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OMELIA per il XXV dell’AMI
Faenza, Basilica Cattedrale - 4 gennaio 2015
04-01-2015

Nella domenica che precede l’Epifania la liturgia ci ripropone il mistero del Natale con il vangelo di Giovanni e con l’inizio della lettera agli Efesini; il prologo del vangelo di Giovanni ci richiama la vita del Verbo nel mistero della Ss.ma Trinità, mentre S. Paolo riflette sul nostro rapporto con lo stesso Verbo incarnato. Il fatto centrale di queste letture è la presenza di Dio tra noi, ricordata anche nel brano del Siracide: Il Creatore ha posto la sua tenda in Giacobbe.
S. Giovanni contempla la realtà di Dio nella prospettiva dell’incarnazione del Verbo: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. Non si doveva dubitare sulla vera realtà del Figlio di Dio fatto uomo, come qualche eresia cominciava ad affermare. L’infinità di Dio è capace di introdursi nella nostra finitezza senza perdere nulla della sua grandezza. Il disegno di amore di Dio non chiede di rinunciare a nulla né al Figlio di Dio che viene tra noi, né a noi che Lo dobbiamo accogliere. Il mondo, che è stato fatto per mezzo di Lui, era già capace di accoglierlo, anche se la libertà dell’uomo ha sempre la possibilità di non accettarlo. È la triste considerazione del vangelo di Giovanni: “Venne tra i suoi e i suoi non lo hanno accolto”. Gesù è venuto per tutti, anche se non tutti lo hanno conosciuto. Ma questo non deve far pensare ad un fallimento del progetto di Dio, perché invece introduce il tema della necessità dell’evangelizzazione e della missione.
 Il brano di S. Paolo agli Efesini avvia la sua riflessione dalla fortuna di coloro che hanno conosciuto Cristo: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale dei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”. Ormai il prodigio dell’incarnazione del Verbo è avvenuto e ci rivela il grande progetto di amore che Dio da sempre ha avuto; anche la creazione del mondo appartiene a questo disegno, di preparare l’accoglienza del Figlio di Dio e di tutti gli uomini figli nel Figlio. San Paolo però aggiunge le conseguenze operative che riguardano tutti coloro che accolgono Cristo: essere santi e immacolati nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi. E in questa affermazione dei figli adottivi, si collega al vangelo di Giovanni che dice: “A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”. A coloro poi che sono diventati figli di Dio, incombe l’impegno di far conoscere tale progetto a tutti gli uomini che ancora non lo conoscono: è l’impegno missionario.
In questa domenica, che precede di poco la solennità dell’Epifania,  la nostra Chiesa diocesana ringrazia il Signore per la realtà dell’AMI, l’Associazione missionaria internazionale che ha raggiunto i 25 anni di vita. Nell’Epifania di 25 anni fa ci fu il primo gesto significativo nel quale si riconosce l’inizio di un cammino.
L’Ami è una presenza significativa non solo nella nostra diocesi, ma anche in altre diocesi italiane e soprattutto in India, in Eritrea e in Tanzania. Questa celebrazione avviene a poco meno di due mesi dalla scomparsa di Maria Pia Reggi, che è all’origine di questa associazione insieme a Mons. Mario Babini. Maria Pia è considerata la fondatrice, che ha accompagnato l’inizio e lo sviluppo dell’Ami, seguendo la formazione delle persone e delle varie comunità. Oltre a tutta la sua vita ella ha donato la sofferenza degli ultimi anni consapevole dell’avanzare del male e abbandonandosi al Padre celeste.
 La presenza dell’Ami è una grazia per la nostra comunità ecclesiale, sia per l’apertura missionaria diffusa nella nostra Chiesa, sia per l’impegno di santificazione dei laici dove il Signore li ha chiamati a vivere e operare. La presenza di membri provenienti da diverse nazioni ha portato la ricchezza della collaborazione internazionale.
 L’accoglienza è la prima caratteristica che qualifica la vita dell’associazione. “E’ un mistero di reciprocità. Accolti dal Padre si diventa capaci di essere accoglienti per i fratelli. Accogliendo i fratelli, si diventa per loro provvidenza, tenerezza e misericordia. L’accoglienza diventa abituale disposizione all’ospitalità e all’attenzione preferenziale per i poveri.
 Un’altra connotazione è la missione, per testimoniare il vangelo ai più poveri sia nelle società sviluppate, sia in quelle in via di sviluppo. C’è l’impegno ad essere innanzitutto testimoni ed educatori della fede nella famiglia e nell’ambiente in cui si vive. Ma è la dimensione missionaria che dona alla vita dell’associazione il suo tono e il suo stile, e specifica un compito particolare nella Chiesa.
Infine l’Ami è nata internazionale, con i primi membri provenienti da tre continenti. La testimonianza di vita fraterna nella diversità di popoli, lingue, culture è un segno forte nei paesi che sono lacerati da contrapposizioni di etnia o di casta, di religione o di confessione. L’internazionalità è una scuola esigente e quotidiana di dialogo e accoglienza, per arrivare a costruire insieme una famiglia in cui le diversità formino un progetto in cui tutti si possano riconoscere.
La storia e l’opera delle missionarie consacrate, delle famiglie impegnate nell’apostolato, dei giovani che si formano allo spirito missionario ci fanno dire, con S. Paolo: “rendiamo grazie per voi, ricordandovi nelle preghiere,  affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui”. Celebrando una tappa importante come quella dei 25 anni di vita, è giusto pensare di avere ancora da lavorare con il Signore e per il Signore, facendo tesoro della sapienza e dell’esperienza del percorso fatto, e aprendosi ad una profonda conoscenza dei disegni che Dio ha su tutti e su ciascuno.
Ognuno si renda conto di quanto ha ricevuto attraverso l’Ami e le persone che l’hanno fatta crescere, per dire in modo consapevole un grazie al Signore, perché, diremo con S. Giovanni: “Dalla sua pienezza abbiamo ricevuto grazia su grazia”.
Questa Eucaristia sia per tutti lo strumento adeguato per ringraziare il Padre del cielo, per affidare alla sua misericordia coloro che ha già chiamato a sé e per invocare la protezione di Dio sull’Ami, e sulle Chiese dove è presente. Accompagni la preghiera e i propositi Maria di Nazareth, Madre della speranza

OMELIA per la GIORNATA MONDIALE della PACE (1 GENNAIO 2015)
Faenza, Basilica Cattedrale - 1 gennaio 2015
01-01-2015

Nell’ottava di Natale la liturgia celebra il mistero della Maternità divina di Maria, come conseguenza dell’incarnazione del Figlio di Dio. Maria fu elevata alla dignità divina per una grazia personale dei meriti della redenzione Gesù Cristo. Se Maria è Madre di Dio, anche l’uomo può essere elevato alla dignità di figlio di Dio; figli tutti dell’unico Padre che è nei cieli, quindi tutti fratelli. È qui la radice della pace e dell’uguaglianza di tutte le persone umane, che hanno la stessa dignità.
 
La preghiera per la pace quindi ben si addice al mistero di oggi, e anche al tema che il Papa ha dato al suo messaggio: Non più schiavi, ma fratelli.
Abbiamo sentito nella prima lettura le parole con le quali si invocava la benedizione sui figli di Israele, ponendo il nome di Dio su di loro. Porre il nome di Dio invocandolo  stava ad indicare che il popolo era protetto da Dio stesso. Ma S. Paolo ci fa notare che dopo la nascita di Cristo, se accogliamo lo Spirito di Dio siamo figli di Dio: “Quindi non sei più schiavo, ma figlio”.
 
Questo cambiamento nella natura umana nel suo rapporto con Dio ha una conseguenza nella relazione tra gli uomini, che S. Paolo ha richiamato nella lettera a Filemone, ricordata dal Papa. Filemone era un cristiano che aveva uno schiavo. Questi era scappato e si era rifugiato da Paolo. Paolo, dopo averlo guidato alla fede, lo rimanda dal suo padrone con questo avvertimento:  (Te lo rimando) “non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo”.
 
Deve essere chiaro che l’uguale dignità di tutti gli uomini è radicata nella natura umana nella quale tutti nasciamo; ma con il peccato l’uomo subito ha introdotto la violenza tra i fratelli, cominciata tra Caino e Abele e mai del tutto fermata.
 
Scrive il Papa: “Il Figlio di Dio è venuto per rivelare l’amore del Padre per l’umanità. Chiunque ascolta il Vangelo e risponde all’appello alla conversione diventa per Gesù fratello, sorella e madre, e pertanto figlio adottivo di suo Padre”. Questo però non avviene in modo automatico, ma con l’adesione dell’uomo a Cristo nella libertà personale.
 
Ma prima di accogliere nei rapporti sociali la piena dignità di ogni uomo, a lungo è stata accettata la schiavitù  preso tutti i popoli. Questa del resto aveva una funzione sociale come sostegno all’economia generale, e per questo era regolata dal diritto.
 
Oggi invece non ha più ragion d’essere, ed è stata formalmente abolita. Eppure, nonostante questo, scrive ancora il  Papa “ancora oggi milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù”.
 
E di seguito fa un elenco di queste situazioni: lavoratori e lavoratrici, anche minori, asserviti nei diversi settori del lavoro; molti migranti; persone costrette a prostituirsi, compresi i minori; traffico e mercato per l’espianto di organi; bambini soldato; rapiti e prigionieri dei gruppi terroristici.
 
Quali sono le cause di queste forme di schiavitù?
Alla radice c’è una concezione della persona umana, che viene considerata come oggetto e trattata come mezzo e non come fine. Poi ci sono della cause oggettive come la povertà, il sottosviluppo, la mancanza di lavoro, la corruzione, i conflitti armati…
 
Come si può reagire a tutto questo?
Occorre un impegno comune, per sconfiggere una indifferenza generale. Sono certamente encomiabili le famiglie religiose che soccorrono le schiave del sesso e cercano di riabilitarle in vista di un reinserimento nella società. Ma occorre anche l’impegno delle istituzioni contro lo sfruttamento delle persone.
 
Il Papa poi mette in evidenza una possibile responsabilità personale dei consumatori, ricordando che “acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico”. E precisa ulteriormente: “Chiediamoci come noi ci sentiamo interpellati quando dobbiamo scegliere se acquistare prodotti che potrebbero ragionevolmente essere stati realizzati attraverso lo sfruttamento di altre persone”. E conclude il suo messaggio con un appello: “Dobbiamo riconoscere che siamo di fronte ad un fenomeno mondiale che supera le competenze di una sola comunità o nazione. Per sconfiggerlo occorre una mobilitazione di dimensioni comparabili a quelle del fenomeno stesso. Per questo motivo lancio un pressante appello a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, e a tutti coloro che, da vicino o da lontano, anche ai più alti livelli delle istituzioni, sono testimoni della piaga della schiavitù contemporanea, di non rendersi complici di questo male, di non voltare lo sguardo di fronte alle sofferenze dei loro fratelli e sorelle in umanità, privati della libertà e della dignità, ma di avere il coraggio di toccare la carne sofferente di Cristo, che si rende visibile attraverso i volti innumerevoli di coloro che Egli stesso chiama ‘questi miei fratelli più piccoli’ “.
 
Questo appello che il Papa rivolge a tutti gli uomini di buona volontà deve essere accolto con particolare convinzione dai discepoli del Signore. Tutta la storia della redenzione cristiana è una storia di liberazione, che parte dall’essere sciolti dalle catene del peccato personale, ma deve arrivare anche alle conseguenze nella vita della comunità degli uomini. Non si tratta solo di coerenza, ma di diffusione del messaggio del Vangelo a cominciare dall’annuncio natalizio della pace.
 
Otto giorni dopo la nascita, nel rito della circoncisione, al bambino di Maria fu messo nome Gesù: il Salvatore. È lui che sostiene la speranza del mondo, insieme al nostro piccolo impegno nel superare l’indifferenza e l’egoismo, per far crescere nel mondo la fraternità e la pace. Ci accompagni in questo Maria, Regina della pace.

OMELIA per la MESSA di NATALE 2014
25-12-2014

Nel prologo del Vangelo di Giovanni è scritto: “La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo”. Il Natale del Signore ci dà l’occasione per renderci conto ancora una volta di quello che ha significato per il mondo l’incarnazione del Figlio di Dio. Uno degli aspetti belli di questo evento è l’aver superato il significato della legge, con il dono della grazia e della verità. In altre parole, se prima la religione si poteva ridurre ad una serie di osservanze secondo la legge, dopo la venuta di Gesù l’uomo religioso è colui che si apre al dono della verità, per adeguarvi la propria vita con l’aiuto di Dio.
Nel nostro tempo abbiamo tanti motivi per apprezzare la verità, che non è quella di chi dice più forte, o che è ripetuta dalla maggioranza, perché una menzogna detta da tanti rimane una menzogna. È questo un argomento delicato, ma non per questo poco importante, perché dalla verità dipendono le nostre scelte e alla fine dipende la nostra vita e quella degli altri. La verità più semplice è quella di riconoscere la realtà delle cose. Un uomo che dice la verità dice pane al pane e vino al vino; oppure uomo all’uomo e donna alla donna. Questo ultimo esempio non è detto a caso, perché sapete come ci sia una ideologia che vuole convincerci che le cose non sono così, ma sono come uno vuole.
La verità che ci salva è quella fondata sulla realtà, compresa la realtà del Figlio di Dio che è nato, è morto ed è risorto, e ci ha rivelato quali sono le verità fondamentali per la nostra vita, come quella di essere tutti fratelli, figli dell’unico Padre che è nei cieli, destinati alla vita eterna.
Il Signore sapeva che la verità è insidiata dall’errore, dalla menzogna e dal fascino delle apparenze, e per questo non ci lascia soli, ma  ci dona anche la forza per abbracciare la verità e per vivere coerentemente con essa. Per questo ci ha donato la sua Parola, nella storia di un popolo da Lui eletto per salvarlo e mandarlo ad annunciare l’amore di Dio in tutto il mondo; ci ha donato i segni della salvezza, i sacramenti, strumenti efficaci della grazia; ci ha donato la Chiesa, la famiglia dei figli di Dio nella quale, insieme a tanti difetti, troviamo però l’insegnamento giusto e l’esempio di tutta la comunità.
Vedete, il Papa da un po’ di tempo mette in evidenza le malattie che ci sono anche nella Chiesa, non certo per dirci che anch’essa è corrotta al punto che non c’è più niente da fare, ma per dirci che la Chiesa è santa al punto che non ha paura di scovare il peccato perché sa di avere la forza per vincerlo. È molto diverso l’atteggiamento di chi accoglie le denunce del Papa per dire: “Vedete, anche loro sono come tutti gli altri”, per cercare così giustificazione nelle deviazioni che non c’è nessuna intenzione di correggere.
Ad una lettura lucida della storia del mondo dopo Cristo, non dovrebbe essere difficile vedere che i principi che hanno la loro origine nella rivelazione cristiana sono quelli che hanno influenzato in modo positivo le culture e le civiltà, non solo nella vita delle persone, ma anche nella pacifica convivenza della società e dei popoli. Si tratta forse di un cammino lungo e lento, ma l’importante è che sia nella direzione giusta.
Qualcuno si stupisce perché nonostante vi siano le leggi che proibiscono e sanzionano i delitti, questi continuano ad aumentare. Non bastano le leggi, senza l’educazione delle coscienze secondo principi e valori radicati nella realtà della creazione e della redenzio-ne; a seguire Cristo non c’è nulla da perdere, mentre tanto si può perdere senza di Lui o contro di Lui.
Celebriamo dunque il Natale per ritrovare il fondamento della speranza, quella vera che Gesù è venuto a portare con il dono della verità e della grazia, quando ci ha fatti tutti suoi fratelli nell’amore del Padre e nella comunione della Chiesa

OMELIA per le ESEQUIE di PIA REGGI
Faenza, Basilica Cattedrale - 15 novembre 2014
17-11-2014

La nostra Chiesa cattedrale ci vede riuniti oggi per dare il saluto cristiano alla nostra sorella Pia Reggi, che il Signore ha chiamato a Sé da questa vita, al termine di una esistenza spesa tutta per il Signore e per i suoi fratelli. Il nostro convenire a questa Eucaristia vuole avere il significato di un commiato, che nella fede e nella speranza della vita vera noi prendiamo da chi ci ha lasciato, e nello stesso tempo vuole celebrare l’offerta della vita e dell’opera di Pia al Padre, insieme all’offerta della vita e del sacrificio di Cristo. Non vogliamo né fare la storia né descrivere i meriti, che solo Dio conosce, ma fare memoria di quanto ci può aiutare a rendere grazie.

Grazie, Signore, per aver donato alla sua famiglia, alla nostra Chiesa, all’Associazione missionaria internazionale e a tante altre Chiese la nostra sorella Pia: ti preghiamo di accoglierla nella tua misericordia, nella luce e nella pace.

Ti ringraziamo, Signore, per avere suggerito a Pia fin dalla sua giovinezza la passione per la missione e per averla chiamata a consacrare se stessa a servirti nei poveri, per annunciare loro il vangelo della salvezza.

Noi in Pia abbiamo ammirato la forte determinazione a valorizzare la spiritualità laicale, radicata nel battesimo, alimentata dalla Parola di Dio e dalla Liturgia, secondo quanto aveva appreso dall’Azione cattolica prima e poi dagli insegnamenti del Concilio vaticano II. “Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio” (L.G., 31). In questo trovò anche l’aiuto di Mons. Mario Babini, che accompagnò gli inizi della famiglia spirituale che Pia insieme ad alcune amiche avrebbe poi fatto sorgere, per la santificazione personale e l’impegno missionario. L’Associazione missionaria internazionale raccolse dunque persone consacrate alla missione e persone e famiglie che vivevano la missione secondo la loro vocazione battesimale e matrimoniale.

Nella sua opera, Pia ha mostrato un convinto e sincero amore ad ogni Chiesa diocesana, a cominciare dalla nostra quando fu accolta dal Vescovo Mons. Tarcisio Bertozzi, che proprio 25 anni fa benediceva la nascita dell’associazione. Ma l’amore alla Chiesa fu sincero in tutte le Diocesi in Italia, in India e in Africa dove poi l’associazione si è diffusa.

L’apertura alla dimensione internazionale è stata un dono che ha impreziosito l’impegno dell’Ami, aiutando anche la nostra Chiesa ad aprirsi alle ricchezze di altri popoli.

Per tutti questi doni, o Signore, e per tutti quelli che solo tu conosci noi ti diciamo grazie, e ti chiediamo di saper raccogliere l’eredità spirituale che Pia lascia alle sorelle della sua famiglia laicale e alla nostra Chiesa.

La via che ella ha cercato di seguire è quella delle Beatitudini che ancora una volta abbiamo ascoltato, come un invito e una promessa. I poveri che Gesù ha dichiarato beati, sono quelli che le missionarie hanno conosciuto nelle terre dove sono andate, condividendo con loro privazioni e fatiche. I poveri sono i nostri maestri, che ci insegnano ad essere distaccati dalle cose di questo mondo, per essere leggeri e disponibili per cercare le cose del cielo.

I poveri sono coloro che sono privi di amore. Se noi abbiamo conosciuto l’amore di Dio e abbiamo saputo fino a che punto Egli ci ha amati nel suo Figlio Gesù, anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. E quando incontriamo delle persone che in modo concreto spendono il loro tempo, le energie, gli affetti e tutta la vita per coloro che così arrivano a scoprire che Dio li ama, chiediamo di essere anche noi pronti a dare la vita per i fratelli.

Un ultimo segreto vogliamo ricordare tra quelli che ci fanno conoscere la vita di Pia ed è il suo amore per Gesù, vissuto in modo immediato nella preghiera e nell’ascolto della sua Parola e nel fare sempre e dovunque la volontà di Dio.

Si è vista la conferma di questo soprattutto negli ultimi anni della vita segnata dalla malattia e dalla sofferenza, quando tutto diventava più faticoso, ma non veniva rinviato, anche i lunghi viaggi per andare a trovare le sue figlie spirituali ed essere vicina e coloro che erano nella prova. Fino a quando ha potuto ha lavorato per leggere e scrivere tutto quello che pensava potesse essere di aiuto al futuro dell’Ami, per consegnare alle sue figlie fino all’ultimo il suo pensiero e le sue indicazioni.

La Chiesa di Faenza-Modigliana mentre ringrazia il Signore per la vita e l’opera di Pia Reggi, partecipa nella preghiera al dolore dei suoi familiari, che l’hanno accompagnata in tutta la sua vita.

Inoltre è vicina alle sue figlie spirituali, che ora ne piangono la scomparsa come di una madre.

Infine a tutti raccomanda di ricordarla nella preghiera, come debito di riconoscenza e per accompagnarla davanti al Signore.

Vergine Santa, siamo ancora una volta qui, sotto il tuo sguardo, nel giorno a te dedicato, ad accompagnare una figlia della nostra terra nelle braccia paterne di Dio: ti preghiamo, Madre di misericordia, mostra anche a lei, dopo questo esilio terreno il tuo Figlio Gesù, o clemente, o pia, o dolce Vergine Maria.

OMELIA per la CHIUSURA della FASE DIOCESANA del processo di beatificazione e canonizzazione del S.d.D. DANIELE BADIALI
Faenza, Basilica Cattedrale - 19 ottobre 2014
19-10-2014

Quando si è trattato di scegliere una data per la chiusura della fase diocesana del processo per la causa di beatificazione e canonizzazione del Servo di Dio Daniele Badiali, presbitero di questa Chiesa di Faenza-Modigliana, è sembrata bella la coincidenza con la Giornata Missionaria Mondiale, avendo egli speso i pochi anni del suo ministero presbiterale nella missione dell’OMG in Perù. 
 
Quest’oggi ci troviamo a celebrare l’Eucaristia nella ricorrenza anch’essa assai significativa dell’anniversario della Dedicazione di questa chiesa cattedrale. In altre parole viviamo nella liturgia la realtà misteriosa della Chiesa locale, mentre compiamo un passo importante per un figlio eletto di questa Chiesa per il quale chiediamo il riconoscimento della santità di vita. Si tratta di un percorso ancora lungo, ma  Intanto oggi consegniamo con fiducia alla Chiesa il lavoro compiuto in questi anni per raccogliere le testimonianze, la documentazione e le prove perché si possa riconoscere il grado eroico delle virtù nella vita di P. Daniele e forse anche il martirio.
 
La chiesa di pietre è il simbolo della Chiesa di pietre vive, che siamo noi e ci ricorda la Chiesa gloriosa, la nuova Gerusalemme nostra madre. Il pensiero della Casa del Cielo dove Cristo si trova glorioso con tutti i suoi Santi ci è particolarmente caro questa sera, convocati dal Servo di Dio Daniele, che presto speriamo di poter invocare tra i Beati e tra i Santi.
 
Il breve rito che verrà compiuto alla fine della Messa davanti al popolo di Dio è un gesto profondamente ecclesiale. È iniziato da una decisione della nostra Chiesa, che ha coinvolto altre Chiese, in particolare dove P. Daniele è vissuto ed è stato ucciso. Hanno collaborato tante persone che con le loro testimonianze hanno illustrato la vita di fede, speranza e carità del Servo di Dio, mentre gli esperti hanno raccolto documentazioni e prove a questo riguardo, in particolare sulle circostanze della sua morte cruenta. Ora tutto questo viene affidato agli organismi competenti della Chiesa che lo valuteranno per arrivare, come auspichiamo, al riconoscimento della santità e, se Dio vorrà, alla beatificazione e canonizzazione di P. Daniele.
 
L’impegno da parte nostra non è terminato. Si tratta infatti di conoscere e far conoscere il Servo di Dio, di imitarne gli esempi virtuosi, soprattutto da parte dei giovani, e pregare per la sua glorificazione qui in terra. Da questa infatti ci attendiamo un forte incoraggiamento alla Chiesa del nostro tempo per portare ai poveri il lieto annuncio dell’amore di Dio.
 
Il profeta Isaia nella prima lettura ha annunciato l’apertura della casa di Dio a tutti i popoli; in essa tutti potranno offrire i loro sacrifici e olocausti, “perché si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli”. Di fronte ad una prospettiva così chiara, non stupisce che soprattutto i giovani che vengono a conoscenza di ampie parti del mondo dove gli uomini non sono riconosciuti nella loro dignità cerchino di fare qualcosa di concreto perché tutto questo possa cambiare. I poveri diventano così un richiamo e nello stesso tempo l’occasione per una conversione vera verso Dio. Non li si può infatti ingannare con altre illusioni; tutti si devono sentire “non più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari di Dio”.
 
Il progetto di Dio che ha preparato il giovane Daniele alla missione comincia nel cuore della sua famiglia e della sua parrocchia, nelle esperienze di carità della Chiesa locale dove ha trovato i primi contatti con i poveri e i sofferenti, fino all’incontro con le iniziative dell’Operazione Mato Grosso. Possiamo serenamente riconoscere che fu quello il sicomoro sotto il quale Daniele fece l’incontro con Gesù che gli cambiò la vita. Del resto il Signore continua a preparare per i suoi eletti degli agguati, che diventano l’occasione per cambiare vita.
 
Nella vicenda missionaria di P. Daniele si possono mettere in evidenza due aspetti che oggi ci sembrano particolarmente significativi: una scelta chiara di attenzione alla missione universale nel portare il Vangelo ai poveri sulla Sierra in Perù, e nello stesso tempo un legame profondo con la Chiesa locale di appartenenza, tramite il Vescovo Tarcisio Bertozzi che lo aveva ordinato e mandato in missione.
 
Il Concilio aveva detto: “Ricordino i presbiteri che a essi incombe la sollecitudine di tutte le chiese” (PO, n.10). Questo nell’obbedienza filiale al proprio vescovo, al quale P. Daniele scriveva: “Sento che il mio cammino futuro dipende prima di tutto da Lei che rappresenta la Chiesa alla quale appartengo”. E ancora: “So che non sono solo e soprattutto in questi anni sto scoprendo la gioia di avere una Chiesa per madre che ti accompagna” (pag.85). La missione si sviluppa nel rapporto leale tra le Chiese, perché tutti siamo “edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti”, segni e strumenti dell’unità visibile nella Chiesa.
 
L’obiettivo della ricerca sulla vita di P. Daniele è stato mostrare che egli ha vissuto, direbbe il Papa San Giovanni Paolo II, “la misura alta” della vita cristiana. La morte precoce e drammatica, conseguenza di un gesto esplicito di carità, ha fatto luce sulla vita di P. Daniele, mostrando come sia stata spesa con generosità nel ministero e nell’aiuto ai poveri. Se Zaccheo ha potuto dire a Gesù: “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri”, P. Daniele può dire di aver dato tutta la sua vita per loro. 
 
Il suo impegno nella missione era far conoscere Gesù. Con quanta sofferenza arrivava a dire: “Gesù non interessa a nessuno…”. E ancora: “Eppure constatando che Gesù non interessa… mi ritrovo col solo desiderio di cercare Gesù e di obbedire alla sua volontà”. E sarà con il santissimo nome di Gesù sulle labbra che la morte lo coglierà per mano dei suoi uccisori.
 
Gesù è il dono che il Servo di Dio Daniele Badiali intende continuare a far conoscere, a far amare e a far servire, perché è solo così che l’uomo di oggi confuso e ingannato può ritrovare la via della salvezza.
 
Le vie della conversione che P. Daniele ha percorso sono la carità e la croce. La carità rende liberi per donare tutto ai poveri, come Gesù chiede a coloro che lo vogliono seguire. È la via maestra che anche P. Daniele ha percorso fino in fondo e che ora lascia a noi come una consegna e una promessa. Se il nostro mondo malato vuole trovare la vita, questo giovane presbitero della nostra Chiesa ripropone il cammino del Signore Gesù: la croce e l’amore fino alla morte.
 
In questa giornata benedetta della nostra Chiesa cogliamo un altro dono nella beatificazione del Papa Paolo VI, il papa che ha completato il Concilio e ne ha accompagnato la prima realizzazione. Di questo Papa ci piace oggi ricordare soprattutto l’Enciclica Popolorum progressio, sullo sviluppo dei popoli, dove si legge: “Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere sviluppo autentico, dev’essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo” (n.14). P. Daniele questo lo aveva capito: lo scopo della sua missione era portare Dio alla sua gente. Scriveva: “I poveri non sono diversi dai ricchi, cambiano le situazioni, ma il nocciolo rimane identico, o metti Dio al primo posto della tua vita, o lo rifiuti” (pag. 158). Lo sviluppo integrale dell’uomo non poteva avvenire senza Dio.
 
A ricordo di questa giornata e come richiamo alla sostanza del messaggio di P. Daniele verrà piantata davanti alla chiesa del Ronco la croce che i giovani hanno portato a spalla fino qui. Ci dice ancora P. Daniele: “Senza la sofferenza non c’è gioia, senza la Croce non c’è luce, senza la morte non c’è vita” (pag. 280).
Amen

OMELIA per la festa di SANTA CHIARA
Faenza - Monastero S.Chiara, 11 agosto 2014
11-08-2014

Nel cercare qualche indicazione per la riflessione all’omelia di questa Messa mi sono imbattuto in un curioso profilo di S. Chiara a cura delle Clarisse Urbaniste d’Italia, dal quale mi piace prendere qualche spunto. L’intento di chi ha esteso il testo è quello di tracciare la Carta d’identità di S. Chiara. Per capire il tono del documento basti considerare come è stato indicato lo stato civile: innamorata e la professione: Sorella povera.

 Continuando in questo tono più avanti trovo dei suggerimenti più profondi, fra i quali scelgo tre aggettivi.

 Intrepida. Fin dall’inizio Chiara si rivela una donna forte e determinata, capace di contrastare l’intera famiglia pur di attuare il suo sogno di vita evangelica. Sapendo di dover fronteggiare la resistenza dell’intero casato, fugge nella notte lasciandosi alle spalle ogni sicurezza.
Più tardi lotterà con tenacia anche con il Papa per difendere la povertà ed il suo legame con i frati minori, senza mai venir meno al rispetto e all’amore verso la Chiesa, di cui si sente figlia.
Una volta papa Gregorio IX aveva proibito ai frati di recarsi nei monasteri a predicare senza il suo permesso. Subito Chiara mandò via anche i frati che portavano le elemosine, affermando che non voleva ricevere il pane materiale se non poteva avere quello spirituale.
Attraverso ciò che noi chiameremmo “sciopero della fame”, ottenne così la revoca del divieto.
Chiara fu la prima donna a scrivere una Regola per donne: fino ad allora, infatti, le fonti legislative per i monasteri femminili erano state redatte da uomini. Con la sua tenace determinazione, Chiara riuscì ad ottenerne l’approvazione da papa Innocenzo IV.

Possiamo trovare la fonte di questo coraggio nella sua unione con Dio: “Io sono la vite, voi i tralci, chi rimane in me e io in lui porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla… Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto”. La forza viene dalla comunione con Dio sia per fare la sua volontà, sia per chiedere nella preghiera il suo aiuto ovviamente non per appoggiare i nostri capricci, ma per la diffusione del Regno di Dio. Potremmo anzi dire che le donne nella Chiesa mettono in risalto due principi: Dio preferisce i piccoli e i deboli, e noi abbiamo bisogno di rimanere nell’amore di Cristo.

 Dirà San Paolo: Il Signore mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. E concluderà: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12,9s). La rinuncia all’uso della violenza non coincide con l’abbandono del coraggio e della forza, come anche la vita di S. Chiara ha mostrato, ma significa ricorrere alla forza della mitezza, della pazienza e della benevolenza, frutti dello Spirito Santo. E tutto questo unito all’amore, che, dirà Papa Giovanni Paolo II, è proprio del genio femminile, in quanto “la donna non può ritrovare se stessa se non donando l’amore agli altri” (Mulieris dignitatem, n.30).

 Nel riflettere ancora su questo il Papa fa il confronto tra la verginità della donna non sposata e la maternità della donna sposata, e scrive: “Il punto di partenza di questa analogia è il significato delle nozze. La donna infatti è sposata sia mediante il sacramento del matrimonio, sia spiritualmente mediante le nozze con Cristo. Nell’uno e nell’altro caso le nozze indicano il dono sincero della persona della sposa verso lo sposo”. E per finire la riflessione si deve dire che se frutto dell’amore coniugale è il dono della vita, frutto dell’amore verginale è l’amore di Cristo e dei fratelli, a cominciare dai più deboli.

 Il profeta Osea nel ricordare quello che Dio ha fatto con il suo popolo, ricorda anche la necessità di entrare nel deserto in solitudine con Lui perché Egli possa parlare al nostro cuore e ravvivare l’amore come fanno gli innamorati.

Gioiosa. Dalla preghiera Chiara attingeva una gioia profonda che si irradiava attorno a lei. Anche se fu segnata da fatiche e prove (fu inferma per 29 anni), le sue lettere ci testimoniano una inesauribile e profonda letizia: “Sono ripiena di gioia e respiro di esultanza nel Signore…”.

 A volte sembra incredibile come i Santi riescano a parlare di gioia, in mezzo a tutte le difficoltà della vita. Ci può aiutare a comprendere come questo sia possibile, l’osservazione che abbiamo sentito in S. Paolo: “Il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne” (2 Cor 4,17s).

La gioia non va ricercata nelle vicende materiali, anche quelle belle, che nella migliore delle ipotesi passano; la gioia si può trovare nelle realtà invisibili che ci sono fin da adesso (amore, pace, bontà, giustizia, …) e soprattutto nelle realtà che ci proiettano nella vita divina (fede, speranza, carità, misericordia, comunione con Dio,…). A volte noi ci preoccupiamo del futuro: delle nostre comunità religiose e parrocchiali, delle nostre opere… I cristiani non sono la gente del futuro, ma dell’eternità; è questa che ci può dare consolazione. Pensiamo alla grandezza della testimonianza del mondo invisibile che viene dalla vita consacrata, uno dei contributi più necessari al nostro tempo. Basti pensare all’imbarazzo di parlare della morte senza nominarla, nel tentativo di esorcizzarla non pensandoci. E invece si muore.

 Accogliente. Il Testamento che Chiara ha lasciato alle sue Sorelle “presenti e future” contiene un’esortazione che ci lascia intuire come fosse impostata la vita fraterna a San Damiano:
“Amandovi a vicenda nell’amore di Cristo, dimostrate al di fuori con le opere, l’amore che avete nell’intimo, in modo che, provocate da questo esempio, le Sorelle crescano nell’amore di Dio e nella mutua carità
”.

 Un’altra delle sfide del nostro tempo è la fraternità, una relazione cioè che rende possibile la vita nella comunità familiare, religiosa e cristiana in genere. S. Chiara invita le sue sorelle ad amarsi con l’amore di Cristo e a mostrarlo con le opere. Non invita cioè ad avere dei sentimenti affettuosi, ma a mostrare con le opere la reciproca accoglienza, l’aiuto vicendevole e la custodia della serenità nella comunità perché sia bello vivere insieme. Come sono contagiose in senso negativo le gelosie, le invidie e le maldicenze, così si può essere provocati dall’esempio per crescere nell’amore di Dio e nella mutua carità.

 Giustamente oggi siamo venuti per celebrare la festa di S. Chiara con le nostre sorelle che la venerano come patrona anche del loro Monastero, e chiediamo di far tesoro anche noi dell’esempio di S. Chiara, per imitare la sua testimonianza di coraggio, di gioia e di fraternità.

OMELIA per l’ANNIVERSARIO DELLA NASCITA della Ven. BENEDETTA BIANCHI PORRO
Sirmione - 8 agosto 2014
08-08-2014

La liturgia di oggi ricorda San Domenico, fondatore dell’Ordine dei predicatori. In questo giorno, 8 agosto 1936 Benedetta Bianchi Porro nasceva a Dovadola, provincia di Forlì, e morirà poi il 23 gennaio 1964 qui a Sirmione. Siamo dunque nell’anno 50° della sua morte.

Il ricordo di San Domenico non vuole essere solo un accostamento nella data, ma mi piace fare un piccolo confronto tra la nostra Venerabile e quel grande Santo, non tanto perché tra di loro tutti i santi un po’ si rassomigliano, ma perché mi pare che entrambi abbiano avuto a cuore il far conoscere il più possibile il Signore Gesù, mediante un apostolato che poi ha assunto in Benedetta una modalità tutta singolare.

Il Papa Francesco sta sollecitando la Chiesa sulla nuova evangelizzazione. Ha iniziato la sua esortazione con le parole: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù”. Se questa fu l’esperienza che fece a suo tempo S. Domenico con i suoi frati nel portare il Vangelo ai nuovi eretici che allora si stavano diffondendo in Europa, questa è stata anche la testimonianza di Benedetta quando si è resa conto che sarebbe stata quella la sua missione voluta dal Signore. La nuova evangelizzazione non comporta certamente un messaggio evangelico nuovo, ma il sapere andare incontro alle situazioni nuove di oggi e alle domande che anche l’uomo di oggi si pone, soprattutto quelle drammatiche sul perché del dolore, sul senso della sofferenza, sulla realtà di Dio.

La vita di Benedetta in una famiglia benestante, pur avendo dovuto attraversare il periodo della guerra e del dopo guerra trascorre come quella delle ragazze della sua età. È sui 16/17 anni che inizia a manifestarsi la sordità, il primo sintomo del male che la bloccherà completamente. Le prime reazioni non furono facili, soprattutto quando progressivamente si rese conto che doveva abbandonare tutto ciò che sperava di poter fare nella vita, a cominciare dagli studi di medicina che le servirono solo, dirà poi, a diagnosticare la sua malattia.

Alcuni anni passano negli studi, nel cercare di affrontare i mali mano a mano che si manifestano, e nel coltivare le amicizie, in particolare di alcune  ragazze di Gioventù studentesca che le sono vicine. Di una di esse, Nicoletta Padovani, dirà un giorno: “E’ lei che ha acceso in me la fiaccola della fede”.

Nell’estate del 1959 un sacerdote di Ferrara, don Elio Giuseppe Mori, che veniva qui a Sirmione per cure, mette per iscritto alcuni pensieri frutto di vari colloqui: “Cara Benedetta, voglio affidare a questo foglio quello che avrei dovuto dirti poco fa… Dio può ben capirti. Anche Gesù in croce non poteva più agire né parlare. Ma la sua croce era il momento più valido della sua vita. Anche la tua croce assomiglia alla sua; ne è una continuazione…Non desiderare di morire, ma di vivere. Lascia che Dio conduca la tua vita, ma non pensare che la tua vita sia inutile perché non puoi agire, parlare e fare…”.

Insieme a un cammino nella fede, per Benedetta c’è anche un cammino nella consapevolezza di ciò che Dio le stava chiedendo, cioè della sua vocazione, e di conseguenza della sua missione.

Nel cammino di fede le furono di molto aiuto il dialogo e la corrispondenza con le ragazze di G.S., con le quali condivideva problemi, scoperte e ricerca sui misteri di Dio, aiutandosi con il Vangelo e letture degli scrittori sacri. Dirà un giorno alla mamma: “Mammina, io credo all’Amore disceso dal Cielo, a Gesù Cristo e alla sua Croce gloriosa!! Sì, io credo all’Amore. Mi sembrava di avere qualcosa di altro da dirti: infatti… tu mi dirai che io in Gesù ci sono nata. Sì, ma prima lo sentivo così lontano, ora invece so che Dio è dappertutto, anche se noi non lo vediamo, addirittura il regno di Dio è in noi!”. Febbraio 1961.

La consapevolezza della sua vocazione e della sua missione di apostolato verso gli altri, mi piace legarla ai due pellegrinaggi che Benedetta fece a Lourdes.

La prima volta ci andò nel giugno 1960 e ricorda così: “Il Signore proprio là a Lourdes mi fece capire la ricchezza del mio stato… Mi piace dire ai sofferenti, agli ammalati che, se noi saremo umili e docili, il Signore farà di noi grandi cose. La Madonna mi ha donata la rassegnazione cristiana”. Riconoscere davanti a Dio che anche nello stato di sofferenza in cui Benedetta si trovava,  ella possedeva il grande tesoro della fede che la illuminava sul mistero della giustizia di Dio, davvero è una cosa grande.

Qualche mese dopo Mons. Mori le scriverà ancora: “Non misurare la tua vita col metro della sofferenza, pensando che abbia valore solo quello che ti costa. Il valore di ogni cosa è l’amore. Cerca di amare Dio con l’amore di una figlia. Quando stai bene gli sei vicina come quando stai male… non sei al mondo per soffrire ma per amare. Offri ogni pena come ogni gioia. La tua condizione attuale è la più vicina a Dio” (settembre 1960).

Nel marzo 1962 Benedetta scrive ad una amica: “Nessuno è inutile, a tutti Dio ha assegnato un compito”. Un anno dopo ad un’altra amica scrive parlando del proprio compito, “che non deve essere solo quello di scrutarmi dentro, ma di amare la sofferenza di tutti quelli che vivono e  vengono attorno al mio letto e mi danno e mi domandano l’aiuto di una preghiera”. Si può dire che quanto più il cammino della croce si fa duro, tanto più cresce l’attenzione premurosa verso gli altri.

Ricordando il viaggio a Lourdes del giugno 1963 scriverà: “Ed io mi sono accorta più che mai della ricchezza del mio stato e non desidero altro che conservarlo. È stato questo per me il miracolo di Lourdes quest’anno”.  E qualche mese dopo scriverà a Nicoletta: “Dio ci dà le cose non solo per noi, ma perché si possa anche distribuirle agli altri. Qualche volta mi rattristo perché mi pare che così, nel mio stato, io non sia utile per nessuno ed allora vorrei che avvenisse l’Incontro. Ma forse queste sono tentazioni, perché io più vado avanti, più ho la certezza che ‘grandi cose ha fatto in me Colui che è potente’ e l’anima mia glorifica il Signore”.

Davvero nel breve tempo della sua vita Benedetta ha comunicato la fede e la certezza dell’amore di Dio a tante persone sofferenti, facendo della sua vita un vero apostolato. Credo che si possa dire che Benedetta è un dono per il nostro tempo, che sta arrivando invece a legittimare la soppressione della vita degli ammalati terminali o che sono in stato di incoscienza. Si tratta di far capire la “ricchezza dello stato di chi soffre”, che non è inutile, e può far scoprire che nella vita ciò che conta non è star bene, ma sapere amare Dio e il prossimo.

Voglio concludere riportando un breve commento di Benedetta alla affermazione centrale del brano del vangelo di oggi: “Se qualcuno vuole venire dietro e me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Benedetta mette queste parole in bocca a Gesù e aggiunge: “Prendi la tua croce e seguimi. Non cercare di spiegare il perché. Lascia il tuo criterio, ma accetta il mio” (ottobre 1963).

Dio in ogni tempo manda i suoi profeti, adatti ad annunciare il Regno in quel particolare momento storico; sta a noi riconoscere i messaggeri che passano sui monti ad annunciare la pace, portata dall’amore che nasce dalla croce di Cristo e che giunge fino a noi mediante la testimonianza dei suoi Santi.

OMELIA per la solennità del CORPUS DOMINI 2014
Faenza - Chiesa S. Giuseppe. 19 giugno 2014
19-06-2014

Le parole di Gesù che abbiamo ascoltato nel Vangelo di Giovanni non ammettono replica di sorta. Le sue affermazioni sono perentorie, riprese e ripetute con insistenza, come a dire: ‘Le cose che vi dico vanno accolte per la fiducia che avete in chi ve le dice; non si tratta di capire, ma di cogliere con gioia la bellezza del dono che vi sto annunciando’.

Proviamo a pensare a ciò che in realtà Gesù ha fatto donando Sé stesso nell’Eucaristia, proprio partendo dal mistero della Sua presenza reale, che è l’oggetto della Solennità del Corpus Domini, mentre il Giovedì santo nella Cena del Signore celebra il Sacrificio di Cristo nel segno sacramentale.

Non dobbiamo infatti dimenticare che il Mistero dell’Eucaristia è anzitutto il Sacrificio di Cristo che viene perpetuato in Sua memoria, con il quale si annuncia la morte e la risurrezione di Cristo, al quale noi partecipiamo con la Comunione eucaristica; ma è anche mistero della presenza del Signore, tutti i giorni, fino alla fine del mondo.

Perché mai Gesù avrà scelto il pane e il vino come segni del suo mistero di amore e di presenza? Perché avrà voluto che il pane e il vino, una volta trasformati nel Corpo e nel Sangue Suo fossero da noi consumati come cibo, quando ci accostiamo per comunicarci di Lui nella Messa?

Il vangelo di Giovanni afferma senza esitazione la volontà di Gesù a questo riguardo: ‘Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna’ perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda’ questo è il pane disceso dal cielo”.

I segni scelti da Gesù, il pane e il vino, li troviamo nell’ordinarietà dell’esistenza, come alimento per la vita dell’uomo. Con questi elementi Gesù mantiene la realtà del dono della sua vita sia nel sacrificio al Padre, sia nell’essere alimento per la nostra vita di figli di Dio.

Quando sentiamo il sacerdote pronunciare le parole di Gesù: ‘Questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi’, dobbiamo pensare che guardando, toccando e mangiando quel pane noi di fatto guardiamo, tocchiamo e mangiamo ciò che ci mette in contatto con il Corpo glorioso di Cristo. Come nel mistero dell’Incarnazione il Verbo di Dio prese la natura umana per entrare nella nostra storia, così anche oggi il Cristo glorioso presso il Padre si fa presente in mezzo a noi con il segno del Pane e del Vino. Non sono un segno indicatore, ma una realtà vera. La Liturgia ha questa capacità di farci penetrare oltre il tempo e lo spazio, e mediante le preghiere e i riti metterci in contatto con il Cristo glorioso del cielo.

Se Gesù avesse detto ai suoi apostoli quando lo guardavano salire al cielo: ‘Quando volete pensare a me, guardate in alto: io vi vedrò’, noi saremmo rimasti contenti e convinti che ciò si sarebbe realizzato. Gesù invece ha voluto continuare la sua presenza sulla terra in modo diverso di prima, ma vero e reale.

Possiamo noi dire che questo a Lui non è possibile?  Gesù non ha risposto alle difficoltà che gli hanno fatto i suoi ascoltatori, perché non avrebbero capito. L’alternativa che ha posto è stata solo una: ‘Credete in me, fidatevi e sarete felici’.

Davvero solo un cuore divino poteva pensare ad un modo così singolare e fuori dalla portata umana, per essere vicino a tutti coloro che lo desiderano, senza bisogno di spostarsi come dovevano fare gli abitanti della Palestina. E nello stesso tempo per incontrarlo così ci invita a riunirci in assemblea santa di Dio, ad essere cioè Chiesa riunita dalla sua parola, a vivere l’incontro con Lui non in una solitudine intimistica, ma nella gioia di una assemblea in festa. È quanto ci ha ricordato San Paolo con la forza del suo linguaggio: ‘Il calice della benedizione, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?’. La risposta è ovviamente affermativa, perché il Sangue di Cristo è stato versato sulla Croce realmente anche per me e ora io entro in rapporto con esso perché ne possa raccogliere tutta l’efficacia.

Così il pane che noi spezziamo è comunione con il Corpo di Cristo, presente nel sacramento; e questa comunione ci riunisce nel Corpo mistico del Signore, che è la sua Chiesa: ‘Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane’. E con questo abbiamo scoperto qual è il fine dell’Eucaristia: tenerci in comunione con il Signore risorto, per essere uniti tra noi nel suo Corpo che è la Chiesa.

Il momento tipico della festa del Corpus Domini è la processione, cioè la manifestazione pubblica della comunità ecclesiale, non come esibizione trionfalistica, ma come umile testimonianza di quello che siamo, popolo in cammino verso il Regno, che porta con sé la fonte della sua speranza: l’Eucaristia.

Ci metteremo in cammino pregando e cantando per dire anzitutto a noi stessi che la nostra vita in Dio ha bisogno della preghiera, e per dire a tutti che Dio cammina con noi e con tutti coloro che lo cercano. Poi vorremo dire che ciò che avviene nella Chiesa è per il bene di tutti; fintanto che c’è chi prega, fintanto che la parola di Dio è proclamata, fintanto che c’è la Messa, fintanto che c’è la carità vissuta abbiamo motivo di sperare.

Siamo grati ai nostri fratelli e alle nostre sorelle che si rendono disponibili per il Ministero di distribuire la Comunione, portandola anche ai malati, cioè a coloro che più hanno bisogno di essere sostenuti nella fede e nella speranza. Ringrazio i nuovi ministri che ora verranno istituiti e anche coloro che oggi hanno rinnovato la loro disponibilità.

Grazie Signore perché sei rimasto con noi e ci accompagni perché vuoi bene a tutti e ci attendi come fratelli nella tua casa

OMELIA per la DEDICAZIONE del NUOVO ALTARE DELLA CATTEDRALE
Faenza - basilica Cattedrale, 6 giugno 2014
06-06-2014

‘Viene l’ora ‘ ed è questa ‘ in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità’. L’affermazione di Gesù nel Vangelo di Giovanni prefigura un tempo in cui non sarà necessario un tempio dove celebrare il culto all’unico vero Dio. Come mai allora ci siamo riuniti per dedicare al Dio del Cielo un altare, sul quale celebrare il Sacrificio eucaristico?

Quanto ha detto Gesù alla Samaritana ci porta a ricordare che il luogo nel quale su questa terra possiamo incontrare Dio non è il tempio materiale, ma l’umanità del Figlio di Dio fatto uomo. Dal momento dell’Incarnazione del Verbo, Dio si trova sulla terra; e dal momento in cui Cristo glorioso e risorto è asceso al Cielo, Egli è presente in mezzo a noi mediante lo Spirito Santo: ‘Non vi lascerò orfani’; ‘Ecco, io sono con voi fino alla fine del mondo’.

Nella Nuova ed eterna Alleanza il tempio non è il luogo della presenza di Dio, ma il luogo in cui si riunisce l’assemblea dei discepoli di Cristo, convocati dalla Sua parola, per rinnovare il memoriale della morte e risurrezione del Signore Gesù.

‘Fate questo in memoria di me’ ha detto Gesù ai suoi Apostoli. Oggi i presbiteri rispondono ancora a quel comando quando celebrano per la comunità dei credenti il mistero della fede. Non è quindi il luogo che santifica il rito, ma è la celebrazione dell’Eucaristia che rende lo spazio sacro idoneo a contenere l’infinito Mistero del Sacrificio di Cristo.

Nella chiesa dove avviene la santa convocazione dei fedeli, l’Altare è il centro di tutta la celebrazione; al mistero dell’altare porta la Parola di Dio; sull’altare si rinnova il Sacrificio di Cristo; dall’altare  si riceve il Pane della vita. L’altare quindi assume il doppio significato di Ara del sacrificio e di Mensa eucaristica.

Ancora più profondamente l’Altare è segno di Cristo, pietra angolare che sostiene tutta la costruzione della Chiesa; anzi, l’Altare è Cristo stesso, Unto di Spirito Santo, luogo dell’incontro con Dio. Il patriarca Giacobbe, dopo il sogno della scala che univa il cielo alla terra prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità e disse: ‘Questa pietra che io ho eretto come stele, sarà una casa di Dio” (Gen 28,22). Con questo si vuol dire che è l’altare che costruisce attorno a sé il tempio fatto di pietre vive.

Con noi questa sera vogliamo le pietre più vive di tutte, cioè i nostri Santi: li invocheremo, perché siano con noi. Loro sono il frutto dell’Eucaristia celebrata e vissuta.

I Santi ci ricordano che ‘non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura. Per mezzo di Cristo dunque offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome’. L’inno di lode più bello è quello della comunione, che si vive nella Chiesa, segno e strumento di unità di tutto il genere umano. Anche l’altare, unico nella chiesa, è segno di unità per rafforzare nei fratelli il vincolo di carità e di concordia.

Dice S. Ignazio, scrivendo ai Filadelfiesi: ‘Preoccupatevi di attendere ad una sola eucarestia. Una è la carne di nostro Signore Gesù Cristo e uno il calice dell’unità del suo sangue, uno è l’altare come uno solo è il vescovo con il presbiterio e i diaconi’, affinché tutto quello che fate, lo facciate secondo Dio'(n. 4).

L’unità che si costruisce attorno all’altare attinge anche alla grazia della Parola di Dio, che ha il suo luogo nell’ambone, e trova nella Cattedra del vescovo il segno visibile dell’unità nella Chiesa particolare.

Così nell’unica Celebrazione eucaristica sono presenti i poteri messianici di Cristo: la profezia, nella proclamazione della parola; la regalità, nella guida della comunità; il sacerdozio nell’offerta del Sacrificio di Cristo. Tutto questo è richiamato nel testo degli atti degli apostoli: ‘Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere’.  Questo è il progetto  ideale di ogni comunità cristiana.

L’impegno della nostra Chiesa nel realizzare in questa Cattedrale l’adeguamento liturgico previsto dal Concilio vuole essere un auspicio per l’accoglienza di tutti gli insegnamenti del Vaticano II, per un rinnovamento in senso missionario della nostra Chiesa. Anche questo sia un segno efficace di conversione, radicata nella memoria di una Chiesa viva nelle sue opere, nelle attività dei laici, nella donazione delle persone consacrate e nell’impegno dei suoi presbiteri.

La consacrazione dell’altare è opera dello Spirito santo, mediante il Sacro Crisma preparato nella Messa del Giovedì santo. Lo Spirito che trasforma il pane e il vino nel Corpo e Sangue di Cristo, cambia il significato di questa pietra, destinandola all’offerta del Sacrificio di Cristo, vittima e sacerdote in eterno. Anche quando la celebrazione eucaristica è finita l’altare rimane come segno di fedeltà del grande Sommo sacerdote, sempre vivo per intercedere per noi.

Salutiamo anche noi l’altare con le parole di un’antica preghiera orientale: ‘Dimora in pace, santo altare del Signore. Io non so se ormai ritornerò a te o no. Il Signore mi conceda di vederti nell’assemblea dei primogeniti che sono in cielo; in questa alleanza io pongo la mia fiducia. Rimani in pace, altare santo e propiziatore; il Corpo e il Sangue che ho ricevuto da te siano per il perdono dei miei peccati, la remissione delle mie colpe e la mia sicurezza davanti al tremendo tribunale di nostro Signore e Dio per sempre. Dimora in pace, santo altare, mensa di vita e supplica per me il nostro Signore Gesù Cristo, perché non cessi di pensare a te, ora e nei secoli eterni. Amen’.

OMELIA per il giorno di PASQUA 2014 (sintesi)
20-04-2014

Il senso della Pasqua lo si coglie nella liturgia, cioè nel rivivere la grazia della risurrezione mediante alcuni riti e preghiere che rendono attuale il mistero.

Si tratta di un evento: Gesù, morto e sepolto, è risorto. È un fatto di cui si può prendere atto, credendo che è avvenuto, o lo si può rifiutare come inesistente.

Se Cristo è risorto, c’è un riflesso nella vita, che porta a coltivare una speranza, che è conseguenza della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte.

Se questa è la Pasqua, più difficile è far capire questa realtà a chi non conosce le verità della fede cristiana. Allora ci si rende conto che si confonde la verità della Pasqua con una formula magica, alla quale si attribuisce una efficacia contro i mali di questo mondo; la Pasqua dovrebbe far scomparire tutto ciò che non funziona e non corrisponde ad attese pur legittime, ma limitate agli aspetti materiali della vita.

Per la verità il dono della Pasqua raggiunge tutto l’uomo, quindi anche gli aspetti temporali della sua esistenza, ma come conseguenza delle realtà spirituali e soprannaturali che lo coinvolgono. In altre parole, proprio attraverso l’unità della realtà dell’uomo, la salvezza di Cristo, che agisce direttamente sullo spirito umano, raggiunge anche gli aspetti concreti della sua vita.

Per dirla con una battuta, che è paradossale, ma non più di tanto: un piatto di cappelletti è più buono se è mangiato sapendo che siamo amati da Dio, e se siamo in pace con tutti i fratelli. Ovviamente il mistero pasquale è alla radice di queste ultime verità, mentre la soddisfazione tutta naturale di un cibo gustoso si inserisce bene nella vita umana. Il nostro guaio è che spesso ci si ferma solo a questi aspetti esterni, lamentandosi poi quando non riescono come desidereremmo.

La Pasqua ci ricorda invece che c’è una dimensione che entra nella nostra vita e che illumina e dà senso a tutto: viene prima, è più profonda e, pur appartenendo ad un aspetto invisibile, risponde ad un bisogno inespresso ma vero.

Se siamo attenti a tanti aspetti della nostra vita, è facile che venga il sospetto che la vita umana non possa consistere solo nel lavorare, faticare, mangiare, dormire, divertirsi un po’ e poi morire e tutto finisce lì; è troppo forte la spinta a vivere sempre.

Il guaio è che noi abbiamo capito che si debba vivere sempre nella vita temporale, mentre il solo modo per rispondere a questa attesa è la vita soprannaturale. Come sia questa vita è difficile da dire, perché non appartiene alla nostra esperienza; sappiamo però che Gesù risorto è in quella vita, e che noi vivremo come Lui; come vivremo non è stato rivelato, ma sappiamo che c’è. Per ora possiamo accontentarci, ed essere felici.

Senza dire che si vive meglio anche quaggiù. Se uno sa che con la morte finisce tutto, cerca di stare meglio che può qui, a scapito anche degli altri; e se non riesce a raggiungere le sue attese, sta male. Invece uno che sa che la vita vera viene dopo, e che questa è la preparazione a quella, cerca di fare del suo meglio, cerca di vivere nel rispetto degli altri con i quali dovrà vivere per l’eternità; e anche se qui ha delle prove, sa che finiranno, e si entrerà nella vita risorta.

Ecco perché la Pasqua è un motivo di speranza vera per tutti, purché mediante la fede accolgano quello che Gesù ha fatto e insegnato, e si lascino aiutare dai fratelli di fede e dalla grazia dei sacramenti.