Rev.mo Padre provinciale, Sig. Preside, docenti e studenti, cari fratelli e sorelle, oggi festeggiamo un grande santo, che è stato scelto dalla Chiesa come Doctor communis e patrono di molte Facoltà teologiche, di Università, di Scuole in cui si insegna la dottrina cristiana. Perché è stato scelto come Doctor communis? Il motivo, al dire di Étienne Gilson, un grande Maestro della storia della filosofia e delle teologie cristiane, risiede nel fatto che la teologia di Tommaso d’Aquino, teologia dell’atto di essere o del Dio il cui nome proprio è «Io sono», ha un valore di verità pari a quello di tutte le altre teologie messe assieme. La teologia di san Tommaso, mentre studia Dio come atto puro e primo di essere comprende ciò che di vero c’è in tutte le altre teologie che studiano questa o quella proprietà fondamentale dell’essere. Parlare di Dio dal punto di vista del suo «atto di esistere» non è finire dritti, come si potrebbe credere, in braccio ad un pensiero astratto, semplificatore e, quindi, nella visione di un Dio lontano, anaffettivo, senza relazioni, senza amore. Tutt’altro. È chiaro che se noi parliamo di Dio, e non esiste, non è un essere, noi parliamo del nulla! Solo un Dio che esiste, che possiede l’atto d’esistere, ed è lo stesso Essere sussistente, è anche il Bene, il Vero, il Bello, l’Amore, le relazioni sussistenti delle Persone della Trinità: è il Padre, il Figlio e lo Spirito santo, Spirito d’amore. Dire che Dio è il primo atto di essere significa dire che Egli è sommamente atto – È, non possiede l’atto di essere -, e che è la suprema perfezione. Ecco un primo insegnamento per chi studia teologia: non bisogna avere paura della metafisica, della metafisica dell’esse di san Tommaso, inclusa nella sua teologia. La sua teologia, proprio perché incentrata sul Dio il cui nome è «Io sono», è ever green, è sempre attuale nei suoi pilastri fondamentali. È teologia che è costruita in dialogo con le teologie orientali (non solo la patristica cristiana ma anche con il pensiero mussulmano di Avicenna e Averroè) ed è strutturalmente aperta ai vari saperi umani, compresi quelli contemporanei.
Tommaso d’Aquino ha qualcosa da insegnarci anche solo se ci limitiamo a pensare all’oggi della missione della Chiesa. Papa Francesco nel suo Discorso alla Curia romana del 21 dicembre scorso ha, in proposito, sottolineato che: «[…] le popolazioni che non hanno ancora ricevuto l’annuncio del Vangelo non vivono affatto soltanto nei Continenti non occidentali, ma dimorano dappertutto, specialmente nelle enormi concentrazioni urbane che richiedono esse stesse una specifica pastorale. Nelle grandi città abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti. Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata. Si deve “promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di “eclissi del senso di Dio”, che costituiscono una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo”[…]. C’è bisogno di una nuova evangelizzazione, o rievangelizzazione».
Tutto questo, conclude papa Francesco, comporta necessariamente dei cambiamenti e delle mutate attenzioni, oltre che nella pastorale, anche nei Dicasteri della Curia romana.
Ebbene, a fronte anche solo dei problemi accennati da papa Francesco, relativamente ad una nuova evangelizzazione, san Tommaso d’Aquino può esserci di aiuto? Oggi, spesso, la crisi della fede deriva dalla crisi della stessa ragione. La crisi odierna della ragione, infatti, ridotta o a ragione scettica o a ragione strumentale, sta pregiudicando lo stesso fondamento razionale della fede – non si dimentichi che questa è atto compiuto da una persona razionale ed include sempre un’intrinseca esigenza di razionalità metafisica ed etica -, come anche sta incentivando la scissione tra etica e verità tra etica della vita ed etica sociale, tra etica personale ed etica pubblica, tra ecologia umana ed ecologia ambientale, tra cultura e natura umana. L’Aquinate viene incontro alle esigenze di una nuova trasmissione della fede cristiana proprio perché ha impiegato tutta la sua vita ad amare Dio e a riflettere sulla Rivelazione, sul revelatum, unità armonica di sovrarazionale e razionale: un’unità che richiede l’apporto di una ragione non mortificata, bensì rafforzata dalla rivelazione redentrice. In Tommaso l’assenso alla Parola di Dio non richiede meno ragione, bensì una ragione guarita, più vigorosa. Venendo a noi: una nuova evangelizzazione non può fare a meno del superamento della crisi della ragione speculativa e pratica. Non trae vantaggi da una ragione e da un pensiero deboli. La Teologia di Tommaso è una «cogitatio» che si sviluppa connaturalmente all’interno dell’assenso della parola di Dio, con un’affettuosa tensione verso la comprensione di ciò che si crede e si ama. L’assenso non si accontenta di un’obbedienza «supina», ma dà il via a una curiosità in cui ragione e fede sono coinvolte in un «parto» continuo, perché ognuna influisce sull’altra, fecondandola, generando approcci più profondi e vitali, generando novità di pensiero. Un giorno, al termine di una animata seduta universitaria in cui era stata contestata la legittimità di questo travaglio intellettuale e spirituale dai sostenitori di una fede di pura obbedienza, San Tommaso rivendica, da docente professionista, per la comunità dei credenti, la necessità e il valore della ricerca razionale delle «radici» della verità divina: «Se noi risolviamo i problemi della fede con il metodo della sola autorità – disse – possediamo certamente la verità, ma in una testa vuota!» (Seduta di Quodlibet IV a. 16, Parigi 1271). Se la fede convive con il vuoto culturale questo può essere facilmente riempito con dottrine anticristiane, favorendo così la separazione tra fede e vita quotidiana, tra fede e storia. Per Tommaso la fede è, in un certo modo, orientata dalla ragione e questa, a sua volta, dalla fede, in un circolo virtuoso, che non consente di separare la fede dalla teologia, la pastorale dallo studio della teologia. Tutt’altro. La fede è più robusta, è un atto d’amore più convinto e meno transeunte se trova ragioni solide nella nostra razionalità. Non dimentichiamo che la fede se non è pensata è debole, è nulla (cf Fides et ratio, n. 80). La ragione è utile alla fede per rinsaldarsi nello spirito umano, per preservarla da fanatismi e da superstizioni. La fede, peraltro, rinforza la ragione, la sollecita a trascendersi, la sfida verso nuove conquiste razionali.
Se il cristiano comune, le nonne e i nonni si salvano senza essere dei teologi, la Chiesa, per il suo impegno di evangelizzazione, in contesti sempre più complessi, non può fare a meno di teologia. Per l’inculturazione della fede nelle civiltà, in una società complessa, c’è bisogno dell’approfondimento riflessivo della vita religiosa cristiana. Oggi è evidente come la progressiva ignoranza circa la realtà della Chiesa e del suo vero insegnamento sia molto pericolosa sia per i singoli credenti sia per il futuro dell’evangelizzazione delle comunità cristiane nei nostri territori. Non raramente avviene che gli stessi maestri o catechisti ignorano la verità di quel che insegnano, ma nemmeno ne sono testimoni luminosi. Si può dire che non sono privi di carità, ma non sanno che cosa devono amare. Non sono certo privi di fede, ma non conoscono ciò a cui bisogna credere; o, forse, pensano che la Chiesa conserverà i suoi fedeli solo a patto che li esorti a credere a quel che vogliono credere e ad amare ciò che han voglia di amare. Non si preoccupano di salvare il mondo ma, piuttosto, di persuaderlo che è già salvato così com’è, rinviandogli solo un’eco del messaggio cristiano.
E, tuttavia, se la teologia è importante, essa, rispetto a Dio, non va assolutizzata. Ecco un ultimo insegnamento che ci dà il Dottore angelico.
Noi sappiamo che Tommaso non ha terminato tante opere, in particolare non ha ultimato la Summa Theologiae. Egli cominciò ad essere preso da «svogliatezza», dopo la celebrazione della Messa, il 6 dicembre 1273, festa di San Nicola. Il suo segretario, Reginaldo, cercava di pungolare il Maestro che non scriveva più molto, perché terminasse quella Summa, ferma alle questioni sulla penitenza. Ma anche i maestri della Facoltà delle Arti di Parigi attendevano l’ultimazione di scritti di filosofia, che aveva iniziato prima di partire da Parigi (1277). Ma cosa rispondeva Tommaso a Reginaldo? «Quello che ho scritto, dopo ciò che ho veduto, mi sembra paglia. Non posso più scrivere, Reginaldo»: «Venit finis scripturae meae». Tommaso era salito sul gradino di una contemplazione più assidua.
Nella piena maturità della vita di Tommaso si fa, dunque, più chiaro il senso della sua vita di Teologo (il senso della vita di ogni teologo è la contemplazione). Tommaso, giunto alla fine della sua esistenza, senz’altro fisicamente indebolito, si stabilizza di èiù nella contemplazione di Dio. Nell’abbazia dei monaci cistercensi di Fossanova, che l’ospitarono nell’ultimo mese di vita, prima di ricevere l’eucaristia, fa questa preghiera, che questa comunità teologica può fare sua in questa celebrazione: «Io ti ricevo o Cristo, prezzo della mia redenzione. Per tuo amore io ho studiato, per tuo amore io ho passato le notti nelle veglie; per te io mi sono consumato e logorato. Te ho predicato. Io ho insegnato te». Impariamo da Tommaso a dare con crescente assiduità il primato a Dio. Così, possiamo essere sale e luce del mondo (cf Mt 5, 13-19).
+ Mario Toso
Vescovo di Faenza-Modigliana