo.

Siamo qui, in disparte, come i discepoli attorno a Gesù, per re-incontrarLo, per non essere «pensionati» anzitempo, per vivere una vita in pienezza, con passione. Il papa Francesco nel suo discorso a Blonia, nel parco Jordan, confidava: «Nei miei anni vissuti da Vescovo ho imparato una cosa – ne ho imparate tante, ma una voglio dirla adesso -: non c’è niente di più bello che contemplare i desideri, l’impegno, la passione e l’energia con cui tanti giovani vivono la vita. Questo è bello! E da dove viene questa bellezza? Quando Gesù tocca il cuore di un giovane, di una giovane, questi sono capaci di azioni veramente grandiose. È stimolante, sentirli condividere i loro sogni, le loro domande e il loro desiderio di opporsi a tutti coloro che dicono che le cose non possono cambiare».

Anche i vostri sacerdoti ed animatori, anche il vostro vescovo, che è salesiano, tutti, sono felici nel vedere un gruppo di giovani così numeroso e la cui bellezza viene da Gesù, che tocca e trasforma il loro cuore.

Diceva ancora il papa a Blonia: «Voglio anche confessarvi un’altra cosa che ho imparato in questi anni. Non voglio offendere nessuno, ma mi addolora incontrare giovani che sembrano “pensionati” prima del tempo. Questo mi addolora. Giovani che sembra che siano andati in pensione a 23, 24, 25 anni. Questo mi addolora. Mi preoccupa vedere giovani che hanno “gettato la spugna” prima di iniziare la partita. Che si sono “arresi” senza aver cominciato a giocare. Mi addolora vedere giovani che camminano con la faccia triste, come se la loro vita non avesse valore. Sono giovani essenzialmente annoiati… e noiosi, che annoiano gli altri, e questo mi addolora. E’ difficile, e nello stesso tempo ci interpella, vedere giovani che lasciano la vita alla ricerca della “vertigine”, o di quella sensazione di sentirsi vivi per vie oscure che poi finiscono per “pagare”… e pagare caro».

Secondo papa Francesco i giovani non debbono essere né rassegnati né rinunciatari rispetto ai grandi ideali che abitano nel loro cuore. Non debbono essere nemmeno disuniti, incapaci di fare «massa critica» rispetto ad una società che li snerva e li riduce a zombi, deprivandoli dei loro sogni. Per reagire a questa situazione c’è una sola strada da percorrere. Non so se avete fatto caso ad un passaggio del discorso di papa Francesco in cui osserva: « […] ci siamo riuniti per aiutarci a vicenda, perché non vogliamo lasciarci rubare il meglio di noi stessi, non vogliamo permettere che ci rubino le energie, che ci rubino la gioia, che ci rubino i sogni con false illusioni». Ebbene, ecco la strada: per non diventare pensionati anzitempo, rinunciatari, giovani che gettano la spugna prima di incominciare a lottare, occorre riunirsi attorno a Cristo, fare comunione con Lui. La risposta alla nostra debolezza morale e al nostro disorientamento è Gesù Cristo, che non è una cosa, non si compra in un negozio, ma è una persona. Gesù Cristo è colui che sa dare vera passione alla vita, è colui che ci porta a non accontentarci di poco e ci sospinge a dare il meglio di noi stessi. Egli ci sollecita ad alzare lo sguardo e a sognare alto.

Siamo qui, per incontrarLo, per contemplarLo, per accoglierLo e condividerLo. Chi accoglie Gesù impara ad amare come Gesù.

È, dunque, fondamentale poterLo incontrare realmente. Bisogna che si riesca a trovare il momento per farlo, creando il silenzio attorno a noi, in noi, per essere a tu per tu con Lui, spogli di ogni pensiero che ci sovrasta e che ce Lo nasconde. Dovremmo poterlo raggiungere bypassando tutto ciò che si frappone tra noi e Lui, per essere guardati, per guardarLo negli occhi, per pregarLo, per parlargli, domandandogli cosa desidera da noi, dalla nostra vita, per donarci a Lui con tutto noi stessi. Giungendo a «toccarlo» con il nostro spirito e a vederlo, giungendo ad essere intimi a Lui, assumiamo il suo punto di vista sul mondo e sulla storia, facciamo nostri i suoi sentimenti, riceviamo il mandato di essere suoi missionari, e superiamo le nostre paralisi e chiusure, vinciamo la paura di uscire, non siamo più imbambolati ed intontiti, persone-divano, passive. Chi vive un’intimità intensa con Lui, che è il Missionario per eccellenza, perché Inviato dal Padre a portare la salvezza a tutti, diventa annunciatore di una redenzione ricevuta e sperimentata, che trasfigura il nostro essere e lo rende più sensibile al vero, al bene e a Dio. Si fa portatore di una libertà che sceglie e persegue il progetto di quella nuova umanità che egli è venuto a seminare nei solchi della storia: un’umanità solidale, giusta, pacifica, aperta alla TRASCENDENZA. La comunione con Gesù Cristo ci rende persone che non confondono la felicità con un divano, bensì persone sveglie, desiderose di rispondere al sogno di Dio e a tutte le aspirazioni genuine del cuore. I giovani, amici di Gesù, non si lasciano vincere in slancio e operosità da altri giovani, forse più vivi, ma non i più buoni, e nemmeno da quegli adulti che preferiscono avere a che fare con giovani poco svegli e poco vivaci intellettualmente, e così decidono il futuro per loro. Cari giovani, dice papa Francesco, non siamo venuti al mondo a “vegetare”, per passarcela comodamente. Siamo venuti al mondo per lasciare un’impronta, ossia per costruire un mondo nuovo, una famiglia di fratelli, ove si cresce in dignità e tutti possono fiorire. Come Gesù bisogna avere una buona dose di coraggio, bisogna decidersi a cambiare il divano con un paio di scarpe che aiutino a camminare su strade mai sognate e nemmeno pensate. Bisogna andare per le strade del nostro Dio che invita ad essere suoi evangelizzatori (su questo ritornerò fra breve), attori politici, persone che pensano, animatori sociali. Egli ci stimola a pensare un’economia più solidale di quella che abbiamo, a portare la Buona Notizia, in tutti gli ambiti di vita (cf Discorso a Cracovia, Campus Misericordiae, 30 luglio 2016).

Come sottolineavo poco fa, facendo comunione con Gesù Cristo viviamo un’Intimità Itinerante, che ci rende inviati, missionari di Lui. Ciascuno e tutti siamo una missione: siamo e dobbiamo essere missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. Nel n. 262 dell’Evangelii gaudium, si precisa che dobbiamo essere missionari con Spirito. «Evangelizzatori con Spirito significa evangelizzatori che pregano e lavorano. Dal punto di vista dell’evangelizzazione, non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore. Tali proposte parziali e disgreganti raggiungono solo piccoli gruppi e non hanno una forza di ampia penetrazione, perché mutilano il Vangelo. Occorre sempre coltivare uno spazio interiore che conferisca senso cristiano all’impegno e all’attività. Senza momenti prolungati di adorazione, di incontro orante con la Parola, di dialogo sincero con il Signore, facilmente i compiti si svuotano di significato, ci indeboliamo per la stanchezza e le difficoltà, e il fervore si spegne. La Chiesa non può fare a meno del polmone della preghiera».

Ma perché dobbiamo essere missionari?

Per quanto concerne le motivazioni del nostro essere missionari, nell’Evangelii gaudium troviamo queste affermazioni: «La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più. Però, che amore è quello che non sente la necessità di parlare della persona amata, di presentarla, di farla conoscere? Se non proviamo l’intenso desiderio di comunicarlo, abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera per chiedere a Lui che torni ad affascinarci. […]La migliore motivazione per decidersi a comunicare il Vangelo è contemplarlo con amore, è sostare sulle sue pagine e leggerlo con il cuore. Se lo accostiamo in questo modo, la sua bellezza ci stupisce, torna ogni volta ad affascinarci. Perciò è urgente ricuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è niente di meglio da trasmettere agli altri» (n. 264).

Ma sempre nell’esortazione Evangelii gaudium è indicata un’altra motivazione: «Il missionario è convinto che esiste già nei singoli e nei popoli, per l’azione dello Spirito, un’attesa anche se inconscia di conoscere la verità su Dio, sull’uomo, sulla via che porta alla liberazione dal peccato e dalla morte. L’entusiasmo nell’annunziare il Cristo deriva dalla convinzione di rispondere a tale attesa» (n. 265).

Detto altrimenti, siamo chiamati ad evangelizzare perché in ogni uomo è inscritta l’immagine di Cristo. Ogni persona è strutturata sulla figura di Gesù Cristo. E, quindi, è caratterizzata dalla propensione innata a crescere in modo da raggiungere la statura del Figlio di Dio. Proprio per questo in ogni persona vi è un dovere e un diritto ad essere evangelizzati. Spesso come credenti dimentichiamo questo aspetto e rinunciamo ad essere missionari. Noi non dobbiamo dedicarci ad un proselitismo aggressivo, perché lederebbe il diritto alla libertà altrui. Ma non possiamo scordare che se desideriamo vivere la misericordia di Dio nella sua integralità, ed essere di Cristo, uno degli aspetti da attuare è proprio questo: amare le persone aiutandole a crescere secondo l’immagine di Cristo e, quindi, rendendole consapevoli della loro vocazione alla cristo-conformità. Questo vuol dire vivere da missionari. E non semplicemente da filantropi o da persone che praticano la carità assistenziale, senza far trasparire l’amore di Cristo, come semplici operatori sociali.

Un’ultima motivazione per essere missionari secondo l’Evangelii gaudium è questa: «Abbiamo a disposizione un tesoro di vita e di amore che non può ingannare, il messaggio che non può manipolare né illudere. È una risposta che scende nel più profondo dell’essere umano e che può sostenerlo ed elevarlo. È la verità che non passa di moda perché è in grado di penetrare là dove nient’altro può arrivare. La nostra tristezza infinita si cura soltanto con un infinito amore» (Ib.).

Cari giovani, in questo luogo santificato da san Pier Damiani e da tanti altri monaci e credenti, riscopriamo la nostra identità di missionari. Per esserlo realmente comprendiamo e approfondiamo davanti a Dio, pregandoLo, le ragioni per cui lo dobbiamo essere. Il nostro impegno futuro dipenderà proprio dall’aver capito le motivazioni profonde per cui siamo e dobbiamo essere evangelizzatori di Gesù Cristo, l’Uomo Nuovo, nel nostro territorio.

Riflessione al termine della VIA CRUCIS CITTADINA
Faenza, Basilica Cattedrale - 23 marzo 2016
23-03-2016

Dopo aver terminato la Via crucis cittadina fermiamoci a riflettere alcuni istanti. La croce che appare a noi come segno di morte e di martirio è, più profondamente, annuncio che là ove essa è posta è iniziata una nuova vita, una nuova storia, una rivoluzione nella cultura, nella vita delle persone. I nostri padri allorché volevano indicare che in un determinato territorio era giunto il cristianesimo, con il suo influsso benefico e il suo genio di civilizzazione, piantavano una croce. Non tanto come segno della conquista di un Paese, quanto piuttosto come segno che in esso Cristo è arrivato, conosciuto, amato, vissuto come principio e fonte di un nuovo essere persone, popolo ed umanità. Portare la croce al collo è segno di appartenenza a Cristo, vuol dire essere suoi, vivere Lui. Per cui dobbiamo ritenere che là ove noi oggi vediamo innalzata o posta una croce, su un monte o su una chiesa, si riteneva di abitare in un luogo raggiunto dall’evangelizzazione, dalla Buona Novella della salvezza dell’uomo mediante l’Amore (amore con la A maiuscola!).

L’uomo si salva, cresce in pienezza facendo della sua esistenza un dono, divenendo come Gesù Cristo uno che non conserva la propria vita trattenendola, ma donandola, svuotandola per Dio e il prossimo. Per mezzo della Croce di Cristo, amando come ama Cristo, vinciamo il maligno, sconfiggiamo l’odio, costruiamo ambienti di vita strutturati dalla logica del dono e dalla fraternità.

La croce posta nei crocicchi delle strade, nelle case, nelle scuole, nelle sale pubbliche, nelle stanze da letto, nei conventi ricordava alle persone che ovunque fossero la loro vita era, dunque, destinata ad essere diversa a causa dell’amore vissuto da Cristo che è salito sulla croce. Doveva essere un’esistenza unita a quella del Figlio di Dio, arricchita della capacità di amare e di opporsi al male quale solo Gesù possiede. Dove campeggiava la croce lì doveva esistere una nuova storia, caratterizzata dall’impegno di un amore senza limiti, da una lotta al male e alla degradazione dell’uomo e della donna sino alla morte.

Perché la croce là ove era posta doveva essere segno di una nuova umanità, di riscatto e di liberazione per tutti? Perché la morte di Cristo in croce è momento in cui si compie il rinnovamento dell’umanità. È il luogo ove si manifesta sì l’amore misericordioso del Padre ma anche un’umanità – quella di Cristo – nella sua massima comunione con Dio, disposta a lottare contro il male, la violenza, sino ad immolarsi. Cristo che muore in croce è la nostra umanità, da Lui assunta, che si riconcilia con Dio e con i fratelli e viene divinizzata, ossia dotata della capacità del Figlio di opporsi al peccato e di perdonare, di essere in comunione con il Padre. Cristo, morendo sulla croce, opponendosi con tutto se stesso al male, alla divisione, ai conflitti, ci rinnova come umanità, ci dà il potere di diventare figli di Dio (cf Gv 1, 12). Ci purifica da tutte le nostre impurità e da tutti i nostri idoli. Ci dà un cuore nuovo, mette dentro di noi uno spirito nuovo, toglie da noi il cuore di pietra e ci dà un cuore di carne (cf Ez 36, 18-28).

Dopo la processione cittadina che ci ha visti seguire la croce di Cristo, portata processionalmente, ritorniamo nelle nostre case coscienti del perché nella nostra città, negli edifici pubblici, nelle nostre stanze troviamo la croce. Non è lì per semplice ornamento. È lì per dirci sempre e ovunque che dovremmo vivere in linea con la vita nuova che Cristo ci ha guadagnato con la sua morte e risurrezione, donando il suo Spirito d’amore. E cioè: nella famiglia, nella scuola, nella città, nel mondo del lavoro, nella finanza, nell’economia, nei mezzi di comunicazione sociale, nei luoghi di incontro e di svago.

Siamo orgogliosi e degni del Crocifisso tutti i giorni della nostra vita. Non abbiamo paura di essere e di dirci cristiani.

Mentre portiamo in e con noi il pensiero della Croce di Cristo, pensiamo con commozione a tanti nostri fratelli e sorelle che sono perseguitati e uccisi a causa della loro fedeltà a Cristo. Questo accade specialmente là dove la libertà religiosa non è ancora garantita o pienamente realizzata. Accade però anche in Paesi e ambienti che in linea di principio tutelano la libertà e i diritti umani, ma dove concretamente i credenti, e specialmente i cristiani, incontrano limitazioni e discriminazioni. Ricordiamoli e preghiamo in modo particolare per loro. Essi ci appartengono, tutti facciamo parte del Corpo di Cristo. Sul Calvario, ai piedi della croce, c’era la Vergine Maria (cfr Gv 19,25-27). È la Vergine Addolorata. A Lei affidiamo il presente e il futuro della Chiesa, di tutte le comunità cristiane, perché tutti sappiano sempre scoprire ed accogliere il messaggio di amore e di salvezza della Croce di Gesù.

MEDITAZIONE in occasione della VEGLIA di SAN VALENTINO e del GIUBILEO dei FIDANZATI
Faenza - S. Ippolito, 13 febbraio 2016
13-02-2016

  1. Un amore più grande

Per la Veglia di san Valentino e il Giubileo dei Fidanzati è stato scelto come tema ispiratore l’espressione «Misericordiosi come il Padre». E ciò non a caso. L’amore dei fidanzati inizia con un’attrazione quasi irresistibile dell’uno verso l’altra, e viceversa: l’innamoramento. In esso si vive un’esperienza unica. I due innamorati sembrano essere strappati dalla limitatezza della loro esistenza sino a promettersi un amore eterno, per sempre. L’amore che li attrae reciprocamente dà la sensazione di essere vittoriosi su tutto. Agli innamorati pare di essere onnipotenti, di essere una forza divina: omnia vincit amor.

Ma nell’innamoramento stesso si nasconde un’insidia. La promessa di un amore perenne tra due «tu», uniti in un «noi» di dono reciproco, è sempre esposta al rischio della fine. Ciò avviene quando c’è chiusura in se stessi e strumentalizzazione dei soggetti personali. L’innamoramento può diventare non la piattaforma di lancio bensì la tomba dell’amore, allorché non evolve e rimane solo allo stadio emozionale, di gratificazioni utilitaristiche: l’altro o l’altra non sono amati per se stessi ma prevalentemente per le sensazioni che provocano, senza le quali non si potrebbe stare.

Quando l’innamoramento è vissuto amando solo se stessi e i propri sentimenti ci si chiude all’amore che cerca il bene dell’altro o dell’altra. E così viene soffocata la promessa di un amore «per sempre» tra due «io». L’innamoramento che si nutre prevalentemente di passione e di istinto distrugge l’anelito all’incontro profondo con l’altro, fermandosi alla superficie delle relazioni, spesso alla sola fisicità. Ci si trova così di fronte alla fine di un grande sogno, espresso da brevi ma potenti parole: io per te, con te, per sempre. Tutto regredisce nelle forme di un amore possessivo, che si rinchiude e infrange l’unione dei due «tu». 

Celebrare il Giubileo della Misericordia è proprio l’occasione per gli innamorati e i fidanzati, ma anche per gli sposi, di rinsaldare il loro affetto e farlo sbocciare in una noi-comunione di persone che si accolgono e ricevono nella loro soggettività e libertà, nella complementarità e diversità della sessualità. L’amore vero consente di giungere al «centro» dell’essere delle altre persone. Diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso.  Non è nemmeno solo provare sentimenti di benevolenza. Ma è molto di più. È decisione ferma e perseverante di impegnarsi a volere il bene dell’amato, con disinteresse, amandolo non solo per se stesso ma in Dio. L’amore che diventa cura dell’altro, per l’altro, diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca.

L’amore instaura durevolmente tra i fidanzati e gli sposi una reciprocità amante, un mutuo potenziamento d’essere, senza perdere la propria autonomia, senza confusione di ruoli, sino ad inabitarsi. L’amore introduce l’amato nell’amato, unisce e distingue le identità allo stesso tempo. Fa parte degli sviluppi dell’amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso – afferma papa Benedetto XVI nella Deus caritas est – cerchi la definitività. E ciò in un duplice senso: nel senso dell’esclusività – «solo quest’unica persona» – e nel senso del «per sempre» (cf Deus caritas est, n. 6).

  1. Vincere la paura del «per sempre»

Oggi ciò che rende incerti e fragili i fidanzamenti, pur prolungati nel tempo, è il dubbio se sia possibile amarsi «per sempre». È la paura della scelta definitiva. Si parte con entusiasmo, quasi volando sulle ali dell’amore, ma poi la prospettiva del legarsi per sempre scoraggia, sembra impossibile.

A dei giovani fidanzati che si preparavano al matrimonio e domandavano a papa Francesco un consiglio, egli li invitò a crescere e a costruire la casa della loro vita sulla roccia dell’amore vero, l’amore che viene da Dio. Per non lasciarsi sopraffare dalla «cultura del provvisorio» e per superare la paura del «per sempre» occorre aprirsi all’amore più grande di Dio.  La paura del «per sempre» «si cura giorno per giorno affidandosi al Signore Gesù in una vita che diventa un cammino spirituale quotidiano, fatto di passi – passi piccoli, passi di crescita comune – fatto di impegno a diventare donne e uomini maturi nella fede. Perché, cari fidanzati, il “per sempre” non è solo una questione di durata! Un matrimonio non è riuscito solo se dura, ma è importante la sua qualità. Stare insieme e sapersi amare per sempre è la sfida degli sposi cristiani. Mi viene in mente il miracolo della moltiplicazione dei pani: anche per voi, il Signore può moltiplicare il vostro amore e donarvelo fresco e buono ogni giorno. Ne ha una riserva infinita! Lui vi dona l’amore che sta a fondamento della vostra unione e ogni giorno lo rinnova, lo rafforza. E lo rende ancora più grande quando la famiglia cresce con i figli. In questo cammino è importante, è necessaria la preghiera, sempre. Lui per lei, lei per lui e tutti e due insieme. Chiedete a Gesù di moltiplicare il vostro amore. Nella preghiera del Padre Nostro noi diciamo: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Gli sposi possono imparare a pregare anche così: “Signore, dacci oggi il nostro amore quotidiano”, perché l’amore quotidiano degli sposi è il pane, il vero pane dell’anima, quello che li sostiene per andare avanti. Questa è la preghiera dei fidanzati e degli sposi. Insegnaci ad amarci, a volerci bene! Più vi affiderete a Lui, più il vostro amore sarà “per sempre”, capace di rinnovarsi, e vincerà ogni difficoltà» (Discorso ai fidanzati, venerdì 14 febbraio 2014).

Solitamente i giovani fidanzati pensano che la Chiesa e il Signore siano rispetto al loro amore degli importuni, dei guastafeste. Cari giovani, non è così. Il cristianesimo non dà da bere del veleno all’amore dei fidanzati e degli sposi, come pensava Friedrich Nietzsche. Non innalza cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta dal Creatore, offre una felicità che fa pregustare qualcosa del Divino. La Chiesa non rende amara la cosa più bella della vita. Aiuta a viverla nella sua essenza più profonda, quella del dono reciproco, che non si ferma nel piacere di un istante, in un incontro superficiale ma chiama a sollevarsi al di sopra del proprio «io», a trascendersi, guarendo l’istinto del ripiegamento su se stessi. L’amore umano, per il credente, è chiamato a diventare amore divino. L’acqua deve tramutarsi in vino. Tramite l’amore reciproco non si deve donare solo se stessi all’altro, ma si è chiamati anche a vivere l’amore di Dio, Dio stesso, l’agape, amore allo stato puro, donatoci mediante Gesù Cristo. Che mistero! Dio non è un intruso ma Colui che rende più vero l’amore dei fidanzati e degli sposi. La Chiesa, i sacerdoti, come i vostri genitori e i vostri nonni, desiderano per voi l’amore più grande, non la vostra infelicità. La Chiesa desidera esserne custode e vuole accompagnarvi perché diventi un’«estasi»: estasi non nel senso di ebbrezza, ma estasi «come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio» (Deus caritas est, n. 6). La strada più bella per cercare Dio, per incontrarlo, per gustarne la Bellezza è la strada dell’amore. Dio vi benedica!

Presentazione dell’Enciclica di papa Francesco ‘Laudato sii’
19-06-2015

L’ENCICLICA DI PAPA FRANCESCO SULL’AMBIENTE

La nuova enciclica di papa Francesco Laudato sì, sulla cura della casa comune, relativa alla questione ecologica, si inserisce nel magistero sociale, annodandosi a quanto hanno detto i precedenti pontefici. Sono citati, in particolare, san Giovanni XIII, il beato Paolo VI, san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Anche per papa Francesco la crisi ambientale, causata in ultima analisi da una crisi antropologica ed etica, postula un impegno sistematico e convinto sul versante dell’ecologia umana. Poiché il libro della natura è uno e indivisibile, la salvaguardia dell’ambiente dipende dalla cura della vita umana, dall’educazione, dalla qualità della vita sociale. Occorre, in particolare, un attento discernimento sui modelli di crescita che guidano lo sviluppo economico e sono incapaci di garantire il rispetto per l’ambiente. Alla loro base sta spesso un’errata concezione della libertà umana, che non riconosce limiti e disgiunge, insensatamente, l’etica sociale ed ambientale dall’etica della vita. La relazione disordinata nei confronti della natura è sintomo di un rapporto errato nei confronti di Dio e di se stessi. Sicché, come ha ben detto il patriarca Bartolomeo, citato da papa Francesco, si deve parlare di peccati contro la creazione e contro Dio. San Francesco d’Assisi, con il suo sguardo contemplativo nei confronti del creato, meglio di ogni altro ci fa capire come si possa giungere a parlare così, ossia di una offesa fatta agli esseri viventi e al loro Fattore: tra tutte le creature, tra l’uomo e la natura, esiste un vincolo di comune fraternità, che è originato dall’atto creatore di Dio Padre. Mostrando la dimensione di trascendenza del creato san Francesco sollecita a elaborare un’ecologia integrale.
Con la sua enciclica, papa Francesco, a fronte dell’urgenza di proteggere la casa comune, intende promuovere un movimento ecologico mondiale, volendo unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e plenario. Impossibile, in un contesto di culture contrapposte e frammentate? Il pontefice è fiducioso nella capacità nativa di tutti gli uomini, credenti o non credenti, di essere solidali, di collaborare tra di loro nella costruzione della casa comune, vincendo l’indifferenza e l’idolatria della tecnica.
Ciò premesso, papa Francesco scaletta l’articolazione delle riflessioni della sua enciclica. Ecco la loro suddivisione: a) presentazione di vari aspetti dell’attuale crisi ecologica alla luce dei migliori frutti dell’odierna ricerca scientifica, in vista di offrire una base di concretezza al percorso etico e spirituale (Capitolo primo); b) elencazione di alcune argomentazioni di origine giudeo-cristiana, per dare maggiore coerenza all’impegno per l’ambiente (Capitolo secondo); c) individuazione delle cause più profonde della crisi ecologica (Capitolo terzo); d) la proposta di un’ecologia integrale, considerata nelle sue diverse dimensioni, a partire da un nuovo umanesimo e, quindi, da un’antropologia globale, sociale, relazionale, aperta alla Trascendenza (Capitolo quarto); e) la conseguente enucleazione di alcune linee di orientamento e di azione (Capitolo quinto); f) la prospettazione di un’opportuna opera di educazione e di una spiritualità ecologica (Capitolo sesto).
L’enciclica di papa Francesco appare in continuità e in discontinuità con il precedente magistero. Essa, cioè, aggiorna il precedente insegnamento dei pontefici, senza peraltro creare una cesura. Ciò appare più evidente se si confronta il testo della Laudato sì con la grande enciclica sociale di Benedetto XVI Caritas in veritate. Il pontefice tedesco pone la considerazione della questione ecologica entro il contesto di un ampio e articolato discorso sullo sviluppo, non escluso quello agricolo, in connessione con il tema del rispetto per la vita. L’approccio è prettamente teologico e suggerisce, per conseguenza, un’ermeneutica ad impronta realista del rapporto persona, famiglia umana ed ambiente. La natura non è realtà creata ed inventata radicalmente dalla mente umana. Essa è un dato trovato. «Essa ci precede e ci è donata da Dio come ambiente di vita. Ci parla del Creatore  e del suo amore per l umanità. È destinata ad essere “ricapitolata” in Cristo alla fine dei tempi ). Anch essa, quindi, è una “vocazione”. La natura è a nostra disposizione non come “un mucchio di rifiuti sparsi a caso”, bensì come un dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l uomo ne tragga gli orientamenti doverosi per “custodirla e coltivarla” (Gn 2,15). Ma bisogna anche sottolineare che è contrario al vero sviluppo considerare la natura più importante della stessa persona umana. Questa posizione induce ad atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo: dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, non può derivare la salvezza per l uomo. Peraltro, bisogna anche rifiutare la posizione contraria, che mira alla sua completa tecnicizzazione, perché l ambiente naturale non è solo materia di cui disporre a nostro piacimento, ma opera mirabile del Creatore, recante in sé una “grammatica” che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario. Oggi molti danni allo sviluppo provengono proprio da queste concezioni distorte. Ridurre completamente la natura ad un insieme di semplici dati di fatto finisce per essere fonte di violenza nei confronti dell ambiente e addirittura per motivare azioni irrispettose verso la stessa natura dell uomo» (Caritas in veritate n. 48).

Papa Francesco riprende e sviluppa il nucleo di riflessioni teologiche ed antropologiche elaborate da Benedetto XVI. Le integra, in particolare, con un’ampia analisi dei cambiamenti dell’umanità e del pianeta, mettendo in evidenza come alla velocità imposta dalle azioni umane si contrappone la naturale lentezza dell’evoluzione biologica. Per poter rimediare ai mali della nostra casa comune occorre possedere un quadro completo e realistico della situazione. La Caritas in veritate, che pure aveva offerto preziose coordinate teologiche ed antropologiche per affrontare i problemi concreti, non si era fermata ad evidenziare: i mutamenti climatici che danno origine a migrazioni di animali, vegetali e persone; la questione dell’acqua potabile e pulita, la cui domanda supera l’offerta sostenibile; la perdita di biodiversità; il degrado umano e sociale delle città e delle zone rurali; l’inequità planetaria: il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli. Papa Francesco dedica, allora, un capitolo ben articolato sui temi elencati, in modo da rendere la riflessione teologica e filosofica dell’enciclica meno astratta, più aderente al contesto attuale, agli aspetti inediti della questione sociale contemporanea, venutasi a caratterizzare per la centralità della crisi ecologica. Egli ravvisa, all’origine delle molteplici forme di inquinamento, del surriscaldamento del clima, definito «bene comune»; dell’esaurimento delle risorse naturali, tra le quali quella preziosissima dell’acqua, nonché della perdita della biodiversità sulla terraferma e negli oceani, con gravi conseguenze per l’equilibrio degli ecosistemi; dell’invivibilità di molte città, ossia del degrado dell’ambiente umano e dell’ingiustizia sociale, l’attuale modello di sviluppo materialistico e consumistico e la cultura dello scarto. Detto altrimenti, a fronte di una grave crisi ecologica e globale, che pregiudica non solo il futuro delle specie animali e vegetali ma della stessa umanità, occorre reagire con decisione. Anzitutto, sul piano antropologico e culturale, superando un deficit religioso, politico e pedagogico. È, inoltre urgente: a) creare un sistema normativo che include limiti inviolabili e assicuri la protezione degli ecosistemi, prima che le nuove forme di potere derivate dal paradigma tecno-economico finiscano per distruggere non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia; b) un’azione politica internazionale più decisa, capace di emanciparsi dalla sottomissione alla tecnologia e alla finanza, ai poteri economici infeudati al capitalismo finanziario; c) non perdere la speranza nella possibilità di migliorare l’ambiente; d) farsi illuminare dal «Vangelo della creazione».

MEDITAZIONE alla VEGLIA di preghiera per le VOCAZIONI
Faenza - Chiesa dei PP. Cappuccini, 24 aprile 2015
24-04-2015

Cari fratelli e sorelle,
come abbiamo sentito, celebriamo questa sera la bellezza del nostro Dio, perché nel suo amore ci sceglie e ci costituisce come figli, amici e testimoni.  Siamo chiamati, quindi, a sentirci tali e a riconoscere che siamo tutti fratelli. Nell’essere di ognuno di noi è insita una vocazione.
E siamo qui riuniti per pregare per le vocazioni, perché «la messe è molta, ma gli operai sono pochi». Lo stesso Signore Gesù invita i suoi discepoli a pregare affinché «il padrone della messe […] mandi operai nella sua messe» (Lc 10,2).
Ma che cosa significa, in realtà, pregare per le vocazioni? Che cosa implica al lato pratico, dal momento che la vocazione cristiana nasce inserendosi nel dinamismo della vita di Gesù Cristo?
Chi vive Cristo, la sua missionarietà, avverte nel proprio intimo il desiderio gioioso e il coraggio di offrire la propria vita, spendendola per la causa del Regno. Il credente autentico, centrato in Cristo, avverte un impulso all’«esodo» da sé per dedicarsi al servizio del suo Signore, per comunicarlo e donarlo, affinché tutti lo possano incontrare. Nel corpo di Cristo, che è la Chiesa, i credenti sono tutti sollecitati a  rispondere ad un’unica chiamata – ad essere figli/figlie nel Figlio –, nella molteplice varietà dei compiti e dei carismi, per cui si può e si deve parlare di più vocazioni all’interno di un’unica vocazione alla santità nella «carità». Proprio perché c’è un’unica vocazione ad essere «figli/figlie nel Figlio», si rende necessario sviluppare una pastorale vocazionale unitaria, che coinvolga ogni azione pastorale educativa. Essa riguarda indistintamente ogni persona e si interessa di tutte le vocazioni: quelle ordinate e di speciale consacrazione, e quelle dei giovani, delle famiglie, dei lavoratori, dei politici: in una parola di tutte le componenti del popolo di Dio, siano esse costituite da individui o da gruppi.
Pregare per le vocazioni significa in primo luogo pregare perché molti abbiano il coraggio di donarsi con gioia, sentendosi chiamati, anzi, direttamente convocati dall’amore di Cristo, rispondendo al suo Amore e diventando interamente suoi, per essere come Lui ci vuole: annunciatori e testimoni della sua pienezza di vita, vale a dire, della sua gioia di essere. Cristo, in quanto purissimo dono di sé, è gaudium essendi, gioia di esistere in totale comunione con l’Amore trinitario. Pregare per le vocazioni, pertanto,  significa non solo pregare perché vi siano molti operai nella Sua messe, ma soprattutto perché vi siano molti che, partecipando della pienezza d’essere e di dono di Cristo, siano colmi di gioia e la diffondano con la testimonianza della loro vita, perché la gioia autentica emana la sua fragranza e difficilmente può essere nascosta.
L’essere totalmente aperti all’Altro, alla famiglia di Dio che è la santissima Trinità, ove si riceve e si dà, e della quale noi siamo immagine; essere un’esistenza  che, come quella di Cristo, è vita «in uscita da sé», vita missionaria, che si incarna nei vari mondi vitali e trasfigura, significa vivere Cristo. Pregare per le vocazioni, in definitiva, è chiedere che il Signore Gesù ci conceda esistenze missionarie, capaci di vivere come Colui che ogni giorno si incarna e ricapitola in sé tutte le cose.
Non solo. È chiedere di saper crescere persone capaci di essere e di dirsi cristiani, capaci di donare Cristo quale fonte inesauribile di vita piena. Evidentemente, non si dona Cristo come un oggetto. Il credente, inviato ad gentes, si impegna a farlo conoscere affinché anche altri possano incontrarlo come Redentore e Salvatore. Non sono certo i credenti datori di salvezza, bensì Cristo in persona loro tramite. Pertanto, pregare per le vocazioni, significa anche pregare affinché prendiamo consapevolezza di essere moltiplicatori di gioia non tanto in virtù delle nostre forze, ma perché inabitati dalla forza della grazia che ci supera e non ci appartiene.
Don Bosco, finissimo e appassionato educatore, ‘ lo ricordiamo proprio in questi giorni alla vigilia del nostro pellegrinaggio a Torino Valdocco in occasione del bicentenario della sua nascita ‘ infondeva nei suoi giovani proprio la convinzione che accogliere Gesù Cristo e saperlo condividere con gli altri equivale a riempire la propria esistenza di gioia. Al punto che san Domenico Savio, sulla scia del suo Padre e Maestro, poteva ripetere: «Noi qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri». La letizia che il santo piemontese desiderava per i suoi giovani non era segnata da faciloneria, superficialità, ma dalla gioia profonda di essere e di sentirsi figli amati. Era appunto il percepirsi intimamente amati da Dio, e derivava dal vivere nel bene e nel servizio all’altro con il Suo amore. Don Bosco organizzò la vita delle sue case in modo da far sperimentare ai suoi giovani la bellezza di vivere in una famiglia come fratelli, di avere un Padre, di essere amati da Lui. Fece loro scoprire la «mistica» del vivere insieme, dell’incontro, dell’aiuto reciproco, dell’abbraccio, formando una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. Nelle sue scuole, nei suoi oratori, i più grandicelli cercavano di accompagnare i più piccoli durante il gioco, lo studio, la preghiera, diventando esse stessi formatori. È con i suoi giovani che don Bosco ha fondato addirittura una Congregazione, la Congregazione Salesiana.
Noi preghiamo più autenticamente e più efficacemente per le vocazioni, quando la nostra vita ci mostra come essere persone fraterne e gioiose nel dono, «un cuor solo ed un’anima sola». Nelle nostre comunità ecclesiali tanto più cresceranno vocazioni forti, convinte, felici di portare Cristo in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra, quanto più saremo un «noi» di persone capaci di vivere nella comunione e nella condivisione, senza farci la guerra, senza cadere in campanilismi inutili e dannosi, senza vivere quella mondanità spirituale che porta a colonizzare gli spazi apostolici e vocazionali della Chiesa, escludendo l’altro da noi, e in definitiva cercando più il proprio interesse che quello di Cristo (cf esortazione apostolica Evangelii gaudium, nn. 93-98 [= EG]).
Un «corpo», che non coltivi la comunione, preferendo la dispersione o addirittura la diaspora, diventa a poco a poco inefficace dal punto di vista vocazionale e missionario, oltre che ininfluente da quello sociale e culturale.  Ciò è vero anche nei confronti delle vocazioni sacerdotali e di vita consacrata. A questo proposito, papa Francesco scrive: «In molti luoghi scarseggiano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Spesso questo è dovuto all’assenza nelle comunità di un fervore apostolico contagioso, per cui esse non entusiasmano e non suscitano attrattiva. Dove c’è vita, fervore, voglia di portare Cristo agli altri, sorgono vocazioni genuine. Persino in parrocchie dove i sacerdoti non sono molto impegnati e gioiosi, è la vita fraterna e fervorosa della comunità che risveglia il desiderio di consacrarsi interamente a Dio e all’evangelizzazione, soprattutto se tale vivace comunità prega insistentemente per le vocazioni e ha il coraggio di proporre ai suoi giovani un cammino di speciale consacrazione» (EG n. 107) .
Una comunità è, dunque, vitale e fertile dal punto di vista vocazionale, se le sue componenti testimoniano «un cuor solo e un’anima sola», un fervore apostolico contagioso.
Siamo, pertanto, qui riuniti anche per pregare affinché fioriscano e maturino vocazioni con la capacità di testimoniare in maniera credibile  perché allevate in comunità e gruppi compatti, ricchi di amore vicendevole, aperti alle necessità dei fratelli e alla condivisione.
Ogni battezzato è chiamato a testimoniare, con le parole e con la vita, che Gesù è vivo e presente in mezzo a noi con il suo amore trasfigurante. Il testimone, come ci ha ricordato recentemente papa Francesco, è una persona che ha visto, ricorda e racconta. Vedere, ricordare e raccontare sono i tre verbi che ne descrivono l’identità e la missione. Il testimone autentico ha «visto», come i discepoli di Emmaus,  con gli occhi della fede e comprendendone la portata esistenziale e storica, il grande evento della morte e risurrezione di Cristo, significato e realizzato nel memoriale dello «spezzare il pane», che ci struttura come annunciatori. Il testimone non può vivere senza l’Eucaristia. Questa alimenta la comunità, fa la Chiesa. Il testimone che «vede» ricorda, nel senso che fa memoria, attualizza nella sue scelte, nella sua condotta, la vita nuova che Cristo, con la sua morte e risurrezione,  gli ha meritato e donato, perché, vivendola, diventi popolo nuovo, costruttore di una storia che sia un cammino di comunione con Dio. Il testimone, che ha visto, racconta non in maniera fredda e distaccata, ma come un innamorato che si è messo in discussione, cambiando vita.
 Il contenuto della testimonianza cristiana, in ultima analisi,  non è una teoria, una comunicazione asettica di una scoperta scientifica, una prassi procedurale, ma è  un evento concreto, anzi, una Persona: è Cristo morto e risorto, il Vivente, l’unico Salvatore della nostra povera umanità. È questo il Cristo che deve essere testimoniato da quanti, nella preghiera e nella Chiesa, fanno esperienza personale di Lui attraverso un cammino che ha il suo fondamento nel Battesimo, il suo nutrimento nell’Eucaristia, il suo sigillo nella Confermazione, la sua continua conversione nella Penitenza. Grazie a questo cammino, sempre guidato dalla Parola di Dio, ogni cristiano può diventare testimone di Gesù risorto. E la sua testimonianza è tanto più credibile quanto più traspare da un modo di vivere evangelico, gioioso, coraggioso, mite, pacifico, misericordioso. Se invece il cristiano si lascia prendere dalle comodità, dalla vanità, dall’egoismo, se diventa sordo e cieco alla domanda di “risurrezione” di tanti fratelli, come potrà comunicare Gesù vivo,come potrà comunicare la potenza liberatrice di Gesù vivo e la sua tenerezza infinita?» (Francesco, Regina coeli, piazza San Pietro, 19 aprile 2015).
In breve, siamo qui convocati per poter essere testimoni che vedono, ricordano e raccontano e per chiedere di essere aiutati ad educare testimoni credibili.
Maria, nostra Madre e Madre della Chiesa, ci sostenga con la sua intercessione, affinché, nonostante i nostri limiti, assistiti dalla grazia della fede, possiamo diventare testimoni del Signore risorto e quindi protagonisti di una pastorale vocazionale unitaria, comunitaria, ricca di tante articolazioni quante sono le chiamate particolari, che il Signore Gesù rivolge a ciascuno dei suoi figli.
                                                                        + Mario Toso

PREGHIERA PER LE VOCAZIONI AL SACRO MINISTERO
Da recitarsi nella celebrazione eucaristica domenicale
26-11-2013

O Padre,
che provvedi sempre ai tuoi figli,
ti preghiamo per la nostra Chiesa particolare:
per intercessione della Beata vergine delle Grazie
fa che nelle nostre comunità non manchino mai
il Pane e la Parola di Vita
e un presbitero che li spezzi ai piccoli e ai poveri.
Per Cristo nostro Signore
Amen
+ Claudio Stagni, vescovo