Faenza - Basilica Cattedrale, 18 marzo 2017
18-03-2017
Al termine del cammino odierno sui luoghi di padre Daniele Badiali, servo di Dio, guardiamo ancora una volta a lui, perché ci ha insegnato ad amare il Signore Gesù sino a dare la vita per Lui. Don Daniele è stato ed è uno di noi, figlio di questa regione, ricca di persone ancorate alla terra e alla fede. Figura splendida, essenziale, come sono essenziali le famiglie semplici e solide del mondo da cui proveniva. La sua fede diventa sempre più radicata nella vita, contrassegnata da una ricerca a tratti inquieta e mai appagata, come quella dei profeti.
Era divenuto chiaro per lui, irrobustito nel dono, attraverso anche il servizio civile con la Caritas, che non si può essere felici da soli, rinchiusi nel proprio io. La propria vita va spesa, gettata come un seme nei solchi della terra, morendo a se stessi per dare frutto.
Caro don Daniele, grazie per questo! Per averci insegnato che si cresce, sulle orme di Cristo, percorrendo la strada della croce, ossia la strada dell’amore: un amore che non esita a farci sempre più di Dio e a svuotarci sino all’estremo. A don Daniele capitò di farlo, in maniera vertice, quando la jeep su cui viaggiava tra le Ande, assieme a sette giovani, tra i quali alcuni volontari italiani, fu bloccata da un malvivente. Questi voleva sequestrare la volontaria Rosanna Picozzi, per ottenere un riscatto. Don Daniele si oppose e offerse se stesso, dicendo: «Vado io». Due giorni dopo fu trovato ucciso. Aveva 35 anni. Ad una fine così drammatica era giunto preparato. Non ci arrivò comunque, a caso. La sua vita diventava ogni giorno sempre più intensa. Le ore di sonno erano pochissime. Era come divorato dalla gente. Ai suoi amici confidava che si sentiva un prete ai primi passi del cammino d’amore, quel cammino che sfocia sulla croce, e che induce a vivere il dono di sé sino in fondo. Più di una volta parlava della morte e della necessità di non perdere tempo. S. Ecc. mons. Tarcisio Bertozzi, il vescovo di Faenza- Modigliana che lo mandò in Perù come sacerdote «fidei donum», ebbe modo di dire che padre Daniele, nell’ultimo tratto della sua vita, sembrava vivesse uno sviluppo spirituale molto veloce. A don Daniele non piaceva di perdere tempo. Viveva l’ansia di condurre i giovani e la gente a Cristo. Voleva vivere in piedi… tra gli ultimi, attendendo l’incontro con il Signore.
Grazie, allora, padre Daniele perché ci hai insegnato ad ascendere, ad affrettare il passo sul cammino dell’amore a Dio.
Cari giovani, come sapete, è nelle intenzioni della nostra Diocesi di celebrare un Sinodo dei giovani, con i giovani, per i giovani. Al centro di esso si porrà la bellezza dell’incontro con Gesù e l’impegno missionario che ne scaturisce. In quell’occasione verrà presentata ai giovani, assieme ad altri insigni santi di questa Diocesi, anche la figura di padre Daniele, proprio per il suo grande slancio missionario. In una lettera del 18 giugno 1996 indirizzata a don Elio Tinti, allora rettore del Seminario regionale di Bologna, scrive: «Oggi più che mai sento che la vita si gioca o a favore di Dio o contro di Lui. E siamo noi cristiani con la nostra vita che dobbiamo saper morire per “salvare Dio”. È un’avventura dolorosissima ma bellissima, unica, che non oserei mai cambiare per tutto l’oro del mondo».
Sempre nello stesso anno – egli era ritornato in Italia per le gravi condizioni di salute di Mons. Bertozzi -, tenendo un’omelia in Seminario a Bologna, nella quale lancia ancora una volta il suo grido allarmato sul rischio che anche nelle nostre terre si «perda Dio», afferma: «Sento necessario un cambio forte nella trasmissione della fede. Le parole per tanti giovani scivolano nel vuoto. Tu devi essere la prova di Dio con la tua vita. A te è chiesto di essere santo […]». «Più che le campagne pubblicitarie serve la testimonianza personale, la gente deve vedere che ho un gran bisogno di Dio. Senza questo, le parole suonano come un inganno».
Don Daniele aveva chiaro il problema della trasmissione della fede. Un problema che si è acuito nel nostro territorio. Ribadiva l’insegnamento del beato Paolo VI, il quale soleva ripetere che la gente crede di più ai testimoni che non ai maestri. Ciò rimane vero anche oggi ed evidenzia l’urgenza di una comunicazione più pertinente della fede. Si tratta di una comunicazione che presuppone l’esperienza di un incontro profondo con Gesù, di una preghiera che non si riduca a vedere solo il proprio io, e non Dio. Il vero missionario, quello più efficace, è colui che vive Gesù, dimora in Lui, colloquia con Lui, vive nell’intimità con Lui, l’Inviato per eccellenza del Padre.
Ringraziamo, allora, padre Daniele perché ci ha insegnato ad essere portatori di Cristo tra la gente, sapendolo incontrare e servire tra i poveri. Ringraziamolo per la sollecitazione ad essere assetati di Dio, a tenere vivo l’anelito missionario.
Il Vangelo odierno (cf Gv 4,5-42) suggerisce che se sappiamo incontrare Gesù e se sappiamo rispondere alla sua sete di essere amato, Egli ci darà se stesso, un’«acqua» che diventa sorgente inesauribile per la nostra vita e la nostra missione. Nella Messa di questa sera accogliamo il dono di Dio, alimentiamoci di Lui, per essere vita e cibo per i nostri fratelli.
Era divenuto chiaro per lui, irrobustito nel dono, attraverso anche il servizio civile con la Caritas, che non si può essere felici da soli, rinchiusi nel proprio io. La propria vita va spesa, gettata come un seme nei solchi della terra, morendo a se stessi per dare frutto.
Caro don Daniele, grazie per questo! Per averci insegnato che si cresce, sulle orme di Cristo, percorrendo la strada della croce, ossia la strada dell’amore: un amore che non esita a farci sempre più di Dio e a svuotarci sino all’estremo. A don Daniele capitò di farlo, in maniera vertice, quando la jeep su cui viaggiava tra le Ande, assieme a sette giovani, tra i quali alcuni volontari italiani, fu bloccata da un malvivente. Questi voleva sequestrare la volontaria Rosanna Picozzi, per ottenere un riscatto. Don Daniele si oppose e offerse se stesso, dicendo: «Vado io». Due giorni dopo fu trovato ucciso. Aveva 35 anni. Ad una fine così drammatica era giunto preparato. Non ci arrivò comunque, a caso. La sua vita diventava ogni giorno sempre più intensa. Le ore di sonno erano pochissime. Era come divorato dalla gente. Ai suoi amici confidava che si sentiva un prete ai primi passi del cammino d’amore, quel cammino che sfocia sulla croce, e che induce a vivere il dono di sé sino in fondo. Più di una volta parlava della morte e della necessità di non perdere tempo. S. Ecc. mons. Tarcisio Bertozzi, il vescovo di Faenza- Modigliana che lo mandò in Perù come sacerdote «fidei donum», ebbe modo di dire che padre Daniele, nell’ultimo tratto della sua vita, sembrava vivesse uno sviluppo spirituale molto veloce. A don Daniele non piaceva di perdere tempo. Viveva l’ansia di condurre i giovani e la gente a Cristo. Voleva vivere in piedi… tra gli ultimi, attendendo l’incontro con il Signore.
Grazie, allora, padre Daniele perché ci hai insegnato ad ascendere, ad affrettare il passo sul cammino dell’amore a Dio.
Cari giovani, come sapete, è nelle intenzioni della nostra Diocesi di celebrare un Sinodo dei giovani, con i giovani, per i giovani. Al centro di esso si porrà la bellezza dell’incontro con Gesù e l’impegno missionario che ne scaturisce. In quell’occasione verrà presentata ai giovani, assieme ad altri insigni santi di questa Diocesi, anche la figura di padre Daniele, proprio per il suo grande slancio missionario. In una lettera del 18 giugno 1996 indirizzata a don Elio Tinti, allora rettore del Seminario regionale di Bologna, scrive: «Oggi più che mai sento che la vita si gioca o a favore di Dio o contro di Lui. E siamo noi cristiani con la nostra vita che dobbiamo saper morire per “salvare Dio”. È un’avventura dolorosissima ma bellissima, unica, che non oserei mai cambiare per tutto l’oro del mondo».
Sempre nello stesso anno – egli era ritornato in Italia per le gravi condizioni di salute di Mons. Bertozzi -, tenendo un’omelia in Seminario a Bologna, nella quale lancia ancora una volta il suo grido allarmato sul rischio che anche nelle nostre terre si «perda Dio», afferma: «Sento necessario un cambio forte nella trasmissione della fede. Le parole per tanti giovani scivolano nel vuoto. Tu devi essere la prova di Dio con la tua vita. A te è chiesto di essere santo […]». «Più che le campagne pubblicitarie serve la testimonianza personale, la gente deve vedere che ho un gran bisogno di Dio. Senza questo, le parole suonano come un inganno».
Don Daniele aveva chiaro il problema della trasmissione della fede. Un problema che si è acuito nel nostro territorio. Ribadiva l’insegnamento del beato Paolo VI, il quale soleva ripetere che la gente crede di più ai testimoni che non ai maestri. Ciò rimane vero anche oggi ed evidenzia l’urgenza di una comunicazione più pertinente della fede. Si tratta di una comunicazione che presuppone l’esperienza di un incontro profondo con Gesù, di una preghiera che non si riduca a vedere solo il proprio io, e non Dio. Il vero missionario, quello più efficace, è colui che vive Gesù, dimora in Lui, colloquia con Lui, vive nell’intimità con Lui, l’Inviato per eccellenza del Padre.
Ringraziamo, allora, padre Daniele perché ci ha insegnato ad essere portatori di Cristo tra la gente, sapendolo incontrare e servire tra i poveri. Ringraziamolo per la sollecitazione ad essere assetati di Dio, a tenere vivo l’anelito missionario.
Il Vangelo odierno (cf Gv 4,5-42) suggerisce che se sappiamo incontrare Gesù e se sappiamo rispondere alla sua sete di essere amato, Egli ci darà se stesso, un’«acqua» che diventa sorgente inesauribile per la nostra vita e la nostra missione. Nella Messa di questa sera accogliamo il dono di Dio, alimentiamoci di Lui, per essere vita e cibo per i nostri fratelli.