[mag 07] Intervento – Fase di convivenza con il virus: la fede al tempo di covid-19

Incontro con i Vicari foranei e i direttori degli uffici pastorali
07-05-2020

Come abbiamo vissuto nella fase 1

Abbiamo superato la fase 1 dell’epidemia che ha di fatto «stoppato», mettendolo in stand-by, il piano pastorale. Ci ha fatto trovare davanti a situazioni impreviste, che ci hanno posto non pochi interrogativi, con la necessità di cambiare il nostro modo di vivere la fede e di rispondere ad urgenze più immediate. In questo tempo abbiamo vissuto di più la nostra vita religiosa nelle nostre case, tramite il collegamento della TV, dei social, limitando le presenze al consentito. Poniamo mente alle severe disposizioni anticontagio che hanno impedito la celebrazione dell’Eucaristia e di altri sacramenti. Non pochi, tra quanti sono stati colpiti dal virus, sono morti senza il conforto dei familiari e la preghiera del sacerdote. Dobbiamo riconoscere che questo virus invisibile, spesso letale, ha sconvolto la nostra vita sotto tanti profili (quello psicologico, quello economico, quello civile e quello religioso). Ha colpito i rapporti tra le persone e tra le comunità. Peraltro, questo nuovo scenario ha offerto ai presbiteri l’occasione per ridare più spazio ad un aspetto del nostro ministero che è stato sempre presente, ma che abbiamo vissuto con una consapevolezza rinnovata: pregare ed intercedere per il popolo che ci è stato affidato, meditare la Parola di Dio, interrogarsi sul da farsi, sul futuro pastorale delle nostre comunità, delle nostre famiglie, delle nostre associazioni, dei nostri Uffici pastorali. Inoltre, abbiamo constatato l’urgenza di essere più vicini alle persone anche solo con una telefonata, per sostenere spiritualmente e per accompagnare nelle fragilità che si sono accentuate. Purtroppo, all’aumento delle fragilità ha corrisposto un aumento della povertà, specie in un contesto in cui gran parte del lavoro è stato bloccato o è proprio venuto a mancare. Questa situazione ci ha fatto constatare anche l’urgenza di soccorrere quanti si trovano in condizioni di povertà. Infatti, una delle attività che ha avuto il maggior incremento è stata quella della Caritas, che ha dovuto riorganizzarsi nell’accoglienza, nell’accompagnamento, secondo protocolli precisi, anche in nuovi ambienti, di modo che i nuovi poveri fossero aiutati con maggior riserbo, ma non con minore efficacia. Ciò che ha consolato è stata la generosità delle persone, dei giovani, che senza paure, si sono messi a disposizione per venire incontro alle nuove urgenze, alla necessità della cura e dell’assistenza dei più fragili. Dobbiamo ringraziare anche i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari e i volontari per la tenacia e la dedizione dimostrate. Per loro e per quelli di loro che  sono morti, come anche per i sacerdoti e le suore che sono mancati a causa del coronavirus abbiamo pregato.

Il lavoro nella Curia

A proposito della nuova situazione pastorale, sono state tenute riunioni con i vescovi della regione e predisposte nuove indicazioni pastorali. Inoltre, si è cercato di far fronte, pur a ranghi ridotti – in quanto la Curia è stata chiusa, ma non inoperosa, grazie allo smart working -, alle questioni più impellenti. Per meglio accompagnare i fedeli, le famiglie, le associazioni, gli anziani, i malati, sono state pensate più iniziative. Sono stati ricevuti vari messaggi, richieste: alcuni saggi, altri ci hanno costretti più volte ad interrogarci sul nostro lavoro pastorale, sull’urgenza, senza forse, di una nuova seminagione del Vangelo, di un’educazione ad una fede con radici più profonde, meno incline ad assecondare elementi secondari, quasi superstiziosi. Attraverso il Vicario generale, anche su mia sollecitazione, i vari Uffici pastorali sono stati invitati ad attivare un’azione supplementare per aiutare nella preghiera, per dare sostegno spirituale, morale, psicologico, economico, alle persone, alle famiglie, alle associazioni, per offrire sussidi, occasioni di preghiera alla Beata Vergine delle Grazie, per supportare la riflessione dei giovani sinodali, per pregare assieme, pur nella distanza fisica, per le vocazioni, per la cessazione della pandemia, per i defunti. Per tutto questo ringrazio sinceramente e con grande riconoscenza i collaboratori più stretti, i direttori degli Uffici pastorali, i responsabili della Caritas, il settimanale diocesano Il Piccolo. Infine, non è mancata la collaborazione con le autorità civili.

In tutto questo, ma anche in altro che non ho specificato, si è riscontrato, da parte della gente, il bisogno di una Chiesa più vicina, la sofferenza del «digiuno eucaristico», della mancanza della vita comunitaria.

 

Quale Chiesa?

Il mondo si aspetta, però, dalla Chiesa ben altro che il pronto soccorso dell’aiuto materiale. Si aspetta delle ragioni che aiutino ad accettare e a vivere con maturità quello che sta succedendo. Ha urgente necessità di motivi seri per sperare – nel contesto della settimana santa e della Pasqua papa Francesco ha parlato di diritto  di sperare -; ha bisogno di qualcuno capace di aprirgli orizzonti diversi e veri, perché il telone di fondo sul quale per anni sono stati proiettati i deliri di grandezza di questa nostra età è stato improvvisamente squarciato e ha svelato un buio angosciante (Mons. Daniele Libanori, La fede al tempo di COVID-10. Riflessioni ecclesiali e pastorali, in «La Civiltà Cattolica» 2020 II 163-176). Siamo stati chiamati a confrontarci con il dolore e con la morte, che la nostra cultura ha cercato di rimuovere in ogni maniera. La nostra gente ha bisogno di una fede più fondata in Gesù Cristo, che ha preferito morire per noi che vivere senza di noi e che è fondamento del nostro dovere e diritto di sperare. Oggi più che mai dobbiamo saper proporre la Sapientia crucis a chi è scandalizzato dal dolore e dalla morte. Oggi la Chiesa, a chi, frastornato da quello che accade, cerca «la» buona ragione per vivere e per morire, deve ripetere instancabilmente che la può trovare nella morte e risurrezione di Cristo. Siamo chiamati ad insegnare a pensare e ad amare in modo nuovo, per costruire una nuova società. E a non alimentare quei sentimentalismi dolciastri che rendono insopportabile e poco credibile la nostra presenza nelle varie situazioni drammatiche della vita. Di fronte ad una situazione inattesa, siamo costretti a maturare e a strutturare un diverso modo di pensare, ad assumere atteggiamenti nuovi, a creare nuove vie per servire il popolo di Dio. Basta anche solo pensare a quanto nel Sinodo dei giovani si era riflettuto sulla necessità di imparare ad usare i nuovi mezzi di comunicazione per annunciare il Vangelo, per far partecipare le persone anziane ed ammalate alla celebrazione della santa Messa, per continuare a vivere in una comunione spirituale incessante con il Corpo di Cristo, che è la Chiesa.

Nel momento in cui stiamo vivendo si evidenziano le crepe e le debolezze dei nostri progetti pastorali abituali, siamo richiamati all’essenziale, che non può mai mancare. Peraltro, il progetto di Cristo di far nuove tutte le cose continua, pur in mezzo ad una situazione drammatica. La fede e la devozione devono trovare nove vie. Non dimentichiamo mai l’ammaestramento che ci è venuto  dal Vangelo di Giovanni della terza domenica di Quaresima (Anno A) e, congiuntamente, dall’impedimento di vivere l’Eucaristia mediante la presenza fisica: siamo chiamati sempre, sia che possiamo sia che non possiamo con una presenza fisica, a dare gloria a Dio in Cristo, in spirito e verità (cf Gv 4,21). Le chiese sono importanti, ma alla fine sono soltanto degli strumenti. La Chiesa vera, quella fatta di uomini, può vivere anche senza chiese, come è accaduto per i primi secoli e come ancora accade in molte parti del mondo.

Fase 2 e un nuovo inizio

Così non dimentichiamo che, con la massiccia demolizione di tante certezze fin qui accumulate, stiamo assistendo alla preparazione di un nuovo inizio. Ci vuole inventiva e creatività. Sono necessarie nuove scale di valori. Alcuni governi hanno preso misure esemplari, con priorità ben definite, per difendere la popolazione, per riattivare le attività economiche. Ma ci stiamo rendendo conto che tutto pare strutturato principalmente attorno all’asse economico, con l’inevitabile recupero dell’imprescindibile aspetto sanitario.  Se si è compreso che non è possibile un nuovo inizio economico e sociale senza dare la dovuta attenzione alla salute dei cittadini (e, quindi, alle strutture sanitarie, che negli anni hanno subito varie sforbiciate nei finanziamenti, come anche nelle risorse per la ricerca), si nota il prevalere di una certa selettività, che accantona gli aspetti culturali e religiosi,  che mette da parte gli anziani, posponendoli ad altre categorie di persone. All’anziano si forniscono medicine  e cure fino a un certo punto, proprio perché al centro non c’è l’uomo, ma l’economia. È, invece, il tempo di recuperare il primato della persona e dello spirituale, di vedere gli invisibili, per restituire loro l’umanità. Si tratta di passare dalla società ipervirtualizzata, disincarnata, alla carne sofferente del povero, come spesso sottolinea papa Francesco. Occorre capire che vi sono nuovi poveri, resi tali dall’attuale crisi. Preoccupa l’ipocrisia di coloro che dicono di voler affrontare la crisi, che parlano della fame nel mondo, e mentre ne parlano continuano a fabbricare cose superflue ed armi. È il momento di una vera e propria conversione. Questo è un tempo di coerenza. O siamo coerenti o perdiamo tutto.

Ora, non si tratta di procedere ad una mera ricostruzione, quanto piuttosto ad un nuovo inizio, che non ricostruisce semplicemente quanto c’era prima e che non andava, ma che semmai poggia su ciò che c’è di positivo, innova, e finalmente supera, ad es., i parametri della tecnocrazia, di un capitalismo rapace, di un lavoro sfruttato, schiavo, non tutelato, non per tutti, non adeguatamente remunerato. Evidentemente ciò diventa possibile quando si coltivi un pensiero pensante, che elabora una nuova progettualità, basata su un umanesimo teocentrico più che antropocentrico, un umanesimo aperto alla trascendenza, capace di supportare la realizzazione di un’ecologia integrale. Con la fase due si entra in un momento in cui non solo si debbono cercare protocolli di intesa per il ripristino o per l’apertura di attività lavorative, di servizi, ma è necessario ripensare il modo di vivere, gli atteggiamenti, il modo di produrre, di lavorare, di spostarsi, di custodire e di coltivare la terra. Deve, insomma, prevalere una visione nuova, una visione d’insieme condivisa, avente una lunga gittata, che pensa in particolare alle future generazioni. C’è urgenza di un progetto  collettivo e, prima, di una idea di Paese e di Europa, di modo che le spinte corporative e particolaristiche non diventino il brodo di coltura di sovranismi e di populismi. Qualcosa di analogo deve avvenire in ambito ecclesiale, pastorale, pedagogico, culturale. Anche qui c’è bisogno di un nuovo inizio.

Ecco la ragione per cui oggi siamo qui. Innanzitutto per ascoltare, per capire quali sono le esigenze e le richieste della gente, per verificare quanto si è fatto, e per rimediare se è il caso, innovando, investendo in formazione. La Lettera pastorale del vescovo Voi siete la luce del mondo (specie nella Terza parte, relativa alla riorganizzazione territoriale delle parrocchie e alla ricerca di nuove opportunità di evangelizzazione) e il Documento post-sinodale rimangono, a mio modo di vedere, fondamentalmente attuali nelle loro suggestioni e nelle loro prospettive di fondo, specie là ove il laicato è chiamato ad esprimere non solo collaborazione ma corresponsabilità. È nostra intenzione dopo questo incontro di avviarne altri, con christifideles laici, rappresentanti delle associazioni.

+ Mario Toso