OMELIA per la MESSA VESPERTINA DI PASQUA

Faenza - Basilica Cattedrale, 5 aprile 2015
05-04-2015
Il brano di Vangelo (cf Lc 24, 13-35), che abbiamo appena udito proclamare, è davvero importante per comprendere la trasformazione che opera la Pasqua nei discepoli di Cristo, ma anche per capire la centralità dell’Eucaristia per la vita della Chiesa. È l’Eucaristia che fa la Chiesa e i credenti, come peraltro sono loro che celebrano  e fanno l’Eucaristia.
La vita dei credenti può essere ben rappresentata dai due discepoli di Emmaus. Mentre si allontanavano da Gerusalemme ed è già incominciato – grazie alla morte e risurrezione di Cristo – un mondo nuovo, essi sono ancora rinchiusi nel mondo vecchio.
È davvero paradossale. Discepolo vuol dire seguace, colui che si sforza di mettere i piedi sulle orme del maestro. I piedi, invece, dei due discepoli, diretti a Emmaus, sono lontani anni luce dal Risorto. Stanno percorrendo la strada come persone tristi, come chi è morto dentro ed è nella disperazione. L’avventura di seguire Gesù di Nazareth come discepoli era terminata tragicamente e bruscamente.
Sebbene Gesù si avvicina a loro non lo riconoscono. I due viandanti hanno la sorgente della luce accanto, ma nemmeno se ne accorgono. «Essi non lo riconobbero, perché i loro occhi erano come accecati».
Che cosa li accecava e li rendeva incapaci di leggere il presente, di capire con chi si accompagnavano? Che cosa impediva a loro di comprendere che tutto era cambiato e che una nuova storia, per loro e il loro popolo, era iniziata? Erano chiusi ermeticamente nei loro pensieri e progetti. «…Noi – risponde Cleofa a Cristo che li interrogava  a riguardo dei ragionamenti che stavano facendo sull’uccisione e sulla crocifissione di Gesù – speravamo che fosse lui a liberare il popolo di Israele».
I due discepoli di Emmaus vivevano nel passato ed erano vittime del messianismo dei dotti, dei farisei, degli scribi e dello stesso popolino, i quali attendevano un liberatore potente, con apparati di controllo e di governo, capace di riscattare l’umiliazione del popolo ebreo dominato dai romani. Essi aspettavano un Messia forte, nazionalista, miracolista, proiezione dei loro desideri umani e terreni.
A fronte di quanto era avvenuto a Gerusalemme erano rimasti profondamente delusi. Gesù aveva scelto un altro tipo di messianismo, quello del rifiuto del potere – proposto da Satana che l’aveva tentato nel deserto -, ossia quello dell’accettazione dell’amore, proposto dal Padre. Gesù scelse un messianismo che comportava essenzialmente il sacrificio, il sangue, l’ignominia della croce. È proprio questo che i due discepoli non potevano capire e mandare giù, tanto più che si era ormai al terzo giorno, per cui non c’era più nulla da sperare.
I due discepoli erano così incupiti e rabbuiati nel loro spirito che non erano in grado di decifrare e capire ciò che alcune donne del loro gruppo avevano riferito, e cioè che andando al sepolcro di Gesù l’avevano trovato vuoto e avevano udito angeli che dicevano che il Maestro era vivo.
Chi è riuscito a liberare i due discepoli dalla loro cecità? Gesù stesso: spiegando le Scritture, ricostruendo nella loro testa, tratto dopo tratto, la figura del vero Messia. E così i due si ricredono, sino a credere la risurrezione di Gesù. Dobbiamo constatare che a questo punto i discepoli credono sì in Gesù risorto, ma non sono ancora arrivati a riconoscerlo nel loro compagno di viaggio. Ci vuole un’esperienza più profonda per percepirlo presente. Intanto, nel loro cuore, mentre Gesù, lungo la via, parlava e spiegava le Scritture, cresceva un fuoco che li illuminava, li purificava e li riscaldava, e nello stesso tempo li predisponeva ad accogliere e ad ospitare il loro compagno di viaggio ancora misterioso.
Ed è dopo che Gesù fece finta di voler continuare il viaggio per accrescere in loro il desiderio di trattenerlo – «Resta con noi perché si fa sera» – e dopo che si mise a tavola con loro, prese il pane e pronunciò la preghiera di benedizione, lo spezzò e cominciò a distribuirlo, che finalmente lo riconobbero. È solo allora che ai due ciechi spirituali si aprirono gli occhi. Il processo di riconoscimento di Gesù presuppone più cose: la familiarizzazione con la Parola e, poi, il rinnovo della Cena eucaristica, preceduto dal gesto dell’ospitalità, del servizio del povero. Per riconoscere pienamente Gesù occorre sempre mettersi sulla strada della Parola, dell’accoglienza del bisognoso e dell’Eucaristia.
Allo «spezzare del pane» si aprirono, dunque, i loro occhi. Ma appena lo riconobbero, il Cristo scomparve. La sparizione del Risorto non fa, però, piombare i due nella tristezza  e nella delusione. Piuttosto, li mobilita. Cleofa e l’amico si alzarono e ritornarono subito a Gerusalemme. Il fuoco non lascia in pace. Essi intendono portare la buona notizia agli apostoli, raccolti nel Cenacolo, terrorizzati «per timore dei giudei» e, poi, sconvolti dalle parole delle donne. A loro riferiscono di averlo riconosciuto «allo spezzare del pane»! Annunciano e testimoniano.
E, così, è la prima volta che la comunità nascente prende coscienza che l’Eucaristia è il luogo privilegiato dell’esperienza vitale del suo Signore. Non solo. L’Eucaristia, oltre a compattare i discepoli in una comunità, rendendoli Chiesa, li fa annunciatori e testimoni. È l’esperienza dell’Eucaristia che rende evangelizzatori e testimoni sino agli estremi confini della terra. Detto altrimenti, è impossibile essere comunità cristiana, essere cristiani, senza l’Eucaristia. Una simile coscienza era ben presente nei cristiani di Abitene. Essi hanno affrontato coraggiosamente la morte, pur di non rinnegare la loro fede nel Cristo risorto e non venir meno all’incontro con Lui nella celebrazione eucaristica domenicale. Uno di loro, il lettore Emerito, che li ospitò in casa sua, al proconsole che gli chiedeva perché li avesse accolti, contravvenendo alle disposizioni dell’imperatore Diocleziano, rispose: « Sine dominico non possumus»: non possiamo cioè, né essere né tanto meno vivere da cristiani senza riunirci la domenica per celebrare l’Eucaristia. Per i martiri di Abitene l’Eucaristia, celebrata nella domenica, era un elemento costitutivo della loro identità di credenti che annunciano e testimoniano Cristo. Il cristiano vive della celebrazione dell’Eucaristia, e questa richiede la presenza dei cristiani. Essi non possono sussistere l’uno senza l’altra, e viceversa.
Domandiamoci: noi cristiani del terzo millennio pensiamo di essere cristiani perché frequentiamo e celebriamo l’Eucaristia o pensiamo di poterlo essere anche senza l’Eucaristia domenicale? Oramai le percentuali dei credenti che osservano il precetto domenicale ci informano che il loro numero è progressivamente in calo e che molte delle nostre chiese sono prossime ad essere chiuse o a diventare al massimo dei musei. Noi e i nostri giovani viviamo il convincimento dei martiri di Abitene, e cioè che l’Eucaristia ci struttura come annunciatori e testimoni? Educhiamo i credenti ad identificarsi con la loro missione evangelizzatrice? Le nostre chiese si svuotano progressivamente, perché il precetto si è trasferito ai supermercati o alle stazioni sciistiche? Forse, anche in vista della presenza dei credenti all’Eucaristia, dobbiamo riconoscere di dover promuovere una nuova evangelizzazione e una nuova catechesi! Che i nostri santi patroni e i santi, che hanno reso la nostra città ricca di fede e di opere, ci aiutino!