Cari fratelli e sorelle,
celebriamo oggi la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, due giganti della Chiesa, fratelli nella fede, diversi per carattere e per approccio alla nascente esperienza cristiana, eppure uniti nello stesso amore a Cristo, creduto e donato a tutti, sino al martirio. Quando ci rechiamo a Roma, a visitare la Basilica di san Pietro, due imponenti statue ce li raffigurano uno con le chiavi, simbolo del potere di rimettere i peccati, e l’altro con la spada, lo strumento con cui fu ucciso. Entrambi hanno servito la Chiesa, ognuno a modo proprio, con un proprio ministero, vivendo per Cristo.
È quanto mai istruttivo seguire i testi della liturgia odierna per cogliere la coscienza di questi due sommi apostoli, entrambi perseguitati per il loro amore a Cristo. La loro consapevolezza di essere sempre aiutati dal Signore ci è di conforto tra le molteplici prove della vita.
Pietro viene imprigionato dal re Erode, per far piacere ai Giudei che lo odiavano e lo volevano morto. Ma, nella notte, prima di essere presentato al popolo, venne liberato da un angelo sfolgorante, mentre dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui. Tutto avviene nella fretta. Pietro era tra il sonno e uno stato di dormiveglia. Appena liberato, riavutosi, così si esprime: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva» (At 12, 11).
Paolo, l’apostolo delle genti, invece, sta per essere decapitato. Ecco qual’è il suo stato d’animo: «[…] io sto per essere versato in offerta… Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede… Il Signore mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno…».
Sia Pietro sia Paolo attribuiscono a Dio la loro liberazione. Dio libera i suoi discepoli da ogni male, dalla persecuzione, dalla prigionia e dalla stessa morte che essi subiscono.
Ancora oggi la Chiesa è sottoposta a persecuzioni. In tante parti del mondo è Chiesa di martiri. Basta essere cristiani per diventare bersaglio di coloro che odiano Cristo e la sua Croce. Anche nei nostri Paesi occidentali, la Chiesa sembra debba prepararsi a sostenere attacchi tesi a ridurre la sua libertà di espressione. Basti pensare che in Italia giacciono in parlamento progetti di legge secondo i quali se qualcuno, pastore o credente, sostenesse pubblicamente che la famiglia vera è solo quella fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna – come peraltro è riconosciuto nella costituzione italiana – sarebbe dichiarato omofobo, intollerante e razzista, soggetto da perseguire penalmente. Evidentemente, i credenti hanno il compito di impegnarsi per influire affinché non vadano in porto simili progetti illiberali e intolleranti.
Per i credenti che lottano per il bene e per la giustizia, viene dai testi biblici, che abbiamo sentito proclamare, questa consolazione: Dio è vicino ai suoi fedeli servitori. Li libera da ogni male. Libera la Chiesa dalle potenze negative del male.
Se pensiamo ai due millenni di storia della Chiesa, occorre riconoscere che se non sono mai mancate le persecuzioni, non è neanche mai mancato l’aiuto del Signore. Egli non ha lasciato soccombere la sua stirpe. Però, come per tutti i beni, anche la libertà della Chiesa non è mai un dato scontato e definitivo. Essa va sempre ricercata e difesa. Il nostro non dev’essere il metodo della lotta contro le persone che la pensano diversamente da noi. È, piuttosto, il metodo della lotta per il bene e la giustizia, scendendo anche in piazza se occorre, come è avvenuto recentemente, a favore della famiglia. Altre opere di giustizia, di diversa portata, vanno realizzate là ove è pregiudicata la stessa esistenza fisica delle comunità cristiane, come in Medio Oriente, in Paesi arabi e in Africa. Purtroppo dobbiamo lamentare, da parte dei grandi della terra, indifferenza, lentezza. Spesso volgono lo sguardo altrove.
Ma le persecuzioni, malgrado le sofferenze che provocano, non costituiscono ancora il pericolo più grave per la Chiesa. Spesso i pericoli peggiori vengono dal di dentro. Il danno maggiore che la Chiesa subisce proviene da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, deturpando la bellezza del suo volto. La seconda Lettera a Timoteo di cui abbiamo ascoltato un brano, parla di pericoli degli «ultimi tempi», identificandoli con atteggiamenti negativi che appartengono al mondo e che possono contagiare la comunità: egoismo, avarizia, vanità, orgoglio, idolatria del denaro, superbia, attaccamento ai piaceri più che a Dio (cf 3, 1-5). Venendo più vicini a noi, papa Francesco nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium non esita ad elencare una lunga serie di pericoli o tentazioni che assediano e aggrediscono i credenti, gli operatori pastorali. Ne elenchiamo alcuni: essere mummie da museo e non cristiani vivi e ricchi di missionarietà, vedere solo rovine e nessun germe di bene, lasciare progredire la desertificazione spirituale, pensare di vivere senza Cristo, rinchiudersi nella conservazione dell’esistente, amare un Gesù Cristo senza carne e senza impegno con l’altro, non credere realmente e fattivamente nella fraternità, lasciarsi rubare la comunità, il Vangelo; dominare lo spazio della Chiesa, nel senso di impadronirsi di Cristo attribuendolo solo a se stessi e al proprio gruppo, ostracizzando gli altri.
Comunque sia, i discepoli assediati, attaccati dall’esterno e dall’interno, non devono perdersi di animo. Le forze del male non prevarranno sulla Chiesa (cf Mt 16,18). Questa è la promessa di Gesù Cristo. Il Signore è sempre con i suoi discepoli per salvarli. Con il suo amore li rigenera e li trasfigura. La condizione perché tutto questo avvenga è una sola. Essere, come Pietro e Paolo, di Cristo, vivendolo, donandolo. Essergli, cioè, fedeli sino alla morte, per poter dire anche noi: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede». Lasciamoci costruire come suo Corpo, nell’unità e nella comunione. Nutriamoci alla sua mensa eucaristica, per avere la sua forza di amare.