Il lavoro prezioso del restauro della Madonna “allattante” e dell’ancona che la circonda ci restituisce un capolavoro d’arte e di fede.
In particolare, mette in luce, in tutta la dimensione di una maternità che genera e nutre, l’umanità del Figlio di Dio. Questi, come ogni bimbo, è allattato al seno della Madre, per l’appunto Madre di Dio, ma anche Madre della Chiesa, di una nuova umanità. Gesù, come tutti i bimbi del mondo, gode del contatto fisico con Colei che l’ha portato in grembo e l’ha partorito. Sperimenta la sollecitudine di sua madre che teneramente lo tiene in braccio e gli offre, oltre all’alimento, sicurezza e affetto. Tra la Madre Maria e il Figlio di Dio, fattosi carne, si instaurarono un feeling, un’empatia che dureranno e si consolideranno nella vita domestica, sino al momento tragico e cruento della crocifissione, sino all’evento prodigioso dell’effusione dello Spirito nella Pentecoste. Ai piedi della Croce, madre straziata, ricevette da Cristo stesso – «Donna ecco tuo figlio»: sono le parole a Lei rivolte – la missione di essere generatrice di una comunità messianica. Il giorno radioso di Pentecoste, la Madre di Gesù Cristo è in mezzo agli apostoli riuniti nel Cenacolo ed è Madre della Chiesa nascente.
La contemplazione della tenerezza materna di Maria – ammirata, invocata da migliaia e, forse, da milioni di persone faentine, soprattutto dalle mamme – ci ricorda che noi oggi qui, di fronte a Lei, in questa chiesa che ebbe la fortuna di ospitare lo stesso san Pier Damiani, siamo gli eredi di una fede vibrante ed intensa, che ha prodotto miracoli non solo nell’arte, ma soprattutto nella vita dei credenti. Domandiamoci: siamo noi continuatori di tali prodigi di fede e di santità? Sappiamo ancora scorgere nell’antico affresco la grandezza di un Dio che non disdegna di farsi bambino per realizzare una salvezza integrale delle persone e del creato? La maternità raffigurata è solo una maternità qualunque, inespressiva per la nostra fede? È un’opera muta per la nostra comunità che dovrebbe essere comunione di discepoli di Cristo, madre di nuovi figli? Non ci rammenta un tale affresco le radici profonde della nostra cultura fondata sull’intreccio dell’umano col divino? Detto altrimenti, non ci ricorda l’insondabile mistero dell’Incarnazione di Dio nella nostra umanità, nella storia, nel tempo e nello spazio?
Dopo l’incarnazione di Gesù Cristo, per chi ha fede, non si può più parlare di umanità senza Dio, abbandonata a se stessa, al male. Dio è con noi. Non siamo soli nell’impegno di cercare il vero, il bene e Dio stesso. Non siamo soli nella lotta per la giustizia, contro la violenza e la sopraffazione. Poiché Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo siamo sollecitati a riconoscere una dimensione di trascendenza nella nostra vita. Nel fratello troviamo il permanente prolungamento dell’Incarnazione. E tutto quello che facciamo a un fratello è come se lo facessimo a Dio.
Gesù nel Vangelo odierno ci sollecita a rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio (cf Mt 22, 15-21). Dopo l’unione di Gesù incarnato in ogni persona, non possiamo più pensare all’uomo come ad un soggetto separato da Dio. Ad ogni essere umano va corrisposto – in amore e giustizia – proporzionatamente alla sua dignità più che umana. Ad ognuno spetta una giustizia commisurata anche al suo essere divino. Come a Dio va dato il «suo», così ad ogni persona va dato secondo il suo essere figlia di Dio nel Figlio.
Se riflettessimo adeguatamente sulla realtà della esistenza umana trasformata, dopo l’incarnazione di Cristo e la maternità di Maria, come cambierebbero i rapporti interpersonali! Come cambierebbero il concetto e l’amministrazione della giustizia! Dovremmo coltivare costantemente una giustizia più grande di quella semplicemente legale ed umana. Tutta la cultura individualista e tecnocratica di oggi dovrebbe essere profondamente rivista e ripensata secondo categorie di relazionalità e di convivialità.
L’uomo è di Dio. Di Dio è la sua vita. In forza dell’affermazione di Gesù Cristo «Restituite a Dio quello che è di Dio» – senza considerare l’altra affermazione «Rendete a Cesare quello che è di Cesare» che richiede siano pagate le giuste tasse e si dia il proprio contributo alla realizzazione del bene comune – la vita dell’uomo va restituita a Dio. Non può essere considerata cosa, scarto. Non può essere resa schiava né dell’economia, né del successo, né del potere, né della tecnica.
Dopo l’incarnazione, che congiunge Dio con l’umanità, non sono più validi i parametri che regolavano i rapporti tra Stato e persona nell’antichità, quasi che lo Stato fosse da ritenersi il fine ultimo della vita, l’unico orizzonte di senso. I rapporti tra Stato e Chiesa vanno impostati in maniera da salvaguardare la libertà religiosa.
Carissimi, la Comunità diocesana di Faenza-Modigliana è lieta e grata per il restauro dell’ancona cinquecentesca e, in particolare, dell’affresco del trecento della Madonna “allattante”, venerata anche come “Madonna della febbre”. Infatti, alla Madonna si affidavano soprattutto le partorienti e le puerpere facilmente colpite dalle febbri puerperali, spesso mortali. A nome della stessa comunità e dei responsabili di santa Maria Vecchia ringrazio tutti coloro che, in vario modo, hanno contribuito al recupero e al restauro di un’importantissima testimonianza di arte e di fede. Non vorrei dimenticare nessuno. A cominciare dal Lioness Club di Faenza, dalle amiche e amici che hanno sostenuto l’iniziativa, dagli intervenuti alla Mostra Donne nascoste-opere di Francesco Nonni e Pietro Melandri, da Valerio Contoli, fino alla professoressa Luisa Renzi, all’Amministrazione comunale, al dott. Claudio Casadio, direttore della Pinacoteca, alla dott.ssa Chiara Cavalli.
In questa santa Messa gioiamo per avere con Noi, ancora una volta, il Signore Gesù, mentre more e risorge per noi. Lodiamo la Madre di Dio, Madre della Chiesa e del nostro impegno missionario.