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OMELIA per la Solennità dell’IMMACOLATA CONCEZIONE
Faenza, S. Francesco - 8 dicembre 2012
08-12-2012

La solennità dell’Immacolata Concezione è una delle due feste mariane,  insieme all’Assunta, che ha conservato provvidenzialmente la sua importanza anche esterna. Possiamo così celebrare con una vera festa l’inizio della vita e la glorificazione finale della Vergine Maria.

Maria concepita senza peccato originale è la realtà del mistero che oggi la liturgia celebra; può essere che mettendo noi facilmente l’accento sul privilegio avuto da Maria di essere Immacolata, sorvoliamo sul fatto dell’inizio della sua esistenza terrena, che invece viene curiosamente privilegiato nella tradizione di questa chiesa dove è conosciuta come la festa della ‘Concezione’.

L’origine di ogni vita umana è un prodigio sul quale dobbiamo riflettere, in un tempo in cui è facile purtroppo trascurare quel momento, considerando ‘il prodotto del concepimento’, come si dice in ossequio alla visione tecnologica della realtà, un oggetto sul quale poter intervenire.

Dobbiamo sapere che in ogni creatura umana, dal momento in cui è concepita, inizia una vita che non avrà mai fine. Anche coloro che non riescono a venire alla luce vivono sempre, amati da Dio in modo personale, perché se esistono è perché Lui li ha voluti. Abbiamo sentito nella seconda lettura che il Padre ci ha scelti in Cristo prima della creazione del mondo; cioè, nel suo progetto di amore, prima c’è Cristo suo Figlio che dà senso a tutto, poi c’è ognuno di noi e tutti coloro che sono stati e saranno concepiti fino alla fine del mondo; e il mondo è stato creato in funzione della presenza degli uomini e fra di essi di Gesù nostro salvatore.

Se Dio ci ha scelti in Cristo fin dal nostro concepimento, poi non ci abbandona più, anche se l’uomo o la donna pensano di poter distruggere l’opera di Dio: una volta concepita, la vita umana vive per l’eternità.

Celebrando oggi l’inizio della vita di Maria, accolta dall’affetto dei suoi genitori, noi abbiamo davanti un mistero grande, reso poi singolare dallo speciale intervento di Dio nel preservare Maria dal peccato che contamina da sempre ogni persona umana.

Nel prefazio della Messa della Natività di Maria nel rito ambrosiano, Ella viene chiamata ‘aurora della nostra salvezza’. Con lei si comincia a intravedere la luce che avanza, Cristo Signore; ma già la Madre è motivo di speranza.

Pensate: nessuno sapeva di questa novità straordinaria, forse nemmeno la stessa Vergine, che al saluto dell’angelo rimase turbata; eppure Dio stava già operando per il bene dell’umanità cominciando da ciò che era più necessario: preparare la Madre per suo Figlio che doveva nascere sulla terra. Nel fare questo Dio iniziava a liberare l’umanità dal peccato, la radice di ogni male nel mondo: in Lui ci ha scelti per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità.

L’aurora della nostra salvezza è una creatura piccola, debole e umile, che solo Dio conosce nella sua vera realtà: è senza peccato, quindi ama Dio e il prossimo; è unita a Dio nella preghiera; sa di spendere la sua vita per gli altri; è aperta alla volontà di Dio. Dirà davanti alla cugina Elisabetta: Dio ha guardato all’umiltà della sua serva. La salvezza di Dio ha già operato in Lei, preservata da ogni macchia di peccato in previsione della morte di Cristo, e prima ancora di essere la Madre di Gesù è stata per il mondo aurora di salvezza.

Sarebbe bello se ognuno di noi, a imitazione di Maria in questo primo stadio della sua vita, cercasse di essere aurora di salvezza nella situazione umana nella quale è chiamato a vivere. Senza avere la pretesa di essere un salvatore: c’è già chi ha salvato il mondo, anche se la salvezza non è stata accolta ancora da tutti; non avere la pretesa di essere la luce: venne nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo; senza la pretesa di cambiare il mondo, perché Dio ci chiede di cambiare il nostro cuore.

Essere l’aurora che annuncia il giorno vicino, lasciando al sole che sorge di rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte.

L’aurora non si impone con la luce che ferisce gli occhi, ma viene guardata con il desiderio della sentinella che attende la fine della notte.

Nel nostro mondo dove possiamo guardare per cercare l’aurora della nostra salvezza? Ci sono problemi materiali seri che dovranno essere affrontati con coraggio e nella solidarietà universale. Ma vi sono anche valori morali che comunque non possono essere trascurati, perché proprio l’averli dimenticati è all’origine dei nostri guai.

Allora mi viene da dire che possiamo vedere l’aurora in ogni bimbo che nasce, in ogni famiglia che vive unita nell’amore, che accoglie i figli e custodisce gli anziani, nella persona con qualche disabilità cresciuta tra i suoi cari e con l’aiuto di persone e gruppi, nei giovani che si preparano alla vita con impegno e sanno stare accanto a chi è povero di affetto, negli uomini e nelle donne che sanno educare la personalità dei piccoli, in coloro che si impegnano per la promozione del bene comune, nell’accoglienza di chi viene da lontano.

E possiamo vedere l’aurora nell’opera di Cristo, nel suo vangelo, nei santi dei nostri giorni, nella realtà della Chiesa e della sua presenza nel mondo. Se avessimo sempre ascoltato e vissuto il messaggio cristiano, dall’amore del prossimo (quando gli altri pagavano il nostro benessere) al non riporre troppa fiducia nel danaro, origine di tutti i mali, forse non ci troveremmo a questo punto.

La scusa che tutto va male, che tanto non ci si può fare niente, che fanno tutti così non diventi un alibi per evitare di fare la nostra parte. Se non si può cambiare tutto e subito (e forse dovremo diffidare da chi ce lo promette troppo facilmente) possiamo però fare molto, cominciando ognuno secondo l’opportunità, umilmente e con coraggio, ed essere motivo di speranza.

Abbiamo sentito nel Vangelo che a Maria, aurora della nostra salvezza, a un certo punto è stato chiesto di diventare la Madre del Figlio di Dio, il Salvatore del mondo. A noi certamente verrà chiesto molto meno, ma è importante che siamo disposti a fare la nostra parte come e quando ci verrà chiesta, se già non la stiamo facendo; senza escludere la preghiera per coloro che stanno facendo più fatica, per chi è nella prova, per chi è senza speranza e per coloro che possono influire sull’andamento delle cose del mondo.

Guardando e pregando la Vergine Immacolata, aurora della nostra salvezza possiamo essere anche noi nella fede e nella carità un riflesso di luce che annuncia un giorno nuovo.

OMELIA per la CANDIDATURA al diaconato e presbiterato di CLAUDIO PLATANI
Faenza - S.Agostino, 21 ottobre 2012
21-10-2012

La preghiera di benedizione con cui la Chiesa accoglie la disponibilità del candidato al ministero del diaconato e del presbiterato, mette nella giusta direzione il cammino di preparazione che ormai da vari anni anche Claudio ha iniziato. ‘Dio porti a compimento l’opera che ha iniziato in te’: non è solo un auspicio, ma è una affermazione di fede nell’intervento di Dio che chiama, illumina e forma colui che è pronto a servirlo nella Chiesa.

Il ministero ordinato, prima del diacono poi del presbitero, trova la sua dignità non nell’onore o nel prestigio, ma nel servizio del popolo di Dio per la vita cristiana della comunità e dei singoli. Non dobbiamo meravigliarci che oggi occorrano diversi anni di formazione nella comunità del Seminario teologico, se gli apostoli stessi, alla scuola di Gesù, hanno faticato a capire. Senza dimenticare che oggi le cose si sono fatte più complesse per le facili condizioni di diffusione degli errori e degli scandali e per le tante dottrine avverse.

Riascoltare oggi la catechesi fatta da Gesù a questo riguardo, è per noi di grande aiuto. I due figli di Zebedeo hanno avuto il coraggio di chiedere un privilegio, tra l’altro avendo frainteso il significato del regno che Gesù stava annunciando, ritenendo che si trattasse di un potere di questo mondo. Ma anche gli altri non erano da meno, vista l’invidia che subito era sorta tra loro.

Gesù, che in precedenza aveva già precisato che la sua opera passava attraverso la croce e la morte di un Messia sconfitto, ritorna a proporre la necessità di seguirlo nella sua passione, con l’immagine del calice e del battesimo che egli sta per ricevere.

Questa situazione dobbiamo ricordare che è per tutti i discepoli di Cristo che lo vogliono seguire nella via della salvezza: ‘Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua’ (Mc 8,34). Gesù ricordando agli apostoli anzitutto questo percorso mette in evidenza che per tutti, anche per coloro che saranno i suoi apostoli, è necessario essere prima discepoli disposti a seguirlo nella via della croce. Si potrebbe dire che è questa la condizione più alta, che fa risaltare la stessa dignità di figli di Dio per tutti i seguaci di Cristo, dignità che è data nel battesimo e si esprime nel poter partecipare all’Eucaristia.

Perché questo pensiero sia chiaro, Gesù precisa che non sa nemmeno lui che cosa verrà chiesto ai suoi apostoli come ministero specifico, tanto è poco importante il ruolo che li aspetta: fare una cosa o un’altra è per coloro per i quali è stato preparato, secondo le necessità della comunità. ‘Non sta a me concederlo’, perché a me, potremmo aggiungere, sta insegnarvi ad imitarmi fino in fondo.

Nell’imitazione di Gesù oltre a seguirlo fin sulla croce, c’è da imparare il servizio: ‘Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti’.

Deve essere chiaro che il servizio nel vangelo non è una categoria sociologica, ma teologale; in altre parole non è più coerente col servizio colui che esegue ciò che gli viene detto di fare, invece di colui che ha un ruolo di responsabilità per cui deve scegliere, decidere e farsi obbedire; svolge un servizio che imita il Signore Gesù colui che dà la propria vita per liberare molti dalla schiavitù del peccato.

Infatti Gesù ha servito dando la propria vita, finalizzata a liberare l’uomo dal peccato e da ogni male. Analogamente chi lo imita nel servire, deve spendere la propria esistenza, giorno per giorno, cercando di raggiungere lo stesso scopo di Cristo: riscattare molti dal peccato e renderli liberi per l’eternità. Servire come Cristo infatti non è tanto un modo di fare, quanto piuttosto una finalità da raggiungere insieme a Lui.

Ci ha detto San Giovanni nella sua prima lettera: ‘In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati’ (1Gv 4,10). Quindi Gesù servendo al Padre con il suo sacrificio in croce ha manifestato l’amore di Dio per noi. Come ha detto la lettera agli Ebrei, è un sommo sacerdote che ci conosce per aver preso parte alle nostre debolezze e sofferenze. Egli sa dunque apprezzare quello che con fatica anche noi possiamo fare per lui, per completare nella nostra carne quello che manca ai patimenti Suoi a favore della Chiesa.

‘Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia”, anche perché possiamo aggiungere con S. Paolo: ‘So in chi ho posto la mia fede e sono convinto che egli è capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato’ (2Tim 1,12).

Carissimo Claudio la tua Chiesa continuerà a pregare anche per te, perché tu possa riconoscere sempre meglio la strada che il Signore ti ha fatto intravedere e possa crescere in essa come fedele discepolo del Signore Gesù. Noi tutti ringraziamo il Signore per la speranza che la tua disponibilità ha acceso nelle nostre comunità, che chiedono il dono del ministero diaconale e presbiterale e attraverso di essi la grazia dell’Eucaristia e del Vangelo nella nostra terra.

Ma prima ancora del tuo ministero, chiediamo che tu possa imitare il Signore Gesù nel donargli la tua vita per liberare il mondo dal peccato, mediante l’annuncio dell’amore di Dio e della sua salvezza.

 Chiediamo per te la fiducia nell’aiuto di Dio per portare a compimento la tua preparazione, sulla quale invochiamo la protezione della Beata Vergine Maria e dei Santi patroni della nostra Chiesa e della tua parrocchia.

Chiediamo infine la benedizione del Signore per i tuoi cari e per quanti ti vogliono bene, per coloro che ti accompagnano nel tuo cammino verso il diaconato e il presbiterato e per quanti potranno in futuro godere del tuo ministero.

OMELIA per l’APERTURA dell’ANNO DELLA FEDE
Faenza - Basilica Cattedrale, 12 ottobre 2012
12-10-2012

Il Papa stesso, nel messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale, ha messo insieme il significato dell’apertura dell’Anno della Fede e la Giornata missionaria. ‘La ricorrenza del 50° anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano II, l’apertura dell’Anno della fede e il Sinodo dei Vescovi sul tema della nuova evangelizzazione concorrono a riaffermare la volontà della Chiesa di impegnarsi con maggiore coraggio e ardore nella missio ad gentes perché il Vangelo giunga fino agli estremi confini della terra’.

Il tema della nostra fede diventa di una serietà unica se pensiamo alla responsabilità che abbiamo come cristiani davanti al mondo: ‘Non possiamo restarcene tranquilli, pensando ai milioni di nostri fratelli e sorelle, anch’essi redenti dal sangue di Cristo, che vivono ignari dell’amore di Dio’ (n. 86). Anch’io, nell’indire l’Anno della fede, ho scritto che Cristo ‘oggi come allora, ci invia per le strade del mondo per proclamare il suo Vangelo a tutti i popoli della terra’.

Dalla Chiesa di Faenza-Modigliana abbiamo sparsi nel mondo una decina di presbiteri e religiosi, altrettante suore e una trentina di laici: bastano per essere un segno significativo del nostro impegno missionario?

Uno degli ostacoli allo slancio dell’evangelizzazione è la crisi di fede, non solo del mondo occidentale, ma di gran parte dell’umanità, che pure ha fame e sete di Dio e deve essere invitata e condotta al pane di vita e all’acqua viva, come la Samaritana che si reca al pozzo di Giacobbe e dialoga con Cristo.

Quando ci si chiede che cosa fa la Chiesa per la pace, per il lavoro, per la droga, per la salute ecc. non si deve dimenticare che la Chiesa esiste per evangelizzare, e che la scommessa è salvare la verità che salva, e portarla alle genti di tutte le generazioni. Se saprà essere fedele a questa sua missione, tutte le altre cose verranno di conseguenza, come frutto della carità di Cristo.

L’incontro con Cristo, Persona viva che colma la sete del cuore, non può che portare al desiderio di condividere con altri la gioia di questa presenza e di farla conoscere, perché tutti la possano sperimentare. Occorre rinnovare l’entusiasmo di comunicare la fede per promuovere una nuova evangelizzazione delle comunità e dei Paesi di antica tradizione cristiana, che stanno perdendo il riferimento a Dio, in modo da riscoprire la gioia del credere.

Deve essere chiaro però che la ragione più bella per coltivare la fede, non è la nostra responsabilità di fronte agli altri, ma è la grazia di avere conosciuto il Padre di Gesù Cristo: ‘Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare’ (Mt 11,27); vivere in coerenza con questa fede ci rende contagiosi.

Voglio riflettere con voi sulla testimonianza e la sua ambiguità. La nostra fede non deve dipendere dalla testimonianza degli altri, e nemmeno essere insidiata dallo scandalo (Gesù ha detto che è inevitabile che avvengano scandali (Mt 18,7); la nostra fede deve essere legata all’incontro con Gesù vivo nella Chiesa.

È diverso invece quando dalla nostra testimonianza può dipendere la fede degli altri. Dice il Papa: ‘La fede, cresce quando è vissuta come esperienza di un amore ricevuto e quando viene comunicata come esperienza di grazia e di gioia. Essa rende fecondi, perché allarga il cuore nella speranza e consente di offrire una testimonianza capace di generare: apre, infatti, il cuore e la mente di quanti ascoltano, ad accogliere l’invito del Signore di aderire alla sua Parola per diventare suoi discepoli’ (PF, 7).

La testimonianza non possiamo pretenderla, né possiamo portarla come scusa, siamo però tenuti ad offrirla, perché da essa può dipendere la fede degli altri. Per esempio Gesù ha detto: ‘Tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato’ (Gv 17,21); la fede degli altri può essere il frutto della nostra unità ecclesiale.

Il Papa osserva che c’è un forte legame tra ciò che crediamo e la nostra adesione a Cristo: ‘Esiste, infatti, un’unità profonda tra l’atto con cui si crede e i contenuti a cui diamo il nostro assenso’ (PF, 10). Non è la stessa cosa conoscere una verità o non conoscerla; l’ignoranza colpevole (nel senso che dipende dalla nostra responsabilità) è spesso alla radice della nostra mancanza di fede, o della perdita della fede, oggi purtroppo sempre più facile, non perché siamo più liberi, ma perché siamo meno informati.

La nostra veglia terminerà con l’invito ad uscire, per portare fuori l’irradiazione di ciò che abbiamo incontrato, pur nella nostra miseria, perché, come ha detto Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio: ‘La fede si rafforza donandola’. Proprio perché siamo deboli dobbiamo andare e metterci la faccia con i nostri gesti di fede: ci aiuterà ad essere più convinti, nell’umiltà e nella gioia di credere.

La Chiesa come ci è stata presentata dal Concilio è una Chiesa giovane, contemporanea, fatta anche per il nostro tempo. Il nostro è un tempo che corre veloce, ma lo Spirito Santo ha preceduto ogni cambiamento con la sua novità; siamo noi che rischiamo di rallentare tutto e arrivare dopo. Pensate come sarebbe oggi la Chiesa cattolica se non ci fosse stato il Concilio Vaticano II.

Avviene per il Concilio come per ogni azione salvifica che ci riguarda: il dono ci è dato, è già stato confezionato o per i meriti di Cristo o per opera della Chiesa: noi dobbiamo farlo nostro accogliendolo, aprendoci alla grazia sollecitati anche dai tempi che dobbiamo imparare a leggere. Solo accettandolo il dono diventa tale; il Concilio è un dono che in questo Anno della fede dobbiamo far diventare nostro sempre di più.

I modi possono essere vari: leggendo in tutto o in parte i documenti, soprattutto le quattro costituzioni; oppure utilizzando il Catechismo della Chiesa Cattolica, che è una sintesi della dottrina della Chiesa dopo il Concilio; oppure raccogliendo una briciola ogni giorno nella e-mail dell’Azione Cattolica.

Ma un modo più bello ancora è vivere la nostra fede con lo stile e la sensibilità che il Concilio ci insegna, senza strumentalizzare presunte scelte che allontanerebbero dalla Chiesa attuale. Anche di noi, come dei cristiani del primo Concilio di Gerusalemme si deve poter dire: ‘Quando ebbero letta la lettera del Concilio, si rallegrarono per l’incoraggiamento che infondeva’ (Atti 15,31).

OMELIA per l’ORDINAZIONE DIACONALE di STEFANO OSSANI
Faenza - Basilica Cattedrale, 6 ottobre 2012
06-10-2012

Ringraziamo il Signore che continua a chiamare al servizio diaconale nella nostra Chiesa e ringraziamo coloro che rispondono di sì alla chiamata, in particolare quando nella loro risposta sono coinvolti anche la moglie e i figli. Il cammino del diaconato è ancora faticoso da noi, ma nutriamo fiducia che la fiammella che ancora arde possa essere ravvivata da altre adesioni, per un rinnovamento della nostra Chiesa nei ministeri laicali e nella missione.

La celebrazione di questa sera ci presenta due realtà sacramentali che sono tutte a servizio della Chiesa e del mondo: il Matrimonio e l’Ordine sacro nel grado del diaconato. La parola di Dio ci ha ricordato ciò che Gesù ha insegnato sul matrimonio, per la felicità dei coniugi, per il bene della comunità e per la salvezza del mondo.

‘All’inizio della creazione Dio li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto’.

L’unione coniugale come è stata voluta nel progetto iniziale di Dio è stata presa da Gesù come segno del suo amore per la Chiesa. È quello che diciamo quando diciamo che il matrimonio è sacramento, cioè realtà che indica e realizza ciò che significa. Quando marito e moglie si vogliono bene nel nome del Signore, non solo fanno vedere che l’amore è possibile, ma fanno crescere la realtà della Chiesa, dove i figli di Dio fanno l’esperienza di essere amati da Dio, attraverso i loro genitori. Di questo amore gode anche la società degli uomini, con tutti i vantaggi che ha per la pace sociale e la serenità dei ragazzi che crescono capaci di rapportarsi con gli altri. Una famiglia cristiana, per il solo fatto di essere famiglia unita e fedele, è un dono per tutta la società. Ha detto il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes: ‘La Chiesa, con i singoli suoi membri e con tutta intera la sua comunità, crede di poter contribuire molto a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia’ (GS, 40). Quindi una famiglia unita, fedele, stabile e feconda come Dio l’ha voluta fin dall’inizio è un bene per tutti.

Il sacramento dell’Ordine nel grado del Diaconato, che cosa porta di proprio in questa situazione già così ricca di grazia? È questa una domanda che si pone facilmente e che purtroppo trova spesso come risposta l’incapacità di vedere la preziosità di un servizio nella Chiesa per il mondo, realizzato con la grazia propria del sacramento. Qualcuno si chiede: ‘Che cosa fa un diacono che non possa già fare un bravo cristiano e un buon coniuge?’.

La domanda vera non può essere quella del ‘che cosa fare’, ma del ‘come essere’ nel rapporto con Cristo per il bene della comunità. Il diaconato costituisce colui che è ordinato come segno e strumento del servizio nella Chiesa. L’ordine sacro porta con sé, come grazia, la carità sponsale perché tutta la vita sia donazione alla Chiesa-sposa. Il legame sponsale con Cristo è di tutti i battezzati, e viene precisato negli altri sacramenti (come il matrimonio e l’ordine sacro) secondo la personale vocazione nella Chiesa.

Il diacono che è anche padre di famiglia porta con sé un duplice significato in ciò che egli è: per un verso ha la concretezza dell’amore familiare con le sue tipiche modalità di impegno, i ritmi e le relazioni, e nello stesso tempo ha un particolare rapporto con la Chiesa che vive il mistero di Cristo nell’Eucaristia, nell’ascolto della Parola e nella carità. Questi due aspetti si sostengono a vicenda e possono essere una vera grazia per aprire anche alle altre famiglie il loro contributo perché la Chiesa viva come famiglia dei figli di Dio.

È vero che ci possono essere anche dei problemi in questo duplice stato di vita, quando il diacono deve dividersi tra i doveri del padre di famiglia e quelli del responsabile di un ministero. Ma in questo caso è buona regola dare la precedenza alle esigenze familiari, nel rispetto delle situazioni e dei diritti di natura, soprattutto quando in campo ci sono i figli o il bene della famiglia.

Guardando il matrimonio e il diaconato dal punto di vista della realtà sociale, il fatto di trovarli nella stessa persona può sembrare una inutile sovrapposizione; ma se teniamo fermo il Cristo Signore, come punto d’arrivo di ogni cristiano, possiamo anche vedere che se il matrimonio porta i coniugi a vivere il loro amore come donazione nella famiglia, chiesa domestica, il diaconato apre alla donazione e al servizio nella Chiesa universale, passando dalla Diocesi, dopo aver cominciato dalla propria parrocchia.

Anche noi, come il vangelo di oggi, vogliamo concludere con l’immagine dei bambini, che ci danno la misura per entrare nel Regno dei cieli, di cui sono i destinatari privilegiati. Non siamo di fronte ad una immagine edulcorata della vita.

L’invito di Gesù è quanto mai attuale anche per il nostro tempo, perché ci dice di accogliere i bambini nelle famiglie lasciandoli nascere, educando in loro l’uomo e la donna che Dio ha pensato per ognuno di loro; senza impedire che i bambini vadano a Gesù, ingannandoli con tanti surrogati che non li potranno mai soddisfare; guardando alle cose della vita con lo sguardo dei bambini, per riconoscere quelle che ci servono per entrare nel Regno.

Puer in latino significa bambino e servo. Sarebbe bello che nella Chiesa il diacono aiutasse tutti a ricordare che dobbiamo essere bambini, cioè servi, perché ‘a chi è come loro appartiene il Regno di Dio’.

OMELIA per la FESTA DI S. CHIARA
Faenza - Monastero Santa Chiara, 11 agosto 2012
11-08-2012

‘Rimanete in me’ rimanete nel mio amore’: è l’invito che abbiamo raccolto con più insistenza nel vangelo di oggi. È compito di ogni discepolo di Cristo la fedeltà al suo amore. Ma c’è anche il rischio frequente di lasciarci attrarre dalle tante alternative mondane. La Chiesa, sua sposa, non può risultare infedele. Ecco allora che per manifestare la fedeltà della Sposa al suo Sposo ed essere segno di questa bella realtà alcune persone si consacrano in modo esclusivo al Signore.

Sia ben chiaro che il vincolo sponsale tra Cristo e la Chiesa è nella realtà del mistero del Corpo mistico e del popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Tuttavia, come dice il Concilio all’inizio del decreto Perfectae caritatis: ‘Per disegno divino si sviluppò una meravigliosa varietà di comunità religiose, che molto ha contribuito a far sì che la Chiesa non solo sia ben attrezzata per ogni opera buona e preparata al suo ministero per l’edificazione del Corpo di Cristo, ma attraverso la varietà dei doni dei suoi figli, appaia altresì come una sposa adornata per il suo sposo…’.

In questo mistero di fedeltà risplende nella Chiesa la verginità consacrata, e in essa in particolare quella che nella clausura trova un segno ancora più esclusivo dell’appartenenza a Cristo.

Celebrare quest’anno la solennità di S. Chiara significa ricordare l’ottavo centenario della sua ‘conversione e consacrazione’. Per questa occasione il Santo Padre ha indirizzato una lettera al vescovo di Assisi e attraverso di lui ai francescani e alle clarisse del mondo, che riprendiamo nella nostra riflessione. ‘Tale evento, dice il Papa, completava, per così dire, ‘al femminile’ la grazia che aveva raggiunto pochi anni prima la comunità di Assisi con la conversione del figlio di Pietro di Bernardone’.

Già questo aspetto è molto significativo per rilevare l’importanza della donna nella vita della Chiesa, vista nella realtà del suo mistero più profondo, al di là dell’aspetto sociale, che pure è importante.

La lettera del Papa mette in evidenza alcuni aspetti di quella ‘conversione’, come Chiara chiama la sua consacrazione, che ancora molto hanno da dire ai cristiani di oggi.

Il Papa riprende il racconto dalla biografia di S. Chiara: «Era prossimo il giorno solenne delle Palme, quando la giovane si recò dall’uomo di Dio per chiedergli della sua conversione, quando e in che modo dovesse agire. Il padre Francesco ordina che nel giorno della festa, elegante e ornata, si rechi alle Palme in mezzo alla folla del popolo, e poi la notte seguente, uscendo fuori dalla città, converta la gioia mondana nel lutto della domenica di Passione. Giunto dunque il giorno di domenica, in mezzo alle altre dame, la giovane, splendente di luce festiva, entra con le altre in chiesa. Qui, con degno presagio, avvenne che, mentre gli altri correvano a ricevere le palme, Chiara, per verecondia, rimase immobile e allora il Vescovo, scendendo i gradini, giunse fino a lei e pose la palma nelle sue mani».

La conversione di Francesco aveva sconcertato la città di Assisi, e anche la giovane Chiara fu toccata da quella testimonianza. «Il padre Francesco la esortava al disprezzo del mondo, dimostrandole, con una parola viva, che la speranza in questo mondo è arida e porta delusione, e le instillava alle orecchie il dolce connubio di Cristo».

La scelta di Chiara fu segnata da molte difficoltà, come spesso avviene ancora oggi per chi intende consacrarsi al Signore. ‘Se alcuni familiari non tardarono a comprenderla, e addirittura la madre Ortolana e due sorelle la seguirono nella sua scelta di vita, altri reagirono violentemente. La sua fuga da casa, nella notte tra la Domenica delle Palme e il Lunedì santo, ebbe dell’avventuroso. Nei giorni seguenti fu inseguita nei luoghi in cui Francesco le aveva preparato un rifugio e invano si tentò, anche con la forza, di farla recedere dal suo proposito’.

Il Papa sottolinea alcune caratteristiche del carisma di Francesco e di Chiara , che tornano anche nell’esperienza di oggi come dono e profezia, per la fecondità del carisma francescano e clariano.

Anzitutto ‘la vicenda di Chiara, come quella di Francesco, mostra un particolare tratto ecclesiale. In essa si incontrano un Pastore illuminato e due figli della Chiesa che si affidano al suo discernimento. Istituzione e carisma interagiscono stupendamente. L’amore e l’obbedienza alla Chiesa, tanto rimarcati nella spiritualità francescano-clariana, affondano le radici in questa bella esperienza della comunità cristiana di Assisi, che non solo generò alla fede Francesco e la sua «pianticella», ma anche li accompagnò per mano sulla via della santità’.

Una scelta vitale così decisiva prende luce e forza dalla liturgia che trasforma la vita. Afferma il Papa: ‘Tutta la vita cristiana, e dunque anche la vita di speciale consacrazione, sono un frutto del Mistero pasquale e una partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo. Nella liturgia della Domenica delle Palme dolore e gloria si intrecciano, come un tema che si andrà poi sviluppando nei giorni successivi attraverso il buio della Passione fino alla luce della Pasqua. Chiara, con la sua scelta, rivive questo mistero’. Da notare che questa integrazione della liturgia nella vita fu intenzionale nelle indicazioni di Francesco.

Poi il Papa illustra come la conversione di Chiara, nel suo significato profondo, sia una conversione all’amore, di Dio e del prossimo, mettendo in risalto tre aspetti.

‘La scuola di Gesù Eucaristia contemplato con affetto sponsale’ sarà il paradigma per la vita monacale nel piccolo spazio del monastero di S. Damiano.

La vita quotidiana sarà caratterizzata da ‘una fraternità regolata dall’amore a Dio e dalla preghiera, dalla premura e dal servizio’.

Infine, ‘è in questo contesto di fede profonda e di grande umanità’ che Chiara implora e ottiene il ‘privilegio della povertà’.

Nella parte finale della lettera il Papa afferma l’attualità dell’ideale clariano.

‘Come non proporre Chiara, al pari di Francesco, all’attenzione dei giovani d’oggi? Il tempo che ci separa dalla vicenda di questi due Santi non ha sminuito il loro fascino. Al contrario, se ne può vedere l’attualità al confronto con le illusioni e le delusioni che spesso segnano l’odierna condizione giovanile.

Mai un tempo ha fatto sognare tanto i giovani, con le mille attrattive di una vita in cui tutto sembra possibile e lecito. Eppure, quanta insoddisfazione è presente, quante volte la ricerca di felicità, di realizzazione finisce per imboccare strade che portano a paradisi artificiali, come quelli della droga e della sensualità sfrenata! Anche la situazione attuale con la difficoltà di trovare un lavoro dignitoso e di formare una famiglia unita e felice, aggiunge nubi all’orizzonte.

Non mancano però giovani che, anche ai nostri giorni, raccolgono l’invito ad affidarsi a Cristo e ad affrontare con coraggio, responsabilità e speranza il cammino della vita, anche operando la scelta di lasciare tutto per seguirlo nel totale servizio a Lui e ai fratelli. La storia di Chiara, insieme a quella di Francesco, è un invito a riflettere sul senso dell’esistenza e a cercare in Dio il segreto della vera gioia. E’ una prova concreta che chi compie la volontà del Signore e confida in Lui non solo non perde nulla, ma trova il vero tesoro capace di dare senso a tutto’.

‘Rimanete nel mio amore’. Con l’esempio di S. Chiara e la sua intercessione possiamo rispondere con gioia all’invito di Gesù.

OMELIA per la LITURGIA di COMMIATO a mons. PIERLUIGI MAZZONI
Dovadola, 14 luglio 2012
14-07-2012

La lontananza del Vescovo S. E. Mons. Lino Pizzi dalla Diocesi, ha indotto Mons. Vicario Generale a chiedere al sottoscritto di presiedere la liturgia di commiato del compianto arcivescovo Mons. Pierluigi Mazzoni, qui nella sua Dovadola, dove riposeranno le sue spoglie mortali in attesa della risurrezione. Non ho avuto una particolare conoscenza dell’arcivescovo Mazzoni, anche se alcune cose possiamo ricordarle insieme.

 

Anzitutto è un vescovo della santa Chiesa di Dio, che ha speso la sua vita prima nel servizio degli organismi centrali della Chiesa, dalla Congregazione dei vescovi, alla Nunziatura apostolica in Italia, poi come vescovo di Ascoli Piceno e arcivescovo di Gaeta.

Il Signore Gesù così ha pregato il Padre: ‘Voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato’. La preghiera di questa Eucaristia si accompagna alla preghiera del Signore per il nostro confratello il vescovo Pierluigi, per il quale, in forza della preghiera di Gesù e del sacrificio eucaristico chiediamo che possa presto contemplare la gloria di Cristo.

Sempre nel vangelo di Giovanni il Signore Gesù poco prima ha detto: ‘Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola’. L’annuncio del vangelo di salvezza è il ministero principale del vescovo nella sua Chiesa. Rendiamo grazie al Padre per il ministero episcopale del vescovo Pierluigi nelle Chiese locali e nella Chiesa universale, perché coloro che hanno creduto in Cristo mediante la sua parola e la sua testimonianza possano accompagnarlo nel Regno dei cieli.

Si era preparato con impegno e generosità al ministero che lo attendeva, coltivando la vita spirituale fin dalla famiglia e dalla parrocchia, poi nel seminario di Modigliana, respirando la tradizione e il clima della sua Chiesa d’origine.

Trasferito a Roma per approfondire gli studi, raggiunse rilevanti gradi accademici in diritto canonico, filosofia e teologia. Questa competenza, unita alla finezza della sua umanità e al grande senso di responsabilità, ha impreziosito il suo servizio ecclesiale, di cui ha lasciato il ricordo nella Chiesa di Ascoli Piceno e soprattutto nell’Arcidiocesi di Gaeta, che ha guidato per una decina d’anni.

Per tutto questo e per quanto rimarrà noto soltanto a Dio anche noi diciamo: ‘Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In Lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci ad essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo’.

Nel momento in cui accompagniamo presso la misericordia di Dio il nostro fratello e vescovo Pierluigi, non possiamo fare a meno di ringraziare Dio per averlo donato all’affetto dei suoi cari e di questa terra, e al bene della Chiesa. Amato da Dio, come tutti, prima della creazione del mondo, chiamato alla vita e alla grazia per un progetto di santità nella carità, reso figlio di Dio nel Battesimo ricevuto in questa parrocchia: per tutto questo benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo.

Mi ha particolarmente colpito la scelta di ritornare alla terra d’origine, che può rivelare alcuni aspetti assai significativi. Anzitutto un ritorno alle proprie radici sia familiari, sia cristiane, mai dimenticate anche quando la vita lo ha portato a stare lontano. Anzi: proprio ciò che in lui era cresciuto nella famiglia e nella parrocchia,  nei valori semplici e robusti di queste valli, nelle amicizie sincere e forti della terra di Romagna costituiva un patrimonio, che impreziosito dalla fede e dai vincoli ecclesiali avrebbe portato i suoi frutti.

Nel battesimo il nostro fratello è rinato come figlio di Dio, nel battesimo è morto e risorto con Cristo, e ora, in questa stessa patria attende il ritorno del Signore.

Sia benedetto Dio anche per sorella nostra morte corporale, perché se siamo figli, siamo anche eredi. Abbiamo ascoltato ancora S. Paolo dirci: ‘In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati a essere a lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo’. Non è poco aver acquisito il diritto al paradiso dal battesimo, ed avere pure, mediante il sigillo dello Spirito Santo, la caparra della nostra eredità. Ma è pur vero che rimane la nostra libertà di risposta e la misura della nostra adesione al disegno di Dio; e chi ha avuto particolari responsabilità può aver maggiore bisogno dell’aiuto solidale dei fratelli di fede nella preghiera e nelle opere di carità, per presentarsi al giudizio di Dio.

‘In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia’. Mons. Pierluigi proprio perché rimane qui tra voi, chiede anche il vostro ricordo e la vostra preghiera di suffragio.

Vergine santa, Madre della misericordia, accompagna l’anima eletta dell’arcivescovo Pierluigi presso il Padre, e mostra anche a lui, dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del tuo seno, o clemente, o pia, o dolce Vergine Maria.

OMELIA per la SOLENNITA’ del CORPUS DOMINI
Faenza - Cappuccini, 7 giugno 2012
07-06-2012

La celebrazione della solennità del Corpo e del Sangue del Signore ci offre l’occasione per prolungare l’Eucaristia con la processione, segno del nostro essere Chiesa in cammino nella città degli uomini. Chiesa che condivide le gioie e le speranze, le sofferenze e le fatiche dei poveri, dei malati, di chi ha perso la casa, il lavoro, la speranza, la pace’

La nostra Eucaristia non deve chiuderci di fronte al mondo in cui siamo immersi, ma deve accendere una luce, che illumini anzitutto noi, gente di poca fede, e poi sia promessa di futuro per la nostra gente, per i giovani soprattutto, per le famiglie e per quanti sono in difficoltà.

L’Eucaristia è Dio che è rimasto qui, visibile mistero, perché sapeva che ci saremmo smarriti nella nostra pretesa di fare da soli; è rimasto per salvare la nostra vita personale e comunitaria, ma soprattutto è rimasto per aprirci la strada del Regno.

La nostra storia viene da lontano. Abbiamo ascoltato che Dio, mediante Mosè, ha fatto con il popolo un’alleanza, sigillata nel sangue del sacrificio e fondata nell’ascolto della sua Parola; era una iniziativa di Dio per guidare il popolo sulla via della pace. Ma solo quando l’alleanza è stata fatta nuova in Cristo, l’uomo ha conosciuto la salvezza.

Cristo infatti, come abbiamo ascoltato, non con il sangue di animali, ma con il proprio sangue ha ottenuto una redenzione eterna, entrando una volta per sempre nel santuario di Dio, così da rendere possibile anche per noi giungere presso il Padre. In Cristo infatti siamo stati scelti prima della creazione del mondo, per vivere da figli di Dio; e se figli, anche eredi. La vita divina, partecipata a noi nel Battesimo, viene alimentata dal Pane della vita, che ci sostiene nel cammino.

Il Vangelo di Marco ci ha anche ricordato il mistero del Sangue del Signore, il quale ‘prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio’.

In forza del Pane eucaristico camminiamo fino al monte di Dio; il frutto della vite, il vino che rallegra il cuore dell’uomo, il sangue di Cristo ci raccoglie al banchetto del Regno per la Pasqua eterna, nel giorno senza tramonto.

Il segno del vino racchiude in sé per un verso la sostanza del Sangue, e rende presente in modo sacramentale il sacrificio di Cristo; per altro verso il segno del vino richiama l’ebbrezza dello Spirito che agisce in coloro che sono uniti a Cristo.

Comprendiamo così che fare festa nel Signore è conseguenza dell’amore che Dio ha messo in noi, perché lo possiamo riversare nei nostri fratelli, e fare l’esperienza della gioia del dare.

Mentre noi siamo riuniti in questa santa assemblea, non possiamo non pensare a tutti coloro che in queste settimane sono stati colpiti dal terremoto in un territorio a noi vicino, e hanno perduto persone care, la casa, il lavoro e le loro chiese. Questo insieme di cose deve farci riflettere sulla preziosità dei doni di cui noi ancora disponiamo, e dobbiamo chiederci se li stiamo valorizzando pienamente. Anzitutto il dono della vita, che proprio perché può cessare con tanta rapidità non può essere sprecata, ma deve trovare tutto il suo significato nel fare il bene e nel prepararci all’eternità che ci è stata promessa.

Pensiamo alla realtà della casa per la vita e l’intimità della famiglia; luogo nel quale si impara a vivere, ad accettare gli altri, a servire, ad amare e a perdonare; spazio per la nostra creatività, per il silenzio e la preghiera, per condividere con i fratelli, i parenti, gli amici e i poveri. Ha detto un anziano che ha dovuto abbandonare la sua casa: abbiamo dovuto lasciare tutto quello che tra poco dovremo lasciare per sempre. Una lettura di fede, che mostra la capacità di imparare anche  in una situazione difficile.

Anche il lavoro si capisce nella sua importanza quando lo si perde. Oltre al significato misterioso di collaborazione con Dio nel custodire il creato, il lavoro porta dignità e libertà alla persona, che può sostenere la famiglia, servire nella società ed essere responsabile nel costruire il futuro. Tuttavia il lavoro non deve essere sacrificato all’avidità del denaro, che sta alla radice di tutti i mali (cfr. 1 Tim 6,10), compresa la vanificazione della domenica.

Come diventeranno le domeniche in quelle comunità che hanno perduto la chiesa, nella quale vivevano l’Eucaristia domenicale, condividevano le feste dell’anno liturgico, celebravano i sacramenti e per molti rappresentavano la storia di intere generazioni? Tutti abbiamo bisogno della festa, vissuta nella famiglia e condivisa con quanti vivono la stessa fede. Facciamo abbastanza per difenderne il significato e la sopravvivenza, contro il dilagare della distruzione della domenica? Potremo vivere senza festa, senza Eucaristia domenicale, senza ciò che dà senso e illumina la vita?

La benedizione dei Ministri straordinari della comunione che tra poco faremo, a servizio della comunità cristiana di questa parrocchia, ci ricorda come dall’Eucaristia nascano le opere di carità, di vicinanza e di condivisione.

Pensando a coloro che soffrono, vogliamo pregare per loro, e ricordare che ‘in Cristo Gesù ciò che conta è la fede che opera per mezzo della carità’ (Gal 5, 6).

OMELIA per la MESSA della DONAZIONE dei CERI 2012
Faenza - Basilica Cattedrale, 12 maggio 2012
12-05-2012

Saluto e ringrazio il Signor Sindaco per la partecipazione a questa Eucaristia, e saluto anche le rappresentanze dei Rioni cittadini.

Ogni anno la celebrazione di questa Messa che compendia in sé la liturgia della sesta domenica di Pasqua e la festa della Beata vergine delle grazie, è un momento molto bello di partecipazione cittadina, evidenziata dalla presenza dei Rioni e dall’omaggio che essi offrono alla Madonna con il dono di un cero. È un segno di unità che fa certamente bene alla nostra comunità e consolida quella comunione di intenti che in passato ha portato a eleggere come patrona della città di Faenza la Madonna delle grazie

Quest’anno devo esprimere agli organizzatori un particolare apprezzamento per aver voluto ricordare nel drappo del Palio il VI centenario della Madonna delle grazie, rievocandone l’immagine.

La festa del centenario avviene in un momento difficile per la nostra comunità, per il nostro paese e per il mondo intero. Vogliamo ricordare anche in questa Messa le famiglie provate dalla mancanza di lavoro e i giovani che non riescono a trovarlo, e pregare anche per coloro che hanno in mano le sorti della nostra gente.

Seicento anni fa anche la devozione alla Madonna delle grazie ebbe la sua origine in un tempo di sciagure e di sofferenze. Allora però più facilmente di oggi si era disposti a riconoscere i limiti della natura umana e a chiedere l’aiuto del Cielo.

Non sembri fuori luogo nel nostro tempo fare tesoro degli aiuti che ci vengono offerti dalla fede, non solo per resistere nelle prove, ma anche per sapere come affrontarle alla luce degli insegnamenti del Vangelo, che anche se non ci danno le soluzioni immediate, tuttavia ci possono ricordare i valori fondamentali.

Abbiamo sentito nella prima lettura San Pietro affermare: ‘In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga’. Avere il santo timor di Dio e praticare la giustizia, significa prendere Dio sul serio cominciando dal rispetto delle leggi morali naturali, leggi che appartengono quindi ad ogni popolo. Se fossimo più solidali a questo riguardo non solo potremmo rimediare a qualche errore passato, ma potremmo anche prevenire future deviazioni.

La seconda lettura e il vangelo li consideriamo insieme nel raccogliere l’insegnamento del Signore sull’amore. È un insegnamento sempre nuovo di cui abbiamo bisogno, perché ci trova spesso inadempienti. La tentazione dell’egoismo, degli interessi, del difendere le proprie posizioni è troppo forte. Non possiamo mai dare per scontato di essere a posto e di avere fatto abbastanza.

Gesù invita a rimanere nel suo amore, segno che siamo già immersi in questo amore, che ci precede ‘perché in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati’. Già questo fatto è per noi di grande conforto. Il cristianesimo è la rivelazione di Dio che ci ama, perché anche noi impariamo ad amare e possiamo esperimentare la gioia del donare.

 ‘Amiamoci gli uni gli altri perché l’amore è da Dio; chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore’. Proviamo a considerare la forza di queste parole e la presunzione di chi per mettere le mani avanti dice: io non sono credente. Si potrebbe dirgli: Ma tu non ami nessuno? Non hai mai fatto un gesto di bontà? Allora non dire: non credo, perché chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Mentre si può dire: Signore credo, ma aumenta la mia poca fede.

Abbiamo incontrato queste parole nella festa della Madonna delle grazie, e prendiamo anch’esse come un dono e una grazia di Maria. Abbiamo bisogno di verificarci sul comandamento dell’amore a tutti i livelli, in famiglia, sul lavoro, nelle comunità civili ed ecclesiali, con i nostri concittadini e con coloro che vengono da altri paesi.

Il precetto dell’amore non va osservato perché ci conviene, ma perché viene da Dio e costituisce il fondamento per i nostri rapporti con gli altri e con Dio stesso, che ci ha chiamato amici.

Si tratta di comprendere bene quello che Gesù chiede, per non ridurre questa novità ad una osservanza formale. Quando Gesù dice: ‘Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi’,  aggiunge anche: l’amore più grande è dare la vita per i propri amici, proprio come ha fatto Lui.

I veri benefattori dell’umanità sono persone che hanno fatto così, o almeno ci hanno provato, a cominciare dai genitori che si sacrificano per i figli, fino a coloro che rischiano la vita per salvare altri o coloro che abbandonano tutto per andare ad aiutare altri popoli, come fanno i missionari.

Con questo si vuole dire che è possibile amare come ci insegna il Signore, e deve diventare sempre più un modo diffuso di relazione con gli altri, per formare quella che Paolo VI chiamava la civiltà dell’amore. Si tratta di crederci, di chiedere l’aiuto necessario e di essere convinti che il vero guaio del mondo è l’egoismo. Anche il nostro, perché facilmente vediamo solo quello degli altri.

La risposta ai nostri problemi e alle sofferenze di tanti che ci viene data nella festa della Madonna delle grazie è questa parola di Gesù: amatevi gli uni gli altri. Se questo comando di Gesù lo tenessimo presente anche nella nostra vita sociale e politica e nei rapporti economici, ovviamente con le dovute mediazioni, avremmo acceso una luce per una vera speranza.

È questa una grazia che vogliamo chiedere tra le altre a Maria, madre di tutte le grazie.

OMELIA della messa di PASQUA 2012 (sintesi)
Faenza - Basilica Cattedrale, 8 aprile 2012
08-04-2012

Viviamo la Pasqua contro la disperazione, perché la Pasqua è la festa della vita che ha vinto la morte. Cristo è l’unico uomo che sia risorto da morte; nessun fondatore di religione ha mai avanzato questa pretesa, perché sarebbe stato facilmente contestato da coloro che lo conoscevano.

Cristo è risorto non per stupire il mondo, ma perché l’ultima nemica dell’uomo ad essere vinta è la morte. Infatti la vita risorta non muore più.

Di fronte a questa realtà esaltante sta l’attuale cultura di morte, che spesso non riesce ad affrontare qualche seria difficoltà contro il benessere dell’uomo, se non con il lugubre rimedio della morte.

Il benessere materiale e personale è diventato sinonimo di felicità, e ogni insidia contro di esso deve essere eliminata, non importa come. Pensiamo alle varie pillole omicide o alle azioni dirette contro il bambino indesiderato, all’eutanasia del malato inguaribile o al suicidio disperato.

Tutto questo aggravato dalla mistificazione che a volte viene fatta non chiamando le cose con il loro nome, rendendo così difficile il riconoscimento dell’errore.

L’uomo aveva la pretesa di poter fare senza Dio, anzi contro Dio, addirittura meglio di Lui, e si è ridotto a seguire risposte che distruggono l’uomo.

Cosa può dire la Pasqua di Cristo nella situazione comunque difficile di questo tempo? Non possiamo chiedere alla fede le risposte ai problemi economici, ma possiamo chiedere di essere aiutati a vedere le cose nella loro vera dimensione, sia per affrontare la situazione, sia per capire dove abbiamo sbagliato.

Perché possiamo ancora correre il rischio di ripetere gli stessi errori, soprattutto non tenendo conto di ciò che è fondamentale per l’uomo, sia nel rispetto delle leggi morali naturali, sia nel riconoscere la condizione di figli di Dio in cui Cristo ci ha collocati.

Tutto ciò ha delle conseguenze anche in questa vita, che diventa l’occasione per amare Dio e amare il prossimo. Sono tanti i surrogati che ci vengono offerti come essenziali per la nostra felicità, salvo poi pagarne le scotto a caro prezzo, come l’ubriacatura del sesso, del piacere, dell’avere; il consumo di tutto comprese le relazioni affettive; il cercare emozioni sempre più forti nella droga, nel gioco d’azzardo, nella velocità.

La vita è un dono di cui essere grati. La sua bellezza si scopre nell’amore puro, nella gioia degli affetti familiari stabili, nella costruzione della pace in famiglia e nella società, nel vivere la propria fede, riconoscendo di essere amati da Dio.

Un paradosso del nostro tempo è quello di aver dato all’uomo altre occasioni di morte, oltre a quella naturale, e di aver paura perfino di nominarla.

È vero: solo chi conosce il significato della morte può parlarne. La fede cristiana ci dice che la morte è il passaggio alla vita vera, dopo essersi preparati vivendo fin da ora tutto ciò che è conforme alla dignità dei figli di Dio.

E non si dica che questo non è possibile, perché ci sono anche oggi i santi che vivono in questa prospettiva con fede e carità, con l’aiuto di Dio, nella fedeltà al loro battesimo. Si tratta di vederli e di accettarli come promessa di una speranza vera per tutti.

Ogni anno la Pasqua ci ricorda Chi c’è all’origine di questo dono: c’è un Dio fatto uomo, morto e risorto, perché anche la morte diventi speranza di vita.

OMELIA per la MESSA CRISMALE 2012
Faenza - Basilica Cattedrale, 5 aprile 2012
05-04-2012

Prima di entrare nel Triduo sacro per la celebrazione del Mistero pasquale, la liturgia ci convoca per la Messa crismale, durante la quale verranno benedetti il Crisma e gli oli dei catecumeni e degli infermi.

Questa celebrazione nei tempi recenti ha assunto un significato molto più ampio della preparazione degli oli che sarebbero serviti per il sacramento del battesimo nella veglia di Pasqua; è diventata il segno della comunione ecclesiale rappresentata dal Presbiterio unito attorno al Vescovo, e nello stesso tempo la celebrazione del sacerdozio ministeriale al servizio dell’intero popolo sacerdotale.

Doveva essere chiaro che il Mistero pasquale avrebbe avuto una continuità sia nella liturgia, sia nell’opera di santificazione da parte dei ministri ordinati, affinché il popolo sacerdotale prolungasse nel tempo e in tutto il mondo la missione salvifica di Cristo. Siamo perciò invitati a prepararci a vivere il Triduo sacro lasciando operare in noi l’efficacia dei misteri che celebriamo, i quali, a loro volta, faranno rivivere in noi la grazia sacramentale ricevuta per l’imposizione delle mani. Passione, morte e risurrezione di Cristo continueranno ad agire nell’Eucaristia finché ci sarà un presbitero a presiederla e a offrirla come sacrificio gradito a Dio.

Da qualche tempo i presbiteri nella Messa crismale vengono coinvolti direttamente nel rinnovare le promesse che furono fatte davanti al vescovo al momento dell’ordinazione, secondo l’impegno che anche il prefatio della Messa ricorda: ‘Tu proponi loro come modello il Cristo, perché, donando la vita per te e per i fratelli, si sforzino di conformarsi all’immagine del tuo Figlio, e rendano testimonianza di fedeltà e di amore generoso’.

Per favorire la nostra conformazione all’immagine di Cristo abbiamo bisogno di essere aiutati; e quale aiuto migliore di quello di sua Madre, che dalla frequentazione del Figlio più di ogni altro gli è diventata simile, rimanendogli fedele fin sotto la croce? Desideriamo cogliere come un dono la ricorrenza del VI centenario della B.V. delle Grazie anche in questa occasione.

La mediazione materna di Maria, alla quale ricorriamo spesso nella nostra preghiera, oggi la chiediamo anche per la grazia del suo esempio e della santità della sua persona.

Ha detto la Lumen gentium (n. 65): ‘Maria per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, in sé compendia e irraggia (quodammodo unit et riverberat) le principali verità di fede’. In altre parole possiamo dire: Maria intercede per noi non solo per quello che fa, ma anche per quello che è.

Per comprendere questo basterà ricordare i quattro dogmi mariani: l’Immacolata concezione, la Verginità perpetua, la Maternità divina e l’Assunzione al cielo, e vedere come attorno a queste quattro verità fondamentali si raccoglie l’essenza del mistero cristiano.

Maria Immacolata, redenta in previsione dei meriti della morte e risurrezione di Cristo richiama il mistero della salvezza universale e la collaborazione della libertà umana con la grazia divina.

Maria sempre vergine ci ricorda che Dio opera la salvezza senza l’intervento dell’uomo, al quale chiede solo di accogliere la sua volontà. Per noi sacerdoti la verginità di Maria è anche il modello di una vita affidata interamente alla Chiesa, la quale, come Maria, genera in modo verginale i figli di Dio mediante la grazia della parola e dei sacramenti.

La Madre di Dio generando al mondo il Salvatore mette subito in chiaro che il cristianesimo non è un sistema di idee o di riti religiosi, ma è una Persona divina che ha preso un corpo per poterlo offrire al Padre sulla croce. A questo punto è possibile diventare partecipi della natura divina, se il Cristo risorto viene accolto nella fede e nella grazia battesimale.

Infine Maria, che ci ha dato l’autore della vita, non ha conosciuto la corruzione del sepolcro; assunta in Cielo si è riunita al Figlio risorto nell’integrità della sua persona, anima e corpo. Ella è la prima creatura umana perfettamente riuscita secondo il disegno di Dio, primizia e speranza per ciascuno di noi.

L’immagine della B.V. delle Grazie che il nostro popolo venera ormai da sei secoli, oltre a collegarci con la Madre del Signore ci lega alla storia della nostra Chiesa e ne diventa il simbolo più stabile. La cappella della Madonna delle Grazie, dichiarata santuario diocesano dal vescovo mons. Bertozzi è il cuore della Diocesi.

Oggi siamo particolarmente lieti di sentire presente a questa celebrazione la Madre del nostro sacerdozio, la patrona della nostra Chiesa diocesana e la protettrice delle nostre attività apostoliche.

Vogliamo affidare a Lei in modo particolare i confratelli del nostro presbiterio che in questo anno ricordano il 50. mo anniversario della loro Ordinazione presbiterale, a cominciare dal vescovo Mons. Silvano Montevecchi, vescovo di Ascoli Piceno; P. Giuliano Gorini, missionario della Consolata in Kenia, nato a Faenza e ancora molto legato a questa Chiesa; don Pietro Sangiorgi, don Domenico Monti e il Can. Antonio Bonoli, che sta vivendo il suo sacrificio sul letto della sofferenza.

Ricordiamo pure due confratelli che ricordano il 60.mo anniversario della loro Ordinazione: Mons. Umberto Argnani e don Cesare Cattani. Li ricordiamo tutti con il nostro affetto e la nostra preghiera.

Come pure ricordiamo i nostri missionari, per i quali ogni anno in questa giornata compiamo il gesto di una colletta che vuole assicurare la partecipazione alla loro missione, talvolta vissuta in modo eroico.

Infine ricordiamo i nostri sacerdoti  che ci hanno lasciato in questo anno: il Signore doni loro la beatitudine, la luce e la pace.

Carissimi confratelli, dopo Pasqua mi recherò con alcuni presbiteri a visitare Mons. Pietro Scalini, Rettore del Seminario di San Pietroburgo, per portare il segno dell’amicizia e della solidarietà del nostro presbiterio e della nostra Chiesa.

Dovremo interrogarci, per capire se il Signore ci ha voluto dirci qualche cosa chiamando dalla nostra Chiesa sia l’Arcivescovo Mons. Paolo Pezzi, sia il Rettore del seminario. Intanto porterò a lui il vostro saluto e l’assicurazione della vostra preghiera.

Porgo un saluto e un augurio a voi ministranti presenti a questa celebrazione e vi incoraggio a curare con diligenza e passione il vostro servizio nella casa di Dio. È un impegno sul quale non mancherà la benedizione del Signore, soprattutto se saprete mantenervi fedeli nel tempo, senza vergognarvi anche quando crescerete in età e statura.

La Vergine santa che abbiamo voluto presente nella nostra riflessione ci accompagni nei giorni di Pasqua, che vivremo con il nostro popolo per trasmettere a tutti la speranza che ci viene dalla fede nel Signore risorto.

A lui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.