Archivi della categoria: Omelia

OMELIA per l’ANNIVERSARIO della morte di don BENZI
Faenza, Basilica Cattedrale, 31 ottobre 2008
01-11-2008

Entriamo anche noi nel contesto della solennità di tutti i Santi, non tanto per ricordare delle persone, delle figure, delle storie, quanto piuttosto per ricordarci che c’è una situazione gloriosa, di beatitudine, c’è una eternità nella quale tutti siamo chiamati a entrare per i meriti del Signore Gesù morto e risorto.

Abbiamo davanti a noi il paradiso in questa festa; quindi più che preoccuparci di pensare ai nomi di questi santi che vengono ricordati durante l’anno, pensiamo alla moltitudine immensa che S. Giovanni ha visto nell’Apocalisse, che abbiamo sentito come prima lettura. Fra l’altro anche questo aspetto ci mette nel contesto del mistero pasquale, perché l’Apocalisse viene letta nel tempo di Pasqua nella liturgia.

Oggi la festa dei Santi è davvero una festa pasquale di vita, di risurrezione, di vittoria sulla morte e sul male, e ci mettiamo quindi anche noi in questo clima di festa e di gioia, guardando avanti, guardando oltre, guardando al dopo della nostra vita.

Ci aiuta in questa riflessione la figura di don Oreste, una figura che abbiamo conosciuto, di cui ringraziamo il Signore per avercelo donato in questo tempo così particolare, ma anche capace di accogliere e di accorgersi dei testimoni e di coloro che hanno qualche cosa da dire e da dare.

Lo ringraziamo il Signore per questo dono, anche se siamo qui a un anno dalla sua morte per ricordarlo e pregare per lui, perché possa pienamente entrare nella gioia del suo Signore. Dobbiamo ricordarci di pregare per i nostri morti; dobbiamo ricordarci di offrire sacrifici e opere buone per loro, nella comunione dei santi, in questo mistero grande e bello che fa sì che noi avvertiamo che non sono morti del tutto, ma che sono ancora vivi, in modo diverso. ‘Come saremo non è stato ancora rivelato’, ci ha detto S. Giovanni nella seconda lettura; ‘ma noi che siamo figli di Dio fin d’ora, sappiamo che lo vedremo così come egli è’.

A me piace ripassare con voi le beatitudini del Vangelo in trasparenza con la vita e l’opera di don Oreste. Non è che lo vogliamo beatificare, compito che spetta alla Chiesa che lo farà se e quando lo riterrà opportuno; ma per il nostro esempio e la nostra edificazione è bello ricordarlo nella filigrana di queste affermazioni che Gesù ha posto davanti ai suoi discepoli come strade per il Cielo.

Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli. Tutti ricordiamo la veste lisa di don Oreste, il suo colbacco, sempre quello; segni di un distacco dalle cose, di una libertà, di una povertà vissuta. Pur avendo da gestire tante opere e avendo da aiutare in tanti modi, credo che non si sia attaccato niente a quelle mani.

Beati quelli che sono nel pianto perché saranno consolati. Qui possiamo dire che è stato anche lui strumento di consolazione per quelli che piangevano. Perché è così: quando il Signore ci viene incontro con i suoi doni, si serve di qualche altro.

Beati i miti. Possiamo metterli insieme agli operatori di pace, coloro che sanno che in questa vita non si ottiene nulla con la violenza, ma che si deve costruire tutto nell’amore. Gli operatori di pace: coloro che per testimoniare e aiutare a fare la pace nei luoghi dove c’è la guerra guerreggiata venivano inviati da don Oreste come segni, le colombe della pace, con un messaggio, per dire che è possibile’ provateci’ lasciate perdere questi strumenti di morte.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia. La battaglia di don Oreste per ridare dignità alle donne ridotte in schiavitù dalla concupiscenza degli uomini e riconoscerne i diritti.

Beati i misericordiosi. Non guardare allo sbaglio fatto, al peccato, ma affidarsi tutti e sempre alla misericordia di Dio, per accogliere chiunque. ‘Ma questo l’ha voluto lui, perché si è messo lui per quella strada, ha assunto sostanze”. Non si guarda a queste cose quando c’è qualcuno da salvare, da liberare, da redimere, da rimettere sulla strada giusta. La misericordia: uno degli impegni più grandi che l’uomo possa realizzare; eppure è dimostrato che è possibile essere misericordiosi come il Padre, per conto del Padre, inviati dal Padre per usare misericordia.

Beati i puri di cuore perché vedranno Dio. E lo vedranno nei piccoli, nei sofferenti, negli abbandonati, nelle persone sole. I puri di cuore: coloro che non si costruiscono dei diaframmi, ma hanno la semplicità che Dio ha dato ai piccoli, e si rendono capaci di vedere Dio dovunque si manifesta; certamente nella sua Parola, che don Oreste sapeva commentare con tanta efficacia; spezzava il pane della Parola per i suoi piccoli, coloro che lo seguivano, che si aspettavano da lui non soltanto la carità materiale, ma anche la carità della verità.

Beati i perseguitati per la giustizia perché di essi è il Regno dei cieli. Non sempre è stato facile anche per lui quello che ha fatto: le incomprensioni, le fatiche, le difficoltà, le obiezioni da parte di tanti; ma quando si intuisce che è il Signore che chiede, nulla può fermare un’anima che sa che non lo fa per sé ma lo fa per il Signore, il quale gli mette davanti le situazioni e chiede di affrontarle e di risolverle. È in questo modo che ha coinvolto tanti a seguirlo. E credo che questa sia l’eredità più bella, insieme all’esempio della sua vita, che don Oreste ci ha lasciato: qualcuno che è capace non solo di continuare, ma di dilatare l’opera di carità che lui ha avviato nel nome del Signore, sapendo che un giorno anche lui sarebbe andato a riposare nell’eternità.

E non è una coincidenza il fatto che sia morto il due di novembre, quando la Chiesa ricorda tutti i nostri morti, per dirci che entriamo nella vita con quel passaggio. La nostra esistenza è sempre iscritta in una liturgia; è liturgia essa stessa, segnata dai sacramenti nella tappe fondamentali, dall’inizio, al passaggio della crescita; pensiamo al sacramento dell’ordine per don Oreste, sacerdote di Cristo. Anche la sua fine è stata iscritta in una liturgia, perché dalla liturgia noi dobbiamo non soltanto imparare un esempio, ma attingere la forza e la grazia, attraverso la preghiera, i sacramenti, la parola di Dio.

Così la liturgia eterna del cielo che ci attende sia la pienezza, la sublimazione della liturgia che in anticipo come caparra celebriamo su questa terra.

OMELIA per le ESEQUIE di mons. MARIO BABINI
Faenza, Basilica Cattedrale, 18 ottobre 2008
18-10-2008

Lo sapevamo che il male che aveva colpito don Mario non lasciava via di scampo; ma ora che don Mario ha concluso la sua vita terrena, avvertiamo un senso di vuoto, con la percezione che qualcosa di grande è finito. Sono tanti oggi a sentirsi un po’ orfani.

Per non lasciarci prendere da considerazioni troppo umane, che pure sarebbero legittime da parte dei familiari e di quanti gli hanno voluto bene, penso in particolare alla sorella Domenica, che ha condiviso con lui una vita intera, vogliamo farci guidare dalla parola di Dio, perché è questa che ci rivela la pienezza della nostra umanità ed è capace di farci entrare anche nel mistero della morte.

‘Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: ‘Abbà, Padre”. Riconoscere la paternità di Dio è indubbiamente un dono dello Spirito Santo, ma abbiamo anche bisogno di avvertirne la presenza, di riconoscerlo nella quotidianità, di esperimentarne la tenerezza. La vita a volte è dura e difficile, e incontrare qualcuno che dia un aiuto vero, che sia capace di soffrire con chi soffre e gioire con chi gioisce, che condivida sinceramente le situazioni, che sappia portare i pesi degli altri, che stia accanto anche in silenzio o con una parola vera: quando questo accade è segno che abbiamo incontrato uno che sa trasmettere l’amore del Padre. Quanti in questi giorni mi hanno detto: in un momento difficile della mia vita, don Mario mi è stato vicino e mi è stato di grande aiuto.

Il sacerdote è sacramento di Cristo capo e pastore in mezzo agli uomini: don Mario è stato soprattutto segno e strumento della misericordia di Dio, attraverso la confessione e la direzione spirituale. In questo ministero ha rivelato una grande sapienza, raggiunta soprattutto attraverso la conoscenza dei santi nella loro vita e nei loro insegnamenti; ha trasmesso la sua profonda spiritualità, maturata nella preghiera e nella sofferenza; ha comunicato la dolcezza del suo animo e insieme la forza, quando il vero bene delle anime lo richiedeva. Nessuno tornava da un incontro con lui senza la percezione di avere trovato un uomo di Dio che aveva preso a cuore la sua situazione.

Nella storia della nostra Chiesa sono tante le realtà ecclesiali che lo hanno visto sostenitore, animatore e anche assistente spirituale, sempre con l’intento di suscitare vocazioni laicali, e di aiutare a camminare verso Cristo, senza legare a sé nessuno. Un sacerdote mi ha scritto: ‘Aveva il dono di ‘scrutare’ le anime, che poi lasciava consolate, fortificate, mai, assolutamente mai plagiate’.

Ha amato la sua Chiesa, questa Chiesa di Faenza-Modigliana, con i suoi doni e le sue povertà; l’ha amata fino al punto di sentire il bisogno di dirlo; è la Chiesa per la quale ha speso tutta la vita, ha dato tutto il suo tempo, ha donato tutte le sue energie, anche quando non ne aveva quasi più e non potendo uscire a causa del freddo per venire in Duomo riceveva nella sua casa. 

Perché un grande contributo alla vita della nostra Chiesa don Mario lo ha dato attraverso la sofferenza, dovuta ad una salute malferma fin dall’inizio della sua vita presbiterale. ‘Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria’. È attraverso la sofferenza che accompagna il ministero che il prete partecipa alla vittoria di Cristo sul male, quando assolve i peccati, quando conduce sulla via del bene, quando innamora alla Parola di Dio, quando riconduce alla Chiesa le pecore smarrite. È difficile separare il ministero presbiterale di don Mario dalla sofferenza o dalla poca salute; eppure quale efficacia ha avuto ciò che egli ha fatto in tanti ambiti della vita della nostra Chiesa, tra i giovani, gli sposi, le persone consacrate, i sacerdoti, e quanti incontrava per la confessione.

Anche la malattia finale, accettata con piena disponibilità alla volontà di Dio e con edificazione di quanti lo hanno visto sempre con il sorriso, è stata un’offerta quotidiana sull’altare della croce, in attesa del Signore che viene.

Se si vuole trovare un aspetto prevalente nella vita sacerdotale di don Mario Babini, penso che si possa vedere nella sua sensibilità missionaria. ‘Andate’e fate discepoli tutti i popoli’ Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo’. Il segno più evidente di questo lo possiamo vedere nella promozione dell’Associazione Missionaria Internazionale, per la quale ha aiutato la formazione di laici generosi che poi sono andate in varie parti del mondo; ma lo vediamo anche nell’importanza che egli ha sempre dato all’evangelizzazione nell’impegno dei presbiteri e dei laici. Siamo alla vigilia della Giornata missionaria mondiale, e la vita di don Mario ci insegna come si può essere veramente missionari sempre e dovunque, con la fiducia nel Signore, che ha promesso di essere con noi tutti i giorni.

Ora che la tribolata vicenda terrena di don Maro si è conclusa, siamo convinti ancora di più di ciò che S. Paolo ci ha ricordato: ‘Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi’. 

Accompagniamo con questa Eucaristia insieme a Cristo morto e risorto la vita e la morte di don Mario davanti al Padre delle misericordie, per accolga nella sua pace questo suo sacerdote fedele, e gli dia il premio delle sue fatiche apostoliche. Quanti abbiamo un dovere di riconoscenza verso don Mario Babini, non facciamogli mancare la nostra preghiera e il nostro sacrificio di suffragio, perché il Signore perdoni le sue colpe e lo accolga con tutti i Santi in Paradiso.

Beata Vergine delle Grazie, che tante volte don Mario ti ha pregato per l’ora della sua morte, mostra anche a lui dopo questo esilio Gesù, il frutto benedetto del tuo seno, o clemente, o pia, o dolce vergine Maria.

OMELIA per la festa della THEOTOKOS presso la BASILICA DEL CONCILIO di EFESO
Efeso, 12 ottobre 2008
12-10-2008

Desidero anzitutto ringraziare di cuore l’Arcivescovo Mons. Ruggero Franceschini per l’invito che mi ha rivolto, di venire a condividere con voi la gioia della Solennità della Maternità divina di Maria, e sono lieto di porgere a tutti voi il mio saluto in Cristo, a nome anche della Chiesa di Faenza-Modigliana qui rappresentata da una piccola delegazione.

Lasciate che esprima la mia commozione di poter celebrare l’Eucaristia nel luogo stesso in cui i padri del Concilio ecumenico del 431 proclamarono la maternità divina della Vergine Maria.

Mentre ne facciamo memoria ci domandiamo: ‘La verità che è stata definita come fede cattolica da credersi da tutti e sempre, è un’affermazione che riguarda solo la teologia, oppure ha qualche riflesso nella vita dei cristiani?’.

La dottrina della divina maternità di Maria fu trasmessa con queste parole:

I padri conciliari non dubitarono di chiamare Madre di Dio la santa Vergine, non certo perchè la natura del Verbo o la sua divinità avesse avuto origine dalla santa Vergine; ma, poichè nacque da lei il santo corpo dotato di anima razionale, a cui il Verbo è unito sostanzialmente, si dice che il Verbo è nato secondo la carne‘ (DS 251).

L’apostolo Paolo nel brano della lettera ai Galati che abbiamo ascoltato mette in evidenza il ruolo che Maria ha avuto come madre di Gesù e ci rivela il perchè di questo mistero: Dio mandò suo Figlio nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perchè ricevessimo l’adozione a figli’.

Volendo mettere in evidenza ciò che vuol dire S. Paolo in questo passo, scopriamo che si affermano due cose: la schiavitù dalla legge antica è stata tolta da Cristo nato sotto la legge; l’adozione a figli di Dio è stata resa possibile da Cristo nato da donna. In altre parole nascendo nel tempo Cristo ha dovuto subire due condizioni: è nato sotto la legge di Mosè, e per questo ci ha liberati dalla legge; è nato da una donna, e per questo abbiamo potuto diventare figli di Dio, partecipi della natura divina, mediante il dono del suo Spirito.

La maternità divina di Maria è un mistero che ci rivela la grandezza della Vergine Santa, voluta da Dio come Madre di Suo Figlio. Maria è la prima creatura che entra in rapporto con la divinità, e l’accoglie nel suo grembo. Proprio in quanto Madre del Figlio di Dio Maria è madre di tutti coloro che diventano ‘figli nel Figlio’, di coloro cioè ai quali Cristo con il suo mistero pasquale di morte e di risurrezione ha dato il potere di diventare figli di Dio.

Maria quindi, proprio perchè Madre di Dio, è madre anche di ciascuno di noi nell’ordine della grazia. Sotto la croce Maria ha ascoltato da Gesù stesso la rivelazione di questa sua prerogativa, quando egli ha detto all’apostolo Giovanni: ‘Ecco tua madre‘.

S. Paolo ci ha fatto conoscere la radice del mistero per il quale Maria è madre di Dio e per questo anche madre nostra, mentre l’evangelista Giovanni ci ha insegnato ad accogliere questa madre nella nostra vita. I due apostoli insieme ci hanno detto che il mistero della maternità divina di Maria interessa la vita di ogni cristiano.

La città di Efeso si trova al centro di questa bella realtà per due ragioni, perchè è stato il luogo della solenne definizione da parte del Concilio della Maternità divina di Maria, e perchè custodisce la tomba dell’apostolo Giovanni che per primo fu affidato da Cristo alla Madre celeste.

Anche noi come Elisabetta possiamo esclamare: ‘A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?’ A che cosa dobbiamo noi tutti, di poterci affidare alla Vergine Maria come nostra Madre, sapendo di essere accolti da lei come suoi figli? A che cosa, se non al grande amore con il quale Dio ha voluto redimere tutta l’umanità?

Maria, nel momento in cui apprende dall’Angelo la notizia di essere madre, si mette in viaggio per andare dalla cugina Elisabetta. In questo modo ci fa conoscere che la presenza di Dio nel suo grembo la rende missionaria, annunciatrice di salvezza e di speranza.

Elisabetta proclama la sua fede; nel suo grembo il figlio Giovanni esulta di gioia; Maria stessa magnifica il Signore e lo riconosce suo Salvatore. Siamo proprio nella pienezza dei tempi, cioè nel tempo riempito dalla presenza di Dio che è finalmente venuto per rinnovare il mondo, e realizzare quanto aveva già previsto il profeta Isaia.

Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce‘. E’ quello che è accaduto. A noi oggi sembra di essere ancora quel popolo che cammina nelle tenebre, perchè sono tante le tenebre che avvolgono i nostri giorni. Ma siamo anche il popolo che vede una grande luce che ci riempie di gioia, perchè un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio, il cui nome è: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.

Davvero non siamo più soli; la maternità di Maria ha portato Dio in mezzo a noi, e ha cambiato anche il rapporto tra di noi; non siamo più gli uni contro gli altri armati, ma siamo fratelli, figli tutti dell’unico Padre.

Come nelle nostre famiglie è la madre che le tiene unite e ricupera gli eventuali contrasti, così Maria ci presenta Suo Figlio per ricordarci che lui è venuto per fare di noi una sola famiglia, nella quale si possa vivere nel rispetto e nell’amore reciproco, fondamento della vera pace.

Il modo più bello di celebrare la festa della maternità divina di Maria è fare di tutto perchè si realizzi la pace fra gli uomini, nelle famiglie, fra le nazioni, nel mondo intero. Questo dono anzitutto va chiesto a Dio, perchè lo conceda agli uomini di buona volontà. Ma dobbiamo anche costruire la pace tra noi, nel rispetto reciproco, nel perdono, nell’accoglienza e nell’amore.

Per raggiungere questo scopo possiamo favorire nel nostro paese un modo di pensare che rispetti la dignità di ogni persona, senza distinzione nè per la condizione economica e sociale, nè per le differenze di nazionalità e di religione. Se il mondo è riuscito a capire che non si possono regolare i rapporti tra gli uomini con la guerra, può arrivare anche a capire che con l’aiuto di Dio e la buona volontà di tutti si può arrivare a costruire la pace.

Questo ci conceda il Signore per l’intercessione di Maria Vergine, Madre di Dio e madre nostra.

 

OMELIA per la ESALTAZIONE DELLA CROCE e CANDIDATURA al DIACONATO PERMANENTE
Russi, 13 settembre 2008
15-09-2008

Abbiamo incontrato la solennità dell’Esaltazione della croce in questa domenica che stiamo già vivendo nella celebrazione prefestiva, durante la quale accoglieremo la candidatura di un vostro fratello e amico Giulio Donati al diaconato permanente. È una coincidenza che illumina e arricchisce il breve rito che faremo, perché vedremo come il servizio al quale il diacono è destinato comporti seguire il Signore fino sulla croce.

Questa solennità introdotta verosimilmente per la dedicazione di una o di entrambe le basiliche costruite sui luoghi della passione,  vuole celebrare la croce come strumento di salvezza, che ha portato Gesù il Salvatore del mondo. Quindi non stiamo celebrando il mistero della passione, morte e risurrezione del signore Gesù, ma solo lo strumento della passione.

Tanto per farmi capire, una volta uno mi disse: ‘Nel nostro ufficio hanno messo soltanto la figura di Gesù senza la croce’, come usa adesso da parte degli artisti, e mi diceva: ‘E’ più importante la croce’. E io dicevo: ‘Hai ragione’, perché è quello il segno della nostra salvezza. Tanto è vero che nei primi secoli cristiani veniva rappresentata la croce, pensate a S. Apollinare a Ravenna, gloriosa, gemmata, luminosa perché il Cristo era risorto, non era più in croce.

E quando nell’epoca romanica hanno cominciato a raffigurarlo, lo raffiguravano vivo, con la corona in testa, i paramenti sacerdotali, gli occhi aperti, perché Cristo è vivo.

Nelle epoche successive hanno poi preso a rappresentare il Cristo nel momento della morte, o appena morto, ecc. Per dire che la celebrazione di oggi è questa: l’esaltazione della croce, cioè l’importanza di questo strumento, e anche il significato che questa parola ha preso nel nostro linguaggio.

Gesù ha detto: ‘Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo’, ricuperando quel episodio, che abbiamo sentito nella prima lettura, di Mosè che mette un serpente di rame sopra un’asta, anche questo come strumento di salvezza per il popolo che veniva aggredito dai serpenti. Cioè, il serpente che era strumento di morte diventa strumento di vita, così come la croce, che normalmente è uno strumento di morte. Anche per Cristo è stata strumento di morte, ma è diventata strumento che dà la vita.

Anche l’innalzare da terra, il sollevare, il guardare in alto, ci ricorda la gloria di Cristo. Anche questo significato lo possiamo trovare nelle parole del Signore Gesù, il quale dice nel Vangelo di Giovanni: ‘Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me‘ (12,32). C’è quindi il pensiero della gloria che sta al culmine della vicenda della crocifissione del Signore.

‘Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito; Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui’. Ecco come la croce diventa strumento di salvezza, per l’amore col quale Dio ci ha amato e ci ha mostrato questo suo amore nel suo Figlio fino a donarlo, sacrificarlo per la nostra salvezza.

Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio, ma perché crediamo che Dio ci ama. Questa è una delle tante differenze del cristianesimo; è una delle rivelazioni che fa la differenza del cristianesimo. Anche quando ci proviamo e vogliamo dimostrare giustamente di amare il Signore, non è questo l’essere cristiani, ma il sapere di essere amati, il sapere di essere stati oggetto di un amore così grande, per il quale Cristo è morto in croce. Ecco la croce come segno dell’amore di Dio per noi.

Quando nella tradizione cristiana si è cominciato a mettere la croce o anche il crocifisso dappertutto, non era per spaventare i bambini con un ‘cadaverino’ sulla croce, ma era per ricordare l’amore col quale Dio ci ha amato, fino a quel punto ci ha amato. E abbiamo bisogno di ricordare che Dio ci ama.

La gente che non vuole più vedere il crocifisso si dispera perché non crede più nell’amore di Dio. Anzi pensa proprio che Dio non gli vuole bene, perché non ci manda la pioggia quando aspettiamo la pioggia, non ci manda il sole quando aspettiamo il sole, perché non ci guarisce quando siamo ammalati e così via, e non sa che il segno dell’amore di Dio è la croce di Cristo.

Nella seconda lettura abbiamo sentito da S. Paolo il tracciato che ha fatto il Figlio di Dio quando è venuto per mostrarci l’amore del Padre. Da Dio che era si è fatto servo (in greco: doulos, cioè schiavo), ha preso la figura di uomo, è morto, è morto in croce, ma Dio gli ha dato un nome, che è il Signore (Kyrios).Quindi possiamo dire che c’è una parabola che Cristo ha fatto per mostrarci il suo amore, e così facendo ha ricuperato un nuovo titolo di gloria, che è la signoria sul mondo.

È questa signoria che la Chiesa riconosce nel tempo e vuol servire nei fratelli, che sono un segno di Cristo. Quindi possiamo dire che il servizio, che anche il diacono ricorda nella Chiesa, nasce principalmente da Cristo Signore, alla cui signoria tutti devono servire nella Chiesa, la quale serve la signoria di Cristo nei fratelli. Quindi non è tanto per imitare il servizio che Cristo ha fatto dando la vita per noi, ma proprio per servire la sua signoria. È molto bello questo passo di S. Paolo che ci fa collocare al posto giusto il servizio che il diacono ci ricorda.

 

Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io là sarà anche il mio servo‘ (Gv 12,26). Per svolgere il servizio non si tratta di inventare delle cose da fare: primo bisogna seguire Cristo. Poi Gesù dice in Matteo: ‘Se qualcuno vuol venire dietro a me, quindi mi vuole seguire, rinneghi se stresso, prenda la sua croce e mi segua’ (Mt 16,24). Anche qui c’è un concatenamento di atteggiamenti posti dal Signore: il seguire, il servire, la croce.

Sono atteggiamenti spirituali, ma sono atteggiamenti che troviamo nella Chiesa svolti da qualcuno, perché questi atteggiamenti siano vivi e presenti e siano realizzati.

Per i discepoli di Cristo ci sono alcune parole chiavi: koinonia, che è la comunione dono dello Spirito santo; liturgia, perché tutto nasce e tutto finisce nell’Eucaristia, nella liturgia, nel culto, nel riconoscere il nostro Dio, nel lodarlo anche con la preghiera liturgica; diakonia, che è il servizio della carità; martyria, la testimonianza della vita fino al sacrificio. Queste parole ci dicono la vita della Chiesa in alcuni aspetti fondamentali. Nella Chiesa per mantenere viva questa realtà, ci sono i ministri: i ministri della liturgia sono i presbiteri, i ministri della diakonia sono i diaconi, che vengono ordinati per il servizio.

Concludiamo questa riflessione che è partita dalla croce posta alla nostra attenzione quest’oggi. Vogliamo accogliere la disponibilità di Giulio a fare il percorso di preparazione al diaconato, perché prima di chiedersi che cosa deve fare, ci si deve chiedere chi deve essere il diacono. Abbiamo sentito che deve essere uno che è dentro la Chiesa-comunione, e sa che deve collaborare con i doni dello Spirito per creare unità, comunione, pace nella Chiesa; è uno che sa che deve pregare, e quindi collabora al culto, alla liturgia col presbitero; sarà accanto all’altare,una volta che sarà ordinato, perché anche lui prende di lì la forza e la ragione del suo servizio; dovrà esercitare la diaconia senza esaurirla, ma animandola, provocandola.

Qualcuno ricorda che anche i preti e il Vescovo diventando preti e vescovo rimangono diaconi. Il diacono ha questo dono preciso di ricordare che la comunità la Chiesa, tutti siamo a servizio. E tutti dobbiamo dare la nostra testimonianza di vita, compreso il sacrificio, che può essere anche il martirio. In questi giorni sentiamo l’esempio dell’India perché oggi fa notizia quella, ma continuano i martiri in Cina, in Africa, in America latina e in tutto il mondo dove c’è aggressione ai cristiani. Viene chiesto sacrificio e testimonianza anche qui dove viviamo noi, dove il cristiano magari è soltanto preso in giro.

Noi sappiamo che servire Dio è regnare, e siamo lieti di poter servire Cristo Signore che ci ha amato fino a questo punto, nella libertà dei figli di Dio, nella comunione della Chiesa.

Ecco come la liturgia ci ha aiutato a vedere questo rito che adesso compiamo, accogliendo la candidatura per la preparazione al diaconato permanente di Giulio Donati, ringraziando il Signore e lui per questo dono.

OMELIA per le ESEQUIE di mons. VERALDO FIORINI
Faenza, Chiesa di S.Maria Maddalena, 9 settembre 2008
09-09-2008

È davvero con tanta serenità che stiamo dando il saluto cristiano a don Veraldo, perché facciamo fatica a non pensarlo vicino al Signore, che lo ha chiamato all’eternità all’inizio di domenica scorsa, per la domenica senza tramonto.

Domenica era la vigilia della festa della natività di Maria. Questo ci fa notare quali siano stati i due grandi amori di don Veraldo: il Signore, la domenica con la famiglia parrocchiale riunita nell’Eucaristia, e la Vergine santa.

Noi ci troviamo con l’Eucaristia a offrire la sua vita e la sua morte insieme a quella di Gesù. Il prete è il ministro dell’Eucaristia alla quale è stato deputato con un sacramento, per poterla donare al popolo santo di Dio.

Oggi nell’Eucaristia don Veraldo è anche offerta; è presentato al Signore dal ministero dei suoi confratelli e del vescovo. È una Messa nella quale offriamo con il nostro cuore, con il nostro pensiero la vita di questo nostro sacerdote;  e quanti lo hanno conosciuto certamente hanno qualche cosa da presentare anch’essi al Signore, ricordando una parola buona, un aiuto, un gesto di amicizia, qualche cosa che egli come prete ha fatto per tanta gente.

L’Eucaristia è il momento più vero del servizio del presbitero, che agisce ‘nella persona stessa di Cristo’: questo è un mistero grande.  Ma il sacerdote rappresenta Cristo anche in tutte le attività che compie per il bene del suo popolo, come ha fatto don Veraldo, come è stato ricordato, per 12 anni a Zattaglia e per quasi 30 anni qui a S. Maria Maddalena. E dappertutto dove è stato ha lasciato un ricordo indelebile.

Abbiamo sentito nel Vangelo una preghiera di Gesù: ‘Padre voglio che quelli che mi hai dato siano con me dove sono io‘. Con questa Messa vogliamo dare forza a questa preghiera; vogliamo ricordare a Gesù che tra quelli che il Padre gli ha dato c’è anche don Veraldo; e questa preghiera: ‘voglio che sia dove sono io‘, Gli chiediamo che diventi vera. Certo il Signore sa bene portare a compimento le cose senza che noi glielo diciamo, ma vogliamo che sappia che anche noi desideriamo questo, e preghiamo perchè questo nostro sacerdote sia quanto prima accanto a Lui, perché Lo possa contemplare nella sua gloria.

‘Questi sanno che tu mi hai mandato’ ha detto ancora il Signore Gesù; e sanno anche che il Padre ha mandato me e io mando voi. Il sacerdote sa di essere inserito in questa missione che nasce dal Padre che vuole salvare il mondo attraverso Cristo suo figlio e quanti lo vorranno servire nella missione di salvezza.

Di questo certamente era consapevole don Veraldo nella sua missione di sacerdote, di formatore di mature vocazioni laicali, attraverso l’Azione cattolica e attraverso tutte le opportunità che ha avuto di crescere e di formare giovani, famiglie, adulti.

L’Eucaristia per noi è anche un segno di gratitudine per dire grazie al Signore che ce lo ha donato, per dire grazie a lui per quello che ha fatto; noi lo presentiamo portandolo nel cuore in questa occasione in cui salutiamo don Veraldo, che ritorna alla terra della sua origine. ‘Noi siamo polvere e polvere ritorneremo’. Ritornare alla terra di origine esprime anche il desiderio di ritornare al Signore che ci ha dato la vita.

Abbiamo sentito che la malattia lo fece ritirare dalla parrocchia nel 1991, perché la parrocchia non avesse a patire a causa della sua inabilità. Anche questo è certamente un gesto grande che un sacerdote riesce a fare, potete immaginare con quale sacrificio. La malattia progredendo gli rese impossibile anche quel po’ di ministero che aveva continuato a fare.

‘Chi ci separerà dall’amore di Dio? La malattia, la morte? In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù nostro Signore’. Questo abbiamo sentito ricordarci da S. Paolo. Lo possiamo dire in pienezza di verità anche per don Veraldo.

 

La malattia e la sofferenza non l’hanno separato dall’amore di Dio, che si è manifestato concretamente anche nell’accoglienza ricevuta all’Istituto S. Teresa, dalla cura premurosa delle Suore e della signora Anna, segno che Dio non lo aveva abbandonato.

Nella sofferenza ha continuato a pregare e a cantare, quando poteva e quando qualcuno lo aiutava a cantare le canzoni alla Madonna. Sono convinto che si rendesse conto e percepisse, se non altro, che pregava, che faceva qualche cosa che era stato bello quando aveva potuto farlo con la sua voce e con la sua gente, quando cantava insieme a lui gli inni alla Madonna.

Voglio concludere questa riflessione che don Veraldo ci ha portato compiere in questa occasione, ancora ascoltando alcune delle sue parole che ha voluto scrivere pensando al giorno della sua morte. ‘Non è una poesia, dice lui presentando questi suoi scritti; ma l’ho scritto solo per la gioia di partecipare ad altri i miei sentimenti: la gioia, le amarezze, le speranze, le attese, la fede, l’amore a Dio e al prossimo; il resto ha poca importanza’. Con questo spirito anche noi ascoltiamo questa breve poesia, che ha scritto il 15 febbraio del 2000.

Ecco il giorno della morte.

Sono pronto alla mia sorte.

Sarà un giorno come tanti’

Io saluto tutti quanti’

Qui finisce la mia strada.

Ed è ben che me ne vada!

Il Signor bussa alla porta:

è per me l’ultima volta!

Poi mi stringe al Suo Cuor.

È il segno del Suo Amor!

Lascio il corpo alla sua sorte;

tutte aperte son le porte

per entrare in Paradiso

veder Dio ‘Viso a viso’.

M’inginocchio al mio Dio

perché figlio sono anch’io!

Lo adoro, Lo ringrazio:

del suo Amor mi rende sazio.

Ho bisogno di perdono:

peccator anch’io sono.

Star con te, o buon Signore

È gran festa: è l’Amore!

Tutti i Santi incontrerò;

la Madonna bacerò!

E sarà felicità

che in eterno durerà!

Griderò: Viva la vita’

e sarà gioia infinita’

Amen.

OMELIA per la Solennità del CORPUS DOMINI
Faenza, Chiesa di San Francesco, 22 maggio 2008
23-05-2008

Nella nostra vita di cristiani incontriamo tanti segni,, alcuni dei quali hanno bisogno di essere decifrati, altri invece ci parlano direttamente. Siamo, ad esempio, invitati a decifrare i segni dei tempi, cioè le vicende di questo mondo che contengono i germi del Regno di Dio, mentre abbiamo il dono di poter disporre con evidenza di alcuni segni della presenza di Cristo, mediante i quali possiamo essere raggiunti da Lui e arricchiti dalla sua grazia; pensiamo al segno della Chiesa e della Parola di Dio, all’Eucaristia e a tutti i sacramenti.

L’Eucaristia che stiamo celebrando è già un segno efficace della grazia per quanti vi partecipano; ma questa sera essa viene prolungata per essere un segno dell’amore di Dio per tutto il mondo.  Passeremo in mezzo alle case della nostra città in modo simbolico per dire che Dio è vicino a tutti, che cammina in mezzo al suo popolo, che nessuno ha da temere nulla da Chi è morto per tutti. Lo diremo con la nostra presenza di Chiesa che prega e adora, che canta e ringrazia, che mostra la sua unità e le sue miserie. Del resto ogni segno sacramentale non vale tanto per la bellezza di ciò che si vede, ma per la ricchezza di ciò che in modo misterioso è operato da Dio. E’ con questo spirito che celebriamo l’Eucaristia e cammineremo in processione fino alla chiesa cattedrale.

La Parola di Dio ci ha aiutato a metterci in sintonia con l’amore che Gesù ci ha dimostrato amandoci sino alla fine e rimanendo con noi nei segni eucaristici. Egli sapeva che ne avevamo bisogno per vivere, e perché la nostra vita fosse sempre più simile alla sua. E a questo scopo ci ha lasciato in nutrimento se stesso: ‘Come il Padre che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me’.

Di fronte a questa verità, viene chiesto un piccolo sforzo di fantasia alla nostra fede. Non dobbiamo lasciarci ingannare dalla difficoltà che ebbero anche i Giudei: ‘Come può costui darci la sua carne da mangiare?’, perché l’Eucaristia è Gesù risorto, con il suo corpo glorioso. Noi mangiamo Gesù vivo e vero come è nella gloria presso il Padre. La liturgia ha questa capacità di metterci in rapporto con l’eternità, di penetrare il cielo e contattare misteriosamente e realmente Gesù nella sua gloria. Gesù ha scelto il segno del pane per rimanere sensibilmente con noi; e il pane chiede di essere mangiato. Ma sia chiaro che ci nutriamo di Gesù per vivere la vita di figli di Dio. Anzi nella realtà è Lui che ci assimila a sé, e ogni volta che ci accostiamo a Lui, gli diamo un’altra opportunità per trasformarci in Lui.

Quando Gesù dice: ‘Chi mangia me vivrà per me’, non intende solo il cibo eucaristico, ma anche la sua parola viva e il rimanere nel suo amore. Tutto questo è compreso nell’Eucaristia, che comincia con l’ascolto della Parola di Dio, continua con la condivisione spirituale dell’offerta della nostra vita insieme a quella di Cristo al Padre in sacrificio a Lui gradito, e culmina con l’incontro sacramentale nella comunione, con una presenza veramente divina.

Il primo effetto della condivisione del pane eucaristico e quello di esprimere e costruire la comunione con tutti coloro che si nutrono di Cristo; in altre parole l’Eucaristia ci fa Chiesa. Il Corpo di Cristo misteriosamente presente nel pane eucaristico ci fa diventare il Corpo mistico di Cristo che è la Chiesa.

Questa sera la nostra Chiesa diocesana è riconoscibile anche visibilmente nella sua varietà di ministeri e di carismi, dal Vescovo ai presbiteri, dai diaconi ai ministri istituiti e ai ministri di fatto, compresi i ministri straordinari della comunione che tra un po’ verranno istituiti. La nostra Chiesa è presente con i carismi dei religiosi e delle persone consacrate, delle associazioni e dei movimenti laicali; è una Chiesa varia ma unita nell’Eucaristia: ‘Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo’.

La Chiesa che è qui presente, vuole camminare per le vie del mondo, perché la speranza che ravviva la nostra vita di cristiani nel tempo verso l’eternità diventi una proposta per tutti gli uomini.

Nella prima lettura abbiamo sentito Mosè ricordare al suo popolo la prova del deserto, quando Dio gli ha fatto provare la fame ma poi lo ha sfamato con la manna, ‘per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore’.

E’ quello che devono capire anche gli uomini di oggi, cominciando da noi cristiani. La vita dell’uomo non dipende dai suoi beni; la felicità non consiste nel possedere tutto ciò che si desidera; l’avidità di chi accumula ingiustamente mette a rischio la convivenza pacifica dei popoli; non accumulate tesori in terra dove i ladri rubano e la tignola consuma; c’è più gioia nel dare che nel ricevere. Questi insegnamenti del Vangelo sono una filosofia di vita, che ha il suo modello nella comunità fraterna fondata sulla mensa eucaristica, ma che è valida per tutti gli uomini. E basterebbe riflettere seriamente sulle sciagure naturali che dilaniamo interi paesi, o sulle sofferenze immani dei popoli in guerra per capire che non è possibile assistervi passivamente; l’istinto di portare aiuto a chi è nel bisogno e di esprimere solidarietà è già nella linea di quella civiltà dell’amore che nell’Eucaristia trova il suo progetto e la sua forza.

‘E il pane che io darò è la mi carne per la vita del mondo’. Davvero, l’Eucaristia nella misura in cui assimila ogni cristiano a Cristo, e fa della comunità cristiana un corpo dato e una vita offerta per il bene degli altri, può cambiare il mondo. E non è detto che il mondo non sia già cambiato da quando il Padre ha mandato il suo Figlio per salvare il mondo, e attraverso la Chiesa e la testimonianza di singoli cristiani ha diffuso nel mondo la verità e i valori che ci fanno capire se stiamo operando per il bene dell’umanità. Poi facciamo bene a lamentarci perché le cose vanno male; ma non sappiamo come sarebbero andate se non avessimo avuto con noi l’unico vero Salvatore del mondo. Se con gli occhi della fede riuscissimo a leggere i segni della salvezza che Gesù ha seminato nel mondo, potremmo alimentare con più convinzione la speranza nostra e degli uomini di oggi.

Dio che ha saputo guidare il suo popolo nel deserto, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare l’acqua dalla roccia durissima, che nel deserto lo ha nutrito della manna, saprà guidare ancora il suo popolo nelle vicende della storia nutrendolo con il pane del cielo per la vita del mondo.

OMELIA per la TRIGESIMA della morte di CHIARA LUBICH
Faenza, Basilica Cattedrale, 14 aprile 2008
14-04-2008

Ad un mese dalla morte di Chiara Lubich, fondatrice del movimento dei focolari, per iniziativa del gruppo di Faenza è stata voluta questa Messa in suffragio e in ricordo di questa singolare figura di donna, protagonista nella vita cattolica non solo italiana, e segno profetico di un modo nuovo di vivere nell’amore di Dio e dei fratelli.

Nel racconto dei primi passi della Chiesa dopo la risurrezione del Signore, siamo ancora nella parte del libro degli Atti degli apostoli che parla di San Pietro. Qui San Pietro viene aiutato ad aprirsi all’accoglienza dei pagani; l’abbiamo sentito discolparsi dall’accusa di ‘essere entrato in casa di uomini non circoncisi e di aver mangiato con loro’.

Non deve sembrare una cosa di poco conto il passaggio dall’annuncio del vangelo agli ebrei, fratelli di fede in Abramo, all’annuncio del vangelo ai pagani. La percezione che avevano gli stessi apostoli è che la realtà di Cristo fosse innestata naturalmente nella fede dei padri, fosse il compimento delle sacre scritture, che ancora venivano lette nelle assemblee dei cristiani, fosse un di più che non poteva fare a meno della legge di Mosè.

Al termine del suo racconto, dopo aver constatato l’opera dello Spirito santo che si è manifestato apertamente, San Pietro conclude: ‘Se dunque Dio ha dato loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?’

Questa considerazione calma l’animo degli obiettori, e apre ad una accoglienza attenta delle realtà dello Spirito. Resta sempre tuttavia il discernimento dell’Apostolo che deve valutare i segni veri della manifestazione dello Spirito, come ha raccomandato anche San Paolo: ‘Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono’ (1Ts 5,19).

Oggi nel ricordare Chiara Lubich diamo testimonianza allo Spirito santo che si è manifestato nella sua opera, perché la Chiesa ne ha riconosciuto la validità. Non deve stupire che le cose nuove all’inizio siano guardate con attenzione, vengano messe alla prova; fu così ai primi tempi della Chiesa, sarà così sempre; l’importante è non spegnere lo Spirito che continua a guidare la Chiesa di Cristo con la fantasia dei suoi carismi.

Ha scritto Chiara: ‘Quando Dio prende in mano una creatura per far sorgere nella Chiesa qualche sua opera, la persona scelta non sa quello che dovrà fare. E’ uno strumento. E questo, penso, può essere il caso mio’.

La sua storia inizia durante la guerra mondiale. Prima c’era stata la sua consacrazione personale a Dio; ma fu nel 1943 durante i bombardamenti che Chiara, insieme ad alcune sue amiche che volevano condividere la sua stessa strada, si chiede: ‘Ma ci sarà un ideale che non muore, che nessuna bomba può far crollare e a cui dare tutte noi stesse? Sì, Dio. Decidemmo di far di lui l’ideale della nostra vita’.

Provate a immaginare in quegli anni un gruppo di giovani donne, che intraprendono proposte del tutto utopistiche, che hanno chiaro l’ideale dell’unità di tutti gli uomini, senza differenze di razza, di politica, di religione: non era meraviglia se trovavano prudenza e obiezioni. Oggi non facciamo fatica a vedere nella frase di San Pietro: ‘Lo Spirito mi disse di andare con loro senza esitare’, la scelta che anche Chiara Lubich ha fatto, andando incontro a tutti davvero senza esitare, se alla sua morte si contano a milioni gli aderenti al suo movimento spirituale.

Il tema dell’unità, che si può dire centrale nel suo progetto apostolico, risponde anche all’anelito espresso da Gesù nel vangelo di oggi: ‘E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore’.

Sappiamo quanto sia stato importante per il cammino dell’ecumenismo, il contatto tra le varie confessioni cristiane realizzato in modo concreto nelle iniziative del movimento, non certo per il desiderio di non tener conto delle differenze che esistono e vanno considerate, seppure con rispetto, ma per rispondere al desiderio di incontro e di unità che tutti hanno, e che si può mettere in pratica nel pregare, lavorare e vivere insieme. Se si condivide lo stesso amore, prima o poi si potrà arrivare a condividere la stessa fede.

C’è ancora una frase del vangelo di oggi che ci aiuta a considerare un momento importante per la vita di Chiara Lubich e del suo movimento. ‘Per questo il Padre mi ama, dice Gesù, perché io offro la mia vita’ Questo comando ho ricevuto dal Padre mio’. La volontà di Gesù è libera perché coincide con la volontà del Padre, e per questo Gesù è amato dal Padre. L’approvazione del movimento dei focolari non è stata facile. Le novità provocavano delle perplessità; c’è stato un tempo in cui era proibito ai sacerdoti partecipare agli incontri dei focolarini. L’approvazione della Chiesa arrivò il 23 marzo 1962. Alcuni anni più tardi Chiara commenterà così quel periodo: ‘Lo studio durò a lungo. Nella sua esperienza e sapienza di secoli la Chiesa studiò paternamente la nuova realtà ecclesiale da poco nata’. ‘Mai Chiara ripiegò di un millimetro dalla sua assoluta fiducia nella Chiesa e più volte arrivò a confidare ai più intimi che, se si fosse arrivati a uno scioglimento del movimento, avrebbero tutti obbedito alla decisione’.

Ha scritto ancora Chiara: ‘Noi lo sappiamo: la vita si paga; la vita, che attraverso di noi arriva a tante anime, si produce con la morte. Solo passando per il gelo si arriva all’incendio’. E’ la partecipazione al mistero pasquale di Cristo, che dalla morte in croce ci ottiene la vita eterna.

La nostra preghiera di suffragio per il riposo eterno di Chiara Lubich, si unisce al ringraziamento al Signore per il dono che ha fatto alla sua Chiesa con il suo carisma, ricchezza preziosa per tutte le comunità cristiane, che vengono incoraggiate a vivere la via dell’amore perché, secondo la preghiera di Cristo, tutti siano uno; uno in Lui e con Lui. L’Eucaristia ci inserisce in questo mistero e ci dice che questo non solo è possibile, ma è già attuato nella speranza.

OMELIA della MESSA VESPERTINA di PASQUA
Faenza, Basilica Cattedrale 23 marzo 2008
23-03-2008

La sera di Pasqua. Era più o meno a quest’ora quando i due discepoli invitarono uno sconosciuto pellegrino a fermarsi a casa loro. In quelle regioni in mezz’ora si fa buio, e non è prudente farsi sorprendere per la strada.

Avevano già camminato insieme e quella compagnia era stata interessante; si poteva continuare la conversazione in casa. Ma a Gesù non interessava tanto scrutare le scritture, quanto portare alla fede i due viandanti sconsolati e delusi. Era l’incontro con Lui risorto e vivo, che li avrebbe trasformati, come poi avvenne.

Ogni anno la Chiesa ci fa rivivere nella liturgia la narrazione della morte e risurrezione di Cristo; ogni domenica facciamo memoria di Cristo risorto. Perché questo grande investimento di energie per un racconto, un annuncio e una esortazione intorno a Cristo risorto e vivo?

In un mondo dove sembra vincere solo la cattiveria e la morte, la violenza e l’interesse, si può avere l’impressione che anche i più lodevoli tentativi di opporsi a tutto questo siano inutili. Gli antichi avevano tradotto nel mito di Sisifo l’impossibilità di riuscire a concludere in modo positivo ogni impresa di bene; ogni volta che il masso spinto verso l’alto con immane fatica sembrava essere arrivato alla cima, irrimediabilmente rotolava di nuovo alla base della montagna.

Ma la nostra ricerca di bene non ha questo destino. Se abbiamo l’impressione che dalla risurrezione di Cristo ad oggi le cose non siano molto cambiate, bisogna tenere presenti due considerazioni. La prima: pensiamo così, ma non abbiamo la possibilità del riscontro, di come cioè sarebbe il mondo se il Figlio di Dio non si fosse fatto uomo, non avesse predicato il Regno, non avesse mandato la Chiesa ad evangelizzare, non avesse inviato il suo Spirito. Perché ormai non esistono civiltà e culture che in qualche modo non siano venute in contatto con il cristianesimo e non ne abbiamo assimilato qualche aspetto. La seconda ragione di questa impressione, è che facilmente noi ci aspettiamo ciò che Cristo non ha mai promesso; in altre parole noi pensiamo che spetti al Signore mettere a posto le cose in questo mondo, togliendo le malattie, le guerre, la fame, l’infelicità.

Il Signore invece ha voluto salvare gli uomini servendosi anche della loro collaborazione. Anzi, proprio questa è segno della grande dignità dell’uomo, già chiamato da Dio a collaborare alla creazione attraverso il lavoro delle sue mani e nel trasmettere la vita umana, e ora chiamato a collaborare alla redenzione orientando le cose del mondo secondo Dio.

Il prodigio della risurrezione di Cristo, che primariamente ci ha ridato la possibilità di vivere da figli di Dio, ha cambiato anche la vita degli uomini nel tempo, attraverso le opere dei santi e di quanti vivono secondo la legge dell’amore. ‘Lo riconobbero nello spezzare il pane‘ ci riporta indubbiamente ad un gesto eucaristico compiuto da Gesù, ma ci dice anche che i due discepoli avevano aperto il loro cuore con l’accoglienza e la condivisione, diventando capaci di riconoscerlo.

Non ci dobbiamo meravigliare che nel mondo ci sia il male e la sofferenza; fa parte del nostro limite. Ci dobbiamo stupire invece che ci sia, seppure in modo parziale e imperfetto, la ricerca del bene, la donazione generosa per aiutare chi è in difficoltà anche a rischio della propria vita, la capacità di perdonare, il mettere la propria vita a servizio dei piccoli e dei sofferenti. E con questo non sto dicendo che tutto questo è solo merito della Chiesa, perché lo Spirito santo, che Cristo ha meritato con la sua morte e risurrezione, può agire come e dove vuole; e dovunque c’è un gesto di amore è per sua ispirazione.

Alcuni giorni fa è venuta alla ribalta la figura di Chiara Lubich, la fondatrice del movimento dei focolarini che è morta. E’ indubbiamente un dono che Dio ha fatto al nostro tempo, per diffondere l’ideale dell’unità tra tutti i popoli, sorto alla fine della seconda guerra mondiale.

Allora si deve dire che va tutto bene? Evidentemente no; si deve però credere che il mondo non è allo sbando; che Cristo non è morto e risorto invano; che tutto quello che noi facciamo nella direzione nella quale ci ha insegnato Gesù non va perduto, anche se non sempre ci è dato di vederlo con chiarezza.

E se siamo convinti che Cristo è vivo e presente, si  deve vedere nella nostra vita. Ci ha detto S. Paolo: ‘Se siete risorti con Cristo. Cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra’. E se questo è il nostro modo di fare e di pensare, anche noi, come ha detto S. Pietro, diventiamo testimoni, ‘noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti’.

Come si vede l’anello debole della catena siamo noi; ma siamo anche l’unico anello al quale Cristo ha attaccato la diffusione della fede cristiana nel mondo. Per cui non c’è alternativa; non si tratta di cercare altri che ci pensino, si tratta solo di illuminare la nostra fede mediante la Parola di Dio, come ha fatto Gesù con i discepoli di Emmaus, e di sostenerla con l’Eucaristia.

Ogni anno la Pasqua ci interpella. Noi che siamo pronti a lamentarci per le cose che non vanno, da che parte stiamo? Siamo dalla parte di Cristo a resistere al male, a fare il bene, senza pretese, ma in modo costruttivo; oppure anche noi facciamo come fanno tutti, perché poi in fondo, che male c’è? Con quello che succede nel mondo, questo cosa vuoi che sia? Cerca pure il tuo interesse, divertiti  e gli altri che si arrangino; trovando sempre nuove giustificazioni per dispensarci dalle opere buone.

La Pasqua è una proposta esigente, perché ci chiede di morire al peccato, ma è anche quella che ci dà una vera speranza perché ci inserisce nell’avventura della nuova vita comunicata dal Risorto. Il canto dell’Alleluia non lo facciamo chiudendo gli occhi alla realtà, ma aprendoli alla luce di Cristo.

Ringraziamo il Signore perché mediante la Chiesa siamo uniti a Lui nella continuità della comunione attraverso i secoli e in tutta la terra. Anche questo ci dice che la vittoria di Cristo è vera, che non ci stiamo illudendo e non stiamo scommettendo su un possibile perdente, ma sull’unico che per ora ha vinto la morte.

Il Signore è risorto, è veramente risorto ed è apparso a Simone, ed è con noi fino alla fine del mondo

OMELIA per la MESSA CRISMALE 2008
Basilica Cattedrale di Faenza, 20 marzo 2008
20-03-2008

Carissimi sacerdoti, desidero rivolgermi anzitutto a voi in questo giorno in cui Gesù amò i suoi sino alla fine con il dono dell’Eucaristia, e così facendo istituì il sacerdozio ministeriale. Viviamo questa giornata con sincera trepidazione, perché ci rendiamo conto di quanto siamo piccoli di fronte al grande dono che ci è stato fatto, davvero un tesoro portato in vasi di creta.

Ma sappiamo pure che attorno al sacerdozio cattolico c’è tanta attesa, se volete espressa anche nella pretesa della sua integrità di vita nei casi penosi che la comunicazione di massa si premura di enfatizzare, ma soprattutto manifestata dalla sincera aspettativa del popolo cristiano.

Dobbiamo tuttavia riconoscere che la reale dignità della nostra missione viene dall’essere stati scelti dal Signore, e mandati a suo nome per la santificazione del suo popolo. Per tutto questo vogliamo essere sempre riconoscenti a Dio che ci ha chiamati soprattutto con la fedeltà della nostra vita, che desideriamo sempre più conforme al modello del Cristo buon pastore.

In questa celebrazione vogliamo pregare per alcuni nostri confratelli che ricordano ricorrenze significative del loro sacerdozio: i settant’anni di ordinazione presbiterale di don Giulio Donati e di don Giuseppe Minghetti, ancora entrambi nel ministero; i sessantacinque anni di ordinazione di don Domenico Perfetti, ospite della casa di riposo di Tredozio. Vogliamo pure ricordare il venticinquesimo dell’ordinazione episcopale di Mons. Franco Gualdrini, ancora tanto legato al nostro presbiterio.

Oggi faremo memoria anche dei confratelli che ci hanno preceduto nella casa del Padre nell’anno passato: Mons. Fiore Scarzani, sacerdote già del clero di Modigliana che ha svolto il suo ministero per tanti anni a Roma, e Mons. Pietro Rotondi passato alla vita eterna dopo una intensa vita sacerdotale nella nostra Chiesa. Quando ci saremo ripresi dallo sconcerto della sua improvvisa scomparsa, dovremo fare tesoro della sua generosa testimonianza.

Avremo poi un pensiero anche per i nostri missionari, cioè tutti coloro che sono inviati ad annunciare il Vangelo, laici e persone consacrate, e in particolare i religiosi originari della nostra Diocesi.

Oggi i nostri sacerdoti li vogliamo tutti presenti nella preghiera attorno a questo altare, anche coloro che per la sofferenza della malattia o della vecchiaia sono più vicini alla croce di Cristo.

Nell’Eucaristia viviamo un legame profondo e misterioso con il sacramento dell’Ordine sacro perché il prete è colui che dice Messa. Sappiamo bene che non è solo questo, ma ciò manifesta la radice profonda del rapporto in cui si trovano i due sacramenti. Di conseguenza il presbitero diventa servo e segno di Cristo.

Scrive il Papa nella Sacramentum caritatis: ‘Il sacerdote è più che mai servo e deve impegnarsi continuamente ad essere segno che, come strumento docile nelle mani di Cristo, rimanda a Lui. Ciò si esprime particolarmente nell’umiltà con la quale il sacerdote guida l’azione liturgica, in obbedienza al rito, corrispondendovi con il cuore e la mente, evitando tutto ciò che possa dare la sensazione di un proprio inopportuno protagonismo‘.

Servo, per essere segno; ma non in proprio, bensì nelle mani di Cristo, che rende efficace i segni, i ‘santi segni’. Non sembri piccola cosa poter disporre, attraverso i riti e le preghiere della Chiesa, di una forza che agisce direttamente nei cuori e nei punti nevralgici della vita del mondo. Là dove l’uomo non ha più risorse, può arrivare la forza della grazia.

Nella celebrazione eucaristica vi sono dei momenti in cui è chiesto al presbitero di esprimersi in modo personale; ma c’è anche il rispetto per ciò che la Chiesa ritiene essere proprio, da non doversi modificare in modo arbitrario pensando di poter fare meglio della Chiesa stessa.

Tutti coloro che concorrono alla celebrazione eucaristica sono anch’essi partecipi in questa fedeltà.

Saluto e ringrazio i ministranti che sono qui presenti, che con il loro servizio rendono più viva e dignitosa la celebrazione eucaristica; sono il segno di una comunità che crede nell’educazione dei ragazzi e dei giovani attraverso il contatto consapevole con l’Eucaristia celebrata e vissuta.

L’obbedienza a Cristo non è solo nelle preghiere e nei riti; l’Eucaristia è per la vita del mondo, e bisogna essere fedeli a Cristo anche in questa sua volontà. Sarebbero molto contenti i nostri laicisti se ci limitassimo a trattare le cose di Dio, senza interessarci dell’uomo, al quale essi vorrebbero pensare a modo loro. Certo ci sono modalità proprie di ambiti laicali che vanno rispettate; ma guai se ci dimenticassimo dei valori fondamentali da promuovere e difendere nell’uomo, dal momento che Dio si è incarnato per elevare la dignità di ogni uomo e farlo diventare veramente figlio di Dio.

Una volta si accusavano i preti di fare politica se parlavano in difesa dei poveri e degli sfruttati; oggi li si accusa di ingerenza se difendono la famiglia fondata sul matrimonio, la vita umana, la libertà di educazione. Il tentativo di impedire alla Chiesa di interessarsi dell’uomo è lo stesso.

Scrive a questo riguardo il Papa nella Sacramentum caritatis: ‘Il cibo della verità (cioè l’Eucaristia) ci spinge a denunciare le situazioni indegne dell’uomo, in cui si muore per mancanza di cibo a causa dell’ingiustizia e dello sfruttamento, e ci dona nuova forza e coraggio per lavorare senza sosta all’edificazione della civiltà dell’amore‘ (n. 90).

La Messa crismale mette in evidenza il legame dell’Eucaristia con tutti i sacramenti, reso più forte dalla significativa presenza a questo rito della Chiesa diocesana nella sua unità visibile.

La benedizione degli Oli santi e la consacrazione del Crisma ci richiamano in particolare alcuni sacramenti, che raggiungono gli uomini in momenti importanti della loro vita. E’ il caso delle famiglie che accolgono i figli e li portano al battesimo per introdurli nella Chiesa; sono i ragazzi e i giovani che stanno crescendo con il dono dello Spirito santo ricevuto nella Confermazione; sono coloro che saranno consacrati presbiteri per la vita cristiana della nostra gente; sono gli ammalati bisognosi del conforto del sacramento dell’Unzione.

Carissimi fedeli tutti, nel rivolgermi ai sacerdoti in questo giorno anniversario della istituzione del sacramento dell’Ordine, ho di fatto coinvolto anche voi, per i quali il ministero e la vita dei presbiteri vengono spesi. I sacerdoti non hanno altro interesse che il vostro bene spirituale. Sappiate accoglierli sempre e collaborare con loro in una vera corresponsabilità, per il bene delle nostre comunità cristiane. Ce lo chiede il Signore Gesù, e ce lo chiede anche il nostro mondo, che nella sua confusione mostra quanto mai di avere bisogno della vera luce e dell’amore di Cristo.

OMELIA per l’ANNIVERSARIO della UCCISIONE di padre DANIELE BADIALI
19-03-2008

La celebrazione annuale della morte di P. Daniele quest’anno cade dentro la settimana santa; è una combinazione forte, che sovrappone il sacrificio di P. Daniele al sacrificio di Gesù. La liturgia del mercoledì santo ci avvicina al misterium iniquitatis, il tradimento di Giuda, simbolo di ogni nostro tradimento verso Dio.

Nella celebrazione della Pasqua il tradimento è l’aspetto più inquietante, perché poco o tanto ci fa percepire che in qualche modo dietro a quel gesto ci siamo anche noi.

Quando diciamo che Cristo è morto per noi, non è un modo di dire; ci siamo anche noi tra i responsabili della sua morte, e quindi ci siamo anche noi tra coloro che hanno bisogno del perdono che Egli ha chiesto al Padre sulla croce: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno.

Prendere coscienza del nostro bisogno di perdono è l’inizio della nostra salvezza: sappiamo che c’è uno che ce lo può donare, e sappiamo che è possibile essere riconciliati, tornare nella pace vera con Dio e con gli uomini.

‘Quanto mi volete dare, perché io ve lo consegni?’ chiede Giuda. E noi diciamo: ‘Che cosa ci guadagno, se lascio perdere Cristo per i miei comodi, i miei interessi, le mie soddisfazioni?’ Lo scambio, il baratto; cosa mi conviene’

C’è molta letteratura oggi intorno alla figura di Giuda; si cerca di giustificare il suo gesto, di motivare quello che ha fatto, con lo scopo nascosto forse di volere giustificare anche i nostri tradimenti, come se ci potesse essere una scusa che può giustificarci di fronte a Cristo.

Quando Gesù dice: uno di voi mi tradirà, tra gli apostoli si diffonde il panico; nessuno è sicuro di se stesso: sono forse io? Tutti sanno di essere deboli, e questo pensiero li addolora. E lo stesso Giuda chiede: sono forse io? non avendo la percezione di essere sul punto di tradirlo, ma di fare in qualche modo una cosa giusta, almeno secondo il suo punto di vista in quel momento; dopo capirà di avere sbagliato. E’ questo il guaio, che quando facciamo il male, lo riteniamo un bene secondo noi, ma non lo è secondo Dio.

E’ abbastanza naturale non essere sicuri di se stessi. Per questo dobbiamo rimanere uniti al Signore nel momento della prova. La sicurezza in questo caso potrebbe diventare presunzione, fiducia nelle nostre forze. Mentre ci può essere una serenità vera, se uno ripone la sua fiducia in Dio. Le prove non sono segno che Dio ci ha abbandonato. Tutti sono provati, in vario modo. Anche il Servo di JHVH è perseguitato, ma può dire: ‘Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso‘.

Abbiamo sentito nella lettera di P. Daniele scritta da S. Luis, come la croce sia addirittura segno di autenticità della volontà di Dio. ‘Se non c’è la croce di mezzo dubito che sia il cammino di Gesù! E la croce non la scelgo io, sono gli altri che te la danno. E’ successo a Gesù e succede a chiunque procede verso il cammino del Vangelo’.

Stupisce la lucidità con cui P. Daniele scrive queste cose, vedendo nella croce non una difficoltà di cui poter rimproverare il Signore, ma il segno di riconoscimento che il percorso sul quale c’è la prova è proprio il percorso che Dio ha preparato per te.

Abbiamo sentito anche il seguito della lettera: ‘La scommessa è credere che Gesù alle persone più care, possa dare come regalo la croce’ Ai martiri succede così!!!  Io non sono a questo punto, stai tranquillo. Ciò che vivo è molto piccolo‘. Fa sempre una certa impressione leggere queste parole, sapendo cosa successe a P. Daniele nel marzo 1997. La consapevolezza di non essere a misura di martire non poteva essere che sincera, anche perché, pur sapendo dei pericoli che potevano esistere, era impensabile ipotizzare ciò che poi avvenne.

Insieme al sacrificio di P. Daniele, nella vicinanza del 24 marzo, giornata in cui si ricordano i missionari uccisi a causa del Vangelo, vogliamo ricordare in particolare quelli dello scorso anno, che sono stati 21, di cui 15 sacerdoti, e di questi uno era italiano. Ricordiamo anche l’arcivescovo Caldeo di Mosul morto martire una settimana fa in Iraq.

P. Daniele dunque ci dice che la croce Gesù la dà ai suoi amici. E’ una croce di passione e di risurrezione. Nella lettera scritta da Ruris racconta della sua Messa celebrata nella festa dell’esaltazione della S. Croce in un paese che da quattro anni non vedeva un sacerdote. Si volta verso la croce e la vede tutta fiorita: ‘Intuisco che è un gran regalo che Gesù ci ha fatto e che vuole darla ad ognuno di noi’ Anch’io P. Daniele devo prendere la mia croce per seguire Gesù’ Gesù me la dà già fiorita perché è già risorto, ma io devo prendere la croce’.

Abbiamo bisogno di vivere la Pasqua nella pienezza della sua verità, sia come mistero di passione, sia nella gloria della risurrezione. Non è possibile dividere questa realtà; ogni tentativo è una illusione. Inseguire la felicità pensando di evitare la sofferenza che purifica, è l’inganno che viene contrabbandato con abbondanza dai falsi profeti di questo mondo. Più che evitare la croce, si tratta di trovarne il senso,  almeno quello di scoprire il dono grande che è poter seguire Gesù portando anche noi la nostra croce.

La Via crucis che dopo la Messa celebreremo nel cuore della nostra città, è il gesto che intende tradurre in modo simbolico questa realtà.

E’ questa la grazia che chiediamo per noi, per tutti quelli che portano una croce, per coloro che soffrono per la diffusione del Vangelo, perché la Pasqua sia un vero passaggio dalla morte alla vita con Cristo