La nostra vita, ci insegna il profeta Isaia, è una vocazione. Siamo chiamati e inviati a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore (cf Is 61, 1-2.10-11).
L’impegno o missione di ogni uomo su questa terra è, dunque, vivere un servizio d’amore per liberare i fratelli da mali spirituali e corporali, per costruire spazi ove le persone possano compiersi umanamente. L’aiuto di Dio è indispensabile, irrinunciabile. Solo Lui rende più vivo il desiderio del bene per l’altro, considerato un altro me stesso, e dà la capacità d’amarlo secondo la sua altissima dignità, con la misura d’amore che ci è indicata da Gesù: amatevi come io vi ho amati.
A fronte di tante scelte a cui la nostra società è chiamata a fare e a fronte delle soluzioni prodotte in campo economico, sociale e politico sorge naturale chiedersi se davvero le parole di Isaia e di Gesù Cristo trovano ospitalità nelle nostre visioni, nei nostri progetti, nelle nostre legislazioni. Quando potremo incarnare nella nostra società le prospettive tratteggiate dal profeta Isaia? Potremo crescere in civiltà o ci attendono giorni sempre più inospitali per i malati, i deboli, i carcerati, i disoccupati, i nascituri? Quando riusciremo a rendere felici i miseri, offrendo a loro la concreta possibilità del riscatto? Quando consoleremo, con tutte le nostre forze, le persone devastate dalle sofferenze morali e fisiche? Quando combatteremo ogni forma di schiavitù e di strumentalizzazione delle persone? Quando creeremo condizioni di libertà per chi viene oppresso ed è ingiustamente emarginato dalla società, dalla partecipazione al bene comune? Quando saremo annunciatori gioiosi del Signore che ci rende più capaci di vero, di bene e di Dio?
La parola di Dio ci sollecita a generare felicità, ad essere artefici di giustizia e di gioia nel mondo. Sia Isaia sia san Paolo ci esortano a rendere le nostre esistenze un giardino fiorito, ad essere sempre lieti (cf 1 Ts 5, 16-24). Evidentemente tutto ciò non avviene per magia, non capita per puro caso. Occorre pregare ininterrottamente, con un animo sempre grato per il bene ricevuto da Dio. Occorre non spegnere lo Spirito, vagliare ogni cosa, tenere ciò che è buono, astenersi da ogni genere di male. Solo la comunione assidua con Dio può staccarci dalle abitudini negative che ci rendono gradualmente schiavi ed insensibili rispetto al bene.
Come abbiamo ben inteso, la parola di Dio, rispetto all’enorme quantità di messaggi negativi che ci sovrastano, è piena di annunci positivi, di prospettive di rinascita. Intende educare alla speranza. Sebbene viviamo in mezzo al male non bisogna mai arrendersi, non essere pessimisti. C’è sempre in noi la radice del bene che può consentire di rialzarci e riprendere un cammino di piena libertà e di pace. C’è soprattutto Lui.
I nostri migliori pensatori, illuminati dalla fede, hanno descritto che la nostra condizione è quella di coloro che sono costantemente impegnati nella realizzazione di un umanesimo tragico ed eroico. Tragico, perché il male ci prende e ci fiacca sempre. Eroico, perché facendo leva sul bene che Dio ha seminato in noi, e sull’aiuto del suo Spirito, abbiamo la reale possibilità di una rivincita e di una progressiva liberazione integrale. Noi siamo sempre, nonostante tutte le devastazioni, terra che produce nuovi germogli. Ogni anno, ogni giorno, Dio viene ed è in noi. Non è solo uno di noi. È presente in noi come Dio. È Lui che nella parte più intima del nostro essere ci sospinge al bene. Occorre che ci rendiamo, allora, sempre più disponibili nei confronti del suo grande amore e dell’altissima vocazione di figli suoi. La sua frequentazione, l’esperienza del suo amore, ci rendono più sensibili per il bene di ogni persona, meno frettolosi e sommari nel trovare le soluzioni ai vari problemi, specie a quelli fondamentali.
La legge sul “fine vita”, recentemente approvata in Senato, appare proprio un atto affrettato, che ha affrontato una questione delicatissima e complessa in maniera spiccia e pericolosa, senza passare attraverso il dovuto confronto e quei perfezionamenti che erano indispensabili. La legge recentemente varata, infatti, appare formulata in modo da non fugare possibili forzature, aperture a derive verso l’eutanasia almeno omissiva. La legge, infatti, non parla mai di eutanasia o di suicidio assistito e, dunque, è da ritenersi infondata ogni interpretazione in questo senso. Ma, allora, se la legge non consente né l’una né l’altra pratica, perché non le ha vietate espressamente?
Inoltre, l’esautoramento dei medici rompe l’alleanza terapeutica tra il paziente e chi dovrebbe curarlo con scienza e coscienza. Essa pone, a ben capire, limitazioni incostituzionali alla libertà di obiezione di coscienza. Nella legge, infatti, manca una vera “obiezione di coscienza” fondata su un diritto soggettivo perché il sanitario è tenuto a “rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo” e “in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale” che dall’ordinamento giuridico è connessa all’omicidio del consenziente e all’aiuto al suicidio.
Una legge sul fine vita era necessaria, ma quella che è nata sembra sia stata approvata non per servire con scrupolo e coraggio il bene delle persone, che spesso si trovano di fronte al male non adeguatamente supportate dall’affetto e dall’accompagnamento dei propri simili. L’impressione è che siano stati accelerati i tempi per ragioni esclusivamente politiche, trascurando di offrire al Paese una legge più umana e civile, giungendo anche a definire una «terapia» l’idratazione e la nutrizione artificiali, e cioè il mangiare e il bere per esempio attraverso un sondino, che, invece, costituiscono un diritto naturale. Può, dunque, essere legale la morte per fame e per sete di un ammalato non terminale, di un disabile o di un paziente in stato di incoscienza anche temporanea?
In questi ultimi tempi, ma non solo, la legislazione italiana sulla vita e sulla famiglia, si muove con profili sempre più lontani dalla concezione evangelica della persona, della sua libertà fatta per il dono e per il bene. Non solo. Passo dopo passo ci si discosta sempre più dalla legge morale naturale scritta nella coscienza di credenti o non credenti. In sostanza, nessuna autorità politica ha diritto di decidere se una persona può togliersi la vita, e tanto meno farsi parte attiva in questo tragico proposito.
Potrebbe subentrare lo scoraggiamento, vedendo come gli appuntamenti cruciali per formulare buone legislazioni siano disattesi mediante consociativismi poco propensi ad attenersi alla ragione. Rispetto alle derive eutanasiche appaiono più commisurate, nel caso del fine vita, le cure palliative, l’obiettivo sempre valido del non accanimento terapeutico, peraltro previsto dalla stessa legge, ma soprattutto, la vicinanza dei familiari e delle persone care, adeguatamente supportate dalla comunità civile e politica. E, poi, perché non doveva essere ragionevole applicare, per quanto concerne i medici, il loro codice deontologico?
Con il Natale Dio ci vuole assicurare, ancora una volta, che Egli è con noi, in noi, impegnato nella trasfigurazione del mondo. Perché, allora, una nuova primavera non si afferma pienamente nel mondo? Non vi sono dubbi. Manca la nostra parte, il nostro apporto. Nell’Eucaristia che ci apprestiamo a celebrare, il Figlio di Dio, viene per rinnovare la faccia della terra, per consentirci di essere umanità redenta. In questo modo, ciascuno di noi ospita i germi di una primavera perenne, carica di promesse e di speranza. Non vanifichiamola con l’incoerenza della nostra vita. Non neutralizziamo in noi e nel mondo quel rinascimento di cui il Salvatore è principio. Egli ci aiuti.