Faenza - Seminario Diocesano, 11 febbraio 2015
11-02-2015
Dopo la grazia della dedicazione del nuovo altare della Cattedrale, sono molto lieto di poter dedicare anche il nuovo altare della Cappella del Seminario. Vedo tra questi due eventi un rapporto ideale, che unisce la Cattedrale, segno dell’unità della Chiesa locale, al Seminario dove idealmente si preparano i ministri dell’Eucaristia. Dico idealmente, perché di fatto la formazione avviene altrove, anche se qui si trova il luogo del primo discernimento vocazionale.
Dedicare un altare a Dio è un gesto che eleva il centro del tempio ad un significato preciso. Si afferma qui il primo comandamento: “Non avrai altro Dio fuori che me”; si afferma pure che esiste sulla terra un luogo che accoglie Dio; questo luogo è l’uomo Cristo Gesù, di cui l’altare è il segno.
Eppure aveva detto Gesù alla donna samaritana che “Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”. Questo vuol dire che gli adoratori in spirito devono arrivare a Dio nella verità di Cristo morto, risorto e presente nel mistero dell’Eucaristia. È Cristo risorto che ha voluto lasciare un segno in cui incontrarlo, un segno che noi possiamo toccare, mangiare e così nutrire la vita divina che è nata in noi dal Battesimo. Afferma Tertulliano: “Caro salutis cardo”: fondamento della salvezza è la carne di Cristo e tutto ciò che egli ha preso su di sé come uomo, eccetto il peccato. Questo è contro ogni spiritualismo.
Cristo ha voluto rimanere in mezzo a noi nella realtà del pane e del vino offerti in sacrificio, perché nutrendoci di essi noi diventassimo il suo Corpo misterioso che è la Chiesa. Questo è il realismo degli adoratori in spirito e verità.
Nel dedicare a Dio un altare di pietra, non intendiamo costituire nulla di diverso da quello che Dio stesso ha già costituito come altare, vittima e sacerdote, cioè Cristo Gesù. La lettera agli Ebrei con una allusione ai sacrifici del tempio di Gerusalemme ci presenta il sacrificio di Cristo offerto una volta per sempre, nella continuità di Cristo che è lo stesso ieri, oggi e per sempre. Questo è possibile perché egli è già nell’eternità e il suo rapporto con noi, che siamo nel tempo, risulta vincitore: noi cambiamo, ma Lui resta per sempre, in una perenne contemporaneità.
Il nostro altare, continua la lettera agli Ebrei, è diverso da quello del tempio antico. È vero che Cristo fu immolato fuori della porta della città, dove si bruciavano i corpi degli animali offerti in olocausto; ma all’infuori di questa piccola analogia, noi offriamo a Dio un sacrificio perenne di lode.
La prima Chiesa aveva capito che la vita nuova nasce dallo spezzare il pane: lì c’è l’insegnamento degli apostoli, ci sono le preghiere e la comunione dei beni, perché anche la vita sociale cambia per chi vive nella fede del Signore Gesù.
Il cammino di chi si prepara a offrire il sacrificio eucaristico trova la radice della propria formazione spirituale in ciò che avviene sull’altare: la Croce, la Parola, la Comunione.
Anzitutto qui c’è il sacrificio della Croce, che non si esaurisce sull’altare, ma entra nella vita: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,24s).
L’altare consacrato è riservato all’offerta dell’Eucaristia; così colui che consacra a Dio la propria vita la spende tutta per Lui e per il suo popolo. Prendere la propria croce vuol dire anche portare sull’altare tutte le croci che incontriamo nella giornata, le nostre e quelle della nostra gente. Le consegniamo al Signore Gesù che ha trasformato il senso della croce, perché in Lui trovino valore.
Accanto alla mensa dell’Eucaristia c’è la mensa della Parola. “E’ lui che parla, quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura” (SC,7). La Parola di Dio nell’Eucaristica ci rende presenti al mistero che si celebra, e con la grazia dello Spirito santo ci rende partecipi della vita eterna. Nel cammino formativo ci si avvicina ai misteri della fede non tanto per curiosità, ma per lasciarsi trasformare dalla loro grazia.
Infine “anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo” (Rm 12,5). La comunità cristiana viene costruita dal sacramento dell’unico pane spezzato.
Nella realtà della vita il presbitero vivrà questo mistero in due modi, che corrispondono alle sue due famiglie: la famiglia del presbiterio della Diocesi, che nasce dalla stessa ordinazione e dalla stessa missione, e la famiglia della comunità dove è inviato, nell’ambito della Chiesa diocesana, avendo tuttavia la sollecitudine per tutte le Chiese (P.O. n. 10).
Come l’altare anche il presbitero viene consacrato con il Crisma, segno dell’unzione dello Spirito Santo nel quale è stato unto lo stesso Cristo Gesù.
La Vergine Immacolata, che stava presso la Croce del Figlio partecipando al suo Sacrificio, ci accompagni in questo rito e accompagni quanti si preparano al ministero presbiterale. Maria sostenga con la sua intercessione la nostra fragilità. La Bianca Immacolata Madre del Signore ci sia accanto sempre all’altare e nella vita.
Dedicare un altare a Dio è un gesto che eleva il centro del tempio ad un significato preciso. Si afferma qui il primo comandamento: “Non avrai altro Dio fuori che me”; si afferma pure che esiste sulla terra un luogo che accoglie Dio; questo luogo è l’uomo Cristo Gesù, di cui l’altare è il segno.
Eppure aveva detto Gesù alla donna samaritana che “Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”. Questo vuol dire che gli adoratori in spirito devono arrivare a Dio nella verità di Cristo morto, risorto e presente nel mistero dell’Eucaristia. È Cristo risorto che ha voluto lasciare un segno in cui incontrarlo, un segno che noi possiamo toccare, mangiare e così nutrire la vita divina che è nata in noi dal Battesimo. Afferma Tertulliano: “Caro salutis cardo”: fondamento della salvezza è la carne di Cristo e tutto ciò che egli ha preso su di sé come uomo, eccetto il peccato. Questo è contro ogni spiritualismo.
Cristo ha voluto rimanere in mezzo a noi nella realtà del pane e del vino offerti in sacrificio, perché nutrendoci di essi noi diventassimo il suo Corpo misterioso che è la Chiesa. Questo è il realismo degli adoratori in spirito e verità.
Nel dedicare a Dio un altare di pietra, non intendiamo costituire nulla di diverso da quello che Dio stesso ha già costituito come altare, vittima e sacerdote, cioè Cristo Gesù. La lettera agli Ebrei con una allusione ai sacrifici del tempio di Gerusalemme ci presenta il sacrificio di Cristo offerto una volta per sempre, nella continuità di Cristo che è lo stesso ieri, oggi e per sempre. Questo è possibile perché egli è già nell’eternità e il suo rapporto con noi, che siamo nel tempo, risulta vincitore: noi cambiamo, ma Lui resta per sempre, in una perenne contemporaneità.
Il nostro altare, continua la lettera agli Ebrei, è diverso da quello del tempio antico. È vero che Cristo fu immolato fuori della porta della città, dove si bruciavano i corpi degli animali offerti in olocausto; ma all’infuori di questa piccola analogia, noi offriamo a Dio un sacrificio perenne di lode.
La prima Chiesa aveva capito che la vita nuova nasce dallo spezzare il pane: lì c’è l’insegnamento degli apostoli, ci sono le preghiere e la comunione dei beni, perché anche la vita sociale cambia per chi vive nella fede del Signore Gesù.
Il cammino di chi si prepara a offrire il sacrificio eucaristico trova la radice della propria formazione spirituale in ciò che avviene sull’altare: la Croce, la Parola, la Comunione.
Anzitutto qui c’è il sacrificio della Croce, che non si esaurisce sull’altare, ma entra nella vita: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,24s).
L’altare consacrato è riservato all’offerta dell’Eucaristia; così colui che consacra a Dio la propria vita la spende tutta per Lui e per il suo popolo. Prendere la propria croce vuol dire anche portare sull’altare tutte le croci che incontriamo nella giornata, le nostre e quelle della nostra gente. Le consegniamo al Signore Gesù che ha trasformato il senso della croce, perché in Lui trovino valore.
Accanto alla mensa dell’Eucaristia c’è la mensa della Parola. “E’ lui che parla, quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura” (SC,7). La Parola di Dio nell’Eucaristica ci rende presenti al mistero che si celebra, e con la grazia dello Spirito santo ci rende partecipi della vita eterna. Nel cammino formativo ci si avvicina ai misteri della fede non tanto per curiosità, ma per lasciarsi trasformare dalla loro grazia.
Infine “anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo” (Rm 12,5). La comunità cristiana viene costruita dal sacramento dell’unico pane spezzato.
Nella realtà della vita il presbitero vivrà questo mistero in due modi, che corrispondono alle sue due famiglie: la famiglia del presbiterio della Diocesi, che nasce dalla stessa ordinazione e dalla stessa missione, e la famiglia della comunità dove è inviato, nell’ambito della Chiesa diocesana, avendo tuttavia la sollecitudine per tutte le Chiese (P.O. n. 10).
Come l’altare anche il presbitero viene consacrato con il Crisma, segno dell’unzione dello Spirito Santo nel quale è stato unto lo stesso Cristo Gesù.
La Vergine Immacolata, che stava presso la Croce del Figlio partecipando al suo Sacrificio, ci accompagni in questo rito e accompagni quanti si preparano al ministero presbiterale. Maria sostenga con la sua intercessione la nostra fragilità. La Bianca Immacolata Madre del Signore ci sia accanto sempre all’altare e nella vita.