Forlì, Istituto Superiore di Scienze religiose, martedì 11 ottobre 2022.
Eccellenze Reverendissime, Signor Preside, illustri docenti, cari studenti, personale addetto, all’inizio di quest’anno accademico dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose «S. Apollinare» celebriamo la memoria liturgica di san Giovanni XXIII. Come dice la colletta, che abbiamo pregato, con la sua vita ha fatto risplendere in tutto il mondo l’immagine viva di Cristo, buon pastore. Perché san Giovanni XXIII è vissuto in questo mondo come una persona capace di mostrare Cristo vivente nella storia? Perché con gli occhi della fede ha saputo vederLo operante nell’umanità come Colui che raduna un popolo numeroso e lo conduce, attraverso il tempo, verso la Gerusalemme celeste. Papa Roncalli, persona sorridente, dalla corporatura robusta, con i piedi ben piantati per terra, possedeva uno spirito contemplativo ben coltivato. Vedeva al di là delle varie vicende umane e delle apparenze. Il suo sguardo scendeva nelle profondità della storia, sino a coglierne, quale vero profeta, le direzioni prime. Coglieva il dinamismo del popolo dei redenti, portatore di energie vivificatrici per l’umanità. Vedeva il farsi del Regno di Dio, assieme alle difficoltà del suo affermarsi, per la presenza di forze che allontanavano la famiglia dei popoli dalle prospettive del Vangelo. Riteneva che l’inserirsi della Chiesa nei popoli avesse riflessi positivi, capaci di liberare e di sprigionare il meglio degli uomini, figli di Dio. Gli esseri umani diventando cristiani non possono non sentirsi impegnati ad innalzare istituzioni e ambienti dell’ordine temporale atti a servire il bene comune: sia perché in essi non venga lesa la dignità umana, sia perché vengano eliminati e ridotti gli ostacoli al bene e moltiplicati gli incentivi e gli inviti ad esso. La Chiesa, inserendosi nella vita dei popoli non è né si sente mai un’istituzione che venga imposta dal di fuori. Ciò è dovuto al fatto che la sua presenza si concreta con la rinascita o la risurrezione dei singoli esseri umani in Cristo; e chi rinasce o risorge in Cristo non si sente mai coartato dall’esterno, si sente invece liberato nel più profondo di sé stesso e cioè aperto verso Dio; e quanto in lui rappresenta un valore, qualunque ne sia la natura, viene riaffermato e nobilitato (cf Mater et magistra, nn. 188-189). Con queste convinzioni, papa Giovanni pensò di indire il Concilio Vaticano II. Indicendolo gli assegnava il compito basilare di «mettere a contatto con le energie vivificatrici e perenni del Vangelo il mondo moderno».[1] Un tale mondo non è da condannare a priori, bensì è realtà da ascoltare attentamente. In esso occorre discernere i «segni del tempo». Vi sono da scorgere i semi del Verbo per trovare in essi l’impronta e la direzione di una crescita in linea con le esigenze del Regno. Giovanni XXIII volle prendere le distanze dai «profeti di sventura» per cogliere positivamente l’azione di Dio nel corso delle vicende umane. Nella costituzione apostolica Humanae salutis (=HS), con cui indice il Concilio ecumenico Vaticano II, così Giovanni XXIII si esprime: «Anime sfiduciate non vedono altro che tenebre gravare sulla faccia della terra. Noi, invece, amiamo riaffermare tutta la Nostra fiducia nel Salvatore nostro, che non si è dipartito dal mondo, da Lui redento. Anzi, facendo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i segni dei tempi (Matteo 16,3), ci sembra di scorgere, in mezzo a tante tenebre, indizi, non pochi, che fanno bene sperare sulle sorti della Chiesa e della umanità» (HS, 25 dicembre 1961).
L’animo giovane e trasparente del papa buono – non certo un animo ingenuo, bensì realista, fiducioso nella presenza del Risorto nel mondo – sollecita la Chiesa ad un discernimento comunitario dei segni del tempo, per essere popolo che cammina in modo missionario, applicato alla costruzione del Regno. Sia che siamo realtà rilevante sia che siamo realtà piccola, il nostro compito è sempre questo: cogliere il principio e il senso ultimo della storia, grazie alla Parola e all’Eucaristia, sacramento della presenza reale permanente, personale ed efficace del Signore in mezzo ai suoi in atto di Pasqua; decidersi di collaborare col Risorto nel compimento della nuova creazione da Lui iniziata con l’incarnazione.
Nel contesto contemporaneo, come atto esemplare di ricapitolazione di tutte le cose in Cristo, appare attualissima la memorabile enciclica Pacem in terris della quale il prossimo anno ricorrerà il sessantesimo anniversario. Oggi, come nel 1962, siamo sull’orlo di una guerra nucleare. La guerra tra Russia e Ucraina non si pone sicuramente come azione a servizio del Regno di Dio. Dobbiamo riconoscere che l’enciclica Pacem in terris non è stata assimilata e messa in pratica dagli stessi popoli cristiani. Abbiamo ancora molto da lavorare per creare una cultura di pace.
Del Risorto, presente nella storia e attivo nella realizzazione della nuova creazione, dobbiamo allora continuare a fare memoria anche in questa Eucaristia d’inizio anno accademico. Essere qui significa rinnovare la comunione con Cristo, principe della pace, fonte di una nuova cultura, della quale, in un contesto di agnosticismo morale, se ne sente un estremo bisogno. Per noi che viviamo un nuovo periodo di studio, di ricerca, di fede che diventa cultura, non dimentichiamo la decisività dell’Eucaristia, la sua centralità nella nostra vita di Chiesa, di docenti e di studenti. La memoria dell’atto della Pasqua è memoria dell’incarnazione, della morte e della risurrezione di Cristo. Cristo non si è assentato dalla storia. Egli continua ad essere presente con il suo Spirito rinnovatore. Dalla partecipazione quotidiana alla sua incarnazione, morte e risurrezione, deriva a noi l’impulso alla ricezione piena del suo Spirito trasfiguratore. L’Eucaristia vissuta con fede viva ci aiuta a generare un nuovo pensiero pensante, non strumentale e non violento; a creare una cultura che si commisura alle res novae, e diviene una «cultura di popolo» che cammina insieme e che fa della storia tribolata e complicata una storia di salvezza. È l’Eucaristia accolta, pensata e celebrata che ci fa uscire da una cultura meschina, dalle presenze insignificanti e insipide nella storia, presenze timorose della verità e, quindi, delle nostre stesse identità. Chiediamo a san Giovanni XXIII la grazia di essere sempre attenti e immersi nell’atto della Pasqua, principio e forza di ogni vero servizio di cultura che perennemente si rinnova e si adegua secondo la misura della Caritas in veritate, dell’Amore pieno di verità.
+ Mario Toso
[1] GIOVANNI XXIII, Costituzione Humanae salutis, 25 dicembre 1961.