Ecc.za Rev.ma Mons. Claudio Stagni,
nel venticinquesimo di ordinazione episcopale la Diocesi di Faenza-Modigliana si stringe attorno a Lei in segno di riconoscenza. Ringraziamo con Lei il Signore per il grande dono del ministero episcopale dapprima vissuto nell’Arcidiocesi di Bologna come vescovo ausiliare e poi in questa nostra Chiesa locale. Il Vescovo è costituito a servizio del popolo di Dio, per reggere la Chiesa di Dio nel nome del Padre, del quale rende presente l’immagine; nel nome di Gesù Cristo suo Figlio, dal quale è stato costituito maestro, sacerdote e pastore; nel nome dello Spirito Santo che dà vita alla Chiesa. Il vescovo si sente e si comporta come «visibile principio e fondamento dell’unità» della sua diocesi. Eccellenza, il Signore l’ha colmata di sapienza, saggezza per compiere questa importante missione. Quanto un vescovo ama e soffre per il bene della sua Diocesi non sempre è dato di sapere. Solo Dio conosce pienamente i pensieri, i sentimenti, le fatiche, le gioie più consolanti dei credenti e dei pastori. Felici di averLa con Noi a Faenza come Padre, amico e testimone dell’amore di Cristo per la sua Sposa, la Chiesa, ci uniamo a Lei, Eccellenza, vivendo questa Eucaristia come momento di lode al Signore che compie meraviglie e prodigi di amore nel suo popolo.
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Introduzione alla S. Messa per il XXV di episcopato di mons. Stagni
Presentazione del volume su don Sturzo “Governare bene sarà possibile. Come passare dal populismo al popolarismo”
Faenza, Sala San Carlo - 19 aprile 2016
19-04-2016
Il saggio di Giovanni Palladino intitolato Governare bene sarà possibile. Come passare dal populismo al popolarismo (Rubbettino, Soveria Mannelli 2015) attualizza l’insegnamento del grande uomo politico don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare Italiano nel lontano 1919. Questo sacerdote siciliano, ora Servo di Dio, senza ombra di dubbio può esser considerato uno dei più eminenti pensatori ed uomini di azione in campo politico nel secolo scorso, non solo in riferimento al mondo cattolico. Rimane emblematica la sua riflessione sulla figura che dovrebbe avere un partito aconfessionale, laico, di ispirazione cristiana. Purtroppo, il suo insegnamento oggi è praticamente dimenticato, con gravi danni per la stessa cultura dei cattolici contemporanei. Essi, infatti, per lo più non appaiono in grado di discernere la distinzione tra partito cattolico – prospettiva di impegno che riporterebbe all’Ottocento – e partito di ispirazione cristiana.
Merito di Giovanni Palladino, già presidente del Centro Internazionale Studi Luigi Sturzo, è di farci capire la rilevante attualità del sacerdote di Caltagirone. Nel panorama dei problemi odierni, derivanti dalla crisi della cultura politica ed economica, l’assenza di una solida formazione ci priva di un buon governo, della competenza e della moralità nell’esercizio del potere politico ed economico. Se si desidera ristabilire la moralità in questi due ambiti essenziali della polis, non si può prescindere da una buona formazione culturale specifica. Ne deriva che i credenti non possono aspirare a rinnovare politica ed economia, se non si preoccupano di acquisire la formazione necessaria per gettare le basi di un nuovo movimento culturale e politico.
Il saggio di Palladino sollecita, in particolare, a passare dal populismo – movimento o insieme di movimenti centrati sulla protesta e sull’antipolitica – al popolarismo, avente tra i suoi capisaldi l’armonizzazione tra libertà e giustizia sociale, la figura di uno Stato non accentratore, bensì popolare, rispettoso delle autonomie locali e dell’iniziativa privata; la garanzia delle libertà; la collaborazione tra le classi; la riforma della scuola e della previdenza sociale; lo sviluppo del Mezzogiorno; un sistema fiscale equo e non oppressivo. Come prosindaco di Caltagirone durante quindici anni, don Sturzo mostrò che i principi e gli orientamenti della Dottrina sociale della Chiesa sono efficaci. Creò numerose iniziative, tra cui possiamo citare una banca in funzione antiusura e cooperative sociali e di lavoro; mostrò, inoltre, grande attenzione ai problemi dell’agricoltura, mediante lo sviluppo della proprietà contadina; fondò l’Istituto di Ceramica per formare nuovi artigiani; ottenne la partecipazione dei lavoratori agli utili del sughereto di Santo Pietro; dispiegò una dura lotta contro la corruzione e la mafia. Secondo don Sturzo, un sistema amministrativo e politico che non consideri essenziale l’integrità morale e la competenza dei suoi protagonisti, prima o poi è destinato a crollare. Nessun sistema può reggersi a lungo, quando l’economia e la politica calpestano l’etica.
Per poter meglio diffondere e rendere stabili le buone pratiche locali, lanciò il famoso Appello a tutti gli uomini liberi e forti e fondò il Partito popolare italiano. Come simbolo, scelse lo scudo crociato con la parola libertas, ideato dai Comuni lombardi ai tempi della lotta contro l’invasione di Federico Barbarossa, dando la seguente motivazione: «Vogliamo indicare la profonda aspirazione di libertà contro il centralismo e l’oppressione statale, soffocatrice di ogni energia nuova, di ogni tentativo di vita vissuta nella febbre della società moderna, e non ultimo elemento provocatore dell’immane fenomeno della guerra». Quindi, lo scudo crociato era visto dal fondatore del Ppi, come simbolo non tanto religioso, ma civile, in funzione antistatalista a difesa delle autonomie locali. L’emblema venne, poi, in parte copiato da Umberto Bossi, con l’inserimento del Carroccio in funzione secessionista. Lo scudo crociato fu mantenuto dalla DC, ma il suo profondo significato ideale fu poi dimenticato dai democristiani con l’apertura delle porte allo statalismo e con l’accentramento dei poteri a Roma.
Con i dovuti aggiornamenti, l’iter di don Sturzo, che giunge alla fondazione del Ppi, ha senz’altro qualcosa da insegnare. Sicuramente oggi non siamo di fronte né allo statalismo del primo Novecento né a quello degli ultimi anni del secolo scorso e inizio del nuovo millennio. Semmai, c’è da contrastare la tendenza alla mercatizzazione della politica e del welfare, nonché alla finanziarizzazione dell’economia, che producono l’indebolimento della classe media e dei corpi intermedi, come anche lo smantellamento dello Stato sociale. Nel presente momento storico, l’insegnamento sturziano è da valorizzare almeno: a) nel combattere quel capitalismo finanziario altamente speculativo, che uccide e sminuisce le democrazia economica, emarginando il lavoro manuale, artigianale, agricolo, sociale; b) nell’incrementare l’universalizzazione della proprietà privata, sociale, partecipativa; dello spirito imprenditoriale; del capitalismo popolare; dell’economia di mercato, orientata dai vari soggetti sociali al bene comune; di mercati finanziari e monetari liberi, stabili, trasparenti, democratici, non oligarchici, funzionali alle famiglie, ai lavoratori, alle imprese e alle amministrazioni comunali; dell’economia civile; di una democrazia e di un welfare inclusivi e partecipativi.
A coloro che si complimentavano con il suo operato a Caltagirone don Sturzo rispondeva dicendo che il merito era del Vangelo e della Dottrina sociale della Chiesa. Analogamente, a fronte dei problemi del nostro tempo, dovremmo essere, come lui, creativi e capaci di attualizzare gli orientamenti della Dottrina sociale della Chiesa. In particolare, dovrebbe essere imprescindibile accogliere il suo insegnamento a proposito dell’etica nella politica e nell’economia. L’etica non è estrinseca a questi due campi della vita sociale. Una politica e un’economia che non fossero etiche non sarebbero umane ed umanizzanti. In una parola, non sarebbero se stesse, senza un’intensa vita spirituale.
Articolo di presentazione del Convegno “Per la libertà. Insieme” sul settimanale Bologna7
27-03-2016
La diocesi di Faenza-Modigliana e la Diocesi di Imola organizzano a Faenza, dall’1 al 3 aprile 2016, una Due giorni di riflessioni e di esposizione di buone pratiche, a complemento del percorso educativo iniziato lo scorso anno con la Scuola di formazione sociale e politica per i giovani. Il tema scelto è «Per la libertà, insieme». Oggi è proprio la libertà, più di ogni altro bene, che è ricercata e rivendicata, come mostrano anche i fenomeni migratori e gli stessi episodi terroristici. È messa in discussione la libertà di esistere perché a molti è vietato di venire al mondo o di rimanerci. È talvolta pericoloso esprimere liberamente le proprie opinioni perché si potrebbe finire su liste di proscrizione. In definitiva, la libertà è posta in crisi sul piano sociale e culturale, come hanno anche dimostrato i fatti di Parigi relativi al settimanale satirico Charlie Hebdo, che ha subito attentati assassini, ai quali ne hanno fatto seguito altri nei confronti di cittadini ignari, nel mese del novembre scorso. I protagonisti del settimanale francese, peraltro, hanno proposto un concetto spurio di libertà, slegato dal senso del rispetto altrui. La libertà è sovente messa in discussione sul piano religioso con riferimento all’uso dei segni quali il crocifisso o il presepe, alla facoltà di insegnamento nelle scuole paritarie, quando queste sono ingiustamente tassate. Non è da trascurare anche un’incomprensibile «monito» da parte della Corte Europea a proposito della libertà di coscienza dei medici cattolici a riguardo dell’aborto. Episodi di libertà carente si verificano ugualmente sul piano politico specie allorché si producono prassi o legislazioni che diminuiscono il diritto di scelta dei propri rappresentanti. Non va trascurato il fatto che l’ordine del giorno dei nostri parlamenti è non poche volte condizionato da lobby finanziarie internazionali che riducono significativamente la sovranità nazionale. Ciò che in tutto questo appare particolarmente distruttivo è che la rivendicazione dei propri diritti, veri o falsi, è motivata a partire da un individualismo libertario, che è il peggior nemico dello Stato di diritto. Solo questa fenomenologia è sufficiente a mostrare la crucialità del tema scelto e la sua rilevanza antropologica, sociale e culturale. La Due giorni sarà attraversata, nel suo svolgimento, dall’interrogativo se un concetto di libertà riduttivo, come quello che stiamo sperimentando oggi, sarà adatto a porre le fondamenta della futura costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Potrà offrirebbe garanzie per il futuro della democrazia europea e per il bene comune, il bene di tutti? Di quale libertà abbiamo bisogno? Una libertà senza verità? E, comunque, – ecco quanto si vorrà comunicare con la Due giorni – tutti potremo godere di una libertà sempre più piena se ci si mobiliterà insieme. A cominciare dall’affrontare il problema del lavoro giovanile, mettendo in sinergia l’associazionismo cattolico o di ispirazione cristiana. Occorre lavorare in positivo, avendo una visione, elaborando una nuova progettualità per l’inclusione di tutti. Per riappropriarsi della libertà e della democrazia bisognerà, in particolare, superare l’assolutizzazione del relativismo che sta alla base dell’individualismo libertario. Secondo Hannah Arendt il dialogo pubblico è fondamentale per la vita politica quando svolge una funzione di ricerca della verità. Questa è raggiungibile tramite discussione e argomentazione, è riconoscibile da tutti a partire da un comune confronto che si impernia sul patrimonio condiviso che è la dignità umana. Il bene umano riconosciuto presente nell’altro ci fa apparire simili e fornisce le ragioni della benevolenza, dell’amicizia civica, della collaborazione e della giustizia. Se vi è un bene umano comune l’altro non mi è più uno straniero.
L’1 aprile aprirà i lavori la lectio magistralis di S. Ecc. Mons. Nunzio Galantino, segretario generale della C.E.I., avente per tema L’impegno dei giovani nel sociale e nel politico. Il giorno seguente sarà caratterizzato da una tavola rotonda, nella sala del Consiglio Comunale di Faenza, con illustri relatori, come il sen. Stefano Collina, il Prefetto Sandra Sarti, Vice Capo Gabinetto del Ministero dell’Interno, l’on. Savino Pezzotta, il prof. Leonardo Becchetti, il prof. Mauro Magatti. Ognuno di essi offrirà un apporto specifico nell’indicare quale spazio dovrà avere in Europa la democrazia in una prospettiva di libertà. Nel pomeriggio padre Francesco Occhetta, s.j., consulente ecclesiastico dell’Unione Cattolica Stampa Italiana inviterà a riflettere su Per una partecipazione del territorio dal globale al glocale. Si svolgerà, poi, nei locali dell’ex compesso dei Salesiani, dopo la presentazione del progetto Policoro a 20 anni dalla nascita, una Fiera sulle buone pratiche del lavoro – una quarantina di stand -, promossa dalle diverse associazioni, aggregazioni, movimenti cattolici, di ispirazione cristiana, che scendono in campo compatti, per intercettare la domanda di lavoro dei giovani faentini e imolesi. La Fiera Giovani e lavoro è stata voluta dalle Diocesi coinvolte, in continuità con il tema della libertà – senza lavoro i giovani non hanno una concreta possibilità di crescere più liberi e responsabili – ma anche in collegamento con il Convegno, organizzato a Bologna, lo scorso ottobre, sotto l’egida della Conferenza episcopale dell’Emilia Romagna sul lavoro giovanile. Prima della visita alla Fiera, il vescovo S. Ecc. Mons. Tommaso Ghirelli, vescovo di Imola, presiederà l’adorazione eucaristica. Il 3 aprile, il cammino formativo si concluderà con gli interventi del dott. Renato Cursi e del vescovo di Faenza-Modigliana. La Due giorni vivrà il suo culmine con la celebrazione Eucaristica presieduta da S. Em. Rev.ma Gualtiero card. Bassetti.
+ Mario Toso
Vescovo delegato della Pastorale sociale regionale
Famiglia e Scuola
Faenza, Aula dei Santi - 18 marzo 2016
18-03-2016
Per una cultura della misericordia nei confronti della scuola e del suo progetto educativo. L’esperienza della misericordia è divinizzante ed umanizzante tutta la vita umana, tutte le attività, compresa l’educazione.
In quest’anno giubilare siamo in particolare invitati ad educare e a fare cultura animati dalla Misericordia di Dio. Come il buon Samaritano, occorre sapersi chinare, prendersi cura degli altri, dei destinatari. Nel contesto scolastico, una forma eminente di misericordia o di carità è proprio l’offerta di un pensiero profondo, di un metodo di studio e di ricerca della verità, di un relazionarsi indirizzato dal pro-essere, di una sapienza e di una pedagogia che pone al centro la persona nella sua integralità. Anche il sapere, la scienza, la cultura, l’educazione possono essere carità, misericordia.
In questo breve saluto mi permetto di segnalare come vivendo l’esperienza della misericordia, ossia l’esperienza di una vita divina donata ed accolta – una vita che trasfigura, e divinizzando umanizza – è possibile scorgere un metodo di approccio conoscitivo della realtà, che potremmo definire metodo esperienziale e realista. L’esperienza di fede non impoverisce la nostra professionalità, bensì la arricchisce.
All’interno della misteriosa e insondabile esperienza della misericordia, siamo sollecitati a modellare meglio la nostra razionalità e cultura. Come? Come realtà caratterizzate dal «saper ricevere», dall’accogliere ciò che ci è donato e troviamo e non inventiamo.
L’esperienza della Misericordia, ove ci apriamo a Colui che viene per primo incontro a noi, invita al riconoscimento del primato dell’esperienza dell’essere-cercati da Dio. Poi, viene la consapevolezza del nostro limite e la richiesta di perdono. L’incontro personale con Dio è l’incontro di due «tu» che precedono qualsiasi pensiero strutturato sulla relazionalità tra la divinità e l’uomo. Questo metodo di riconoscimento di una relazionalità basica, previa ad ogni pensiero aprioristico, è fondamentale per cogliere l’essenza di ogni scuola e il suo rapporto con la famiglia. Non bisogna cercare la relazione cercando di gettare un ponte tra scuola e famiglia. Il ponte tra famiglia e scuola esiste già.
Si tratta di relazioni caratterizzate dalla reciprocità e dall’interdipendenza.
Mettendo a frutto un approccio realista, la scuola viene colta, innanzitutto, nell’integralità dei suoi soggetti costitutivi, senza esclusione di alcuni di essi; parimenti, è considerata come realtà non isolata, autoreferenziale, bensì interrelata con le altre realtà sociali, sebbene espressione autonoma della società civile.
Detto altrimenti, la pratica di un approccio realista abilita a restituire la scuola alla totalità dei suoi soggetti naturali, non solo ai docenti, agli studenti, ai dirigenti-gestori, ma anche ai genitori e alla comunità civile e religiosa. La scuola è anche dai/dei genitori e dalla/della comunità civile, dalla/della comunità ecclesiale. Essa è strutturata ed espressa nella sua esistenza di relazionalità e nella sua razionalità educativa anche dall’esperienza originaria e originante della genitorialità e della vita comunitaria della società civile e della società religiosa. L’esperienza esistenziale della famiglia concorre di fatto a costituire l’essere-identità della scuola dal di dentro, come una concausa primaria. Se ciò non è percepito e concretamente vissuto nel quotidiano, occorre – coerentemente con una lettura e con una interpretazione realistiche – esplicitarlo e «formalizzarlo».
In primo luogo, l’esperienza relazionale della dualità genitoriale e della comunione familiare dev’essere fatta entrare sempre di più nella razionalità educativa della scuola, sia come criterio di giudizio critico sulla realtà che circonda, sia come criterio ri-costruttivo della stessa, a pari titolo della razionalità disciplinare portata dal docente e dal carisma unificante e specifico dell’Ente gestore. Ciò deve avvenire ad opera dei genitori stessi – che non possono mai delegare del tutto le loro responsabilità – e delle associazioni che li rappresentano, e animano democraticamente e partecipativamente la scuola. In secondo luogo, analogamente a quanto detto a proposito dei genitori, occorre far ricadere sulla razionalità educativa della scuola l’esperienza comunitaria della dimensione religiosa, sia sul piano della visione della vita, sia sul piano della responsabilità della testimonianza.
Un’altra considerazione. Nella scuola e nella corrispettiva educazione il fine è rappresentato dalla crescita integrale della persona. Il mezzo, omogeneo rispetto all’obiettivo, è un’educazione disciplinare, caratterizzata da una razionalità aperta, dilatata, globale, in sintonia con la dimensione religiosa.
Se questo è il fine specifico della scuola, essa non può che essere il luogo privilegiato di un’«ermeneutica» della razionalità scolastica, che da individualista ed immanente deve divenire sempre di più relazionale e aperta alla trascendenza. Dal punto di vista pratico, ciò impegna a:
1) promuovere la professionalità docente ad un’attenzione di tipo «epistemologico», ossia al desiderio e alla capacità di praticare la propria disciplina, trasmettendo molto di più dei semplici contenuti nozionistici, aprendola all’esperienzialità, portandola oltre la razionalità logico-scientifica;
2) produrre, per conseguenza, cultura educativa, movendo dalle esperienzialità di vita, specie quelle tipiche della relazionalità, tra le quali, come già sottolineato, non va esclusa quella genitoriale;
3) inserire, accanto alla verità logico-deduttiva, la verità intesa come dono gratuito e imprevedibile, che è ricevuto dal di fuori, dagli altri, dall’Alto.
Soprattutto il rimando all’esperienzialità, al primato della vita sul sapere, e l’approfondimento metafisico della relazionalità scuola e famiglia appaiono fulcri della costruzione di una scuola più fedele alla sua identità, alla complessità dei suoi soggetti e alla sua vocazione pedagogica.
In particolare, da una lettura «realista» dell’essere relazionale della scuola si evince la necessità di una coscientizzazione circa: a) il potenziamento o allargamento della razionalità educativa: la tradizionale cultura umanistico-scientifica va inserita entro un contesto di razionalità più ampia, più concreta, che è quella legata all’esperienzialità della vita, la quale consente di superare le aporie e le dicotomie tipiche della morale post-moderna (ad esempio, la separazione tra etica personale ed etica pubblica, tra etica e verità, tra etica della vita ed etica sociale, tra etica e finanza, ecc.).
L’uomo post-moderno è un essere prigioniero della propria autoreferenzialità solipsista che lo priva dell’alterità vera. Esso non è più un io-in-relazione. È esperienza di sé che si consuma in una specie di autodigestione che ne divora la relazionalità che lo proietta verso la trascendenza orizzontale e verticale.
In certa maniera, la rivalutazione del soggetto-genitori, per via realista, conferma e rafforza l’intuizione e l’impegno delle associazioni dei genitori.
Mutualità e Cooperazione: l’azione possibile per un’economia che costruisce e non uccide
Bologna, 3 marzo 2016
03-03-2016
Della mutualità e della cooperazione non è solo oggi che se ne parla in contesto economico e sociale. Esiste una lunga tradizione, che si è sviluppata soprattutto dopo la prima rivoluzione industriale, epoca in cui i lavoratori, senza la protezione dei sindacati, perché erano state abolite le Corporazioni, erano alla mercé del mercato in cui il capitale aveva il primato. Il lavoro era considerato una semplice merce. In una simile situazione i lavoratori, mediante mutualità e cooperazione, si organizzarono per poter usufruire di un lavoro dignitoso e non essere sfruttati.
Oggi, l’occasione per riparlare di mutualità e cooperazione è quella di un’epoca in cui si assiste al passaggio cruciale dal Welfare state – un Welfare redistributivo nel quale il portatore di bisogni è solo oggetto di attenzioni altrui – alla Welfare society o al Welfare civile, come preferiscono dire alcuni – un Welfare generativo nel quale il portatore di bisogni è reso soggetto attivo -, a motivo non solo della crisi sistemica del primo, ma anche a causa del predominio di un capitalismo finanziario che assolutizza il profitto a breve termine e che penalizza il lavoro manuale, artigianale, agricolo, sociale, quest’ultimo corrispondente al mondo delle imprese sociali e della cooperazione. Il capitalismo finanziario speculativo di fatto penalizza o annienta il lavoro dell’economia reale, bisognosa del cosiddetto «capitale paziente», ossia di quel capitale che non produce profitto a breve termine e che le istituzioni bancarie sono meno propense ad erogare.
Dopo la crisi dello Stato sociale nella sua configurazione soprattutto assistenziale – vi è anche quella «riformista» -, ma anche in virtù del progresso che la stessa società civile ha potuto compiere a motivo dell’istituzionalizzazione dello stesso Stato sociale, il percorso evolutivo di una democrazia sostanziale e partecipativa invocava ed invoca un Welfare civile. Secondo questo modello è l’intera società, e non solo lo Stato, a doversi far carico, assieme al mercato, del benessere, inteso come sistema di sicurezza sociale per tutti che ha come obiettivo non solo il benessere materiale, ma soprattutto il Well being. In particolare, il Welfare civile intende centrare il sistema di sicurezza sociale, precedentemente e prevalentemente gestito dallo Stato, sulla responsabilità primaria della società civile, avente il primato sia sullo Stato sia sul mercato.
Detto altrimenti, nella configurazione del welfare in termini civili, le tre sfere di cui si compone l’intera società – la sfera degli enti pubblici (Stato, regioni, comuni, enti parastatali, ecc.), la sfera delle imprese, ovvero la business comunity, e la sfera della società civile organizzata (associazionismo di vario genere, cooperative sociali, organizzazioni non governative, fondazioni) – sono chiamate a rapportarsi secondo il principio della solidarietà e il principio di una sussidiarietà che si può definire circolare. L’idea della sussidiarietà circolare è che le tre sfere devono interagire tra di loro in una maniera non occasionale sia nel momento in cui si progettano gli interventi che si intende porre in campo sia nel momento in cui occorre provvedere alla loro gestione.
Mediante il Welfare civile, rispetto ad un Welfare state, si acquisiscono più vantaggi. Non solo si possono avere servizi più personalizzati e meno dispendiosi, nel senso di meno burocratizzati e meno costosi, ma anche più «democratizzati», più partecipati sul piano dell’organizzazione, più controllati dai cittadini che vivono nel territorio in cui sono erogati. Inoltre, il nuovo modello consente di reperire le risorse necessarie anche dal mondo delle imprese socialmente responsabili. «Quando si dice “mancano le risorse” – rileva il prof. Stefano Zamagni in un suo intervento – ci si sta riferendo a quelle pubbliche non certo a quelle private. La presenza dell’ente pubblico resta fondamentale in questo modello allo scopo di garantire l’universalismo, ma non è esclusiva».1
Camminare verso la meta di un Welfare civile significa credere convintamente che esso rappresenta una tappa più alta della realizzazione di una democrazia sostanziale, partecipativa, inclusiva, vincendo la prospettiva della democrazia di un terzo. Potenziare il Welfare civile, abbandonando il modello statalista, nel quale lo Stato conserva il monopolio della programmazione e della committenza, significa, anche per non cadere nelle braccia di un modello neoliberista (welfare capitalism), investire di più nella mutualità e nella cooperazione, nella micro-finanza. Destatalizzare i servizi di welfare non vuol dire necessariamente privatizzare. Rimane aperta la via della socializzazione. Mediante questa si affida la cura di un determinato problema sociale o la produzione/erogazione di un bene/servizio a un corpo intermedio di cittadini intrinsecamente motivati o vicini al problema, piuttosto che a dei funzionari pubblici o ad una burocrazia spesso distante e poco coinvolta.
In questa maniera si sviluppa anche un’economia democratica, ove si attua e si costruisce la sovranità popolare.
Va tenuto, però, presente che rispetto a queste prospettive rimangono in piedi alcuni ostacoli che devono essere superati, non ultime difficoltà di carattere ideologico e finanziario.
Va, innanzitutto, registrato un’ideologia neoliberista, secondo cui anche i problemi sociali si possono risolvere solo mediante la logica del profitto e la tecnica, privatizzando i servizi, affidando la loro gestione al libero mercato e al principio dello scambio degli equivalenti. L’ideologia neoliberista, incarnata in quel capitalismo finanziario che assolutizza il profitto a breve termine, e che ha in parte favorito la crisi economica dalla quale si sta uscendo a grande fatica, produce una grave disarticolazione dell’intero sistema economico e sociale ed, inoltre, il progressivo svuotamento delle casse statali, come anche la stagnazione dello sviluppo economico. In un simile contesto, che non si avvale ancora di una riforma radicale del sistema monetario e finanziario, di serie politiche fiscali, industriali, di investimenti nelle infrastrutture, nell’innovazione e nella ricerca, di politiche attive del lavoro, resta come via di uscita la mobilitazione della società e la scelta di un nuovo modello di sviluppo, meno materialistico e consumistico, meno tecnocratico, bensì sostenibile ed inclusivo, che valorizza la logica del dono e della gratuità.
Occorre, in particolare, muoversi in direzione di una società che ricompone e riproduce i legami sociali in una dimensione relazionale, con la quale si cerca di superare l’ottica individualistica del neoliberismo, per affermare quella della reciprocità e della mutualità, propria dell’economia civile. Si tratta di una prospettiva che è stata definita dell’insieme e che costituisce la premessa, come ha sostenuto il prof. Everardo Minardi, di un passaggio non estemporaneo dalla «competizione» alla «coopetizione». Detto altrimenti, occorre passare dall’individualismo al comunitarismo.2
La direttrice di marcia per il riscatto, per la riforma dell’attuale sistema economico e finanziario in senso umanistico, per la stabilizzazione di un Welfare civile, è, peraltro, individuabile a partire dalla pur travagliata esperienza dell’attuale crisi. Non tutto è perduto. Non tutto è confuso ed indeterminato. Occorre vivere dentro la storia, auscultarla, coglierne i germi di vita, i dinamismi positivi in atto che la animano e la orientano al futuro.
In questo appare fondamentale l’apporto della Dottrina sociale della Chiesa (=DSC), specie di quella di questi ultimi anni. Dalla DSC viene, in particolare, la sollecitazione a coltivare la prospettiva di un ideale storico e concreto di un’«economia sociale», come anche di un’«economia civile». Nella Caritas in veritate (=CIV) di Benedetto XVI si parla di imprese for profit e di imprese non profit (cf CIV n. 46), di un’economia della gratuità e della fraternità (cf CIV n. 38). Si aggiunge nel discorso economico il principio della reciprocità, accanto a quelli classici dello scambio e della redistribuzione. Per Benedetto XVI, il dono ha rilevanza economica e, pertanto, deve trovare posto nelle imprese, nell’economia, oltre che nelle famiglie e nella società civile.
Peraltro, dall’analisi della realtà odierna emerge, per quanto concerne l’economia civile, un dato confortante. Negli ultimi anni di crisi i Rapporti sulla cooperazione in Italia hanno evidenziato come nel settore vi sia stato, nonostante le condizioni generali sfavorevoli, una discreta crescita dell’occupazione e del numero delle imprese. Oggi, emerge che essere capaci di costruire relazioni sociali significative, caratterizzate da un alto livello di fiducia tra cooperativa e cliente, paga anche in termini di mercato. I valori cooperativi sono fondamentali nel costruire relazioni sociali più significative, più democratiche, e più in grado di incidere nel territorio.
Ma nonostante ciò sembra che la politica, come anche l’attuale sistema monetario e finanziario, non siano intenzionati ad investire adeguatamente nella mutualità e nella cooperazione. È noto, infatti, come il nuovo progetto di regolamentazione del terzo settore giaccia in Parlamento. Così, bisognerebbe estendere alle imprese sociali i benefici fiscali riconosciuti alle Onlus. Alcuni vedono necessaria anche l’emanazione di social bond, obbligazioni sociali, che sono titoli di credito emesso dalle imprese sociali. Sembra, invece, che la Banca d’Italia non voglia dare il permesso di emettere obbligazioni sociali come avviene in Inghilterra. Peraltro, le cooperative sociali hanno bisogno di finanziamenti anche perché la pubblica amministrazione paga con ritardo. Se non hanno accesso al credito sono costrette a chiudere.
Rispetto a tutto ciò è necessario domandarsi se l’attuale sistema finanziario e di microcredito sia in grado di sostenere le imprese e le cooperative sociali.
Ebbene, con riferimento a quanto detto, occorre per lo meno rilevare:
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Che una riforma radicale dell’attuale sistema finanziario non è ancora stata compiuta. Non appare ancora ultimata l’auspicata separazione tra banche commerciali e banche di alta speculazione, come anche non è stata varata un’adeguata politica fiscale tale da temperare la finanza di alta speculazione e da incentivare la politica del credito all’economia reale;
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Che la recente riforma delle banche popolari, costrette a trasformarsi in Spa, le sta esponendo alla speculazione finanziaria delle lobby internazionali, ossia di quei soggetti mondiali che non sono interessati a mantenere i loro istituti a servizio del territorio e, quindi, delle imprese e cooperative sociali;
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La stessa riforma delle Bcc, varata ultimamente dal Consiglio dei Ministri nello scorso mese di febbraio, mentre per un verso presenta aspetti positivi, per un altro verso mostra seri pericoli di destrutturazione del sistema. Infatti, all’ultimo momento è stata inserita nel decreto una «via d’uscita» (way out), – per le Bcc con più di 200 milioni di euro di riserve -, dalla holding unica e trasformarsi in Spa, riscattando a sconto, con l’aliquota del 20%, le riserve cumulate nei decenni in esenzione d’imposta. La regola della cosiddetta way out è pessima per almeno due motivi, ha sottolineato il prof. Stefano Zamagni. Innanzitutto, perché c’è una palese violazione del principio legale secondo cui i fondi lasciati alle riserve delle Bcc sono indisponibili ed indivisibili, in quanto riserve accumulate nel corso dei decenni in esenzione fiscale. Essi appartengono ai cittadini e non alle banche. Consentendo il suddetto «riscatto» con un pagamento del 20% si concede a queste Bcc più grandi un abbuono del tutto immeritato. In secondo luogo, perché c’è una violazione dal punto di vista etico. La solidarietà intergenerazionale è il principio regolativo di ogni Bcc: le riserve indivisibili sono alla base di un patto di solidarietà intergenerazionale dell’impresa. Nel momento in cui si cede a chi gestisce la banca quel patrimonio si viola l’etica della solidarietà cooperativa. In sostanza, si viola l’articolo 2 degli Statuti delle Bcc. Secondo tali Statuti ogni Bcc si basa sul principio della mutualità. In tal modo, se dovesse rimanere la proposta della via d’uscita si colpirebbe il credito cooperativo al cuore, creando un grave vulnus nella cooperazione finanziaria.
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Sarebbe grave se la regola della Way out fosse stata inserita dal premier per favorie alcune Bcc a lui vicine. Ma sarebbe altrettanto grave se a ciò il premier fosse stato indotto dall’attuale dirigenza delle Bcc più grandi. Rivelerebbe una classe dirigenziale ignara dei principi costitutivi del credito cooperativo, preparata magari dal punto di vista professionale e tecnico, ma non certamente dal punto di vista umanistico, e lontana dai principi fondativi della cooperazione.
Dopo quanto detto è chiaro che il sistema cooperativo dovrà vigilare affinché il testo proposto dal Consiglio dei ministri venga migliorato, specie durante il suo passaggio parlamentare. In caso contrario, stante la way out, verrà meno anche per la mutualità e la cooperazione un valido alleato. Si assisterà impotenti ad un ulteriore episodio di omologazione, questa volta del sistema del credito cooperativo, al sistema bancario e finanziario legato al capitalismo che assolutizza il profitto a breve. Accettandosi, poi, tramite anche autoriforma, e senza tradire la mutualità garantita dalla Costituzione (cf art. 45), un processo di aggregazione delle Bcc in un Gruppo unico, che non comprometta la biodiversità specifica del sistema italiano, è chiaro che, alla luce anche degli ultimi episodi, non si dovrà cessare, con l’impegno del ricambio dei responsabili, l’opera di formazione dei propri quadri, specie dell’alta dirigenza: una formazione non solo professionale e tecnica, ma soprattutto etica, umanistica, confidando che il mondo della finanza – come peraltro più volte auspicato da papa Francesco nell’Evangelii gaudium e nella Laudato sì’ – torni ad essere subordinato, pur nella legittima autonomia, alla politica avente l’obiettivo del servizio al bene comune. E tutto ciò nella prospettiva del rafforzamento di un’economia che non uccide ma costruisce ed include soprattutto i più poveri, inserendoli in un sistema di solidarietà, di mutui rapporti e di reciprocità economica.
In definitiva, il credito cooperativo oggi è chiamato ad essere sempre più se stesso, secondo gli ideali originari, nelle mutate circostanze. Solo così può supportare il salto di qualità che deve compiere lo Stato del benessere, verso forme più societarie, democratiche, partecipative, inclusive.
+ Mario Toso, Vescovo delegato della pastorale sociale della Conferenza episcopale dell’Emilia Romagna
1 S. ZAMAGNI, Abbandonare il welfare state non significa aderire al neoliberismo, in «Vita» (dicembre 2015), n. 12, p. 11.
2 Cf E. MINARDI, Dall’economia di mercato all’economia del dono e della reciprocità, in Mutualità e cooperazione. A partire dalla crisi economica e sociale, a cura di Paolo Dell’Aquila ed Everardo Minardi, Homeless Book 2014, p. 40.
Presentazione della Enciclica Laudato Sì all’Istituto Veritas Splendor di Bologna
30-01-2016
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Ecologia integrale: l’originalità dell’apporto della Chiesa alla soluzione della crisi ecologica
Considerando l’impatto dell’enciclica Laudato sì’ è stato giustamente sottolineato come essa abbia portato, in seno all’Expo di Milano e alla Conferenza sul clima di Parigi, un’attenzione particolare per gli aspetti antropologici ed etici, oltre che religiosi e culturali. Ciò ha aiutato a non appiattirsi solo sugli aspetti tecnici, statistici, consensuali, indispensabili sì ma insufficienti rispetto alla soluzione della crisi ecologica contemporanea. La peculiarità dell’apporto è stata individuata specialmente nella coniazione della «categoria» dell’ecologia integrale. Un’espressione che non pare rintracciabile in nessun documento ufficiale delle Nazioni Unite o di altre Istituzioni internazionali laiche. A ben considerare, infatti, si tratta di un concetto derivante da premesse teologiche, antropologiche ed etiche, tipiche del contesto di fede del cristianesimo. L’ecologia integrale trascende il tema meramente ambientale e lo vede connesso con l’ecologia umana. Esprime l’inseparabilità tra persona e creato, tra società e natura, tra crisi sociale e crisi ambientale. Obbliga a ricercare soluzioni integrali corrispondentemente alle interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali e culturali. Come l’analisi dei problemi ambientali è indisgiungibile dall’analisi dei contesti umani, familiari, lavorativi, urbani, analogamente lo è la soluzione di essi. L’ecologia integrale, che può essere considerata il primo principio morale nel campo dell’impegno della cura della casa comune – esplicitazione del primo principio del compimento umano in Dio – è basilare per il discernimento, per ogni momento costitutivo di esso: vedere, giudicare, agire e celebrare. Senza di esso, non è possibile una corretta analisi dei problemi e tantomeno una terapia adeguata. E, nemmeno, sono possibili un’educazione e una spiritualità commisurate alla multidimensionalità della questione ecologica. Il concetto di ecologia integrale scaturisce da un approccio conoscitivo che consente di accedere alle dimensioni teologiche, metafisiche, oltre che etiche, della realtà, imprescindibili per leggerla, interpretarla e trasformarla.
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Motivazioni alte per l’impegno della cura della casa comune all’interno di un movimento ecologico globale
L’individuazione del nuovo parametro etico dell’ecologia integrale, risponde, tra l’altro, alla necessità di sopperire alla scarsità, rilevata dal pontefice, dei mezzi conoscitivi, interpretativi, trasformativi a disposizione. Tra gli obiettivi dell’enciclica Laudato sì’ vi è quello di concorrere a formare un movimento ecologico globale, composto da credenti e non credenti. In vista di ciò, papa Francesco non rinuncia a fare appello alle convinzioni di fede che, a prima vista, potrebbero sembrare un ostacolo per il dialogo universale. A fronte della complessità della crisi ecologica e della carenza di una cultura adeguata per conoscerla è necessario ricorrere, oltre ad altri saperi, alla fede. I contenuti di questa non si pongono, come molti pensano, nell’ambito dell’irrazionalità, e tantomeno della subcultura, bensì sul piano del superrazionale e del razionale. Proprio ponendosi su quest’ultimo piano è possibile instaurare un dialogo e collaborazioni con i non credenti, anch’essi dotati della capacità di conoscere il vero e il bene. Le convinzioni di fede offfrono ai cristiani motivazioni alte per prendersi cura della casa comune. Questo compito, precisa papa Francesco, è «parte della loro fede» (n. 64). Detto altrimenti, i cristiani entrano nel dialogo e nella collaborazione globali consci di essere strutturati secondo una chiamata, una vocazione, ovvero una missione rispetto alla cura della casa comune, che va vissuta in Cristo, venuto a ricapitolare in sé tutte le cose, quelle della terra e quelle del cielo. Si tratta di aspetti della esistenza cristiana non sempre messi adeguatamente in luce nelle omelie, nella catechesi, nei vari itinerari di formazione nelle associazioni e nei movimenti cattolici o di ispirazione cristiana. Dopo la promulgazione dell’enciclica non vi potranno più essere scusanti per la suddetta negligenza. All’impegno della cura della casa comune corrisponde, coerentemente, l’urgenza di una conversione ecologica. Vi sono peccati contro la creazione e le persone, colpite da mali inguaribili, perché vivono in aree fortemente inquinate, come la Terra dei fuochi. Specie in quest’anno del Giubileo straordinario della Misericordia, in cui si è chiamati a vivere la grazia della riconciliazione con Dio, il prossimo e l’ambiente, siamo chiamati ad aggiornare – non paia una banalità – i formulari per l’esame di coscienza proprio in riferimento ai peccati contro la creazione e l’umanità.
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Educazione alla cittadinanza ecologica
Un altro aspetto peculiare dell’enciclica è l’insistenza del pontefice relativamente alla necessità di educare alla cittadinanza ecologica, specie in un contesto in cui le Istituzioni internazionali e le autorità nazionali non compiano il loro dovere nei confronti della promozione dell’ecologia integrale. L’educazione alla cittadinanza ecologica rimane spesso l’ultima spiaggia e il punto archimedico su cui far leva per mobilitare le coscienze, per creare movimenti popolari che facciano pressione presso le autorità internazionali e nazionali non raramente asservite a criteri di massimizzazione del profitto e alla logica del mantenimento del potere. La società civile, prima responsabile della salvaguardia dell’ambiente, deve obbligare governanti e governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Detto altrimenti, con riferimento alla realizzazione di un’ecologia integrale, papa Francesco sollecita una democrazia dal basso, partecipativa, che fa leva sulle comunità locali, sulla forza che possono esprimere le azioni condivise di un «popolo». La società civile può e deve esercitare il proprio primato sulla politica. Una società sana, matura e sovrana, impone limiti cautelativi attinenti alle previsioni, invocando regolamenti adeguati e vigilanza sull’applicazione delle norme, lotta alla corruzione, azioni di controllo operativo sull’emergenza di effetti non desiderati dei processi produttivi, e interventi opportuni di fronte a rischi indeterminati o potenziali. Ciò equivale, da parte della società civile, a promuovere e a vivere una cittadinanza attiva con riferimento all’ecologia integrale. Indipendentemente dal fatto che abbiano o meno responsabilità di governo, i cittadini sono chiamati a diventare protagonisti del cambiamento di cui la terra ha bisogno. Non bisogna perdere la speranza e rassegnarsi. Gli esseri umani, capaci di estremo degrado, possono anche superarsi, ritornare a scegliere il bene, a rigenerarsi (cf n. 205), ad ammirare il bello, ad uscire dal pragmatismo utilitaristico. Non esistono sistemi sociali e culturali che annullino completamente l’apertura al vero, al bene e alla bellezza. Per questo, è possibile risalire la china, impiantare una nuova cultura, mobilitare le coscienze, formare movimenti di consumatori che si rifiutino di acquistare determinati prodotti, diventando così, con l’oculato uso del loro portafoglio, decisori del destino di certe imprese che puntano solo al profitto e non rispettano né l’ambiente né i lavoratori. Formando la responsabilità dei consumatori, si riuscirà ad incidere sulle decisioni politiche e sull’economia (cf n. 206).
+ Mario Toso
Vescovo di Faenza-Modigliana
Intervento al Congresso Provinciale di Confcooperative
29-01-2016
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In allegato è possibile scaricare il file in formato .pdf dell’Intervento di mons. Vescovo al Congresso provinciale di Confcooperative
Conferenza alla Fraternità Francescana Frate Jacopa
Roma - 4 gennaio 2016
04-01-2016
Premessa
Il Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace 2016 di papa Francesco è coinciso con un clima internazionale fortemente turbato dai gravi episodi di terrorismo che hanno provocato a Parigi numerose vittime tra i civili e reazioni di dura condanna da parte degli Stati occidentali, ma non solo. E, tuttavia, il Messaggio tiene presenti tanti altri avvenimenti che, in una maniera o nell’altra, hanno messo in pericolo la pace, sino a dare la sensazione di trovarci, come ha efficacemente affermato papa Francesco, di fronte ad «una terza guerra mondiale a pezzi». Quando è stato scelto il tema per il Messaggio – questo avviene di solito nei primi mesi dell’anno, verso giugno – forse non si sarebbe immaginato quanto sarebbe successo il 13 novembre scorso. Probabilmente, a fatti compiuti, la scelta del tema non sarebbe caduta sull’indifferenza, ma sulle nuove forme della guerra e sulle azioni terroristiche contemporanee. Ma, come dice un noto proverbio, «acqua passata non macina più». Ad ogni buon conto, il tema scelto Vinci l’indifferenza e conquista la pace, anche ad eventi consumati, conserva tutta la sua pertinenza. Infatti, i tanti fenomeni di odio e violenza, sfocianti in guerre o in azioni terroristiche, iniziano a partire dall’indifferenza nei confronti del bene del prossimo e del creato, del bene comune mondiale relativo alla famiglia umana.
Oggi, non abbiamo, forse, bisogno di chi, ci salvi, dal momento che viviamo in un mondo di odio, violenza, guerre, terrorismo, ingiustizie, povertà, migrazioni forzate e gli sforzi delle persone di buona volontà appaiono fortemente impari rispetto alle necessità, a tirarci fuori dall’iniquità e dalle tenebre del male? Non dobbiamo anche noi, già logori e stanchi a causa di tante angustie ed oscurità, riconoscere, come gli antichi greci, che oramai solo un Dio ci può salvare? Non aveva ragione il grande filosofo Martin Heiddeger quando affermava che nulla, né la filosofia né alcuna altra intrapresa umana, può produrre un significativo cambiamento del mondo se non Dio?
A fronte di questi interrogativi il Messaggio di papa Francesco risponde presentando, sin dall’inizio, una consolante certezza: «Dio non è indifferente. A Dio importa dell’umanità. Dio non l’abbandona» (n. 1). Detto altrimenti, il pontefice, a fronte dei mali che sembrano sopraffare l’umanità, reagisce annunciando la verità del mistero dell’incarnazione, che i cristiani contemplano a Natale. Il Signore, che si rende presente nella storia, e diventa «Dio con noi», non è più il Dio distante. Entrando nel mondo è il Vicino, che rimane con noi sino alla fine del mondo (cf Mt 28,20). Egli viene a salvarci, nel senso che non ci lascia soli a combattere contro il male, l’illegalità, la corruzione, e tutte quelle idolatrie che rendono l’uomo schiavo di se stesso. Dio si schiera dalla nostra parte. È per noi, come ci ricorda l’anno giubilare inziato lo scorso 8 dicembre, la Misericordia. Con Lui presente, in noi e negli altri, tutto è possibile. È possibile sconfiggere l’egoismo, il peccato, il fratricidio, l’odio alle religioni, gli attacchi alla vita, alla dignità umana, alla pace, alla casa comune che è il creato; la tratta degli esseri umani, le emigrazioni, lo sfruttamento del lavoro, l’emarginazione dei più deboli. È possibile perdonare.
Per quanto grandi siano i mali che indeboliscono l’umanità e ne mettano a repentaglio l’esistenza, come anche la sua forza morale e spirituale – ecco la seconda risposta di papa Francesco – non bisogna rinunciare a coltivare la speranza di poterli superare. Occorre far leva sulla nativa capacità degli uomini di compiere il bene, di superare il male. Nonostante i molteplici conflitti, una «terza guerra mondiale a pezzi» in atto, le azioni terroristiche, i sequestri di persona, le persecuzioni per motivi etnici o religiosi, le prevaricazioni, la tratta degli esseri umani non ci si deve rassegnare.
Papa Francesco consola ed incoraggia l’umanità attirando l’attenzione sul fatto, suffragato dall’esperienza, che non si è persa la capacità di compiere il bene, di operare nella solidarietà, andando al di là degli interessi individualistici, dell’apatia e dell’indifferenza rispetto a situazioni critiche. Lo dimostrano l’incontro dei leader mondiali a Parigi per cercare nuove vie per affrontare i cambiamenti climatici, come anche il precedente Summit di Addis Abeba per raccogliere fondi per lo sviluppo sostenibile del mondo, ed ancora l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile.
Dunque, non tutto è perduto. L’essere umano non è totalmente corrotto e malvagio. C’è in lui un germe insopprimibile di vero, di bene, che può sempre fiorire. In ogni persona, indipendentemente dalla razza e dal proprio credo, c’è una fondamentale capacità di ricercare il vero, il bene e Dio. Una simile capacità è alla base della dignità umana, che ci costituisce uguali e fraterni sul piano creaturale, soggetti di doveri e di diritti. Secondo i grandi teologi del Medio Evo la capacità di vero, di bene e di Dio attesta la nostra somiglianza a Dio. L’immagine di Dio impressa in noi è alla base del nostro essere relazionali, chiamati alla vita comunitaria, al dono, alla collaborazione solidale, al bene comune. Detto altrimenti, ogni essere umano è costitutivamente strutturato a «tu», per il vero e il bene, per formare un «noi» di persone, nella comunione. Nell’uomo, con l’inclinazione al male, alla chiusura egoistica, con l’indifferenza nei confronti degli altri, che lo porta al conflitto, alla lotta contro l’altro, esiste un’originaria apertura all’auto-trascendimento, all’altro, all’amicizia, alla convivialità. Potenziando la capacità di vero e di bene che c’è nell’uomo, mediante una vita virtuosa, ossia mediante una vita che si orienta alla realizzazione del telos umano, si diventa più umani, ossia più in grado di sconfiggere le cause delle guerre e dell’indifferenza reciproca, più adatti alla costruzione della pace.
Rendere le persone più umane, specie attraverso l’educazione alle virtù, equivale a custodire le ragioni della speranza rispetto ad un mondo diviso ed indebolito dalle guerre. Ma non dimentichiamolo, anche richiamare la presenza di Dio nella storia, in ciascuno di noi, significa custodire le ragioni della speranza, renderle più forti, più reali.
Nemica della pace non è solo la guerra, ma prima ancora lo è l’indifferenza, che oggi appare essere globalizzata, ossia estesa oltre l’ambito locale ed individuale. L’indifferenza è nemica della pace perché fa pensare solo a se stessi, crea barriere, sospetti, paure, chiusure.
Papa Francesco segnala diverse forme di indifferenza: l’indifferenza nei confronti del prossimo e della realtà circostante; l’indifferenza nei confronti della realtà più lontana, l’indifferenza nei confronti del creato, l’indifferenza nei confronti di Dio, ultima ma non meno importante rispetto alle altre. Come si spiegherà meglio più avanti, per il pontefice è dall’indifferenza nei confronti di Dio che, in ultima analisi, scaturiscono le altre.
Tra le cause che sono all’origine dell’indifferenza il Messaggio ne individua alcune. Vi può essere, rispetto ai mali che affliggono persone, società, istituzioni e casa comune, una sufficiente conoscenza ed informazione, ma non esserci un coinvolgimento emotivo ed operativo. Manca cioè un’apertura in senso solidale. Prevale un pensiero e un’azione ripiegati su se stessi, tutti concentrati sulla considerazione dei propri guai. Ne consegue una certa relativizzazione della gravità dei problemi concernenti gli altri e il mondo, quasi che questi alla fine non ci riguardino e non giungano ad influire negativamente sulla nostra vita e sul nostro futuro. Un simile atteggiamento, talvolta, giunge anche a colpevolizzare i poveri, a considerarli come unici responsabili della loro condizione di miseria, di sottosviluppo. Vi può essere, però, all’origine dell’indifferenza, anche l’atteggiamento di chi si rifiuta di informarsi sulla reale situazione in cui i propri simili vivono, chiudendosi in una specie di torre d’avorio, costruendosi un mondo artefatto e virtuale, fatto a propria misura e comodità, come possono aiutare a creare i moderni mezzi della comunicazione. Si tratta di un’indifferenza che prolifica in assenza dell’esercizio del principio di realtà. L’artificiale, il virtuale prevalgono sul reale storico e concreto.
Ma, a detta di papa Francesco, come già accennato, la causa più profonda dell’indifferenza nei confronti del prossimo e del creato è l’indifferenza nei confronti di Dio (cf n. 3). Questa è uno dei gravi effetti di un umanesimo post-moderno, chiuso alla Trascendenza, intriso da un individualismo libertario, che fa sentire l’uomo autosufficiente, autore di se stesso, misura ultima del vero e del bene. In tal modo, l’essere umano pensa di possedere una libertà senza confini, di essere titolare di diritti che sono pretese illimitate. La libertà non è per la verità, per la cura dell’altro. Essa è semplicemente la possibilità di fare quanto si crede, purché non si ledano i diritti altrui: una libertà, a dire il vero, gravemente insufficiente rispetto alle esigenze del bene comune, che presuppone la cura del bene di tutti. Quando l’uomo pensa di essere un Prometeo, mira a sostituirsi a Dio, a farne completamente a meno. Gli interessa solo se stesso. Gli altri sono considerati antagonisti, avversari, mezzi o strumenti per la propria affermazione incondizionata.
Se si vuole, dunque, battere l’indifferenza nei confronti del prossimo e del creato, occorre vincere l’indifferenza nei confronti di Dio. Rispetto a ciò diviene indispensabile, pare sottintendere papa Francesco, l’evangelizzazione o la ri-evangelizzazione. Senza l’incontro con Dio, senza portare Dio nel cuore, non si è in grado di cogliere nel volto dell’altro un fratello in umanità. Si finisce per vederlo come un mezzo e non un fine, come un rivale o un nemico, non come un altro me stesso, una parte dell’infinito mistero dell’essere umano. Senza Dio nel cuore è molto difficile che possiamo essere costruttori di pace, vittoriosi sull’indifferenza. Senza Dio nel cuore è difficile possedere una corretta scala dei beni-valori. È, anzi, facile scivolare in quelle idolatrie che come quelle della tecnocrazia o dell’assolutizzazione del profitto a breve termine assegnano il primato alla tecnica o al denaro a scapito delle persone. Ma non solo. Senza Dio nel cuore è difficile considerare il creato come un bene universale destinato a tutti, anche alle prossime generazioni (cf Laudato sì’).
Scoprire il volto di Dio rende nuova la vita. Perché è un Padre innamorato dell’uomo, che non si stanca mai di ricominciare da capo con noi per rinnovarci. «Però il Signore non promette cambiamenti magici. Lui non usa la bacchetta magica. Ama cambiare la realtà dal di dentro, con pazienza ed amore; chiede di entrare nella nostra vita con delicatezza, come la pioggia nella terra, per poi portare frutto».
La pace è un dono dall’alto che richiede anche la nostra collaborazione.
L’indifferenza verso Dio supera la sfera intima e spirituale della singola persona ed investe la sfera sociale, pubblica, istituzionale, ambientale. Una tale indifferenza sta alla base di situazioni di diseguaglianza, di ingiustizia e di gravi squilibri sociali, che, come già detto, possono generare conflitti, violenze ed insicurezza tra i popoli. L’indifferenza a livello comunitario e sovranazionale giunge a giustificare politiche economiche, finanziarie e monetarie chiaramente insufficienti rispetto allo sviluppo dei Paesi più deboli, ma anche a coltivare svogliatezza nei confronti delle necessarie riforme dei mercati, delle istituzioni internazionali, rispetto a problemi globali che reclamano politiche ed istituzioni globali. È il caso dell’incuria rispetto al bisogno di riforma dell’attuale sistema finanziario e monetario, come ha sottolineato per tempo papa Francesco nella Laudato sì’. Ecco le sue stesse parole, che alcuni hanno già letto e che in questi giorni sono tornate ad essere di particolare attualità perché non pochi risparmiatori hanno perso tutti i loro guadagni avendoli investi in obbligazioni subordinate emesse da banche ora fallite: «Il salvataggio ad ogni costo delle banche – scrive il pontefice –, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura. La crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo».
Ma indifferenza sul piano di politiche nazionali ed internazionali va registrata anche con riferimento al superamento della piaga della fame e della povertà. Infatti, si deve constatare che il diritto al cibo, peraltro sancito a livello internazionale da vari documenti, non è affatto, per alcuni Governi, una priorità. Così, si debbono registrare diverse inadempienze da parte di istituzioni intergovernative che non correggono le politiche commerciali contrarie allo sviluppo agricolo e alla sicurezza alimentare dei più poveri, dei più vulnerabili. Parimenti, Governi e politici non provvedono alla protezione delle risorse naturali da cui dipende la sopravvivenza di molti, ma anche coltivano decisioni contrapposte: da una parte incentivano la crescita economica e forti esportazioni agricole, dall’altra una porzione elevata della popolazione soffre i morsi della fame. Come evidenzia un recente studio del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, ciò che risulta palese è che il maggior numero di cause della mancata effettività del diritto al cibo e alla sicurezza alimentare sono da ricercare anzitutto a livello politico-istituzionale. Ciò viene confermato dal fatto che numerose riforme agrarie hanno spesso deluso le aspettative, specie perché non hanno supportato l’accesso dei piccoli produttori ai mercati, senza fornire i servizi sociali indispensabili e l’assistenza tecnica, senza agevolare l’accesso al credito.
La carenza di adeguate politiche economiche, fiscali, creditizie, con la conseguente insufficienza di infrastrutture di stoccaggio, di trasporto, di comunicazione sono anche all’origine dell’indebolimento agricolo di numerosi Paesi. Si sono, invece, rafforzati quei Paesi ricchi nei quali la produzione agroalimentare è stata sovvenzionata o supportata dallo Stato.
Ogni giorno riscontriamo segni negativi che contrastano con la tensione verso la pienezza umana, per la quale ci ha fatti Dio. A volte ci domandiamo: come è possibile che perduri la sopraffazione dell’uomo sull’uomo?, che l’arroganza del più forte continui ad umiliare il più debole, relegandolo nei margini più squallidi del nostro mondo? Fino a quando la malvagità seminerà sulla terra vittime innocenti? Come sperare un mondo migliore quando continuiamo a vedere sotto i nostri occhi moltitudini di uomini, donne e bambini che fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla persecuzione, disposti a rischiare la vita pur di vedere rispettati i loro diritti fondamentali? Un fiume di miseria, alimentato dall’egoismo e dal peccato, incontenibile, sembra contraddire prepotentemente il nostro desiderio di fraternità e di pace. Secondo papa Francesco, la globalizzazione dell’indifferenza, come anche la drammatica esperienza delle molteplici forme di ingiustizia e di violenza che feriscono quotidianamente l’umanità, possono essere vinte solo dall’oceano di misericordia che, tramite Cristo, inonda il mondo. Cristo che si incarna è la misericordia di Dio resa a noi accessibile. Siamo chiamati tutti ad immergerci in questo oceano, a lasciarci rigenerare dal perdono e dall’amore di Dio.
Solo l’incontro con l’amore misericordioso del Padre può aiutarci a salvarci, a cambiare il corso della storia. Solo convertendoci a Dio Padre possiamo convertirci alla fraternità e sconfiggere l’indifferenza. Grazie all’esperienza della misericordia riusciamo a trasfigurare tutto l’uomo, tutte le sue attività, tutti i luoghi esistenziali: la famiglia, la scuola, il lavoro, l’economia, la finanza, la politica, i mezzi di comunicazione sociale, la casa comune che è il creato, la cultura, la famiglia umana.
Per capire quanto possiamo diventare capaci di rivoluzionare noi stessi, la società e le istituzioni dobbiamo intendere bene la realtà della misericordia di Dio. Non si tratta di un sorriso, di un atteggiamento di benevolenza. La misericordia di Dio non va scambiata per un gesto buonista che non cambia il mondo e i cuori. La misericordia che Dio ci dona è se stesso, il suo Amore, la sua Vita, la sua capacità di dono e di perdono. Essa implica, non esclude la giustizia umana. La comprende, la rende più cogente e nello stesso tempo la supera.
Proprio su questo piano, i credenti devono essere coscienti della specificità del loro impegno di pace. Essi vi contribuiscono attuando quella giustizia più grande che Dio misericordioso fa sperimentare a coloro che gli vanno incontro. Egli ama con un amore molto più grande di quello semplicemente umano. Il suo amore e il suo dono sono commisurati al nostro essere figli e figlie suoi. Se facciamo esperienza del suo immenso amore misericordioso diventiamo capaci di portare nel mondo una giustizia più grande, corrispondente all’altissima dignità dei figli e dei fratelli in Gesù Cristo. Poggiando su queste basi possiamo essere protagonisti di una cultura di misericordia e di solidarietà, capace di vincere l’indifferenza, divenendo capaci di proporre, quando ne sia il caso, l’inserimento nelle legislazioni nazionali di pene alternative alla detenzione carceraria (cf n. 8).
Il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2016 sollecita ad essere protagonisti della pace vivendo la misericordia di Dio senza rinserrarla, come spesso fanno i mezzi di comunicazione sociale, entro schemi troppo angusti, ossia meramente assistenzialistici, di pura azione caritativa. La Misericordia divina, ossia la vita d’Amore e di perdono del Padre, è un torrente di vita nuova che trasborda l’attività assistenziale, inonda la famiglia umana, tutti i luoghi esistenziali, compresa la politica, come mi sono sforzato di spiegare nella mia prima Lettera pastorale.
Se desideriamo la pace, ci si deve impegnare come famiglie, educatori e formatori nella scuola e nei diversi centri di aggregazione infantile e giovanile, come operatori culturali e dei mezzi di comunicazione sociale; come Paesi e come Istituzioni internazionali, come ONG, società civili, comunità religiose. Occorre operare su tutti i fronti: culturali, sociali, politici, economici, istituzionali, spirituali. Il che, tra l’altro, implica che Stati, cittadini, associazioni si impegnino a sostenere e a varare politiche in favore di coloro che soffrono la mancanza di lavoro, terra, tetto, sicurezza sociale, istruzione, democrazia inclusiva e partecipativa. La misericordia di Dio sollecita ad una trasfigurazione a 360 gradi. In forza della misericordia i cattolici sono chiamati ad un impegno anche politico, non solo caritativo.
Occorre rendersi conto, poi, che se siamo indifferenti nei confronti della vita, specie dei nascituri e dei più deboli, difficilmente saremo capaci di volere la pace, che implica rispetto e promozione dei diritti di tutti. Non ci deve, poi, sfuggire l’appello di papa Francesco alle autorità statali per l’abolizione della pena di morte, là ove essa è ancora in vigore. Esso non è solo un invito per gli Stati, ma anche per la Chiesa e la sua teologia morale affinché si arrivi ad aggiornare il Catechismo della Chiesa Cattolica, che la prevede ancora, sia pure in casi estremi.
Papa Francesco, oltre ai problemi della cura della casa comune, dei detenuti, dei migranti, dei malati, ribadisce l’urgenza della cancellazione del debito internazionale degli Stati più poveri, come in parte si è realizzato al tempo del Giubileo del 2000.
Le esigenze della pace sono molte. Ciò richiede comunità cristiane capaci di collaborare tra loro e con gli uomini di buona volontà, nella concretizzazione di un umanesimo più conforme alla dignità dei figli di Dio.
Nel contesto del Giubileo straordinario della Misericordia, papa Francesco ci sollecita, in particolare, ad andare incontro alla Misericordia di Dio, ad accogliere il suo Amore e il suo perdono. Solo così si può passare dall’indifferenza a considerarci fratelli e sorelle di un’unica famiglia, ove tutti possiedono un cuore che batte forte per il bene dell’altro. Ricevere la Misericordia di Dio, fare esperienza del suo Amore samaritano, nonché del suo perdono che ci guarisce interiormente, significa pensare alla propria libertà come a un non limitarsi a non ledere il diritto altrui, bensì come ad un impegnarsi per il bene degli altri, oltre che per il proprio.
Solo grazie ad una simile concezione della libertà si è in grado di prendersi cura dell’altro, di collaborare nella solidarietà, di dedicarsi al bene comune, che è bene di tutti e, quindi, di conseguire la pace.
Se possediamo una concezione individualista della nostra libertà, senza riconoscere i legami sociali che ci tengono uniti, diventiamo protagonisti di un’esistenza, singola e sociale, che si dedica solo a coltivare l’interesse di pochi e non di tutti. La vita di fede ci aiuta a vederci come fratelli e sorelle, come persone che, essendo ad immagine di Dio Amore, sono fatti per il dono disinteressato. L’uomo e la donna si realizzano attraverso un’esistenza che è pro-essere e si dedica agli altri, non si rinchiude in sé, bensì si autotrascende, in un’estasi verso Dio e il prossimo. La fraternità poggia sull’esperienza dell’appartenenza di una umanità in cui nessuno è estraneo all’altro. Cresciamo come famiglia umana, giusta e pacifica, quando ognuno si prende cura dell’altro, rendendolo più capace di vero, di bene e di Dio, riconoscendo e dando a ciascuno il «suo».
I credenti, per imparare a vivere la misericordia e a vincere l’indifferenza debbono vivere in comunione con lo Spirito del Padre e del suo Figlio incarnato, quello Spirito d’Amore che grida: «Abbà! Padre!» (cf Gal 4,4-7). Come narra l’Antico Testamento, quando i figli di Israele si trovano schiavi in Egitto, Dio interviene. Osserva, ode il grido del suo popolo, scende e libera. È attento ed opera.
In maniera analoga si comporta il Figlio Gesù. Egli è Dio che scende tra gli uomini, si incarna, si mostra solidale con l’umanità, in ogni cosa, eccetto il peccato. Non si accontenta di insegnare alle folle, ma si preoccupa di loro, specialmente quando le vede affamate (cf Mc 6, 34-44) o disoccupate (cf Mt 20,3). «Il suo sguardo – si legge nel Messaggio per la pace 2016 – non era rivolto soltanto agli uomini, ma anche ai pesci del mare, agli uccelli del cielo, alle piante e agli alberi, piccoli e grandi; abbracciava l’inter
Saluto e riflessioni al Percorso di formazione dei volontari presso la Caritas-Centro di Ascolto
Faenza-Centro di Ascolto, 22 dicembre 2015
22-12-2015
Qui il volontariato si caratterizza, in modo particolare, per essere cristiano, perché coloro che vi si impegnano intendono dare al messaggio del Vangelo un volto. Proprio in connessione a questa specificità si sviluppa il percorso di formazione messo in cantiere.
Il «volto» è la parte per il tutto che è la persona. Nel volontariato si mette a disposizione, con il proprio volto, tutto il proprio essere. Ci si presenta agli altri primariamente con il proprio viso e il proprio sguardo d’amore. Il nostro volto è il biglietto da visita che dice chi siamo e cosa desideriamo fare. Gli occhi, afferma la saggezza popolare, sono la finestra dell’anima. Il volto dei volontari, dunque, rivela il loro «essere per». Ma non solo. Essi vanno incontro al povero – secondo le varie accezioni – per mostrargli solidarietà e così manifestargli l’amore di Dio, il volto misericordioso del Padre. L’amore del volontario riconosce nell’altro il «prossimo», il fratello e la sorella bisognosi d’aiuto. Desidera far percepire la paternità provvida di un Dio che non rimane indifferente nei confronti dei propri figli.
I credenti si mettono a disposizione gratuitamente perché chiamati e conquistati dall’amore gratuito di Dio.
Fermiamo l’attenzione sull’incontro tra il nostro volto e quello dei fratelli in situazione di necessità. Si diceva che il nostro volto vuol’essere espressione eloquente dell’amore stesso del Padre misericordioso. Intende diventare segno efficace, quasi un segno sacramentale, di un amore più grande di quello meramente umano. Il volontario va verso chi è bisognoso d’aiuto, ed è suo «prossimo», con la consapevolezza che non porta e non dona solo se stesso. Il proprio volto, la propria persona, rimandano ad un oltre da sè, al volto del Padre che è Amore. Il suo atto d’amore – non semplicemente un gesto interessato, ricercato per una mera gratificazione personale – è per l’altro occasione di una visione di Dio stesso. Ireneo di Lione, nel II secolo, ha scritto: «La gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la visione di Dio».[1]
Ma il nostro sguardo pieno di tenerezza non solo rivela, ma contagia l’altro con l’amore di Dio. Può diventare «luogo» o «mezzo» di un annuncio che fa incontrare Dio stesso, toccandolo con mano. In questa maniera, peraltro, il volontario conferisce al prossimo considerazione, offre onore, ricorda la dignità dell’uomo e suscita gioia di vita e speranza. Consentire a chi viene aiutato di giungere a percepire lo sguardo d’amore di Dio stesso significa fargli sperimentare vita, calore, consapevolezza di essere capace di vero, di bene, di Dio. Significa dare la percezione di venire riammesso nella «propria» famiglia, di tornare a casa propria, ove tutti sono considerati e si sentono fratelli, figli di uno stesso Padre, rompendo le barriere dell’indifferenza e dell’estraneità.
L’esperienza di un servizio gratuito può così aiutare le persone ad uscire dall’isolamento e ad integrarsi nella comunità, riprendendo fiducia in se stesse, in Dio. Può diventare, per lo stesso volontario, esperienza di Dio, perché nelle persone concrete che si incontrano è presente Gesù Cristo, Verbo incarnato, fattosi uomo.
Il servizio del volontario è, poi, sicuramente un contributo all’edificazione della «civiltà dell’amore». Crea popolo, crea Patria, una società civile.
L’amore del prossimo non si può delegare in radice alle strutture pubbliche. Lo Stato e la politica, con le pur necessarie premure per la sicurezza sociale di tutti – purtroppo oggi questo ideale sembra smarrirsi e a causa soprattutto di un capitalismo finanziario che assolutizza il profitto siamo ridotti ad una democrazia di un terzo – non lo possono sostituire in tutte le sue specificità. L’amore del prossimo richiede sempre l’impegno personale e volontario, per il quale certamente lo Stato può e deve creare condizioni generali, favorevoli per tutti.[2] Ma mentre lo Stato con le sue istituzioni di welfare realizza la solidarietà in maniera obbligatoria, universale, mediante personale remunerato, il volontariato la attua liberamente e gratuitamente.
La tipicità del volontariato è quella di offrire un servizio più personalizzato, meno standardizzato, ossia commisurato alla persona singola, alle sue esigenze individuali. Da questo punto di vista il volontariato è causa esemplare per tutti coloro che operano nelle strutture pubbliche della solidarietà. Proprio perché l’aiuto dei volontari mantiene la sua dimensione umana e non è spersonalizzato non può essere pensato come un «tappabuco» nella rete sociale.
Il volontariato cristiano è samaritano per natura. Si rivolge ad un «prossimo» non solo credente, ossia ad un prossimo inteso in senso stretto, bensì in senso largo, e cioè a tutti coloro che sono nel bisogno.
E, tuttavia, il volontariato cristiano sorge per ragioni di fede e si indirizza ad offrire assistenza anzitutto ai credenti, affinché questa sia proporzionata alla sensibilità e alle esigenze spirituali dell’assistito. E ciò perché Dio vuole, come affermava Duns Scoto nel XIV secolo, persone che amino con Lui: Deus vult condiligentes.[3] Dio ama tutti. Ama, però, ciascuno di noi come persone uniche ed irrepetibili. Egli, più di ogni altro, dà a ciascuno il suo. Egli dona vita, se stesso, andando oltre al principio dello scambio degli equivalenti. Dà molto di più di chi vuole conteggiare tutto e tutto pagare.
Il volontario cristiano ha di fronte a sé questo modello insuperabile. Egli è chiamato a vivere lo stile di Dio il più possibile, consapevole di volere un amore gratuito, che non viene esercitato per raggiungere altri scopi.[4] È per questa via che il volontario realizza la sua altissima dignità di figlio di Dio. «Chi è in condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare. Questo compito è grazia».[5] Il volontario mediante il suo impegno trasmette ciò che ha ricevuto. La logica del suo dono si colloca al di là del semplice dovere e potere morale, al di là delle regole del mercato.
Percorrendo questo cammino diventa segno efficace della misericordia di Dio. Diventa un annunciatore e un testimone dell’amore trinitario, che ci è donato da Cristo mediante il suo Spirito. È in questo contesto che si comprende l’importanza della preghiera per il volontario cristiano. La preghiera a Dio è via di uscita dagli schemi ristretti che possono albergare anche nella mente e nel cuore di ogni volontario. Come ogni uomo, il volontario, nonostante i nobili intenti che lo sorreggono, può essere catturato dall’individualismo; può subire un calo di dono. Anch’egli ha bisogno di rigenerarsi, di conversione. Il Giubileo straordinario della misericordia appena inaugurato rappresenta una grande opportunità.
Con la preghiera si può uscire anche dalla sfiducia, dalla stanchezza, dalla routine, da azioni compiute quasi meccanicamente, senza un cuore palpitante d’amore per Dio e per il prossimo. Il cuore del volontario non deve subire sclerosi o chiusure che lo ripiegano nella ricerca di mere gratificazioni personali. La gratificazione non va ricercata per se stessa. Essa è, piuttosto, la risonanza interiore di un comportamento improntato al pro-essere, all’essere per l’altro, in maniera disinteressata o gratuita.
Grazie alla preghiera si può superare lo sconforto di fronte all’illimitatezza del bisogno. «I cristiani continuano a credere, malgrado tutte le incomprensioni e confusioni del mondo circostante, nella “bontà di Dio” e nel “suo amore per gli uomini” (Tt 3,4). Essi, pur immersi come gli altri uomini nella drammatica complessità delle vicende della storia, rimangono saldi nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se per il suo silenzio rimane incomprensibile per noi».[6]
Pregare è mettersi alla scuola dello sguardo di Gesù, dei suoi occhi. Essi non sono indifferenti. Tutt’altro. Come leggiamo nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2016, Gesù Cristo, continuando e completando la rivelazione di un Dio che vede la miseria del suo popolo Israele in Egitto, e scende per liberarlo mediante Mosè, scende fra gli uomini – è Dio stesso che si rende presente nella storia – mediante l’incarnazione. Si mostra solidale con l’umanità in ogni cosa, eccetto il peccato. Gesù si «identifica» con l’umanità. Non si accontenta di insegnare alle folle, ma si preoccupa di loro, specie quando le vede affamate (cf Mt 20,3). Il suo sguardo non era rivolto soltanto agli uomini, ma anche ai pesci del mare, agli uccelli del cielo, alle piante e agli alberi, ai piccoli e ai grandi. «Egli vede, certamente, ma non si limita a questo, perché tocca le persone, parla con loro, agisce in loro favore e fa del bene a chi è nel bisogno. Non solo, ma si lascia commuovere e piange (cf Gv 11, 33-44). E agisce per porre fine alla sofferenza, alla tristezza, alla miseria e alla morte. Gesù ci insegna ad essere misericordiosi come il Padre (cf Lc 6, 36)».[7]
Profitto di questa occasione per porgere gli auguri di un santo Natale e di un buon Anno.
Gli auguri natalizi del vescovo Mario Toso agli amministratori della cosa pubblica
Faenza - Sala San Carlo, 19 dicembre 2015
20-12-2015
Saluto con deferenza e rispetto tutti voi che avete accolto l’invito a ritrovarci per scambiarci gli auguri in occasione del Santo Natale e del Nuovo Anno. Vuol essere anzitutto un onorare la concordia che è necessaria tra coloro che lavorano insieme, ognuno secondo la propria competenza, a servizio delle persone, nello stesso territorio. Non si tratta, dunque di una «convocazione» dei politici e degli amministratori da parte del vescovo, che ha solo il titolo di pastore della Comunità cristiana che vive nella Diocesi di Faenza-Modigliana.
Considero, pertanto, la vostra presenza come un gesto di amicizia, un desiderio di dialogo fattivo per meglio fronteggiare le sfide epocali che ci attendono. Non si può negare che sperimentiamo le tristi conseguenze di una cultura liquida che sottopone la socieà ad un cambiamento incessante, che dà l’avvio a innumerevoli processi ma non li porta a compimento: li smantella, ne incomincia di nuovi, e così all’infinito, senza che si possa intravvedere qualcosa di compiuto e di stabile.
Alla radice vi è una crisi, oltre che gnoseologica, antropologica ed etica, oggi vissuta anche come retaggio di opzioni compiute in epoca moderna. Essa è ulteriormente amplificata dai complessi ed interconnessi fenomeni della globalizzazione, della mediatizzazione, della tecnocrazia, del consumismo materialistico, dell’idolatria del denaro e della mercificazione di quasi tutto il possibile. La cultura odierna, oltre che dalla fragilità, appare caratterizzata da una volontà di potenza smisurata. Al di là dei fenomeni e delle apparenze, è difficile rinvenire un’identità permanente delle cose e delle persone. Tutto sembra poter essere creato ex nihilo, costruito senza riferimento ad una datità che precede, è trovata, e non è posta dalla nostra libertà. Pertanto, non esistono limiti al desiderio di dominio e di manipolazione. Ci si comporta nell’illusione di essere dèi e demiurghi, condannati, peraltro, ad un’esistenza prometeica, subendo ineluttabilmente lo scacco del fallimento e dell’effimero, data l’insopprimibile contingenza dell’essere umano.
E, tuttavia, l’uomo, si trova ad esistere senza che l’abbia deciso lui. È dotato di un progetto inscritto nel suo essere, che il suo libero arbitrio non potrà mai cancellare. Ogni tentativo in tal senso provocherebbe una schizofrenia insanabile, che aliena le persone rispetto a se stesse e alle società in cui si trovano a vivere e che esse formano non come estranei, bensì come esseri fondamentalmente simili tra di loro, costitutivamente fraterni e relazionali.
In tale contesto socio-culturale, pervaso dal virtuale e dall’artificiale, la politica va ripensata e rifondata. Va ritrovata la capacità di una visione prospettica e dell’ancoraggio al bene comune, per corrispondere all’essere più profondo dell’umanità, all’uni-dualità maschile e femminile delle sue componenti, alla vocazione al dono e alla gratuità. Come suggeriva il Cardinale Bergoglio in uno scritto antecedente alla sua elezione al pontificato, ci si deve riappropriare della democrazia, per abbandonare quelle forme che la coniugano a «bassa intensità», ossia conservando alti tassi di povertà, di disoccupazione e di disuguaglianza, senza capacità di progettazione del futuro, senza inclusione per tutti.1 Uno dei paradossi più grandi che stiamo vivendo oggigiorno, non solo qui in Italia ma a livello mondiale, è lo screditamento della politica e dei politici nel momento in cui abbiamo più bisogno di loro. È curioso notare come qualsiasi altra professione sia screditata ma goda di una certa protezione che il politico non ha. Egli resta quasi totalmente solo, si espone con questa solitudine. La corruzione, invece, è diffusa un po’ ovunque. Lo hanno dimostrato fatti abbastanza recenti relativi a varie Regioni, nelle quali è emerso che i fenomeni di illegalità e di corruzione non coinvolgono solo i vertici politici, ma l’intera società. La corruzione riguarda certamente anche i politici, ma essi, nell’opinione pubblica, sembrano essere i soli corrotti. Proprio per questo occorre essere più vicini ai politici seri ed onesti, accompagnarli con simpatia e sostegno. Ma occorre soprattutto ripristinare le finalità più proprie della politica e dell’amministrazione della cosa pubblica. Occorre ripristinare il primato della politica rispetto all’assolutizzazione dei mercati e della finanza.
In questo periodo storico si sta assistendo, in particolare, sia come cittadini, sia come responsabili dell’amministrazione della cosa pubblica – non senza esserne coinvolti – all’erosione di quel patrimonio culturale e valoriale che sta alla base di una delle più belle Costituzioni del mondo. Sui suoi contenuti, che la sostanziano come carta di navigazione, sono convenuti nel secolo scorso, con una maggioranza quasi plebiscitaria, i politici di ogni collocazione ideologica. Oggi ne sono intaccati i pilastri fondanti: la visione personalista e comunitaria, il diritto alla vita, al lavoro, alla sicurezza sociale, alla famiglia, alla libertà religiosa.
Sappiamo che a ciò ha contribuito il diffondersi di un neoindividualismo libertario, come anche il divorzio tra capitalismo e democrazia, con la conseguenza della crescita delle diseguaglianze e delle povertà; la carenza di una governance efficace della globalizzazione, l’assenza di adeguate istituzioni globali. Neoindividualismo libertario significa indifferenza per l’altro, assolutizzazione del proprio arbitrio e delle proprie pretese, diminuzione della responsabilità nei confronti del bene comune e dello Stato di diritto.
È davvero ammirevole l’opera di quegli amministratori che contrastano con tutte le loro forze il deteriorarsi dei legami sociali, creando alternative di condivisione, collaborazione e partecipazione.
Uno degli impegni più difficili, ma decisivi per il futuro di una Nazione e di un popolo, è quello, come accennavo prima, di operare possedendo una visione, uno sguardo di futuro. Occorre, inoltre, pensare costantemente alla tenuta e alla crescita morale, culturale, spirituale del proprio Paese, senza dimenticare quella demografica e uno sviluppo sostenibile. Occorre operare perché siano attuati. Se così non avvenisse verrebbe indebolito l’ethos civile e sarebbe pregiudicata la dignità dei popoli, della gente. Il politico e l’amministratore sono chiamati sì a cercare il bene possibile. E, tuttavia, sono anche vocati, con le loro decisioni, a creare le condizioni migliori per uscire gradualmente dal degrado crescente di civiltà. Proprio su questo piano si evidenzia maggiormente la necessaria collaborazione tra politici, amministratori e comunità religiose. L’amministrazione della cosa pubblica che non si accontenta di adeguarsi semplicemente all’esistente e punta alla graduale estirpazione della illegalità e della corruzione, come anche al rafforzamento delle capabilities (cf A. Sen), ha un estremo bisogno di chi può aiutare a risanare e ad educare le coscienze, ossia delle comunità religiose che coltivano l’amore a Dio, la comunione con Lui, l’amore al prossimo. La città per vivere necessita di due polmoni, come ogni persona. Vivere senza un polmone – o solo con la comunità politica o solo con la comunità religiosa – rende un popolo più fragile, esposto a malattie, a fatiche superiori.
A proposito della scissione operata in epoca moderna tra società e religione non è forse maturo il tempo del suo superamento? Perché mettersi ad esercitare un dubbio metodico sulla forza di civilizzazione del cristianesimo? Perché voler indebolire la capacità di formazione delle coscienze da parte delle scuole cattoliche e delle altre istituzioni culturali, naturale espressione della libertà religiosa? Le comunità civili e politiche non possono vivere senza quell’ethos che è fermentato nella società dalle comunità religiose e che Gian Enrico Rusconi chiama «religione civile». Sarebbe come tagliarsi il ramo su cui si siede. Senza un tale ethos, le società civili e politiche si ridurrebbero ad intelaiature di leggi procedurali e di provvedimenti normativi, privi di autentica carica identitaria, poveri di forza integrativa a livello civile. A differenza di Gian Enrico Rusconi che propone come base delle comunità una religione civile priva di contenuti etici oggettivi ed universali,2 il cardinale Joseph Ratzinger rivendica per essa un carattere tutt’altro che storicistico ed immanentistico. Il «cuore etico» della religione civile è tenuto in vita da una razionalità aperta alla Trascendenza, a beni-valori oggettivi ed universali, pena la mancanza di punti di riferimento certi per il diritto e la giustizia, nonché per il bene comune.3 La religione civile di cui ha bisogno ogni società, non può vivere staccata dalle comunità religiose concrete. Senza di esse svigorisce o imbastardisce.4
Per Benedetto XVI, il cattolico deve partecipare al dialogo pubblico cosciente che valori fondamentali, come il rispetto e la difesa della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale, la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, la libertà di educazione dei figli e la promozione del bene comune in tutte le sue forme sono valori fondamentali ed imprescindibili,5 perché espressione e contenuto stesso della dignità umana, pilastro fondamentale della democrazia, che non può essere messo ai voti.6 Tali valori sono per sé accessibili alla ragione umana di tutti, quando essa sia esercitata secondo i diversi gradi del sapere, ossia anche nella sua dimensione veritativa, capace di misurare i desideri fattuali del soggetto agente alla luce del bene umano o telos normativo.
Il patrimonio di fede dei credenti, fondabile con un doppio ordine di motivazioni, razionali e sovrarazionali, rende il loro apporto ancor più pertinente, perché mossi da una ragione resa più retta dalla fede.7 Una religione civile che includa i suddetti valori, debitamente comunicata ed argomentata, arricchisce il dialogo pubblico sul piano di una razionalità più vera e più umanizzante.
Ebbene, a fronte di una politica gravemente in crisi e dei molteplici problemi che affliggono l’umanità in maniera persistente e profonda, al punto che i diversi tentativi per risolverli appaiono spesso vani, non resta che riconoscere, come confessavano gli antichi: «Ormai solo un Dio ci può salvare». In una celebre intervista, echeggiando la sapienza di chi l’aveva preceduto, Heidegger sosteneva che nulla, né la filosofia né alcuna altra intrapresa umana, poteva produrre un significativo cambiamento del mondo se non Dio.8
Il Natale imminente ci ricorda l’importanza della presenza di Dio nell’uomo e nella storia. Proprio qui poggia la speranza di poter trasfigurare e rafforzare l’impegno per il bene comune. Proprio qui si trova la radice di un nuovo umanesimo e la possibilità di forgiare una buona politica.
Qui sta la ragione di un augurio reciproco, perché nella divinizzazione dell’umano è posto in maniera irrevocabile il fondamento e il principio della riabilitazione o trasfigurazione della politica.
A tutti voi, ai vostri cari, ai vostri collaboratori, alle vostre comunità, l’augurio di un Natale particolarmente lieto e sereno, illuminato dalla luce del Verbo incarnato.
1 Cf J. M. Bergoglio, Noi come cittadini. Noi come popolo. Verso un bicentenario in giustizia e solidarietà. 2010-2016, Libreria Editrice Vaticana-Jaca Book, Città del Vaticano-Milano 2013.
2 Cf G. E. Rusconi, Quelle verità che non accetto, in «Fondazione Liberal», 5 (2001) 142-143. Per una riflessione più articolata e recente, sempre del medesimo Autore si veda Non abusare di Dio, Rizzoli, Milano 2007.
3 Riflessioni sulle posizione di G. Enrico Rusconi e del cardinale J. Ratzinger si possono trovare in M. TOSO, Stato laico, comunicazione dialogica e culturale, religione, in «Studium», (2007), n. 5, pp. 669-695.
4 Cf J. Ratzinger, Lettera a Marcello Pera, in M. Pera-J. Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Mondadori, Milano 2004.
5 Cf Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 83, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007.
6 Se la democrazia, attuando il principio della maggioranza, prevarica relativamente ai grandi valori che la sorreggono, compie un suicidio. La politica è arte della mediazione ma esiste un confine preciso oltre il quale non si può andare. Non si può trattare su tutto e in qualsiasi maniera, mettendo a repentaglio le fondamenta su cui si intende costruire la casa di tutti.
7 Benedetto XVI, nell’enciclica Deus caritas est, afferma che la fede è una forza purificatrice per la ragione che, liberata dai suoi accecamenti, svolge meglio il proprio compito (cf Benedetto XVI, Deus caritas est, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, n. 28).
8 Cf M. HEIDEGGER, Ormai solo un Dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987, p. 136.