Omelia nella Messa per la Solennità di S. Donnino Cattedrale di S. Donnino
Eccellenza Reverendissima Mons. Ovidio Vezzoli, autorità civili e militari, cari fratelli e sorelle nel Signore, cari presbiteri, è un onore essere qui per venerare, assieme a voi, il santo martire Donnino nel giorno della sua festa. Mi unisco umilmente, quale pellegrino, ai tanti credenti che nei secoli scorsi sono venuti a pregarlo, attratti dalla grandezza della sua testimonianza cristiana. Sul luogo del suo martirio e sulla sua tomba sono sorti, dopo una prima chiesetta, altri edifici sino alla splendida chiesa dei secoli XII-XIII, in risposta al bisogno della devozione dei fidentini, ma anche dei numerosi pellegrini che vi sostavano percorrendo la via Francigena. Attorno al luogo del martirio di Donnino sorse una comunità. Si pensi che fino al 1927 questa città si chiamava Borgo S. Donnino! A dire lo stretto legame che univa Donnino a Fidenza. Il nome Donnino rappresentava la comunità intera, sia dal punto di vista civile sia dal punto di vista religioso. Non a caso oggi lo festeggiamo come patrono della città e della Diocesi di Fidenza.
Donnino fu amministratore dei beni della Camera dell’imperatore Massimiano. Aveva anche l’incarico di porre la corona sul suo capo nei momenti dell’esercizio del suo potere regale. L’imperatore era, allora, ritenuto un dio. Divenuto cristiano e non volendo rinnegare la propria fede, Donnino lasciò l’onorifico e sicuro incarico imperiale. In altri termini, rifiutò di obbedire all’imperatore piuttosto che rinunciare alla propria fede religiosa. Da quel momento l’imperatore incominciò a perseguitarlo. Mentre si dirigeva con alcuni compagni cristiani alla volta di Roma venne raggiunto dai sicari di Massimiano. Come racconta la tradizione fu decapitato sulle rive del torrente Stirone.
Una volta sepolto, Donnino venne cercato e pregato non solo per i miracoli che compiva, ma soprattutto perché con il suo martirio faceva capire e «vedere» chi era Gesù Cristo, il martire più grande, il Salvatore. A coloro che, come i Greci, chiedevano ai discepoli di far loro vedere Gesù, Donnino lo mostrò ai fedeli e ai pellegrini, con la gloriosa testimonianza del suo martirio. Al pari del Figlio dell’uomo – chicco di grano che cadendo in terra e morendo ha prodotto molto frutto, ossia ha adunato un popolo nuovo (cf Gv 12, 20-28) – anche Donnino ha riunito attorno a sé un popolo sempre più numeroso. Tant’è che si dovette procedere all’ampliamento progressivo della prima chiesetta. Come affermava Tertulliano, il sangue dei martiri diviene semente di nuovi cristiani.
Ecco, dunque, un primo insegnamento che possiamo trarre oggi dal martirio di Donnino e dalla venerazione del suo corpo: le nostre comunità, talora chiuse in sé stesse e, quindi, morenti per asfissia o per accidia, possono crescere ed essere gioiosamente missionarie se sono aiutate a vedere o, meglio, se sono condotte a contemplare e ad amare Gesù Cristo crocifisso, morto martire in croce, donando tutto sé stesso al Padre. Donnino, da persona posta al servizio dell’imperatore, convertendosi al cristianesimo divenne credente, persona completamente consacrata a Cristo. Con il suo amore supremo ed eroico per Gesù fu missionario, persona che lo faceva «vedere», lo annunciava con la sua luminosa testimonianza.
L’amore per il Signore Gesù in Donnino non fu scalzato dal culto all’imperatore, ossia da una vita a servizio degli idoli. L’amore a Gesù ebbe il primato, al punto da sollecitare Donnino a dare la sua vita per Lui. Donnino aveva ben compreso le parole del Vangelo di Giovanni che abbiamo udito: «Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire mi segua e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà» (Gv12, 25-26).
Ecco, dunque, un secondo insegnamento per noi cristiani che oggi spesso non solo ci mostriamo piuttosto indifferenti nei confronti di Dio e del Figlio suo ma giungiamo a creare in noi una pericolosa separazione tra fede e vita. E così la nostra identità finisce per essere frammentata, facendoci perdere il senso e l’unitarietà dell’esistenza, aprendo la porta al culto delle cose, magari importanti ma non equiparabili a Dio. L’amore incondizionato a Dio, al contrario, non distrugge la nostra vita, la nostra identità, bensì le rafforza, le orienta più decisamente verso il Bene e la Bellezza supremi. Chi ama Gesù Cristo sopra ogni cosa fa giungere la sua vita all’approdo della pienezza di Dio, che vive in eterno. Chi vuole avere la sua vita per sé, vivere solo per sé stesso, stringere tutto a sé perde la vita. Soltanto nell’abbandono di sé stessi, soltanto nel dono disinteressato dell’«io» in favore del «tu», soltanto nel «sì» alla vita più grande di Dio, la nostra vita fiorisce. Questo «principio» fondamentale, che il Signore pone e realizza per noi con la sua morte e risurrezione è semplicemente il principio dell’amore cristiano. L’amore significa lasciare sé stessi, donarsi, non voler possedere sé stessi, ma diventare liberi da sé: non ripiegarsi su sé stessi, ma guardare avanti, verso l’«altro», verso Dio e il prossimo. Questo «principio» dell’amore, che definisce il cammino dell’uomo, è in ultima analisi identico al mistero della croce, al mistero di morte e risurrezione che incontriamo inverato in Cristo crocifisso. Ma non dimentichiamo: non si tratta di riconoscere semplicemente un «principio». Si tratta di vivere Cristo, la verità della sua croce e della sua risurrezione. Il Signore ci chiede, in ogni momento della nostra vita, di abbandonare il nostro io, di partecipare alla sua Pasqua. Non esiste una vita riuscita senza il sacrificio del Figlio di Dio. Per giungere al nostro compimento dobbiamo toccare, abbracciare la Croce di Cristo.
Quando tocchiamo la Croce, anzi, quando la portiamo e viviamo in essa, tocchiamo il mistero di Dio, il mistero di Gesù Cristo. Il mistero che Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito per noi (cf Gv 3, 16). Tocchiamo il mistero meraviglioso dell’amore di Dio, l’unica verità realmente redentrice. Tocchiamo il principio costitutivo della nostra vita, cioè il fatto che senza il «sì» alla Croce, senza il camminare in comunione con Cristo crocifisso e risorto, giorno dopo giorno, la vita non può riuscire. Quanto più per amore della grande verità e del grande amore di Dio possiamo vivere il sacrificio di Gesù Cristo, presente nell’Eucaristia, in atto di Pasqua e di dono, tanto più grande e più ricca diventa la nostra vita. Chi vuole riservare la sua vita per sé stesso, la perde. Chi dona la sua vita quotidianamente, anche nei piccoli gesti, la trova.
Preghiamo e ringraziamo san Donnino che con la sua gloriosa testimonianza di martire ci fa sempre «vedere» Gesù, tutto il suo amore per il Padre e l’umanità. Un tale amore guidi i nostri passi missionari, annunciatori e testimoni di una speranza più grande delle nostre vite. Usciamo dalle nostre timidezze, dalla banalità. Siamo segno del Regno di Dio nelle responsabilità sociali, politiche, economiche, culturali, ecologiche. Siamo cittadini responsabili, attivi, pensosi, intraprendenti per il bene comune, bene di tutti. La nostra fede in Cristo Gesù, morto e risorto, la nostra comunione con Lui non ci rende presenza insipida. Non abbiamo, allora, paura di dare fastidio, ma piuttosto siamo lievito potente di una nuova umanità, in ogni situazione, per rendere più attuale la nuova creazione, che Cristo ha iniziato con la sua Incarnazione. Con san Donnino adoriamo l’unico Signore. Seguiamo la sua via, perché Lui è la nostra pace.
+ Mario Toso