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OMELIA per la MESSA CRISMALE 2014
Faenza - Basilica Cattedrale, 17 aprile 2014
17-04-2014

L’incontro annuale del Giovedì santo nella Messa crismale che stiamo celebrando come presbiterio diocesano insieme al nostro popolo, ha un significato particolare sia come segno sacramentale, sia come momento spiritualmente molto intenso.

I parroci arrivano a questo giorno con il carico della visita alle famiglie, che per varie settimane li ha impegnati con una fatica fisica a volte ragguardevole, ma anche con il conforto dell’incontro con la propria gente, essendosi resi partecipi delle gioie e delle speranze, delle pene e delle angosce di tante famiglie. Giustamente quella visita è considerata un incontro pasquale di passione e di risurrezione, che in questo Triduo santo ognuno di noi saprà offrire insieme al sacrificio e alla vittoria di Cristo.

Il momento spiritualmente forte che ci è ora offerto è la rinnovazione delle promesse sacerdotali. L’origine della grazia del nostro ministero ha un fondamento che non viene mai meno, ed è il sacrificio del Signore Gesù offerto una volta per sempre; ma è la nostra partecipazione a questo ministero che può avere dei momenti di stanchezza.

Ci viene chiesto di rinnovare l’impegno che fu promesso da noi con giovanile slancio, quando consacrammo la nostra vita al Signore Gesù, sapendo che avremmo trovato tante difficoltà nei nostri limiti e nel contrasto con il mondo, ma anche tante soddisfazioni nella risposta alla sete di Dio che la nostra gente in varie occasioni  manifesta.

Rinnoviamo insieme come presbiterio le promesse fatte personalmente nell’Ordinazione, perché la fedeltà ad esse è legata anche alla comunione che riusciamo a vivere nel corpo presbiterale, nella nostra Chiesa diocesana.  Siamo richiesti con crescente insistenza ad entrare in una conversione pastorale in senso missionario, superando la tentazione del ‘si è sempre fatto così’, conversione che non può essere efficace se non è nello stesso tempo un segno di comunione nella Chiesa per la missione nel mondo.

Chiediamo ai nostri fedeli di pregare seriamente per la nostra conversione e di aiutarci a rinnovare noi stessi nella fedeltà a Cristo e agli uomini del nostro tempo, ai quali vogliamo offrire il nostro servizio con la freschezza della nuova evangelizzazione, nella quale ci sta conducendo Papa Francesco.

I nostri limiti non ci fermeranno, perché prima e più di noi agisce nel nostro ministero Cristo capo e pastore, di cui siamo indegnamente, ma efficacemente sacramento. Siamo stati consacrati con il segno del sacro Crisma, che anche oggi prepariamo in questa liturgia e mediante il quale, oltre a consacrare i bambini nel battesimo e a conformare a Cristo i ragazzi nella Cresima, quest’anno dedicheremo il nuovo altare di questa Cattedrale.

Nel linguaggio simbolico della liturgia l’altare è segno di Cristo, che convoca attorno a sé nell’unità la sua Chiesa; non sarà certo la bellezza o la preziosità di questo manufatto a rendere efficace il nostro ministero, ma ciò che esso rappresenta e significa, e soprattutto Colui che su questo altare si renderà presente per la nostra Chiesa.

Intanto oggi portiamo con noi il ricordo dei presbiteri del nostro clero che il Signore ha chiamato a sé in questo ultimo anno, fra i quali ricordo in particolare il vescovo Silvano Montevecchi.

Siamo anche vicini con la nostra preghiera e il nostro augurio fraterno ai presbiteri che celebrano ricorrenze significative della loro ordinazione: settantesimo anniversario per don Oreste Molignoni, sessantacinquesimo per don Carlo Matulli; sessantesimo per P. Aurelio Capodilista, cappuccino; cinquantesimo per don Mauro Banzola, Mons. Antonio Taroni ; venticinquesimo per don Paolo Bagnoli e don Luca Ravaglia.  Il popolo di Dio lodevolmente farà corona attorno ai suoi preti per ringraziarli in queste occasioni per il bene che hanno profuso con il loro ministero e con la loro generosità. Ricordiamo nella preghiera anche il neo-cardinale Gualtiero Bassetti, nato a Popolano, che ricorda quest’anno il ventesimo della sua ordinazione episcopale.

Preghiamo oggi anche per alcuni nostri confratelli assenti per malattia: il Signore li sostenga e li conforti nella parte più delicata della loro donazione a Cristo, perché si tratta di salire con Lui sulla croce.

Infine un pensiero per i missionari, che hanno avuto le radici nella nostra Chiesa, e che sono stati inviati a dilatare il Regno di Dio: essi sono il segno della forza evangelizzatrice della Chiesa che li ha generati alla fede e che continua a sostenerli con l’aiuto e la preghiera.

Un pensiero affettuoso e pieno di speranza rivolgiamo ai nostri seminaristi che ci consentono di guardare avanti con fiducia: il Signore non ci abbandona. Preghiamo per loro, per le loro famiglie, per i formatori; preghiamo per coloro che il Signore sta chiamando e si trovano nella delicata situazione di rispondere, con la trepidazione propria della loro età. Siamo tutti coinvolti in questa avventura. Le preghiere per le vocazioni al presbiterato che quest’anno vengono chieste, vogliono orientarci con decisione a farci carico anche per il futuro dei sacerdoti che dovranno spezzare il pane e la parola ai piccoli e ai poveri.

Saluto i ministranti, presenti a questa Concelebrazione e li ringrazio per il servizio liturgico che fanno nelle loro comunità. Siate fedeli, perché siete fortunati a seguire le celebrazioni più da vicino, favorendo con il vostro contributo la loro bellezza ed efficacia.

Carissimi sacerdoti, sono ormai dieci anni che condividiamo la vita e le sorti di questa Chiesa di Faenza-Modigliana affidatami dal Signore tramite il Papa Giovanni Paolo II, che la Chiesa si prepara a riconoscere nella santità della sua vita. È un tratto di storia che affidiamo al futuro di questa Chiesa amata e servita con tanti limiti, ma sempre volentieri. Il Signore la benedica e la protegga, e doni a tutti noi la sua misericordia.

OMELIA per il Servo di Dio DANIELE BADIALI
16-03-2014

La seconda domenica di Quaresima è sempre caratterizzata dal racconto della Trasfigurazione, il mistero che annuncia la gloria di Cristo nella sua Risurrezione. Ma prima della gloria la Trasfigurazione ci presenta il coinvolgimento  di ogni discepolo che vuole seguire Cristo. Si tratta della risposta alla chiamata di Gesù.

Il primo a rispondere a Dio nella storia della salvezza fu Abramo: ‘Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò’.  Abramo mostra concretamente la sua fede in Dio lasciando la propria patria e andando verso un luogo noto solo a Dio. Anche Gesù chiama a seguirlo quelli che egli vuole e, in un’altra situazione, prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li conduce in disparte, su un alto monte.

San Paolo afferma: ‘Egli ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia’. La vita cristiana è sostanzialmente una continua risposta al Signore che ci ha chiamati e ci chiama, ‘affinché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo’ (Ef 4,13). Il Concilio, nella Lumen Gentium parlerà in modo esplicito della universale vocazione alla santità nella Chiesa.

Tutti santi, ma ognuno secondo il progetto personale che Dio fin dall’inizio ha per ciascuno di noi, lungo un percorso che sarà conosciuto del tutto solo alla fine. E intanto agli apostoli sul Tabor  vengono date alcune indicazioni che, seppure in misura diversa, valgono per tutti.

Gesù mostra la sua gloria insieme a Mosè ed Elia, la legge e i profeti, che, dirà S. Luca, ‘parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme’ (Lc 9,31); è un modo velato, ma non tanto, per dire che è attraverso la croce che si giunge alla gloria.

Pietro voleva rimanere in quella situazione di gioia, ma ‘una nube luminosa copre tutti con la sua ombra’; è la nube che nasconde e rivela la presenza di Dio, nella condizione che ci è concessa ora, finché siamo nel tempo.

E c’è un’altra esigenza ricordata dalla voce che esce dalla nube: ‘Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento.  Ascoltatelo’.

E alla fine gli apostoli, dopo che Gesù li ha invitati a non temere, ‘alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo’. È lui la via che conduce alla vera vita.

Vediamo ora la vocazione nella vita di P. Daniele, come lui l’ha avvertita e come ha cercato di rispondere. È lui stesso che in parte racconta l’inizio del suo cammino, scrivendo al vescovo Tarcisio Bertozzi per chiedere di essere ammesso tra i candidati al diaconato e presbiterato (pag. 83s).

‘Fare la storia della mia vocazione non è facile. Da una parte ritrovo la radice dell’educazione cristiana ricevuta sin da piccolo in famiglia. Questa radice antica la riconosco bene ora a distanza di anni, e mi rendo conto quanto sia stata importante’. Coerentemente insieme al Battesimo i genitori hanno favorito, mediante l’educazione, il percorso di vita cristiana che da esso inizia.

Poi c’è un altro snodo decisivo, che P. Daniele conosce bene. ‘L’altro fattore importante, scrive ancora, è stata l’attività svolta a favore dei più poveri nel movimento giovanile dell’Operazione Mato Grosso iniziata all’età di 16/17 anni. Questo lavoro mi ha portato ad approfondire il senso del donare la vita con i giovani per i più poveri attraverso l’impegno concreto, il lavoro e il sacrificio. Sentendomi chiamato ad una vita di donazione per i più poveri mi sono lasciato vedere da don Ugo De Censi fondatore dell’Operazione, il quale ha intravisto in questo mio desiderio una chiamata del Signore’. Possiamo dire che il Signore aveva preparato il suo agguato per prendere con sé anche Daniele, che ha capito. Anche per lui vale la risposta di Geremia:  ‘Tu mi hai sedotto Signore e io mi sono lasciato sedurre’ (Ger 20,7).

Daniele poi parte per il Perù. ‘In questo periodo di due anni vissuto a Chacas aiutato da don Ugo si è fatto sempre più chiaro in me il desiderio di poter donare la mia vita al Signore come sacerdote in mezzo a quella gente povera’.

Il cammino più impegnativo comincia proprio quando da prete deve fare da padre a tutti coloro che lo cercano e che lui deve aiutare ad incontrare Gesù. La vocazione continua nell’ascoltare Gesù: ‘È una grande fatica restare uniti a Gesù, quando tutto intorno a te va in senso contrario. Bisogna dare via tutto, ascoltare la voce di Gesù e metterla in pratica’ (pag.158).  Scrive ad un amico seminarista: ‘Il Signore ti ha dato la vocazione, il sì dipende da te non da altri’ Io ti assicuro che vale la pena, non cambierei vita, anche se costa sacrifici e penitenze e ci si trova incompresi dal mondo attuale che vuole l’uomo al centro e sempre pronto a godere e a manovrare la propria vita” (pag. 167).

E a un certo punto si chiede: ‘Come fare tornare la nostra gente a Dio?? Quel Dio che ha fatto cambiare la vita ad Abramo, ai profeti, agli Apostoli”(pag. 175).

È molto preso dalla sua missione di parroco, che vive nella responsabilità più profonda, quella di portare le anime a Dio. ‘Così, ora, sono chiamato ad essere padre di questa povera gente’ Non ho scelto io di essere padre, la gente mi chiama padre. Mi ritrovo addosso una parte di cui avverto in pieno la mia incapacità. Come condurre questa gente a Dio? Ma se sono io il più perduto in questo mondo, che tradisce ogni giorno il Dio della vita per false luci che si è costruito da solo credendo di poter fare a meno di Dio! Alla fine sento solo il desiderio di convertire la mia vita per incontrare un giorno Gesù’ (pag. 357s).

Eppure l’esperienza spirituale di P. Daniele non gli fa vedere altro che Gesù; è questo il suo assillo quotidiano, di cui si trova traccia in molte sue lettere.  Scrive: ‘Mi ritrovo col solo desiderio di cercare Gesù e di obbedire alla sua volontà’ (pag. 160); ‘Se non fosse per Gesù non sarei qui’ (pag. 126); e ancora: ‘Ogni passo è fatto solo nel nome di Gesù, perché Lui entri nel nostro cuore, Lui ne sia il padrone’ Sento che solo così posso sperare di incontrarlo alla fine della mia vita! Quanto lo desidero, non vorrei vivere a lungo per non tradirlo più di quanto stia facendo già e per poterlo incontrare presto. Vorrei essere in piedi, vigilante a questo incontro” (pag. 177).

E l’incontro arriverà nel marzo 1997. È l’ultima chiamata. ‘Tu rimani, vado io’ è una scelta di generosità istintiva. P. Daniele sta rispondendo a Dio che in quel momento lo stava chiamando, come fece un giorno con Abramo e con tutti i suoi discepoli: ‘Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela, dai tuoi amici verso la terra che ti indicherò, verso la patria che è nei cieli”

E padre Daniele partì, come gli aveva ordinato il Signore.

OMELIA per la GIORNATA MONDIALE della PACE (1 gennaio 2014)
01-01-2014

2014 gennaio 1 Giornata della pace

 

‘ Gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo’. Gesù, cioè Salvatore, ‘egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati’ (Mt 1,21).

 

La solennità della Maternità divina di Maria ci porta ogni anno a celebrare la Giornata della Pace, è un modo molto concreto di vedere le conseguenze del mistero di Dio nella nostra vita.

 

‘Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio nato da donna’ perché ricevessimo l’adozione a figli’. Il Figlio di Dio è nato da una donna, la Vergine Maria, per diventare nostro fratello. Papa Francesco ha titolato il suo primo messaggio: ‘Fraternità, fondamento e via della pace’. Possiamo dire che è ripartito dall’inizio, dal progetto di Dio sull’uomo, per il bene di ogni persona e di tutta l’umanità. Poi nella seconda parte dello stesso messaggio verranno ricordate conseguenze più particolari; ma se vogliamo mettere un fondamento vero alla pace, in modo che resista ad ogni insidia, si deve riscoprire il vero rapporto tra di noi e con Dio.

 

Riascoltiamo la prima riflessione del Papa nel suo messaggio: ‘La fraternità è una dimensione essenziale dell’uomo, il quale è un essere relazionale. La viva consapevolezza di questa relazionalità ci porta a vedere e trattare ogni persona come una vera sorella e un vero fratello; senza di essa diventa impossibile la costruzione di una società giusta, di una pace solida e duratura. E occorre subito ricordare che la fraternità si comincia ad imparare solitamente in seno alla famiglia, soprattutto grazie ai ruoli responsabili e complementari di tutti i suoi membri, in particolare del padre e della madre. La famiglia è la sorgente di ogni fraternità, e perciò è anche il fondamento e la via primaria della pace, poiché, per vocazione, dovrebbe contagiare il mondo con il suo amore’.

 

La riflessione sulla fraternità incomincia dall’esperienza viva di questa condizione: fratelli si nasce in famiglia, e in famiglia si impara a vivere da fratelli. Il disegno di Dio su ciascuno di noi, pur avendo come fine la salvezza e la felicità personale, ci mette subito nella situazione concreta di farci crescere insieme come fratelli, imparando a vivere in relazione nella famiglia, per riuscire poi a vivere in relazione nella società.

 

Contro questa realtà c’è l’individualismo e l’egoismo dell’uomo. Su di essi si costruiscono l’invidia, l’ingordigia, la lotta per possedere sempre di più e in ultima istanza la guerra.

 

Continua il Papa: ‘Appare chiaro che anche le etiche contemporanee risultano incapaci di produrre vincoli autentici di fraternità, poiché una fraternità priva del riferimento ad un Padre comune, quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere. Una vera fraternità tra gli uomini suppone ed esige una paternità trascendente. A partire dal riconoscimento di questa paternità, si consolida la fraternità tra gli uomini, ovvero quel farsi ‘prossimo’ che si prende cura dell’altro’. Non per niente Gesù ci ha insegnato a pregare Dio chiamandolo ‘Padre nostro’.

 

Si capisce allora perché ci sia un gran d’affare per negare l’esistenza di Dio da parte dei potenti di questo mondo, per essere liberi nel perseguire i propri interessi: sfruttamento dei paesi poveri, eliminazione di quanti pretendono di avere la loro parte alla tavola del mondo, sfruttamento delle risorse naturali di materie prime e di energia, fino all’uso della guerra.

Infatti il Papa si chiede: ‘Gli uomini e le donne di questo mondo potranno mai corrispondere pienamente all’anelito di fraternità, impresso in loro da Dio Padre? Riusciranno con le loro sole forze a vincere l’indifferenza, l’egoismo e l’odio, ad accettare le legittime differenze che caratterizzano i fratelli e le sorelle?’. E trova la risposta nelle parole di Gesù: ‘Poiché vi è un solo Padre, che è Dio, voi siete tutti fratelli (cfr Mt 23,8-9). La radice della fraternità è contenuta nella paternità di Dio. Non si tratta di una paternità generica, indistinta e storicamente inefficace, bensì dell’amore personale, puntuale e straordinariamente concreto di Dio per ciascun uomo (cfr Mt 6,25-30). Una paternità, dunque, efficacemente generatrice di fraternità, perché l’amore di Dio, quando è accolto, diventa il più formidabile agente di trasformazione dell’esistenza e dei rapporti con l’altro, aprendo gli uomini alla solidarietà e alla condivisione operosa’.

In questo modo si trova la via della pace, che parte dalla conversione del cuore dell’uomo, per arrivare al cambiamento della società e delle sue strutture, fino ad un rapporto di fraternità tra i popoli.  Non sembri troppo utopistica questa prospettiva, perché pur essendo vero che la perfezione della carità si potrà raggiungere solo nel Regno dei cieli, è vero che c’è un lungo cammino di avvicinamento che è affidato anche a noi, con l’aiuto di Dio.

Il Papa poi affronta alcuni temi precisi, nei quali viene chiesta la nostra solidarietà fraterna: sconfiggere la povertà; ripensare ai modelli di sviluppo economico e a un cambiamento negli stili di vita; rinunciare alla via delle armi e andare incontro all’altro con il dialogo, il perdono e la riconciliazione; superare la corruzione, la diffusione della droga, il traffico degli esseri umani, l’abuso contro i minori, la schiavitù, la tragedia dei migranti; custodire e coltivare la natura a beneficio di tutti, comprese le generazioni future.

‘Una convivenza fondata soltanto sui rapporti di forza non è umana’L’uomo però si può convertire e non bisogna mai disperare della possibilità di cambiare vita’. Anche Dio ha fiducia di riuscire a cambiare il cuore dell’uomo: ‘E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio’ Quindi non sei più schiavo, ma figlio’.

Non siamo cioè più schiavi di noi stessi, del nostro egoismo, delle ambizioni perverse che sfruttano gli altri, delle nostre cattiverie, se ci lasciamo guidare dallo Spirito di Cristo.

Maria, Madre del Figlio di Dio e nostra madre, ci aiuti a vivere sempre da veri fratelli tra noi. La testimonianza che i discepoli di Cristo devono dare al mondo, potrà essere l’inizio del realizzarsi della speranza che è nata con la venuta del Salvatore. Continuiamo a invocare: ‘Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace’.

 

OMELIA del NATALE del SIGNORE (sintesi)
Faenza - Basilica Cattedrale, 25 dicembre 2013
25-12-2013

La nascita del Signore ci ha fatto conoscere la bontà e l’amore di Dio per noi. Di fronte a certi fatti a volte noi ci vergogniamo di essere uomini: Dio non si è vergognato di farsi uomo e di mescolarsi tra di noi. Questo vuole anche dire che la natura umana è capace di accogliere Dio: noi cioè possiamo diventare figli di Dio. ‘A coloro che lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio’, dice S. Giovanni. Quindi il nostro problema è solo quello di accoglierlo, di lasciarlo abitare nel nostro cuore, cioè nelle facoltà che ci conducono alla verità e all’amore.

Lasciare fare a Dio nell’indicarci ciò che è bene o è male, ciò che è vero o è falso non significa limitare la nostra libertà, ma affidare la nostra libertà a colui che sa benissimo che cosa stiamo cercando, e vuole impedirci gli errori che abbiamo sempre fatto. Anche perché i nostri errori possono causare sofferenze in tanti altri, quasi non bastassero quelle che vengono da sole.

Pensiamo alle difficoltà dei nostri giorni, che sono sotto gli occhi di tutti. Le più evidenti sono quelle economiche per molte famiglie: la perdita del lavoro, la chiusura delle aziende, la diminuzione di disponibilità finanziaria. Poi ci sono le malattie gravi, i tumori, le malattie della vecchiaia, gli incidenti. Il Natale ci fa sentire il contrasto con queste situazioni, segno che avvertiamo che il Signore è venuto proprio per liberarci da tutti i mali.

Noi preferiremmo non avere bisogno di essere aiutati, perché questo comporta sempre una certa umiliazione. Ma forse si tratta di vedere come il Signore vuole liberarci.

Il nostro primo istinto è quello di reagire cercando di superare le difficoltà che si presentano; e questo fa parte del nostro modo naturale di reagire: non bisogna lasciarsi sopraffare, servendoci dei mezzi di cui possiamo disporre. Questo modo del resto può anche rafforzare la nostra volontà e renderci più resistenti di fronte a nuovi problemi.

Ma vi sono anche limiti e fatiche che non si riescono a vincere, e in questi casi è importante vedere se queste esperienze non possano avere un significato che a noi, fino a quel momento, era sfuggito. È questo un cammino più delicato, ma molto prezioso. In fondo è quello che ha fatto il Signore facendosi uomo per salvarci dal peccato e dalla morte.

Quando facciamo dei sacrifici, stiamo aiutando il Signore a salvare noi e il mondo. Forse non ce ne accorgiamo e facciamo fatica a capire, ma Lui lo sa e questo dovrebbe bastare.

La sofferenza e il dolore, anche se a volte possono suscitare una ribellione, dovrebbero però farci diventare più buoni, perché vediamo quali sono le cose davvero che contano: la pace, l’amore, il perdono, la speranza’ Chiediamo questi doni al Signore Gesù, perché il Natale porti i suoi frutti più preziosi.

OMELIA per la CHIUSURA dell’ANNO DELLA FEDE
24-11-2013

‘La porta della fede che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua Chiesa è sempre aperta per noi’. Con queste parole il papa Benedetto XVI iniziava la lettera apostolica con la quale apriva l’anno della fede, che questa sera anche noi chiudiamo, in sintonia con quanto il Papa Francesco ha fatto oggi a Roma.

La nostra celebrazione si svolge alla presenza del Crocifisso venerato in questa Cattedrale, nel giorno della sua festa tradizionale. È una coincidenza questa che rende più significativa questa Eucaristia.

L’immagine della fede come ‘porta’ è presa dagli Atti degli apostoli, quando al termine del primo viaggio apostolico, Paolo e gli altri tornarono ad Antiochia, da dove erano partiti, e, racconta il testo, ‘riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede’ (Atti 14,27).

La fede dunque è una porta mediante la quale possiamo entrare nella Chiesa, essere in comunione con Dio e vivere da fratelli nella Chiesa e nel mondo. La fede quindi è un modo di essere che ci identifica come figli di Dio, mediante le vie della verità e dell’amore.

Conosciamo le circostanze che hanno suggerito la proposta di questo anno: i 50 anni dell’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II; i 20 anni della pubblicazione del Catechismo della Chiesa cattolica, sintesi dottrinale della nostra fede; la celebrazione del Sinodo sulla nuova evangelizzazione.

E che cosa si aspettava il Papa da questo anno? Ecco come risponde: ‘Riscoprire i contenuti della fede professata, celebrata, vissuta e pregata, e riflettere sullo stesso atto con cui si crede, è un impegno che ogni credente deve fare proprio, soprattutto in questo Anno’ (n. 9).

Intanto ci viene detto che il nostro impegno non si deve concludere questa sera, ma deve continuare sia riguardo alla conoscenza del contenuto della fede, sia riguardo alla nostra adesione a Cristo. ‘Esiste infatti un’unità profonda, dice il Papa, tra l’atto con cui si crede e i contenuti a cui diamo il nostro assenso’ (n.10).

Durante questa Eucaristia faremo la nostra professione di fede come ogni domenica, ma rispondendo ogni volta ad una domanda del vescovo che sollecita la nostra fede. Facendo questo davanti all’immagine del Crocifisso, vogliamo ricordare che la nostra fede si riassume in due misteri principali: Unità e Trinità di Dio, Incarnazione, passione, morte e risurrezione del nostro Signore Gesù Cristo; l’uno e l’altro indicati nel segno della croce.

Il mistero della Ss.ma Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, ci rivela che Dio in se stesso è amore; lui stesso non vive in una assoluta solitudine, ma vive in relazione di amore tra il Padre e il Figlio, relazione che sussiste nello Spirito Santo. Qualcuno ha osservato che in Dio le Persone divine non si sommano, facendo uno, più uno, più uno uguale a tre; ma sono l’una per l’altra: uno, per uno, per uno uguale a uno. Ma al di là del tentativo di comprendere questo mistero, per noi è già tanto conoscerlo, perché in questo modo ci viene rivelata anche la qualità del nostro essere. Infatti Dio che comunica alle creature l’esistenza, le costituisce radicalmente nell’amore.

Ho già ricordato in altra occasione una osservazione di Papa Benedetto XVI: ‘ (Che Dio è amore) lo possiamo in qualche misura intuire osservando sia il macro-universo: la nostra terra, i pianeti, le stelle, le galassie; sia il micro-universo: le cellule, gli atomi, le particelle elementari. In tutto ciò che esiste è in un certo senso impresso il ‘nome’ della Santissima Trinità, perché tutto l’essere, fino alle ultime particelle, è essere in relazione, e così traspare il Dio-relazione, traspare ultimamente l’Amore creatore. Tutto proviene dall’amore, tende all’amore, e si muove spinto dall’amore, naturalmente con gradi diversi di consapevolezza e di libertà’ (7/06/2009).

San Paolo ci ha anche detto che ‘tutte le cose sono state create per mezzo di Lui (Cristo) e in vista di Lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in Lui sussistono’.

Sia ben chiaro che con questo non abbiamo spiegato il mistero della Trinità, ma ci rendiamo conto che davvero ‘in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo’ (Atti 17,28).

Come frutto pieno di questo mistero d’amore, entra nella nostra storia l’incarnazione del Figlio di Dio: Dio ci vuole tanto bene che si fa come noi, uno di noi, perché impariamo a vivere come Lui.

Ha scritto S. Giovanni: ‘ In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati’ (1Gv 4,9s) . Entrambi i misteri principali della nostra fede sono dunque misteri di amore. Sulla croce Cristo fu tenuto inchiodato dal suo amore per il Padre e per noi. A quanti gli gridavano: ‘Ha salvato altri! Salvi se stesso, se lui è il Cristo di Dio, l’eletto’, ha risposto perdendo se stesso per salvare tutti.

Come piccolo/grande frutto di questo anno della fede potremmo impegnarsi a fare sempre con raccoglimento il Segno della Croce. Mentre con la mano destra tracciamo su di noi il segno della nostra salvezza, pronunciamo il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: una sintesi dottrinale, affettuosa, piena di speranza.

Una volta che la nostra vita è radicata in Cristo mediante la fede, vi è una conseguenza preziosa, che arricchisce la nostra testimonianza nel mondo. Dio infatti non ha voluto raggiungere solo alcuni pochi fortunati, ma attraverso di essi e con la loro collaborazione vuole far conoscere a tutti i suoi figli il suo amore di Padre.

Nell’enciclica Lumen fidei Papa Francesco afferma: ‘La fede non solo guarda Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere’ (n.18). Questo significa cambiare poco alla volta noi stessi e la nostra vita, per conformarci sempre di più a Lui. Questo cambiamento è frutto di vari elementi, dalla Parola di Dio ai Sacramenti e alla comunione ecclesiale, per arrivare a guardare con gli occhi di Gesù e con il suo amore gli altri, la storia e il mondo.

La conseguenza sociale della fede sta proprio nella mediazione che i cristiani possono fare con la loro vita, mostrando l’unità tra di loro, frutto della comunione con Dio; è possibile in questo mondo volersi bene, perché per questo c’è anche l’aiuto di Dio. Gesù ha detto: ‘Come tu Padre sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato’ (Gv 17,21).

‘Sì, la fede è un bene per tutti, è un bene comune, la sua luce non illumina solo l’interno della Chiesa, né serve unicamente a costruire una città eterna nell’aldilà; essa ci aiuta a edificare le nostre società, in modo che camminino verso un futuro di speranza’ (Lumen fidei, n.51).

Con questa domenica della solennità di Cristo Re dell’Universo, mentre concludiamo l’anno liturgico e l’Anno della fede, continuiamo ad attendere il Regno di Dio che viene.

OMELIA per la PROFESSIONE SOLENNE di SUOR IRENE
Faenza - Monastero Ara Crucis, 6 ottobre 2013
06-10-2013

La conclusione del Vangelo: ‘Siamo servi inutili, abbiamo fatto quanto dovevamo fare’, ci dà una prima indicazione per comprendere il valore della vita contemplativa. Infatti la gente si chiede: ‘A che cosa serve?’. Appunto, è inutile, come i servi del Vangelo, a confronto con le utilità a cui siamo abituati. Ma proprio per questo ha un valore grande, perché ci fa scoprire una dimensione nuova nella vita, quando viene spesa non per un interesse o un vantaggio, ma per donare noi stessi a Qualcuno, cioè a Dio, che amiamo perché sappiamo di essere da Lui amati.

Carissima Suor Irene, in questi anni vissuti all’Ara Crucis hai già scoperto l’amore del Signore e hai dato prova della tua fedeltà alla vita consacrata in questa Comunità. Con il gesto di oggi esprimi la tua volontà decisa di rimanere fedele al Signore, sapendo che la serenità in questo passo viene dalla convinzione che sarà Lui ad essere fedele a te.

Anche tu avrai chiesto al Signore, come gli apostoli: ‘Accresci in me la fede’; e Lui ti avrà fatto sentire che non era tanto importante la quantità della fede, quanto un rapporto confidente con Lui.  In altre parole dobbiamo cercare di accendere un rapporto vero di ascolto, di fiducia e di amore con Gesù, pronti a donare tempo per la sua Parola, a stare alla sua presenza davanti all’Eucaristia, a mostrare la nostra attenzione ai fratelli e alle sorelle. L’esempio paradossale di spostare un gelso con un pizzico di fede è solo per dire che non c’è confine a ciò che possiamo ottenere con la fede, sapendo che senza di Lui non possiamo fare nulla.

È vero: la vita contemplativa è inutile, come è inutile l’amore, la bellezza e la gioia. Ma senza tutto questo la vita non ha senso, come non ha senso quando ci si accorge che tutto questo è effimero o per i nostri limiti o per un errore di impostazione.

Il dono veramente grande è la scoperta dell’amore vero, che non viene mai meno perché è quello di Dio, si scopre la bellezza che non passa perché è fatta di virtù e di armonia, e si sperimenta la gioia di aver donato qualcosa di sé per amore.

In un mondo dove si crede di poter comprare tutto con i soldi, dove tutto deve essere pagato, la dimostrazione che invece esiste la realtà della fede e del gratuito è una speranza per tutti. Con Dio questo succede.

L’enciclica Lumen fidei  di Papa Francesco ci ricorda Abramo nostro padre nella fede, perché a lui Dio si manifestò come il Dio di una persona, ‘capace di entrare in contatto con l’uomo e di stabilire con lui un’alleanza. La fede è una risposta a una Persona che interpella personalmente, a un Tu che ci chiama per nome’ (n. 8).

Anche tu, Suor Irene, fosti chiamata da Dio per nome fin dal Battesimo e ancora sei chiamata per nome oggi nella tua donazione totale a Lui; come Abramo anche tu sei stata chiamata ad uscire dalla tua terra, ma soprattutto sei chiamata ad uscire da te stessa, per essere creatura nuova.

‘La fede, afferma ancora Lumen fidei, non solo guarda Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere’ (n. 18). San Paolo ci ha ricordato che questo non è facile, ma con l’aiuto di Dio è possibile: ‘Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto’.

Già nel battesimo tutti noi siamo diventati nuove creature, chiamati a diventare santi secondo una misura alta della vita cristiana; con l’adesione volontaria ad una vita di speciale consacrazione il cristiano sceglie di seguire totalmente Cristo sposo nella via della povertà, castità e obbedienza. Viene da Lui la grazia per vivere nella fedeltà la nostra risposta, tramite la mediazione della Chiesa, di cui l’Ordine domenicano è una realizzazione.

San Paolo ha esortato, ‘per la misericordia di Dio, a offrire i nostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il nostro culto spirituale’. È l’invito ad offrire tutto noi stessi, compreso il nostro corpo, con il quale entriamo in relazione con gli altri ed è lo strumento per fare il bene o fare il male. Tutto di noi deve essere offerto come un sacrificio vivo e santo, gradito a Dio, senza difetti e senza macchia.

L’offerta in sacrificio a Dio gradito rimanda direttamente all’Eucaristia e all’esercizio del sacerdozio dei fedeli, i quali, come afferma il Concilio, ‘ concorrono all’offerta dell’Eucaristia e esercitano (il sacerdozio) col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, coll’abnegazione e l’operosa carità’ (LG,10).

Con la professione solenne nella famiglia domenicana dell’Ara Crucis la Monaca si offre totalmente a Dio in particolare per la santificazione dei sacerdoti; questa intenzione unisce in modo ancora più stretto il sacrificio della propria vita ai ministri dell’Eucaristia e alla celebrazione che essi compiono del sacrificio di Cristo. Tutto viene giocato sull’amore: di Cristo che si offre al Padre; del presbitero che segue Cristo per perpetuare l’Eucaristia in sua memoria; della Monaca che offre la sua vita e la sua preghiera per i ministri dell’Altare, unendosi a loro nell’esercizio della propria maternità spirituale.

Oggi tutta la Chiesa che è in Faenza-Modigliana insieme alla Chiesa gloriosa del Cielo con i Santi della nostra Chiesa e in particolare i santi presbiteri, a cominciare da P. Domenico, che ci hanno preceduto nella Casa del Padre è qui con noi, in mistero ma in modo vero,  vicina a questa famiglia religiosa in un momento bello della sua vita, ed è accanto a te, Sr. Irene, per implorare la Dio la grazia del dono e della fedeltà nella consacrazione verginale.

Ti accompagni con la sua protezione la Vergine Maria, Madre di tutte le grazie, Regina del santo Rosario e Regina delle vergini.

OMELIA per l’ORDINAZIONE di DUE DIACONI PERMANENTI
Faenza - Basilica Cattedrale, 5 ottobre 2013
05-10-2013

È sempre con vera gioia che la nostra Chiesa accoglie nel suo grembo coloro che con disponibilità rispondono alla chiamata del Signore per un servizio fondato sul sacramento dell’Ordine come il Diaconato permanente. È un dono per la nostra Chiesa diocesana, oltre che una grazia per i due giovani che vengono ordinati al servizio della Chiesa nelle rispettive comunità parrocchiali: Cristian per la parrocchia di Marzeno, Danilo per la parrocchia di S. Savino alla Madonna del Paradiso.

La parola di Dio di questa domenica ci porta ad arricchire il nostro spirito con la fede e il servizio, quasi a preparare l’accoglienza della grazia della diaconia/servizio, da vivere in un rapporto vivo di fede con Gesù il Signore.

Il profeta Abacuc fa una considerazione alla quale anche noi siamo facilmente portati: ‘Perché Dio permette tanta violenza e cattiveria da parte dei malvagi?’ E la sua risposta è abbastanza semplice: ‘E’ vero, ma la fortuna del malvagi finirà, mentre il giusto per la sua fedeltà a Dio vivrà’.

Il Vangelo di Luca non si accontenta di questa risposta, e agli apostoli che hanno capito che la loro poca fede non è sufficiente per sopportare il male del mondo Gesù risponde: ‘Non è la quantità di fede, ma la qualità; cioè dipende in Chi è riposta la vostra fede’.

Credere nel Signore Gesù significa stabilire un contatto con Lui, mettersi in un rapporto di ascolto, di amore e di fedeltà, sapendo che senza di Lui non possiamo fare nulla; la pretesa di avere molta fede potrebbe portarci a pensare che alla fine siamo ancora noi a fare le cose giuste; Gesù invece vuole farci capire che la nostra fede è quella di chi fa quello che può, perché sa che tutto dipende da Dio. Quando nel vangelo di Giovanni al cap. 6, la gente chiede a Gesù: ‘Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?’, Gesù risponde: ‘Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato’ (Gv 6,28s). L’opera da fare quindi è credere in Lui.

La fede è anzitutto ascolto di Dio; ascolto della sua Parola che ci fa entrare nella vita dei figli di Dio; ascolto anche delle vicende della vita, attraverso le quali Dio ci conduce  nella sua alleanza; ascolto che ci porta ad una conversione continua, che ci allontana dal nostro io per orientarci sulla strada di Dio; ascolto che ci fa avvertire la chiamata del Signore a servirlo, come in questo caso, in modo fedele con la sua benedizione nella Chiesa.

Ma la fede è anche attesa, speranza, costanza. Si attende l’adempimento della promessa, che per il popolo di Israele poteva essere la terra dove scorrono latte e miele, mentre per il nuovo popolo di Dio è l’attesa della sua venuta. Siccome però il Regno di Dio è già presente in germe, l’attesa si nutre anche della scoperta dei segni dei tempi, cioè i segni del Regno di Dio già presente in mistero. Si tratta di saperli vedere alla luce della fede e dell’esperienza dell’amore di Dio; si manifestano nella storia del mondo, nella vita della Chiesa e nella storia di ciascuno.

Infine ‘la fede si rende operosa per mezzo della carità’ (Gal 5,6). Chi agisce nella fede sa che le opere non sono sue, ma del Signore. Il ministero del diacono pertanto è servire a Cristo Gesù, che è Signore a gloria di Dio Padre.

Allora il diacono non deve fare nulla? Anzi, dovrà proprio realizzare nella Chiesa il servizio alla comunione attraverso le opere mirabili della carità, comprese l’organizzazione e le strutture. Il diacono stesso, mentre con il suo servizio consente agli apostoli di poter dedicarsi alla preghiera e alla predicazione, si dovrà alimentare alla parola di Dio nella preghiera, perché non venga meno la sua fede.

Infatti anche per voi verrà il momento della prova quando, arrivati a sera ‘avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato’ e dovrete dire: ‘Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare’. E l’aspetto bello di questa considerazione non è l’inutilità di quello che avrete fatto, ma il non dovere attendere né un risultato né una ricompensa, perché questi verranno da altra parte. In questo modo sarete certi di salvare la fedeltà al mandato senza il pericolo di inseguire la vostra soddisfazione.

La preziosità del ministero del diacono, oltre a servire molti aspetti della vita di una comunità cristiana, che sarà sempre più necessario in un futuro non troppo lontano, sarà anche quello di mantenere vivo nella Chiesa lo spirito del servizio secondo il modello di Cristo servo, ‘che è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti’ (Mt 20,28).

Anche il dono del diaconato, effuso mediante il primo grado del sacramento dell’ordine, ha bisogno di due attenzioni, ricordate da San Paolo a Timoteo nella seconda lettura.

‘Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani’. Non si tratta direttamente del diaconato, ma la riflessione vale ugualmente. Anche il sacramento deve essere ravvivato, sia esercitandolo e quindi mantenendolo vivo, sia alimentandolo con gli strumenti della grazia, che sono appunto la preghiera, la parola di Dio e l’Eucaristia.

Infine San Paolo dice: ‘Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato’. La custodia di questo tesoro non sarà una fatica, ma una gioia nello Spirito Santo; basterà assecondarlo nelle sue ispirazioni, nella comunione ecclesiale e custodendo il servizio vero, superando la tentazione di trasformarlo in privilegio e potere.  San Paolo potrebbe aggiungere: ‘Sono persuaso che colui che ha iniziato in voi questa opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù’.

Questo è anche l’augurio e la preghiera che facciamo questa sera per voi, per le vostre  famiglie e per le vostre comunità. La grazia infatti del sacramento, direttamente influisce sulla persona e si estende alle vostre famiglie e alle vostre comunità, che potranno così condividere con voi un aumento di grazia e dello spirito di servizio.

La Vergine Maria, che disse di sé di essere la serva del Signore, vi accompagni con il suo materno affetto.

OMELIA per le ESEQUIE di S. Ecc.za mons. SILVANO MONTEVECCHI, vescovo di Ascoli Piceno
Faenza - Basilica Cattedrale, 1 ottobre 2013
01-10-2013

‘Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me’. Il brano del Vangelo che abbiamo ascoltato appartiene ai discorsi di Gesù nell’ultima cena. Il pensiero di non vedere più Gesù aveva turbato gli apostoli al punto che Gesù vuole fare loro coraggio, e lo fa rassicurandoli sul destino che è loro riservato: ‘Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi’.

Questa promessa Gesù la mantiene con ognuno dei suoi amici che lo raggiungono in Cielo. Niente avviene per caso, ma tutto appartiene ad un disegno di amore; ‘Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno  (Rom 8,28).

Anche la vita di Mons. Silvano porta il segno evidente dell’amore che Dio ha avuto per lui, e dell’amore che Mons Silvano ha voluto al suo Dio, che gli ha donato la vita e lo ha chiamato alla vita cristiana fin dalla sua famiglia per farne un discepolo fedele di Cristo.

Stiamo celebrando il saluto cristiano dal nostro fratello di fede il vescovo Silvano, che umanamente avremmo desiderato che ancora potesse restare in mezzo ai suoi cari, alla sua gente e in questa comunità faentina che egli tanto ha amato. Eppure dobbiamo prendere atto che il nostro disegno non corrispondeva al disegno che Dio aveva per lui. Non ci resta allora che pregare per lui, perché sia accolto tra le braccia misericordiose del Padre; celebriamo per lui e con lui il Sacrificio eucaristico per offrire insieme alla vita e alla morte di Cristo la vita e la morte di don Silvano: il Signore l’accolga come sacrificio a Lui gradito.

La consolazione che ci viene da Dio non è fatta di buone parole,  ma di alcuni segni molto concreti del suo amore. San Paolo ci ha ricordato che Dio Padre, ‘che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?’. ‘Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né presente né avvenire potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore’.  La croce di Cristo è il segno che Dio ci ama anche quando siamo noi a salire sulla croce. Forse non sempre ci è dato di comprendere, ma chiediamo che ci sia dato di accettare e di continuare a credere nell’amore del Padre.

Diciamo grazie al Signore per i segni del suo amore che ha manifestato nella vita di don Silvano e che per molti di noi rimangono anche come ricordo del suo ministero e del suo affetto.

Ordinato presbitero nel 1962 per le mani del vescovo Mons. Battaglia, ha messo subito il suo entusiasmo a servizio dei giovani del seminario e dell’Azione cattolica. Conseguita la licenza in teologia, ha valorizzato le sue doti di intelligenza e di cuore per la formazione dei laici; come parroco a Russi e qui in Cattedrale ha lasciato un ricordo profondo per le sue iniziative pastorali per la capacità di coltivare i legami personali, sempre cordiali anche quando potevano sembrare ruvidi; le successive responsabilità di Vicario generale e di Amministratore diocesano lo prepararono al ministero di vescovo nella diocesi di Ascoli Piceno.

Ricevette la consacrazione episcopale in questa Cattedrale nel 1997 per il ministero del Card. Achille Silvestrini, assistito dal Card. Pio Laghi e dal Vescovo diocesano Mons. Italo Castellani. Incominciava per lui l’ultima parte della sua vita laboriosa e intensa, alla guida della Chiesa di Ascoli Piceno, dove ha riversato con generosità il suo zelo di pastore e di padre.

Il ricordo della sua vita non può mettere in evidenza quello che l’opera del sacerdote prima e del vescovo poi ha compiuto nel cuore delle persone e nelle varie comunità da lui servite, con l’annuncio convinto della Parola di Dio, con i sacramenti della grazia, con l’incontro con le famiglie, i piccoli, gli anziani, i malati e tutti i sofferenti, con l’azione di governo e con il suo amore per l’arte. Tutto questo e molto altro ancora è conosciuto solo a Dio, al quale affidiamo tutta la vita di don Silvano, i suoi meriti, le sue fatiche, le sue mancanze e le sue sofferenze, la sua malattia e la sua morte perché nell’amore misericordioso di Dio trovi il perdono e la pace.

Cristo, via, verità e vita, che ha chiamato don Silvano a seguirlo nella via dell’amore, e gli ha affidato in vari modi la cura del suo gregge  perché lo guidasse verso il Regno dei cieli, sia ora per lui la corona di giustizia riservata per coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.

La Beata Vergine delle grazie, mentre prendiamo commiato dal nostro don Silvano sotto il suo sguardo materno, si mostri ancora una volta madre di misericordia. Di Lei diceva Mons. Silvano lo scorso anno quando venne a ringraziarla nel 50° anniversario della sua Ordinazione presbiterale: ‘Ella è la stella del mattino che guida gli uomini verso la pienezza del giorno che non tramonta, verso la pienezza del mistero pasquale del Signore risorto’. Preghiamo perché don Silvano possa ora incontrarla così la Vergine Madre, per l’ultima, vera e decisiva grazia.

OMELIA per le ESEQUIE di Mons. ROMANO RICCI
Faenza - Basilica Cattedrale, 23 settembre 2013
23-09-2013

‘Venite, Santi di Dio, accorrete Angeli del Signore, accogliete la mia anima e presentatela al trono di Dio.

Mi accolga Cristo che mi ha chiamato alla vita cristiana e al sacerdozio.

Mi accolga Maria nel Paradiso, S. Savino e San Francesco’.

Così ha iniziato il suo testamento spirituale don Romano, al quale stiamo dando il saluto cristiano con questa Eucaristia.

La parola di Dio ci aiuta a vedere nella fede la vicenda umana di don Romano e la sua conclusione troppo rapida, che ha lasciato sgomenti tutti coloro che lo conoscono, a cominciare dai suoi familiari e da tutta la nostra Chiesa.

Questo non è il momento degli elogi, ma della preghiera, perché, come lui ci ha suggerito, gli Angeli e i Santi lo accolgano e lo presentino al Padre della misericordia, insieme a Maria nel Paradiso.

‘Sia che viviamo, sia che moriamo siamo del Signore’. Don Romano ha voluto ricordare le due chiamate avute dal Signore: alla vita cristiana e al sacerdozio. Possiamo dire che si tratta di una appartenenza a Cristo fin dall’inizio della sua vita terrena (fu battezzato il giorno stesso della nascita), consolidata dalla consacrazione al ministero presbiterale. È in questo servizio, svolto in varie parrocchie della Diocesi che don Romano si è fatto conoscere e amare, in particolare come parroco a Sarna, a S. Savino e a S. Andrea, e negli ultimi dieci anni come confessore in Duomo.

‘Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi’. Noi avremmo voluto che don Romano potesse vivere ancora, nonostante l’infermità che da tempo lo affliggeva: la nostra Chiesa aveva ancora bisogno di lui. E il Signore ha voluto dargli la vita che più non muore, liberandolo dalla fatica che stava avvertendo sempre più pesante.

‘Se noi viviamo, viviamo per il Signore’. Don Romano è vissuto per il Signore, per la sua Chiesa e per le anime che il Signore gli ha affidato attraverso il sacramento della penitenza. Saranno tante le persone che si sono sentite spiritualmente orfane in questi giorni con la scomparsa di questo sacerdote mite e generoso, sempre pronto ad ascoltare e a distribuire il perdono nel nome di Dio.

Don Romano ha amato questa Chiesa nei suoi sacerdoti, che andava a visitare quando erano ammalati o anziani; l’ha amata nei giovani seminaristi: quanto ha pregato per le vocazioni al presbiterato;  l’ha amata nella sua storia di cui era un conoscitore affezionato; l’ha amata nei suoi tesori d’arte, di cui si può dire che sapeva tutto. Partecipava volentieri alle liturgie nella Cattedrale, cuore e segno della Chiesa diocesana; ha curato la devozione alla Madonna delle Grazie, anche come Cappellano dell’Arciconfraternita.

‘Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato’. Questa preghiera del Signore ci dà coraggio nel pregare per la pace eterna di don Romano. Gesù stesso ha pregato per lui; e noi con questa Eucaristia ci uniamo alla preghiera del Signore e gli chiediamo che prenda con sé questo suo servo umile e buono, che lo ha seguito fin sulla croce, per seguirlo poi nella gloria. Nell’Eucaristia presentiamo la vita e la morte di don Romano, le gioie e i dolori, il suo ministero presbiterale, il suo amore per l’arte e per tutto ciò che è bello; offriamo anche il dolore per la sua scomparsa da parte dei suoi cari, dei sacerdoti, di coloro che a lui si rivolgevano per il conforto e per il perdono di Dio.

Ha chiesto di essere ricordato nella preghiera e ha concluso il testamento spirituale con queste parole: ‘Vi saluto tutti, grazie, arrivederci in Paradiso’.

OMELIA per la S.MESSA in onore di S. JOSE’ MARIA ESCRIVA’ de BALAGUER
15-06-2013

Le letture della Messa ci aiutano a riflettere su alcuni aspetti del carisma di San J.M. Escriva e della sua vita. Anzitutto il carisma, che in modo sintetico possiamo ricordare così: ‘Il cristiano si santifica anche attraverso la sua attività di lavoro e familiare’.

 

‘Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse’.

Nel disegno del Creatore le realtà create, buone in se stesse, esistono in funzione dell’uomo; il lavoro appartiene alla condizione originaria dell’uomo e precede la sua caduta; non è perciò né punizione né maledizione; a causa del peccato di Adamo ed Eva diventa fatica e pena, quindi strumento di santificazione.

 

La tentazione di ritirarsi dal mondo non è solo dei monaci che lasciano le cose di questo mondo, ma può essere anche dei laici cristiani che non si fanno carico delle realtà temporali per migliorarle secondo le proprie possibilità.

 

Scrive Escrivà de Balaguer: “Con l’ansia di apostolato in mezzo al mondo, in mezzo alla strada, all’aria, al sole, sotto la pioggia, non solo vi pervaderà il desiderio di non allontanarvi dalle realtà terrene, ma vi coglierà l’ansia apostolica di penetrare arditamente in tutte le strutture secolari per sviscerare le esigenze divine che contengono, per insegnare che la fraternità dei figli di Dio è la grande soluzione che viene offerta ai problemi del mondo”; “se lasci che la tentazione ti faccia dire: chi me lo fa fare?, dovrei risponderti “te lo comanda, te lo chiede Cristo stesso“.

 

Sulla universale chiamata dei cristiani alla santità si pronuncerà il Concilio vaticano II, con espressioni molto esplicite, che rendono attale il messaggio di San José Maria, e in qualche modo rivolto a tutti coloro che intendono realizzare la propria vocazione di santità.

 

Nella Lumen gentium, il cap. V tratta dellUniversale vocazione alla santità nella Chiesa.

‘È dunque evidente per tutti, che tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità [124] e che tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano’ (n.40).

 

Questo ultimo accenno al tenore più umano nella stessa società terrena, apre la prospettiva allimpegno più propriamente laicale dei cristiani, nelle forme personali o associate che essi riterranno opportune, per trattare le cose temporali e orientarle secondo Dio, perché, come dice la Gaudium et spes, La Chiesa, perseguendo il suo proprio fine di salvezza, non solo comunica alluomo la vita divina, ma anche diffonde la sua luce con ripercussione, in qualche modo, su tutto il mondo Così la Chiesa, con i singoli suoi membri e con tutta intera la sua comunità, crede di poter contribuire molto a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia (G.S. n.40).

 

Nella lettera ai Romani S. Paolo ci ricorda che siamo figli di Dio per mezzo dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto nel Battesimo. Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo Abbà, Padre.

 

‘Tutti quelli che credono in Cristo saranno quindi ogni giorno più santificati nelle condizioni, nei doveri o circostanze che sono quelle della loro vita, e per mezzo di tutte queste cose, se le ricevono con fede dalla mano del Padre celeste e cooperano con la volontà divina, manifestando a tutti, nello stesso servizio temporale, la carità con la quale Dio ha amato il mondo’ (n. 41).

Ho cercato di illustrare il carisma di San José Maria Escrivà con le parole del Concilio non tanto per far vedere che lui aveva già intravisto quello che poi il Concilio ha presentato come possibile per tutti, ma perché l’esperienza fatta da San José Maria con i laici e le famiglie è servita alla teologia per esporre con più chiarezza questo insegnamento. Nella Chiesa avviene sempre così: prima si comincia a vivere un aspetto singolare del cristianesimo, poi la riflessione successiva porta a precisare anche sul piano dottrinale le verità di fede che sono coinvolte.

Nel Vangelo mi piace vedere un riferimento all’attività apostolica di San José Maria e al suo ministero presbiterale di ‘pescatore di uomini’.

 

La Chiesa ciclicamente deve affrontare le notti in cui non pesca nulla, anzi sembra quasi perdere anche parte del pescato; ma poi arriva la forza dello Spirito che rinnova la faccia della terra. È la forza dei Santi, che il Signore manda per incoraggiare la nostra fatica e mostrare le strade del Regno.

 

 Guardando alle fondazioni del nostro Santo e a quanti sono coloro che sono stati da lui aiutati a intraprendere una via decisiva per la loro santità bisogna dire che è stato un grande pescatore di uomini, da portare a Cristo. ‘Sulla tua parola getterò le reti’: la fede ha sostenuto Pietro quel giorno di fronte a Gesù, la fede ha sostenuto sempre San José Maria Escrivà nella sua vita, per cominciare e ricominciare.

 

In questo anno della fede voluto dal Santo Padre Benedetto XVI, c’è un impegno che il Papa ci chiede: ‘Riscoprire i contenuti della fede professata, celebrata, vissuta e pregata e riflettere sullo stesso atto con cui si crede’ (PF, 9); ‘esiste infatti un’unità profonda tra l’atto con cui si crede e i contenuti a cui diamo il nostro assenso’ (PF, 10). Non si tratta infatti di credere a qualsiasi cosa, ma alle verità che ci fanno sentire l’amore del Padre. Valga a conferma di questo quanto è successo all’inizio della sua vocazione, una volta percepita l’intima convinzione della chiamata di Dio, come raccontò molto più tardi: ‘Vagai per le strade di Madrid: dovettero prendermi per pazzo’. Per un’ora, un’ora e mezza si trovò a ripetere a gran voce: Abba, Pater’ Abba, Pater’

 

Chiediamo fin da ora quello che la liturgia ci farà chiedere alla fine: di essere rafforzati nello spirito di figli adottivi, perché possiamo camminare con gioia nella via della santità, sull’esempio e per l’intercessione anche di San José Maria Escrivà del Balaguer.