[apr 19] Omelia – II domenica di Pasqua

Faenza, cattedrale 19 aprile 2020
19-04-2020

Cari fratelli e sorelle, in questa IIa domenica di Pasqua o, come volle definirla san Giovanni Paolo II, della Divina misericordia, ci viene presentata la prima comunità dei cristiani. Essa prende gradualmente forma dopo la morte e risurrezione di Gesù Cristo, dopo l’effusione dello Spirito santo a Pentecoste (cf At 2, 1-12). Si può dire che essa è il frutto più alto della misericordia divina. Come ci descrivono gli Atti degli apostoli, era composta da persone che, in forza del battesimo, sperimentavano una vita nuova nello Spirito. Erano colmi di stupore e di gioia per i numerosi prodigi che la potenza dello Spirito compiva mediante gli apostoli. Basti pensare a Pietro che, accompagnato da Giovanni, guarisce uno storpio fin dalla nascita: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina» (At 3,6). Quando Pietro passa, la gente porta gli ammalati perché la sua ombra coprendoli li sani (cf At 5,15). E quando gli apostoli sono imprigionati dal Sommo sacerdote e dai sadducei, sono liberati da un angelo (cf At 5, 19-21). I primi credenti perseveravano in una vita diversa da quella di prima. Dimoravano nella novità cristiana, ossia in una vita sostenuta dalla comunione con il bene più grande, il Risorto, da cui derivava la condivisione sia dei beni spirituali sia anche dei beni materiali coi più poveri. Per noi che, in questo periodo siamo un po’ frastornati dai pericoli del coronavirus e costretti a vivere la nostra fede soprattutto a casa, secondo una dimensione più domestica, meno comunitaria, può essere confortante sentire come Luca descrive la novità della vita cristiana degli inizi. È imperniata sostanzialmente su quattro pilastri fondamentali:

a) l’insegnamento degli apostoli, reso più efficace dalla percezione della presenza prodigiosa dello Spirito in mezzo a loro, dalle guarigioni e dalle numerose conversioni che avvenivano; b) la comunione con Cristo e dei credenti tra di loro, che li sospingeva a darsi anzitutto Cristo stesso, assieme a beni di sostegno reciproco: «i credenti avevano un cuor solo e un’anima sola», e fra loro tutto era in comune (cf At 4,32); c) la preghiera nel Tempio e lo «spezzare il pane» nelle case: la prima comunità cristiana vive la sua dimensione liturgica «nel Tempio», ove prega condividendo la preghiera di Israele, poiché sa di essere nata dall’Ebraismo e, poi, «nelle case», ove «spezza il pane». Vive, dunque, la novità di Gesù specie nelle case, obbedendo al suo comando: «Fate questo in memoria di me». E così, forma in Cristo un tempio spirituale e un sacerdozio santo. I discepoli, facendo memoria del sacrificio di Gesù, offrono in Lui, con Lui, per Lui se stessi come vittime vive, sante, gradite a Dio (cf Rm 12,1). Nel sacerdozio vissuto dai battezzati, le loro attività diventano sacrifici spirituali, con cui danno gloria a Dio. Con ciò diventano segno del nuovo Regno di Dio. I credenti, vivendo la comunione con Cristo e la condivisione dei beni, testimoniano la sua vita come un dono. Generano rapporti di fraternità, di servizio e di pace con gli altri. Mentre sono annunciatori di Cristo sono seminatori di una nuova umanità. Diventano sempre più coscienti di essere protagonisti di una nuova creazione. Per la novità della loro vita godono del favore della gente. Questo è il quarto pilastro della specifica vita cristiana: bella ed attraente, in un mondo pagano, invecchiato perché strumentalizza Dio all’uomo, alla Legge.

Quello degli Atti degli apostoli non è un ritratto oleografico e idilliaco. Non tutto è facile per i primi credenti, nonostante la grande forza dell’amore infusa nei loro cuori dallo Spirito. Alla generosità di Barnaba, levita convertito, che vende il suo campo e depone il ricavato ai piedi degli apostoli, fa da contrasto la frode di Anania e di Saffira. Alle conversioni e alle guarigioni che si moltiplicavano faceva da contraltare l’aspra opposizione del Sinedrio, della maggioranza dei farisei, fatta eccezione di Gamaliele (cf At 5, 34-41). Sorgono, inoltre, i primi contrasti nella comunità tra i discepoli di lingua greca e quelli di lingua ebraica, perché nell’assistenza quotidiana venivano trascurate le vedove del primo gruppo. Per risolvere il problema della gestione delle mense dei poveri, e non danneggiare il compito primario dell’annuncio del Vangelo, vengono istituiti, diremmo noi oggi, sette diaconi. Tra di essi si distingue Stefano che, pieno di grazia e di potenza, compiva grandi prodigi e segni tra il popolo. Coloro che non riuscivano a contrastarlo e a resistere alla sua sapienza, sollevarono il popolo contro di lui, lo condussero davanti al Sinedrio ove lo accusarono di essere contro la Legge. A nulla valsero le sue parole ispirate. Lo trascinarono fuori della città e lo lapidarono (cf At 7, 1-60).

In breve, la prima comunità si compaginava tra entusiasmi e difficoltà. Si poneva nella città di Gerusalemme e dintorni come fermento di Dio, principio di una vita nuova che capovolgeva i vecchi schemi ed equilibri. A fronte di sacerdoti che proibivano di insegnare nel nome di Cristo gli apostoli risposero: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (At 5, 29). Ma cosa, in ultima analisi, teneva compatti i primi cristiani ed aumentava il numero dei convertiti? Per una grande maggioranza, una fede che va oltre l’esperienza storica di Gesù. Ce lo spiega indirettamente l’episodio dell’apostolo Tommaso. Egli crede, non solo perché vede Gesù Risorto e riesce a toccargli le mani trafitte e a porre la sua mano nel fianco trafitto. Crede, soprattutto, perché Cristo lo sollecita a essere credente, andando oltre l’esperienza empirica. Lo sollecita ad avere fede, ossia a compiere un atto mediante cui si giunge – aiutati sicuramente dalla testimonianza di altri – al riconoscimento personale di Colui al quale si dice: «Mio Signore e mio Dio!» (cf Gv 20, 19-31). La fede esige un incontro intimo con Gesù. Implica una scelta radicale con la quale ci si consegna a Lui per amore, nell’interezza della vita. Ecco un punto su cui dobbiamo lavorare anche in questo periodo di pandemia: l’approfondimento della nostra fede, per giungere a consegnare per amore, sempre di più, in tutte le situazioni, compresa la pandemia del coronavirus, la nostra vita al Risorto, vivendo, di conseguenza, uniti a Lui, al suo Spirito d’amore, nella comunione della Chiesa e con i fratelli. Solo così saremo una comunità-comunione di persone nuove, che si lasciano educare al pensiero e ai sentimenti di Cristo, divenendone testimoni luminosi.

Proprio perché innestati in Cristo, come ci ha rammentato papa Francesco nella notte di Pasqua, noi credenti possediamo il diritto alla speranza. Perché abbiamo un diritto e, prima ancora – volendo approfondire il pensiero del pontefice -, un dovere di speranza? Perché siamo co-sepolti e co-risorti con Cristo. Le nostre comunità sono nel territorio un noi-di-persone, portatore del dovere e del diritto di speranza perché partecipiamo dell’umanità co-risorta con Cristo, ossia un’umanità definitivamente stabilizzata nella comunione con Dio, resa capace di una vita immortale. I credenti vivono, allora, come persone per le quali Cristo ha conquistato sia il dovere sia il diritto alla speranza. Tale dovere e tale diritto hanno il loro fondamento non nel consenso di un popolo religioso o politico, bensì nell’umanità nuova che in Cristo risorto è stata saldata definitivamente nella comunione con Dio e resa partecipe dell’immortalità. La morte e il male sono stati sconfitti per sempre. Il dovere e il diritto di speranza sono un dono di Gesù Cristo incarnato, morto e risorto per noi. Non saranno codificati ed omologati negli ordinamenti giuridici degli Stati. Essi, però, ci appartengono perché siamo persone viventi in Cristo. Perché dotati del dovere e del diritto di speranza, possiamo dire con più ragione di chi non crede che «tutto andrà bene». Ciò non è una mera illusione. Possiamo dirlo perché siamo di Cristo. In quanto tali abbiamo accesso alla pienezza di vita che Lui ci ha conquistata con la sua risurrezione. Noi non siamo per il nulla. Siamo incamminati verso un futuro certo, perché Dio sa volgere tutto al bene. Egli, infatti, fa uscire la vita anche dalla tomba. Gesù è stato risuscitato dal Padre ed è uscito dalla tomba per noi. È risorto per noi. Ricordiamolo: abbiamo il dovere e il diritto di speranza.

+ Mario Toso