Archivi della categoria: Omelia

OMELIA per la DEDICAZIONE della CHIESA di SAN SEVERO
San Severo di Cotignola, 17 settembre 2006
17-09-2006

‘Oggi la salvezza è entrata in questa casa’. L’iniziativa di Dio non cessa mai di stupire, perché non solo ha mandato suo Figlio nel mondo per salvarlo, ma lo fa entrare nella casa di Zaccheo per un incontro personale con lui; e vuole moltiplicare le case dove si possano trovare le condizioni necessarie perchè si ripete l’incontro personale dell’uomo con Dio. Per la verità Dio non ha bisogno di un luogo particolare per incontrarci; ma siamo noi che ne abbiamo bisogno, che siamo condizionati anche dal luogo; così come senza una casa non si può avere una famiglia, senza una chiesa non si può avere una comunità cristiana. Anche questa chiesa parrocchiale di San Severo è una casa, nella quale entrano gli uomini per incontrare Dio; e qui Dio si fa incontrare nell’Eucaristia che viene celebrata, nella sua parola che viene proclamata, nella persona del ministro, sacramento di Cristo, capo e pastore della comunità, nella stessa comunità riunita in assemblea nel suo nome. Dio vuole incontrarci in questa casa per salvare ciò che era perduto, darci il perdono dei nostri peccati, ascoltare le nostre preghiere, darci la speranza della vita risorta. Perché si consacrano le chiese? Questa chiesa non era già santificata dalla presenza dei santi misteri che qui da sempre vengono celebrati? In passato la consacrazione della chiesa era un fatto raro, anche per la lunghezza del rito che era previsto. Si preferiva la semplice benedizione, con la quale si apriva la chiesa al culto e vi si poteva celebrare la Messa. Il rito della consacrazione o dedicazione della chiesa è un gesto attraverso il quale si intende destinare in modo definitivo questo luogo al Signore; mediante la dedicazione questo luogo diventa segno del mistero della Chiesa. Possiamo dire di questo luogo di pietra, ciò che si dice della Chiesa di Cristo, sacramento di salvezza per tutti gli uomini. Ecco allora il significato della chiesa consacrata. Da questa celebrazione e da quest’oggi la vostra comunità parrocchiale ha finalmente il segno vero di ciò che è nella realtà. Voi siete ‘pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo’. La comunione che unisce una comunità cristiana non è solo un fatto morale, costituito dalla buona volontà di tutti a stare insieme, a non litigare, a collaborare; è molto di più: è una unità profonda, opera dello Spirito Santo, alimentata dalla preghiera e dall’Eucaristia; è una comunione che appartiene al tempo ed è legata a tutti coloro che da sempre e dappertutto hanno creduto in Cristo; ma è anche una comunione che è unita con tutti i Santi che sono nell’eternità, fra i quali noi oggi sentiamo presente in particolare San Severo vescovo, patrono di questa parrocchia. Tutto questo mistero di comunione con Cristo, con i Santi e con coloro che ci hanno preceduto è rappresentato da questo luogo di pietra; ciò che avviene qui dentro fa crescere la fede, alimenta la speranza, rafforza la carità; queste pareti, le immagini che le ornano parlano della Madonna e dei Santi, ma anche di coloro che hanno vissuto in questo territorio e sono passati nell’eternità. Qui si ricordano anche i nostri morti, che una volta erano sepolti accanto alla chiesa, perché continuavano ad essere anch’essi pietre vive in Cristo risorto. Dalla comunione nello Spirito Santo, significata dall’insieme delle pietre unite di questa chiesa, dovrà crescere la costruzione fatta di pietre vive, cioè di cristiani credenti in Cristo Gesù; e dalla grazia che qui verrà donata a tutti i credenti, crescerà un popolo che dovrà proclamare le opere meravigliose di Dio con una vita santa, e che sappia portare fuori dal tempio le realtà grandi e belle che ha incontrato qui dentro. In questa data, nell’anniversario della dedicazione della chiesa, ogni anno voi farete la festa della vostra comunità cristiana, che in questo giorno è stata tutta dedicata a Dio, rinnovando la consacrazione già avvenuta per ognuno personalmente nel Battesimo. La presenza della chiesa in un territorio e il segno verticale del campanile in mezzo alle case degli uomini stanno ad indicare un fatto e una speranza: il fatto è Cristo che ha portato la sua opera di salvezza fino in questa terra, e vi ha iniziato a costruire il suo Regno con l’opera dei suoi discepoli; la speranza è che tutti possiamo ritrovarci nella casa del Padre, di cui questa casa di Dio è profezia e aiuto per arrivarci. Il Papa Benedetto XVI continua a dirci che l’assenza di Dio per il nostro mondo è una povertà pericolosa. L’arrivo tra di noi di altre culture e di altre religioni dà risalto al materialismo pratico in cui viviamo. ‘La vera minaccia per la loro identità non la vedono nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva l’utilità a supremo criterio morale per i futuri successi della ricerca’ (Monaco, 10/09/06). Custodire la chiesa, mantenerla e abbellirla, volergli bene e usarla per quello che è il suo scopo, non è un servizio solo ai cristiani, a ma tutti gli uomini. Quanto più sarà presente il senso di Dio, quanto più cresceremo come figli suoi e fratelli tra di noi, quanto più avremo presente che siamo in cammino verso un mondo più bello che deve venire nell’eternità, tanto più daremo senso alla nostra vita. Il cristiano è un uomo che vive in pienezza. Qualche anno fa si trovava scritto sui muri delle chiese: Meno chiese e più case. Si potranno anche fare più case, ma non si fa più famiglia, senza la chiesa o prescindendo da quello che attorno ad essa si fa per i ragazzi, per i giovani, per gli anziani, per i malati e per tutti coloro che arrivano ad essa. Ma per fare questo dobbiamo essere ‘più Chiesa’, meglio appoggiati a Cristo, pietra angolare, scartata dagli uomini, ma per noi preziosa e scelta. E’ giusto essere contenti di avere una chiesa bella, pulita e ornata; ma sarà motivo di gioia maggiore essere una comunità come il Signore ci vuole, segno di speranza e strumento di futuro, annunciatrice della buona notizia che Dio è in mezzo a noi e ci unisce in un popolo che lavora per il Regno di Dio, regno di santità, di amore, di giustizia e di pace.

OMELIA nel X anniversario della scomparsa del vescovo TARCISIO BERTOZZI
Faenza, Basilica Cattedrale, 20 maggio 2006
24-05-2006

A dieci anni ormai dalla prematura scomparsa del Vescovo Francesco Tarcisio Bertozzi, il nostro ricordo si fa sempre più riconoscente al Signore per il dono grande che è stato per la nostra Chiesa diocesana la persona e il ministero di questo Vescovo. La Parola di Dio che la VI domenica di Pasqua ci ha offerto in questa liturgia prefestiva, ci ha aperto il cuore alla considerazione del ‘centro della fede cristiana’, come ha scritto il Papa Benedetto XVI all’inizio della sua Enciclica: ‘Dio è amore’. ‘In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi, scrive S.Giovanni: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui’. E mediante la Chiesa, Cristo arriva fino a noi, raggiungendoci personalmente con il ministero degli apostoli e dei loro successori, e mediante la grazia dei sacramenti. Anche il vescovo e il sacerdote sono segno dell’amore di Dio, e quanto più il segno è trasparente, tanto più possiamo cogliere l’amore di Dio per noi. Ringraziamo il Signore per il dono del sacerdozio, e per averci donato sacerdoti santi come il Vescovo Tarcisio. Ma che cosa pensava il vescovo Tarcisio del sacerdozio cattolico? Se ne può avere una chiara indicazione nelle omelie del giovedì santo, che ogni anno teneva davanti ai sacerdoti riuniti per la messa crismale. ‘Tutto appare utile, leggiamo nell’omelia del 1995, ma l’impegno della nuova evangelizzazione chiede a tutti di puntare sull’essenziale. Senza una profonda intimità con Cristo e un sereno abbandono all’azione dello Spirito in primis per noi come presbiterio diocesano, non si potrà mai far crescere la nostra Chiesa nel suo insieme. Nel suo essere e nel suo agire il sacerdote è chiamato a rivelare l’amore di Dio come fu espresso dal Buon Pastore’. Nel vangelo di San Giovanni abbiamo sentito l’insistenza di Gesù nell’invitare gli apostoli a rimanere nel suo amore. Non è tanto la condivisione di un particolare momento emotivo di Cristo in prossimità della morte, quanto una precisa indicazione di un rapporto necessario per la vitalità della missione. C’è un parallelismo forte tra la missione di Cristo e quella degli apostoli, e quindi con la missione dei vescovi e dei sacerdoti: come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi; come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi; come io rimango nell’amore del Padre, anche voi rimanete nel mio amore. Ha ragione il vescovo Tarcisio nel dire che ‘senza una profonda intimità con Cristo’ anche l’impegno per la nuova evangelizzazione non avrà l’efficacia necessaria per ‘far crescere la nostra Chiesa nel suo insieme’. Del resto fin dalla prima chiamata il Signore entra in un rapporto personale con i suoi ministri: ‘Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi’. L’intimità di cui parla il Vescovo Tarcisio possiamo essere certi che non era solo una convinzione speculativa, ma era vissuta in modo esemplare, con il tempo della preghiera nella cappella del vescovado, da lui voluta rinnovata e abbellita. E come sarà stata la sua confidenza con il Signore nel tempo in cui ormai la malattia si era manifestata in tutta la sua forza, il tempo di fronte alla morte quando la percezione dell’abbandono da parte di Dio unisce ancora di più alla passione di Cristo in croce? Con quale animo avrà scritto la lettera fatta leggere il giovedì santo del 1996, poco più di un mese prima di morire, nella quale riprende le parole di don Tonino Bello: ‘La sosta sulla croce ci è consentita solo da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Dopo ognuno verrà schiodato e il sole della Pasqua squarcerà le nuvole’? Non so quanto sia durata la sosta sulla croce del Vescovo Tarcisio. E’ vero tuttavia quello che rilevava già il Card. Biffi nell’omelia della messa esequiale: ‘Alla fine è riuscito a dirci nella maniera più efficace, a prezzo di intensi patimenti, che il vertice della carità è l’immolazione di sé, secondo la parola del Maestro: ‘ Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita’ (cfr. Gv 15,13)’. E’ stata proprio la sua sofferenza, non simulata, ma portata con semplice dignità, ad avvicinarlo ancor di più alla gente. Come non ricordare la Messa per la festa della Madonna delle Grazie, da lui presieduta dalla carrozzina, in mezzo ai due Cardinali, che è diventata il suo saluto a Faenza? ‘Anch’io sono un uomo’, abbiamo sentito dire da San Pietro nella prima lettura; e cosa c’è di più umano della sofferenza e della morte, alla quale nessuno può scampare? Questo aspetto umano, e l’esempio della pazienza mostrata nella prova, ha fatto conoscere nella sua grandezza morale e spirituale la figura del Vescovo Tarcisio. Vorrei concludere questi pochi pensieri ricordando l’invito che nell’omelia citata il Card. Biffi faceva:’Altri, con più agio e in sede più opportuna, potrà mettere in luce ‘ con analisi appropriate ‘ la rilevanza che hanno avuto nella storia di questa diocesi i quasi quattordici anni dell’episcopato di Monsignor Bertozzi, anni pervasi dal desiderio di rinnovare tutto nell’autenticità, e di ringiovanire in ogni struttura e in ogni cuore la vita ecclesiale’. A dieci anni dalla sua scomparsa forse è un impegno che resta ancora da adempiere, per non rischiare di perdere la grazia che è stata fatta alla nostra Chiesa con il dono del Vescovo Tarcisio. Anch’egli potrebbe dirci: ‘Rimanete nel mio amore, nell’amore che ho avuto per la Chiesa di Faenza-Modigliana per la quale ho speso la mia vita, amore che non è venuto meno quando Cristo mi ha chiamato accanto a Sé’. E’ una consegna che sentiamo di poter fare nostra, mentre preghiamo ancora per lui e ringraziamo il Padre per avercelo dato.

OMELIA della MESSA CRISMALE
Faenza, Basilica Cattedrale - 13 aprile 2006
13-04-2006

‘Lo Spirito del Signore è sopra di me’. Soltanto Gesù poteva aggiungere: ‘Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi’. Ma il Signore Gesù non ha tenuto per sé la pienezza dello Spirito Santo, e lo ha partecipato alla Sua Chiesa. Diremo tra un poco nel prefazio della preghiera eucaristica: ‘Con l’unzione dello Spirito Santo hai costituito il Cristo tuo Figlio Pontefice della nuova ed eterna alleanza, e hai voluto che il suo unico sacerdozio fosse perpetuato nella Chiesa. Egli comunica il sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti e con affetto di predilezione sceglie alcuni tra i fratelli che mediante l’imposizione delle mani fa partecipi del suo ministero di salvezza’. Nella liturgia della Messa crismale celebriamo l’efficacia dell’unzione dello Spirito santo che attraverso i sacramenti della fede porta la salvezza ai credenti. E’ il mistero di Dio che si lega ai segni voluti da suo Figlio per continuare la sua opera redentrice nella Chiesa. Noi oggi benediciamo gli oli santi; ma non vogliamo dimenticare che quando questi saranno usati per un sacramento ci sarà lo Spirito Santo a dare efficacia al gesto del ministro, per la santificazione dei fedeli. Basti pensare a quello che avviene nel Battesimo e nella Cresima. Il sacerdozio di Cristo dunque è comunicato a tutto il popolo di Dio, e, in grado diverso, è partecipato ad alcuni fratelli a servizio del medesimo popolo. Giustamente oggi noi ricordiamo il dies natalis del sacerdozio ministeriale, nato insieme all’Eucaristia nell’intimità del cenacolo; ma sappiamo pure che il sacerdozio ministeriale non si può concepire senza il sacerdozio regale dei fedeli. Leggiamo infatti nella Lumen Gentium: ‘Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo’ (L.G. 10). Coloro che Cristo ha scelto con affetto di predilezione tra i fratelli, per il servizio del popolo di Dio, sono consapevoli dell’assoluta gratuità di questa chiamata, di cui i primi a meravigliarsi sono proprio loro: ‘Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi’ (Gv 15,16). E nella lettera agli Ebrei si legge: ‘Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati’ (5,1). Come sempre in questa giornata ci uniamo nella gioia del ringraziamento, ai confratelli che ricordano in quest’anno una ricorrenza significativa della loro ordinazione presbiterale: 50, 60 e 65 anni. Fra questi un ricordo particolare lo vogliamo fare per i cardinali Achille Silvestrini e Pio Laghi che festeggeranno con noi il loro 60.mo di ordinazione per la festa della Madonna delle Grazie. Poi come sempre ricordiamo i sacerdoti della diocesi che ci hanno lasciato quest’anno per le dimore eterne; preghiamo per tutti loro, perché siano con Cristo nella gloria, perché in lui hanno sperato e creduto, e Lo hanno servito nella sua Chiesa. Come pure preghiamo per i nostri confratelli ammalati, che stanno vivendo la passione del Signore nel loro corpo e nel loro animo; la loro sofferenza rende prezioso il ministero di tutti, perché ‘senza spargimento di sangue non esiste perdono’ (Ebr 9,22). Se il prete esiste, esiste per gli altri, secondo un progetto che non si è dato lui, ma gli è stato dato da Cristo mediante la Chiesa. E oggi succede, potrebbe sembrare un paradosso, che la fatica che viene richiesta ai sacerdoti non sia tanto la fedeltà ai compiti di sempre, ma il coraggio di rinnovare gli strumenti del proprio ministero per un mondo che sta cambiando rapidamente. Anche in questo c’è un modo ecclesiale di procedere, e anche in questo va sempre salvata la nostra relazione con Cristo, nella Chiesa, per gli uomini. Leggiamo nella Lumen gentium: ‘(I pastori) sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio è di pascere i fedeli e di riconoscere i loro ministeri e carismi, in modo che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune’ (30). E il bene comune più urgente è la formazione di comunità cristiane autentiche, secondo lo stile di una attenzione missionaria che deve rispondere alle attese di un mondo senza speranza. La giusta collocazione dei laici nella Chiesa infatti, prima di essere una risposta al bisogno di collaborazione per i vari servizi è una iniezione di sana condivisione con la situazione della nostra gente, delle gioie, delle speranze, delle tristezze e delle angosce degli uomini di oggi. La comunità cristiana infatti ‘è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il Regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e la sua storia’ (G.S.1). Carissimi sacerdoti, queste parole del Concilio sono ancora per noi la ‘bussola’ per il nostro tempo, come l’ha chiamato Giovanni Paolo II; lo Spirito Santo non abbandona la sua Chiesa, e non dobbiamo lasciarci prendere dallo sconforto perché siamo sempre di meno, invecchiati e stanchi. La Chiesa è sempre giovane, e la missione è ancora agli inizi. Sono stato nelle scorse settimane a far visita alla missione di P.Giovanni Querzani in Congo, che molti di voi hanno aiutato ed aiutano per le sue opere di evangelizzazione, penso alla chiesa sussidiale di Buholo nella parrocchia di Kadutu a Bukavu, e di promozione umana. Lì si vede chiaramente come la presenza della Chiesa cambia la società, e diventa motivo di vera speranza per una realtà umana disastrosa da molti punti di vista. Conoscere il coraggio di quelle giovani Chiese sorelle ci fa solo bene. Il mio viaggio voleva essere un richiamo a guardare alle missioni non solo per fare le adozioni a distanza, ma per conoscerne la genuina freschezza e la fedeltà a Cristo, fino a dare la vita per Lui; in una povertà di mezzi da far piangere, ma in una ricchezza di generosità che noi sogniamo. Carissimi, questa sera nelle vostre chiese celebrerete l’Eucaristia ‘nella cena del Signore’ con le vostre comunità; guardate oltre al gruppo dei fedeli, e vedete tutti i vostri parrocchiani che non sono lì presenti, ma che hanno bisogno di sentire anch’essi che Dio li ha amati fino a dare suo Figlio in espiazione anche dei loro peccati; pensate a tutti gli uomini del mondo per i quali Cristo è morto, e ancora non lo sanno, e chiedetevi: cosa facciamo noi, presbiteri e cristiani, per gli uni e per gli altri? Anche noi siamo inviati ad annunziare ai poveri un lieto messaggio; Cristo ha avuto fiducia in noi: noi non avremo fiducia in Lui? Nel rinnovare ora le nostre promesse sacerdotali, preghiamo lo Spirito Santo perché ravvivi il dono della sua grazia, e conduca tutti noi, pastori e gregge, nella fedeltà alla missione che ci viene chiesta per il nostro mondo.

OMELIA nel primo anniversario della morte di GIOVANNI PAOLO II
Faenza, Basilica Cattedrale, 2 aprile 2006
02-04-2006

Nel cammino quaresimale siamo giunti all’ultima domenica, con la prospettiva imminente della morte di Gesù, strumento della nostra salvezza. La morte e la risurrezione di Cristo sono la nuova alleanza che Dio ha fatto con il suo popolo: io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Tra i segni della fedeltà del Signore al suo popolo lungo la storia, noi oggi vediamo anche il dono del papa Giovanni Paolo II, che ricordiamo nel primo anniversario della sua morte. Dio ha visitato il suo popolo anche con la vita e il ministero del papa Giovanni Paolo II: noi lo ringraziamo e vogliamo fare tesoro del suo insegnamento e del suo esempio. La sua figura ci è rimasta cara, e mentre ora preghiamo per lui, speriamo di poterlo presto invocare, perché la Chiesa ha iniziato per lui il cammino per il riconoscimento pubblico della sua vita santa. In questo giorno di ricordo affettuoso ci piace lasciare parlare ancora lui attraverso qualche pensiero che raccogliamo dal suo lungo magistero. Dobbiamo infatti evitare il pericolo di ricordare solo qualche aspetto esterno della sua vita, trascurando l’insegnamento e l’esempio che ci ha lasciato, sia per la vita della Chiesa, sia per l’impegno personale di ognuno. Fin dal suo primo discorso in piazza San Pietro il giorno dell’inizio del pontificato lanciava un appello che è arrivato al cuore di tutti: ‘Fratelli e sorelle! Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la sua potestà! Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono servire Cristo e, con la potestà di Cristo, servire l’uomo e l’umanità intera! Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo’. L’invito, altre volte ripetuto, a non avere paura e a lasciare entrare Cristo nella propria vita, il Papa l’ha vissuto anzitutto in se stesso, sia come ministero apostolico nella Chiesa, sia come incontro personale nella preghiera e nella vita di ogni giorno con Dio; sapeva raccogliersi in preghiera in ogni momento, anche in luogo pubblico. Nel suo testamento, scritto la prima volta nel 1979 pochi mesi dopo la sua elezione a sommo Pontefice, che rileggeva ogni anno durante gli esercizi spirituali, ha scritto: ‘Desidero ancora una volta totalmente affidarmi alla grazia del Signore. Egli stesso deciderà quando e come devo finire la mia vita terrena e il ministero pastorale. Nella vita e nella morte Totus Tuus mediante l’Immacolata. Accettando già ora questa morte, spero che il Cristo mi dia la grazia per l’ultimo passaggio, cioè la mia Pasqua”. La morte secondo la fede cristiana è la Pasqua del battezzato, che passa da questo mondo alla vita risorta con Cristo. Per Giovanni Paolo II ha impressionato come gli ultimi giorni della sua vita e la sua stessa morte siano stati iscritti con una coincidenza singolare nella liturgia pasquale dello scorso anno, a iniziare dalla Via Crucis del venerdì santo, per la prima volta senza la sua presenza al Colosseo, ma con una sua profondissima intima partecipazione. E poi il suo passaggio alla vita eterna dentro l’ottava di Pasqua, con la partecipazione di tutto il mondo nel dolore, nella preghiera e nel desiderio di essere accanto ad un uomo che aveva tanto amato e aveva dato tutto se stesso per gli altri. Abbiamo sentito nel Vangelo: ‘Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto’. La vita di Papa Voityla è stata tutta un sacrificio, se vogliamo segnata in modo emblematico dall’attentato del 13 maggio del 1981, ma offerta giorno per giorno sino all’ultimo. Anche il suo andare in tutto il mondo, rispondeva al desiderio di spendersi per creare occasioni per annunciare Cristo a tutti, per portare il suo appoggio alle popolazioni più povere del pianeta che sempre hanno visto in lui un difensore. Lui ha detto di fronte ai potenti della terra parole forti in difesa della libertà, della giustizia e della pace, che nessun personaggio investito di simili responsabilità aveva mai detto. Ha potuto sacrificarsi per tutti perché aveva condiviso la sua vita con quella di Cristo. Alle parole del vangelo di oggi: ‘Signore vogliamo vedere Gesù’ aveva ispirato il messaggio per la giornata dei giovani del 2004, in preparazione alla giornata dell’anno successivo di Colonia che Giovanni Paolo II non poté vedere. Ha scritto il Papa in quell’occasione: ‘Il desiderio di vedere Dio abita il cuore di ogni uomo e di ogni donna. Cari giovani, lasciatevi guardare negli occhi da Gesù, perché cresca in voi il desiderio di vedere la Luce, di gustare lo splendore della Verità. Che ne siamo coscienti o no, Dio ci ha creati perché ci ama e affinché lo amassimo a nostra volta. Ecco il perché dell’insopprimibile nostalgia di Dio che l’uomo porta nel cuore: ‘Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto’. Questo volto ‘ lo sappiamo ‘ Dio ci ha rivelato in Gesù Cristo’. E il Papa insisteva nel dire che niente in questo mondo avrebbe soddisfatto pienamente il desiderio di infinito che abita in ogni cuore: ‘Tutti i beni della terra, tutti i successi professionali, lo stesso amore umano che sognate, non potranno mai pienamente soddisfare le attese più intime e profonde. Solo l’incontro con Gesù potrà dare senso pieno alla vostra vita’. Sono state fatte letture a volte riduttive del pontificato di Giovanni Paolo II sotto il profilo politico, sociale, ecumenico. Il suo primo significato è indubbiamente l’annuncio del Signore Gesù al mondo, nella consapevolezza che tutto il resto viene di conseguenza. E sono convinto che il molto che ancora Giovanni Paolo II ha da dire al nostro tempo (anche papa Benedetto XVI ricorda spesso il suo insegnamento) non può prescindere dalla conoscenza profonda, dall’incontro sincero con Cristo Gesù, che dà forza e significato a tutto ciò che si potrà poi fare per la pace, per l’unità dei cristiani, per la giustizia nel mondo, per la salvaguardia del creato, per la dignità della donna, per la difesa della vita ecc. ‘Nella vita e nella morte Totus Tuus, mediante l’Immacolata’: è quindi un tuus di Cristo, al quale si era affidato completamente, per conoscerlo e per servirlo, nella Chiesa per il mondo. Siamo consolati oggi da un’altra parola del Vangelo:’Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io là sarà anche il mio servo’. Certi che Giovanni Paolo II ha servito Gesù nella sua vita, lo pensiamo già accanto a Lui; tuttavia in questo primo anniversario continuiamo a pregare perché Cristo lo accolga con Sé in Paradiso; ma chiediamo anche che presto lo possiamo invocare come intercessore, perché Cristo sia tutto in tutti, a cominciare dai giovani, per arrivare ai cristiani di tutte le Chiese, e agli uomini di tutto il mondo.

OMELIA per il XV di ORDINAZIONE EPISCOPALE
Faenza, Basilica Cattedrale 15 gennaio 2006
15-01-2006

Ringrazio Mons. Vicario Generale per questa messa di ringraziamento in occasione del quindicesimo anniversario della mia ordinazione episcopale, e ringrazio quanti hanno voluto partecipare nella preghiera. La parola di Dio ci ha fatto entrare nel mistero di Dio che chiama. Dio chiama tutti alla vita di figli; poi qualcuno è chiamato a mettersi a servizio del suo popolo nel ministero ordinato, o ad essere un segno del Regno nella vita consacrata; ma deve essere chiaro che tutti dobbiamo percepire la vita come una risposta ad una chiamata. Solo così ci apriremo a considerare la vita come un dono e il servizio come l’uso riconoscente del dono. Abbiamo sentito l’evangelista Giovanni raccontare la chiamata sua e dell’amico Andrea, a diventare apostoli, in seguito ad una indicazione esplicita del Battista a seguire Cristo. C’è sempre qualcuno che fa da tramite perché si possa scoprire il Signore. Anche così si riconosce il dono: qualcuno te lo ha indicato, o la famiglia, o la parrocchia, o un sacerdote, o tutti insieme. Il Battista ha messo sulla strada giusta i due giovani, i quali poi hanno fatto il loro percorso attirati da Cristo. ‘Gesù si voltò e vedendo che lo seguivano disse: Che cercate?’ Il suo intento è forse quello di aiutarli e mettere a fuoco l’obiettivo della loro ricerca. Che fossero in una certa confusione lo si può desumere dal fatto che invece di rispondere fanno un’altra domanda: ‘Maestro, dove abiti? Dove stai?’ che poteva significare: qual è la tua famiglia? Da dove vieni? Chi sei? A quel punto Gesù non dà una risposta, ma fa in modo esplicito il suo invito, come farà poi altre volte in seguito: ‘Venite e vedrete’. Certe cose non si capiscono a parole, ma si possono vedere e condividere, cogliendone il senso vero dall’esperienza. ‘Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui’. Giovanni in realtà usa lo stesso verbo, che significa stare, rimanere: ‘Andarono e videro dove stava e quel giorno stettero presso di Lui’. E si può pensare che, più che in un luogo, videro che Gesù rimaneva nell’amore del Padre. Dirà in seguito Gesù: ‘Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore’ (Gv 15,9s). Quindi quel ‘si fermarono presso di Lui’ ha un significato molto denso, se Andrea ha intuito che si trattava del Messia, tanto che lo andrà a dire a suo fratello Simone. Giovanni scriverà nella sua prima lettera: ‘Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato’ noi lo annunziamo a voi” (1Gv 1,1ss). È bello quando possiamo percepire la nostra vita come una risposta ad una chiamata, quando ci rendiamo conto con quanto amore siamo stati cercati da Dio mediante coloro che ne sono stati il tramite, a cominciare dai nostri genitori, e da coloro che ci hanno dato una educazione cristiana. Ma perché questa percezione avvenga, sono necessarie almeno due condizioni. Anzitutto bisogna riuscire ad ascoltare la voce di Dio che chiama. Oggi, di fronte alle poche vocazioni sacerdotali, è facile pensare che Dio non viene ascoltato quando chiama ad una vita di speciale consacrazione, come il ministero presbiterale; ma dobbiamo pensare che c’è sordità anche quando chiama ad una vita di figli di Dio coerente col Vangelo. E se c’è una relazione tra i due tipi di vocazione, credo che si possa dire che la vocazione alla vita cristiana è il contesto in cui può maturare una disponibilità anche ad un servizio nel popolo di Dio, mediante un ministero ordinato; in altre parole: se ci sono pochi preti, è perché ci sono pochi cristiani. Nel racconto della vocazione di Samuele, lo sentiamo rispondere: ‘Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta’. Oggi bisognerebbe dire: ‘Signore, parla più forte, perché nel frastuono del mondo la tua voce non si sente’. Siamo troppo distratti dalle proposte alternative illusorie ma affascinanti che sono ormai alla portata di tutti. La seconda condizione per renderci conto che la vita è una chiamata, è quella di scoprire che Dio a noi chiede tutto, anima e corpo, ma nello stesso tempo Egli soddisfa ad ogni nostra attesa. E’ possibile che ci spaventiamo all’ipotesi che Dio possa chiedere tutto, ma dobbiamo poi pensare alla gioia che Dio sa dare a chi dona tutto. La gioia di chi incontra Gesù, è una gioia vera, che si vede. San Paolo ci invita a rispettare il nostro corpo, destinato alla risurrezione come quello di Cristo, perché siamo membra di Cristo, cioè della Chiesa, suo corpo mistico. La vita cristiana non è solo un modo di pensare, o una concezione della vita; comporta una realizzazione concreta, fatta di gesti, di fatica, di gioia, di attività che interessano anima e corpo; del resto è attraverso il corpo che ci incontriamo con gli altri e formiamo la comunità. La partecipazione all’Eucaristia comporta una presenza di anima e di corpo, e la comunione sacramentale ha bisogno anche del nostro corpo. Davvero il valore del corpo è grande: ‘Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi?’ Il pensiero cristiano sa che rispettare il corpo vuol dire rispettare la persona in quanto tale. Purtroppo a questo riguardo c’è una grande mistificazione, perché mentre si vuole esaltare la libertà, si finisce per degradare la dignità dell’uomo anche nel suo corpo. Non è vero che ‘il corpo è mio e lo gestisco io’, perché ‘non appartenete a voi stessi; infatti siete stati comprati a caro prezzo’. E il fatto di appartenere a Cristo, è la misura della vera dignità, perché certamente Lui vuole più bene a noi di noi stessi; basterebbe pensare a che cosa ha fatto per amore nostro, morendo e risorgendo per dare a noi la sua vita divina. È per quello che in una occasione come questa, la cosa più importante è proprio la gratitudine per essere stati chiamati. Da parte mia ringrazio il Signore perché mi ha fatto cristiano, mi ha chiamato ad essere sacerdote e vescovo, e mi ha posto in questa santa Chiesa di Faenza-Modigliana. È chiaro che ogni tappa della vita è anche una occasione per fare dei bilanci ed esprimere delle valutazioni su ciò che si è fatto. A questo riguardo però è meglio affidarsi completamente alla misericordia di Dio, sia nel caso che il nostro cuore ci rimproveri qualche cosa (e qui è bene ricordare che Dio è più grande del nostro cuore), sia che qualcuno abbia qualcosa di cui rallegrarsi. C’è una frase di San Paolo poco prima del brano della seconda lettura di oggi, che dice: ‘Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele’. E fin qui è un invito sul quale fa sempre bene fare l’esame di coscienza. Ma l’osservazione che più interessa viene dopo: ‘A me però, poco importa di venire giudicato da voi o da un consesso umano; anzi, io neppure giudico me stesso, perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore’. Per cui anch’io mi affido volentieri alla misericordia di Dio non solo per le mancanze, che ci sono e non sono poche, ma anche perché se qualcuno trova qualcosa di buono, non tocca a lui giudicare: mio giudice è il Signore. È giusto quindi ringraziare per tutti i benefici ricevuti, ed è bene invocare la misericordia del Signore che ci accompagni ogni giorno della vita, fino a quando ritorneremo nella braccia del Padre con tutti coloro che ci hanno già preceduto.

Omelia di inizio ministero pastorale
Il testo dell'omelia di Pentecoste, nel giorno dell'ingresso in Diocesi
30-05-2004
Download PDF

Abbiamo pregato all’inizio di questa santa liturgia: ‘O Padre che nel mistero della Pentecoste santifichi la tua Chiesa in ogni popolo e nazione”. Quindi nel mistero della Pentecoste il Padre santifica anche il popolo che oggi vive nella terra di Romagna e in questa diocesi di Faenza-Modigliana, e predispone ciò che è necessario alla santificazione e alla salvezza di tutti. Oggi in particolare questa Chiesa fa esperienza della fedeltà di Dio verso di lei, nella continuità della successione apostolica. Lo Spirito Santo attraverso il ministero del Papa ha inviato il vescovo, successore degli apostoli, alla Chiesa di Faenza-Modigliana: anche questo è un segno visibile dell’amore del Padre.