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OMELIA per la VEGLIA PASQUALE
Faenza - Basilica Cattedrale, 4 aprile 2015
04-04-2015

Carissimi fratelli e sorelle!
La veglia pasquale, che per la prima volta celebriamo insieme, ci ricorda il grande mistero della risurrezione di Cristo, soprattutto attraverso tre grandi simboli: la luce, l’acqua e il canto nuovo dell’alleluia.
È mediante il mistero della morte e risurrezione di Cristo che si realizza per il mondo una nuova creazione. Tutto viene assunto e trasfigurato da Cristo. Le tenebre, in cui aveva accettato di immergersi, sono finalmente sconfitte; il bene diventa vittorioso sul male; la terra (l’umanità) si ricongiunge al cielo (Dio); l’umanità è riappacificata con Dio mediante il suo amore. Grazie a Cristo risorto,  non cammina più verso il nulla ‘ la nostra vita non è un essere per il nulla ‘, bensì verso un futuro di pienezza, un approdo di immortalità. Chi si associa a Cristo, perdonando i nemici, lottando contro il male con le armi del bene, contribuisce a far nascere una nuova storia tra le vecchie macerie, trasforma in convivenze pacifiche e giuste le società in preda a conflitti, rende le «periferie» non più luoghi di isolamento, ma luoghi dove le persone crescono nella convivialità, in dignità e in amore.
Con la risurrezione, il giorno di Dio entra nelle notti del nostro dolore, porta la vita nuova che supera gli egoismi, l’indifferenza, le emarginazioni, le diseguaglianze, le cause strutturali della povertà. Cristo che risorge è per la Chiesa, vale a dire per tutti noi, popolo di Dio, la grande Luce. In Lui l’umanità diviene pienamente trasparente alla vita vera. Cristo è la Luce, perché si fa dono sino a consegnare tutto se stesso nella lotta contro il peccato, per riconciliare l’uomo con il Padre e renderci tutti fratelli. Come credenti, siamo chiamati a vivere la luce che è Cristo e a diffonderlo per irradiazione. Nella Veglia pasquale, Cristo è rappresentato nel cero, che – come afferma san Pier Damiani -, arde e si consuma davanti a tutti per la gioia dell’assemblea: croce e risurrezione sono inseparabili. Il cero illumina e dà la possibilità di vedere le cose, la loro figura e la loro identità perché arde e alimenta la fiamma con la cera bruciata. Cristo, iniziando in sé una nuova umanità in piena comunione con Dio fornisce a noi punti di riferimento per conoscere la verità del nostro essere e dover essere, per individuare nuove scale di beni-valori.
Dalla croce, dall’autodonazione del Figlio nasce dunque la luce. Al cero pasquale noi tutti abbiamo acceso le nostre candele, a significare che anche noi possiamo essere luce per il mondo se viviamo di Cristo, con Lui e per Lui. È grazie al sacramento dell’illuminazione, così è stato anche chiamato il Battesimo, che noi partecipiamo della sua vita, siamo introdotti entro la sua luce. Mediante il Battesimo riconosciamo di essere cristoconformi, fatti a immagine del Figlio di Dio, destinati a vivere Cristo, a rivestirci di Lui. Soltanto dimorando in Gesù Cristo, vivendo i suoi stessi sentimenti, siamo messi in grado di discernere il grano dal loglio e diventiamo più capaci di vero, di bene e di Dio. E così rigenerati, siamo veramente un popolo nuovo. In mezzo alle odierne catastrofi e destrutturazioni antropologiche, a fronte delle idolatrie che enfatizzano il successo, la tecnica, il consumo, il denaro e il potere, risplenderemo come una generazione che pone Dio in cima a tutto e, con ciò stesso, ama l’altro, chiunque esso sia, e si impegna a custodire il creato, riconoscendolo come casa comune per tutte le generazioni.
Il secondo simbolo della veglia pasquale è l’acqua. Essa ci ricorda che è proprio scendendo con Cristo nel mare del male e riemergendo con Lui, che noi nasciamo ad una vita nuova. Con-morti, con-sepolti e con-risorti in Cristo, siamo coinvolti nella nuova creazione da Lui posta in essere e resi partecipi di quel torrente d’acqua viva che deriva dalla sua umanità, di cui ci fa dono totale, lottando strenuamente contro il male. Battezzati in Gesù Cristo, diventiamo noi stessi sorgenti di acqua limpida, che fa fruttificare i numerosi deserti dell’esistenza umana: la schiavizzazione delle persone nel lavoro “nero” e nelle fabbriche clandestine, oltre che nella prostituzione; l’abbandono degli anziani; la disoccupazione; le situazioni di esclusione di cui soffrono soprattutto le donne; i bambini nascituri che vengono spietatamente eliminati.
Nel Battesimo, il Signore fa di noi non solo persone di luce, ma anche fonti di acqua viva. Noi tutti conosciamo persone, il cui contatto ci lascia in qualche modo rinfrescati e rinnovati; persone che sono come una fonte di fresca acqua sorgiva. Non dobbiamo necessariamente pensare soltanto ai grandi santi, come Sant’Agostino, San Francesco d’Assisi, Santa Umiltà, San Pier Damiani, Santa Teresa d’Avila, San Giovanni Bosco, Madre Teresa di Calcutta, per citare solo alcuni nomi di uomini e donne, che hanno letteralmente inondato la storia con fiumi di acqua rigenerante. Grazie a Dio, troviamo continuamente anche nel nostro quotidiano persone che sono sorgente di vita. Basti pensare ai nostri nonni, ai genitori che ci hanno educato alla fede, ai nostri volontari che operano nel Centro di ascolto, alle maestre ed insegnanti, ai religiosi e alle religiose. Certo, conosciamo anche il contrario: persone dalle quali promana un’atmosfera di acqua stagnante o addirittura avvelenata. Ma questo ci deve sospingere a chiedere al Signore, che ci ha donato la grazia del Battesimo, di poter essere sempre sorgenti fresche, zampillanti dalla fonte della sua verità e del suo amore (cf Benedetto XVI, Omelia sabato 11 aprile 2009).
Il terzo grande simbolo della Veglia Pasquale è il canto. Chi sperimenta una grande gioia non riesce a trattenerla tutta per sé. Deve trasmetterla, comunicarla, gridarla sui tetti. Lo stesso avviene ai credenti, coinvolti nella luce della risurrezione e raggiunti dalla Vita stessa di Cristo, dalla sua Verità e dal suo Amore. E allora, parlare non basta. Occorre cantare la gioia di essere stati liberati dalla schiavitù del peccato, la gioia della rinascita, della libertà riconquistata, del senso ritrovato, del ripristino della direzione del cammino. Ecco perché nelle nostre celebrazioni amiamo cantare.  Non perché siamo dei vanesi. Il canto, specie se partecipato da tutti, dà la percezione di essere popolo, un noi di persone che è mosso dall’Amore e si pone in marcia, si mobilita per il bene, la libertà, la dignità trascendente. È soprattutto attraverso il canto dell’alleluia, che si esprime il ringraziamento di essere salvati e redenti!
La Chiesa, cantando, si sente popolo non più abbandonato, ma riamato, pronto per le traversate dei secoli, capace di affrontare tutti gli esodi a cui chiama l’Amore di Cristo, nostro Pastore e nostro Maestro. Cantando l’alleluia, noi ci aggrappiamo alla mano di Colui che ci salva dalle acque limacciose del male impedendoci di ricadervi. Noi sappiamo che siamo sottratti alla forza di gravità della morte e del male – una forza che altrimenti non permetterebbe via di scampo – e nello stesso tempo siamo attirati dalla forza di gravità di Dio, che è la forza della Verità e dell’Amore. Da quando Cristo è risorto, l’attrazione dell’amore è più forte di quella dell’odio; la vita è più forte della morte. Anche se a volte abbiamo l’impressione di affondare, dobbiamo credere fermamente di essere già salvati. E la fede in questa salvezza, donataci gratuitamente,  ci colma di gioia e di speranza, perché, come dice san Paolo, siamo «come moribondi, e invece viviamo» (2 Cor 6,9).
La mano salvifica del Signore ci sorregge. Per questo possiamo intonare insieme il canto nuovo dei risorti: Alleluia! Amen!

OMELIA nella CELEBRAZIONE DEL VENERDI’ SANTO
Faenza - Basilica Cattedrale, 3 aprile 2015
03-04-2015

  1. È stato annoverato con gli empi

Gesù muore «extra muros», «fuori della porta della città» come leggiamo nella Lettera agli Ebrei (13,12s.). Perché rifiutato dalla comunità di Israele, viene escluso dal luogo santo della presenza di Jahvé. La croce di Gesù è innalzata dove vengono suppliziati i peccatori, i maledetti da Dio. Cristo viene crocifisso in quel luogo, perché accusato di empietà, di opporsi al volere di Dio. Non poteva finire altrimenti: aveva scandalizzato i benpensanti, mangiato con i peccatori, infranto le regole di purità e affermato addirittura di essere il Messia.
Il destino del Signore appare tragico ed assurdo a un tempo. Il popolo eletto, a cui era stato inviato per redimerlo e liberarlo, lo rifiuta, lo mette a morte con il supplizio infamante riservato a coloro che sono respinti da Dio. Gesù Cristo è crocifisso fuori dalla città, affinché sia chiaro che la casta sacerdotale e la popolazione non hanno nulla da spartire con Lui, perché non credono in un Messia venuto a cambiare il mondo con una missione di passione e di amore.
Oggi, a differenza di coloro che l’hanno respinto, noi siamo qui in ginocchio ai piedi della croce, per confessare la nostra fede nella potenza trasfiguratrice e rivoluzionaria del suo immenso amore.  Per noi, la croce di Cristo è l’albero della vita piena, della vittoria sul male e sulla morte. È la via che conduce alla felicità. Là ove c’è il dono di sé, c’è anche la gioia, come riscontro naturale di un’esistenza dinamica e ricca.
Fissando il volto sfigurato del Cristo crocifisso, non vediamo una sconfitta, bensì la vittoria finale sul male, ottenuta mediante il sacrificio estremo. Cristo sulla croce è lo spettacolo più consolante per tutti gli uomini, perché rappresenta il dono allo stato puro. Dall’alto di quel terribile patibolo, paradossalmente diviene polo perenne di attrazione, come egli stesso aveva predetto: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Rifiutare la croce di Cristo significa rifiutare la sua redenzione, la sua azione trasfiguratrice dell’umanità, mediante una vita che si dona in pienezza, senza residui. Dopo l’incarnazione, l’ascensione al calvario è anche l’ascensione dell’umanità verso una vita di dono che non esclude la croce. Chi si dona in pienezza, camminando dietro a Gesù, non può non incontrare sulla sua strada la croce, come avvenne per tanti missionari eroici, partiti anche dalle nostre comunità e che sono stati uccisi. Basti pensare a padre Daniele Badiali, che abbiamo ricordato recentemente a Modigliana, in una chiesa gremita di giovani. Il credente non abbraccia la croce per la croce. Abbraccia, ama sopra di tutto Cristo. Condividendo la sua vita è naturale condividere la sua croce, segno di un amore senza misure. Noi saremo redenti solo se rimarremo uniti a Cristo crocifisso, che ci rende capaci di amare come Lui ci ama, facendo della nostra esistenza un dono totale agli altri, in docile obbedienza alla volontà di Dio, con un atteggiamento di libertà interiore e di distacco dalle cose mondane.
Per noi cristiani, la Croce è la tappa finale dell’itinerario di ritorno a Dio dell’umanità. È il luogo della nostra trasfigurazione e divinizzazione. In essa troviamo finalmente l’approdo del nostro anelito più intimo, di non essere mai separati dall’amore di Dio. In noi, carissimi fratelli e sorelle, è insito un insopprimibile bisogno di un amore assoluto, senza fine, che non può essere annientato dalla morte. Con la sua vittoria finale,  Cristo crocifisso ce ne fa partecipi e così diventa la nostra speranza, perché anche noi possiamo vivere il suo amore indistruttibile, unendoci alla sua offerta sacerdotale, alla sua lotta contro il male con le armi del bene e del perdono.
 

  1. La croce  non è la fine dell’esistenza, bensì l’apertura di un varco verso la pienezza, che è la vita eterna.

Con l’incarnazione, il Signore Gesù accetta di discendere anche nelle tenebre della morte, che alla fine ne usciranno sconfitte. Egli scende sino a visitare quelli che risiedono negli inferi, per scuoterne il regno e liberare quelli che, come Adamo ed Eva, vi sono prigionieri. Dio non ha creato l’umanità perché rimanesse intrappolata nell’inferno. Ci vuole risorti dai morti. Cristo, incarnato nella morte e disceso negli inferi, risorto dal Padre, diventa per tutti il Pastore dagli occhi grandi che conduce le sue pecore oltre le tenebre della morte e degli inferi. Cristo ci conduce e conosce tutte le nostre vie anche quella che passa per la valle della morte. Egli è Colui che, anche sulla strada dell’ultima solitudine nella quale nessuno può accompagnarmi, ci viene incontro, cammina accanto e ci guida, avendola già percorsa lui stesso. Dopo la sua vittoria, ritorna per accompagnarci e darci la certezza che, insieme a Lui, troveremo il passaggio verso la vita vera, nella quale saremo stabilizzati (cf Benedetto XVI, Spe salvi, n. 36). Proprio per questo dobbiamo pensare alla nostra  morte non come un cadere nel nulla. Noi siamo esseri per la risurrezione, per la vita incorruttibile.
 

  1. La passione di Cristo è la nostra passione.

Dopo il suo abbassamento nel miracolo dell’incarnazione, in cui è divenuto uno di noi e in tutto simile a noi tranne che nel peccato, la sua passione è anche la nostra e, viceversa, la nostra passione è anche la sua. La sua passione non è racchiusa nel passato, ma abbraccia tutti i tempi, tutte le persone, tutte le generazioni. Cristo soffre nell’umanità: in noi, con noi e per noi. Soffre con ogni persona di oggi e di domani. Ci cammina accanto. Ci aiuta a portare il peso della nostra croce. Le nostre malattie, le nostre lacrime, le nostre pene e i nostri affanni, quando sono vissuti uniti a Lui, acquistano un senso diverso. Diventano occasione di crescita spirituale, di purificazione, di una donazione più grande di noi stessi, di una speranza più forte. Peraltro, sappiamo che tutto ciò che, nel bene o nel male, è fatto ad ogni persona, è fatto a Cristo stesso. La Parola di Dio ci conferma che nel fratello si trova per ognuno di noi il permanente prolungamento dell’Incarnazione: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Ecco perché dobbiamo guardare alla passione di Gesù come ad una realtà che non è estranea alla nostra esistenza, alla nostra storia. Cristo patisce, soffre, lotta nei nostri fratelli, nella nostra città, nei nostri quartieri. Spesso non ci accorgiamo delle condizioni di coloro che pur ci vivono accanto:  i poveri, gli emarginati, le persone sole e abbandonate, i forestieri, i cosiddetti “invisibili”. La passione di Cristo, che oggi celebriamo qui in chiesa, non è una realtà separata dalla vita che si trova appena fuori dalla porta della nostra cattedrale. La memoria della sua passione deve sollecitarci  a vederlo e ad incontrarlo nel nostro prossimo, in coloro che ci passano accanto, nei diseredati, nei rifugiati, negli immigrati. Essi sono nell’oggi l’incarnazione di Cristo, che ci visita e ci chiede ospitalità.
Celebrare la passione di Cristo, dunque, è viverne con realismo tutto il suo spessore storico, la sua immanenza. È guardare la realtà quotidiana con occhi più penetranti. È scorgere un’umanità che, con Cristo e in Cristo, muove i suoi passi sulla Via crucis, fatta di sofferenze, di sconfitte, di violenze, ma anche sulla Via lucis, nella quale si lotta contro il male con le armi del bene, si ama pienamente, si diviene popolo nuovo, famiglia di Dio. E in tal modo siamo veramente umanità trasfigurata, che è luce per chi ci incontra e per chi ci sta accanto.
 

  1. Grazie alla croce è possibile guarire il mondo

La sofferenza appartiene alla nostra vita. Deriva, da una parte, dalla nostra finitezza e, dall’altra, dalla massa di colpa che, lungo la storia, si è accumulata e ora ci condiziona.
Prodighiamoci, dunque, per diminuire la sofferenza degli innocenti, dei calunniati, di coloro che subiscono oltraggi ed ingiustizie. Purtroppo, dobbiamo riconoscere che ci è impossibile eliminare del tutto la sofferenza che ci circonda, semplicemente perché non possiamo liberarci della nostra finitezza e nessuno di noi è in grado di annullare totalmente il potere del male. Solo Dio, grazie alla sua entrata nella storia e alla sua totale accettazione di quel terribile sacrificio, può togliere il peccato dal mondo (Gv 1,29). Ma è la nostra fede nell’esistenza di questo potere, che fa emergere la speranza della guarigione dell’umanità. Si tratta, appunto, di speranza e non ancora di compimento. Possiamo limitare la sofferenza, pur nella consapevolezza che non sarà mai possibile eliminarla del tutto.
Per questo, vivendo in un mondo ferito dalle guerre e dalle persecuzioni, camminiamo con speranza dietro a Gesù, ma non senza lacrime.
Signore, aiutaci a non vergognarci di esse. Ci ricordano quelle di tua Madre che ti accolse martoriato tra le sue braccia; quelle delle madri che, in tanti Paesi dell’Oriente e dell’Africa, piangono i loro figli e le loro figlie uccisi solo perché cristiani. Madre di Dio, Madre dei dolori, guarda a noi che camminiamo in questa valle di lacrime. Non stancarti di donarci Gesù! Egli rende i nostri passi meno incerti e paurosi. Noi siamo uniti definitivamente con il Vivente che nessuno potrà più uccidere!
 

OMELIA per la MESSA ‘IN COENA DOMINI’
Faenza - Basilica Cattedrale, 2 aprile 2015
02-04-2015

Cari Fratelli nel sacerdozio,
Cari Fratelli e Sorelle,
 

  1. «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).

Ecco quanto testimonia l’evangelista Giovanni. Gesù ama i suoi discepoli sino all’estremo sacrificio. E, in questo suo percorso di dedizione totale, non esita a farsi servo per lavare i loro piedi. Depone le vesti della gloria divina per compiere il servizio dello schiavo, in modo da renderli degni di assidersi alla sua tavola. L’evangelista prediletto ci dice che Gesù, che è Dio, si abbassa per compiere un atto di umiltà. Ma è proprio mentre lava i piedi dei discepoli che mostra chi Egli veramente è: ossia un Dio che ama e che si svuota completamente nel dono di sé. Per un certo verso, si potrebbe dire che, in quel gesto, il Signore non dismette le sue vesti gloriose. Essendo Amore, la verità della sua incarnazione risplende nel servizio dello schiavo, che Egli non disdegna di prestare.
È questa kénosis d’amore che rende visibile il vero significato di incarnazione e redenzione!
Mentre lava i piedi certamente polverosi dei suoi discepoli, Gesù lava i piedi di ognuno di noi, al fine di purificarci e renderci degni di Lui. Solo così potremo essere ammessi a quella mensa su cui Egli si offre nella sua donazione totale al Padre e all’uomo, fino ad accettare la morte e una morte di croce. Con il suo gesto, Gesù intende invitare i discepoli a partecipare al suo stesso sacrificio; elevarli all’altezza del suo amore divino senza misura, per sconfiggere il peccato, vincendo il male con il bene, perdonando i nemici.
 Il Signore Gesù è continuamente in ginocchio ai nostri piedi per renderci il servizio della purificazione – specie nei sacramenti del battesimo e della riconciliazione – e farci partecipare pienamente al Sacramento eucaristico da Lui istituito nell’Ultima Cena, Sacramento del dono totale del suo Corpo e del suo Sangue sino al suo ritorno. Togliendo il nostro peccato, ci consente di compiere il nostro sacrificio nel Suo, di tornare a Dio in Lui, Sommo Sacerdote: Colui che, donandola, rende gradita e «sacra» la propria vita agli occhi di Dio Padre, sostituendo finalmente l’agnello pasquale e tutti i sacrifici dell’Antica Alleanza.
Lavando i nostri piedi, Cristo ci chiede di imitare questo suo gesto d’amore, per renderci capaci di Dio, della sua vita di dono e di misericordia.
 

  1. «Voi siete mondi, ma non tutti».

A fronte del dono totale di Cristo al Padre e all’umanità intera, esiste purtroppo la drammatica realtà del rifiuto da parte dell’uomo. Giuda testimonia questo oscuro mistero. L’amore di Dio, offerto da Cristo, non ha confini, ma l’uomo può contrastarlo, negandosi alla sua accoglienza. Le persone, infatti, sono libere di chiudersi all’amore donato. Rinunciando ad amare, non solo divengono incapaci di cibarsi dell’amore divino, ma non possono neppure raggiungere quella pienezza umana e cristiana, che solo la partecipazione al sacrificio e al sacerdozio di Cristo può proporzionare.
La tragedia di Giuda si consuma appunto nel rifiuto, nel non voler amare come Cristo ama. Per l’apostolo traditore, l’amore di Cristo al Padre e all’umanità è incomprensibile. Aspettava un Messia terreno, essendo interessato al potere e al successo mondano. Per la sua avidità – «era un ladro», ci dice Giovanni – il denaro è è più importante della comunione con Gesù, più prezioso di Dio e del suo amore. Giuda ritiene di poter cambiare il mondo da solo, senza l’aiuto di Dio, senza vivere l’amore di Cristo, l’Uomo nuovo. E così, tradisce l’Amico che aveva riposto in lui la sua fiducia, rompe con la verità e di conseguenza perde il senso del Bene supremo che è Dio. Alla fine,  accecato dalla disperazione, perché incapace di credere in questo amore fatto essenzialmente di perdono, piomba nel baratro del suicidio.
Cari fratelli e sorelle, non lasciamoci rubare l’amore di Cristo, la sua comunione con Dio, sommo Vero e sommo Bene. Non chiudiamo la porta del nostro cuore ai sentimenti di Cristo, perché dal  suo amore dipende la pienezza della nostra vita. Solo se dimoriamo in Lui, solo se Lo viviamo, riusciremo a ridare una gerarchia alla nostra scala di beni-valori. Vi riusciremo, togliendo il primo posto al dio denaro, al successo, alla tecnica, ai consumi e ricollocando al vertice Dio Padre, alfa ed omega di tutta la vita.
In questo periodo, la Chiesa italiana sollecita ogni uomo e donna di buona volontà a divenire protagonisti di un nuovo umanesimo in Gesù Cristo. Un umanesimo plenario, comunitario, solidale, aperto alla Trascendenza, potrà germogliare nelle nostre esistenze, nei nostri ambienti, nelle nostre case e comunità, nei nostri centri di accoglienza e di ascolto, negli ambiti della cooperazione e della politica, nelle istituzioni e nelle leggi, se sapremo accogliere l’amore incondizionato di Cristo. Non possiamo umanizzarci ed umanizzare la società senza ricorrere alla forza innovatrice e trasfiguratrice dello Spirito d’amore del Padre e del Figlio. Ci è richiesto di non valutare la nostra ed altrui esistenza, i beni collettivi e il bene comune alla stregua di una merce, avendo come riferimento soltanto la categoria del profitto. Evitiamo di cadere nella superbia di chi pensa di non aver bisogno di purificare le proprie intenzioni e di convertirsi, di chi confida unicamente nelle proprie forze, di chi coltiva un amore illimitato di sé, sino a credersi quasi un dio. La chiusura all’amore paterno e misericordioso del Padre comporta inevitabilmente la chiusura ai fratelli, specie ai più deboli. Se li intercettiamo, essi al massimo divengono per noi solo strumenti per affermarci, ma mai fratelli da incontrare, da amare incondizionatamente e da accogliere come un «tu» con pari dignità. Se non crediamo all’amore misericordioso di Dio, le nostre vite rischiano di diventare un inferno insopportabile, come quella di Giuda, il cui cuore indurito gli ha impedito di ritornare a Gesù, per essere perdonato e restituito alla gioia del dono di sé.
 
 

  1. «Vi ho dato l’esempio…». «Anche voi dovete lavarvi i piedi…»

Fermiamoci ancora per qualche istante su due versetti della pericope evangelica di Giovanni: «Vi ho dato l’esempio…» (Gv 13,15); «Anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri» (Gv 13,14).
Che cosa significa in concreto il «lavarci i piedi gli uni gli altri»? Sicuramente può indicare ogni atto disinteressato. Farsi «prossimo» di chi ha bisogno. Essere samaritani e non passare oltre. Essere, in definitiva, una «Chiesa che serve», estroversa, non autoreferenziale e ripiegata su se stessa, bensì una «Chiesa del grembiule», come soleva ripetere don Tonino Bello, rimpianto vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi , che molti conoscono.
Eppure, come insegnava don Tonino, c’è una dimensione ancora più profonda in questo essere imitatori di Cristo che lava i piedi.
Significa soprattutto perdonarci gli uni gli altri senza stancarci mai, per ricominciare insieme sempre di nuovo. Significa purificarsi, sopportandoci a vicenda, e accettando di essere sopportati dagli altri. Significa vivere nella comunione, servendola. Più che essere efficienti dal punto di vista organizzativo, permettetemi di ribadire che è pregiudiziale per noi che vogliamo dirci cristiani, esistere nella comunione. Le nostre comunità, prima di essere istituzioni, debbono essere comunità di comunione intensa con Cristo, vivendo in Lui e per Lui. Solo così potremo essere certi di dar vita a istituzioni vive, positive, dotate di spirito di servizio, e non semplicemente luoghi ove ognuno cerca di ritagliarsi uno spazio, per contare ed influire di più. Dobbiamo   essere imitatori di Cristo non solo divenendo capaci di dare da mangiare agli affamati, di visitare i carcerati, di vestire chi è senza indumenti, praticando cioè una carità assistenziale, ma donando Dio stesso, il Bene più grande, mediante una nuova evangelizzazione, «nuova», perché sottoposta ad una costante conversione spirituale e pastorale. Occorre che sappiamo «regalare» Gesù Cristo, di modo che tutti lo possano incontrare, perché solo Lui – e non tanto noi – può salvare e redimere! Dobbiamo servire ogni persona di ogni età, credo, etnia facendo percepire la fragranza dell’amore che Cristo stesso ha riversato in noi con il suo Spirito. Come Cristo, diventeremo allora pane che si spezza per la gioia e la speranza degli uomini e delle donne del nostro tempo. Proponiamoci allora di servire le persone non come dei burocrati, bensì come testimoni credibili dell’amore sconfinato di Colui che è, sì, vero Dio, ma al tempo stesso vero uomo, e come tale strettamente partecipe delle nostre gioie e sofferenze. E proveremo allora la gioia di introdurre i fratelli nel Sacramento dell’eterno banchetto nuziale, affinché possano celebrare una vita che diviene gloria di Dio. Siamo sacerdoti nel Sommo Sacerdote! Preghiamo per esserlo. E preghiamo, perché vi siano santi ministri di Cristo. Come insegnava Padre Andrea Gasparino, fondatore del Movimento contemplativo, preghiamo Dio perché i nostri sacerdoti siano preti «a tempo pieno», non «occasionali» ma autentici, che ci trasmettono Cristo senza mezzi termini, senza paure. Sacerdoti stracolmi di Dio, come il santo curato d’Ars, impastati di preghiera, dalle ginocchia robuste, per adorare, impetrare, espiare. Quando i preti pregano, il popolo è sicuro.
Che san Pier Damiani, secondo patrono di questa nostra bella città, ci aiuti con il suo insegnamento e con il suo esempio!

OMELIA per la MESSA CRISMALE 2015
Faenza - Basilica Cattedrale, 2 maggio 2015
02-04-2015

Cari fratelli e sorelle,
con gioia celebro la prima Messa crismale come vescovo di questa diocesi. Saluto tutti con affetto, in particolare voi, cari sacerdoti che oggi, come me, ricordate il giorno dell’Ordinazione. Ma saluto anche i diaconi, i religiosi e le religiose, i seminaristi, le organizzazioni ecclesiali e i laici che lavorano nella Caritas e nel volontariato, nella comunicazione, nella scuola, nel sociale. Un saluto del tutto speciale rivolgo al diletto confratello nell’episcopato, S. Ecc. Mons. Claudio Stagni che, come vescovo emerito, continua ad essere indissolubilmente legato alla nostra Chiesa e a far parte del nostro presbiterio. Non posso dimenticare i sacerdoti anziani e gli ammalati che, pur desiderandolo, non possono essere presenti con noi in questo momento di gioia comunitaria.
Oggi facciamo memoria del nostro essere tutti sacerdoti in Cristo. Ricordiamo in particolare i giubilei sacerdotali di settantesimo di Mons. Piazza Giuseppe, di sessantesimo di don Anselmo Fabbri, di don Malavolti Bruno, di Mons. Vasco Graziani, del can. Dalle Fabbriche Tommaso, di don Paolo Suardi, del can. don Attilio Venieri, di venticinquesimo di don Claudio Bolognesi, don Davide Ferrini, don Stefano Rava, S. Ecc. Mons. Paolo Pezzi. Una profonda unità ed un’incancellabile fraternità ci legano a Lui Sommo ed Eterno Sacerdote, che ci fa un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre (cf Ap. 1,5-8). Gesù Cristo, come ci dice il Vangelo odierno di Luca, vive la coscienza di essere inviato dal Padre per costruire un nuovo popolo, una nuova storia, attraverso il suo sacrificio, comunicando il suo sacerdozio, ossia la sua vita resa gradita, sacra, a Dio Padre, mediante il dono totale di sé, sino alla morte di croce.
Il popolo di Dio partecipa all’unico sacerdozio di Cristo secondo modalità differenti: il sacerdozio ministeriale o gerarchico e il sacerdozio regale o comune. Essi sono ordinati l’uno all’altro. Come spiega la costituzione dogmatica Lumen gentium (=LG) «Il sacerdozio ministeriale, con la potestà sacra con cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico in persona Christi e l’offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all’oblazione dell’Eucaristia e lo esercitano con il ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e l’operosa carità»  (LG n. 10).
Tutti i membri del popolo di Dio, che Cristo ha dotato di doni gerarchici e carismatici, sono costituiti in una comunione di vita, di carità e di verità, e sono insigniti della dignità sacerdotale (cf Ap 1,6; 5, 13-16). Tutti, presbiteri, diaconi, christifideles laici, religiosi e religiose, sono stati da Lui consacrati mediante il Battesimo perché offrano sacrifici spirituali mediante tutte le loro attività. Sono inviati come luce del mondo e sale della terra (cf Mt 5,13-16), per annunciare Gesù Cristo come Messia, salvatore e redentore di tutti, ossia come Colui che porta la misericordia e la liberazione di Dio, specie ai più poveri, agli affamati, agli afflitti, ai prigionieri. Il popolo di Dio viene compattato ed edificato da Cristo come comunione missionaria. È posto tra gli altri popoli della terra o, meglio, è seminato in essi, per il compimento in Dio e la gioia piena. È, dunque, in stato di permanente missione, per consentire ad ogni persona l’incontro con Colui che toglie i peccati del mondo con il suo sangue e dona un cuore nuovo, palpitante d’amore per Dio e l’umanità.
Consentitimi qui di fermare l’attenzione sul «mistero» e sulla «grazia» della comunione di tutto il presbiterio con il proprio vescovo, per rinnovare insieme una totale dedizione a Cristo e alla costruzione del suo Corpo, che è la Chiesa. Tutti noi, vescovo, sacerdoti, diaconi, secondo un ordine e un grado diversi, siamo costituiti come esseri ministeriali, esseri-per, a servizio dell’edificazione dell’unico corpo di Cristo, per un sacerdozio santo e regale. Noi, unico presbiterio, abbiamo un’unica missione: servire i nostri fratelli e sorelle perché vivano in piena comunione con Cristo e tra di loro; perché siano Chiesa, un popolo vivo, compatto, numeroso, ben articolato in comunità  locali, parrocchiali, religiose, domestiche o famiglie, tutte animate dalla passione per Gesù Cristo,  mosse dal desiderio incontenibile di indicarlo e comunicarlo mediante una nuova evangelizzazione –  come ci sollecita a fare l’esortazione apostolica Evangelii gaudium di papa Francesco  su cui la Chiesa italiana sta sollecitando ad una verifica sulla sua ricezione da parte del popolo di Dio – caratterizzata da una permanente conversione spirituale, pastorale e pedagogica. Su questi aspetti come diocesi di Faenza-Modigliana avremo modo di ritornare per mettere in atto anche noi la nostra verifica.
Proprio anche in vista di una comunione missionaria e di una pastorale in conversione, il vescovo e i presbiteri sono chiamati a vivere un rapporto paterno-filiale: «I presbiteri – troviamo scritto nella LG del Concilio Vaticano II – riconoscono nel vescovo il loro padre e gli obbediscono con rispetto. E il Vescovo consideri i sacerdoti suoi cooperatori quali figli ed amici, come Cristo chiamava i suoi discepoli non già servi ma amici (cf Gv 15,15)» (n. 28).
Di fronte a simili parole c’è da rimanere stupiti e, insieme, ricolmi di riconoscenza. Rispetto al nostro essere strutturati secondo un rapporto di paternità e di figliolanza non abbiamo, infatti, nulla da rimproverarci: sia perché ci conosciamo appena, sia perché il nostro rapporto così caratterizzato è un puro dono. Esso non è né dalla carne né dal sangue. Esso nasce dall’Ordinazione presbiterale, in forza della preghiera e dell’imposizione delle mani del vescovo sul capo di ogni ordinando, plasmato come sacerdote della nuova ed eterna alleanza. Il Signore pone il vescovo in uno stato di paternità che lo soverchia e lo rende trepidante, perché il suo piccolo cuore di uomo come gli altri è chiamato ad accogliere tutti i sentimenti di affetto, di bontà, di speranza che deve avere di fronte a tanti figli. Il vescovo deve promettere davanti al Signore e al suo presbiterio: devo essere così  sensibile, così grande di cuore, così spazioso di anima da dire: io avrò tutti questi sacerdoti per figli miei! Cari fratelli di questo presbiterio, aiutatemi, allora, anzitutto con la vostra preghiera. Il fatto che per voi, tutto sommato, è più facile amare un padre solo, e cioè il vostro vescovo, non dev’essere motivo per esimervi dal donargli almeno un po’ del vostro affetto. Ve lo domando non tanto per me stesso – sì, anche per me, certamente – ma soprattutto per quell’unione empatica che dobbiamo coltivare per meglio edificare la Chiesa, il Corpo di Cristo, l’edificio spirituale  di cui Gesù è il Capo.
Non vi nascondo che uno dei propositi che ho preso venendo in questa stupenda porzione del popolo di Dio in Faenza-Modigliana, è stato quello di riservare a tutti voi, che mi siete fratelli e figli nell’unico sacerdozio di Cristo, specie se anziani ed ammalati, una vicinanza di affetto e di amicizia privilegiata. Più in concreto mi riprometto di destinare i primi mesi del mio ministero episcopale ad incontrare voi e le vostre comunità, raggiungendo ogni singola persona ed unità pastorale della Diocesi, nei tempi e nelle modalità più opportuni e comunque concordati. Dovremo sentirci molto compatti perché siamo ministri di una stessa grande opera, ministri che non possono agire isolatamente. Nessuno di noi salva da solo i propri fratelli. È Cristo che li salva, mediante un’azione evangelizzatrice comunitaria. Avremo bisogno, allora, di una spiritualità e di una disciplina comunitarie. Perché costituiti in un’unica famiglia di paternità e di fraternità universali, dovremo vigilare per togliere tutto ciò che può indebolire la nostra comunione con Cristo e tra di noi. Proprio perché lavoriamo all’edificazione dell’unico Corpo di Cristo dobbiamo essere solidali tra noi, gareggiando nello stimarci a vicenda, pronti all’aiuto reciproco, con un linguaggio schietto e rispettoso insieme, con un’amicizia franca e profonda. Sopra ogni cosa è importante che ci adoperiamo a «volerci bene nel Signore», che poi è la via più popolare ed efficace per dire al mondo «la lieta notizia» di Gesù Salvatore.
In questa messa crismale in cui ricordiamo l’istituzione del nostro ministero sacerdotale mi preme aggiungere un’ultima riflessione: non possiamo non fare nostra la sollecitudine per le vocazioni sacerdotali. L’amore a Cristo, al nostro presbiterio, non può non interpellare ciascuno di noi sul problema del nostro futuro, attivando anzitutto una vera e propria pedagogia vocazionale, che passa attraverso la nostra stessa testimonianza di vita. Se noi sacerdoti ci mostriamo pieni di gioia di essere stati chiamati, fieri di essere consacrati, fedeli per amore del nostro Tutto che è Cristo, non tarderanno a fiorire le vocazioni. Dobbiamo anche pensare che esse potranno sbocciare là ove non si smette mai di educare e di stimolare i battezzati a discernere e a vivere la loro variegata ministerialità nella Chiesa e per la Chiesa. Bisogna riconoscere che questa diocesi si è messa per tempo su questa strada, come lo testimonia anche l’ultima lettera pastorale. Dobbiamo proseguire con convinzione
Che la Beata Vergine delle Grazie, nostra patrona, ci aiuti a rinnovare il nostro amore all’Eucaristia: nuovo sarà il nostro amore fraterno, più numerose saranno le vocazioni sacerdotali. La rinnovazione delle promesse sacerdotali che ci accingiamo a fare  porti tanta umiltà nel nostro ministero con la consapevolezza che dobbiamo conformarci al Buon Pastore, Gesù Cristo, nostro fratello e Signore.

SIAMO CHIAMATI A PRENDERE POSIZIONE
Faenza - Basilica Cattedrale, 29 marzo 2015
29-03-2015

Cari fratelli e sorelle, abbiamo sentito proclamare la Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo l’evangelista Marco. Che emozione di fronte all’intensità del dono di un Dio. La sua passione d’amore  suscita «estasi», decentramento da sé, coinvolgimento. Il mistero dell’amore che non esita  a consegnarsi inerme nelle mani delle sue stesse creature, dei suoi stessi figli, da cui sarà rifiutato, processato ed ucciso, ci obbliga ad abbandonare le nostre meschinità e piccolezze. Il Dio-uomo, che benefica l’umanità sacrificando la propria vita, donando la sua capacità di amare e di lottare contro il male, non è riconosciuto come Colui che incondizionatamente e disinteressatamente libera e fa vivere in pienezza. Quel Dio che accetta di farsi nostro vicino e consanguineo per salvarci, è  insultato e immolato nel più ignobile dei supplizi. La sua Passione è l’apice di un dramma universale: la sua lotta contro il male che si è impossessato dell’uomo e della storia per un momento sembrò concludersi con una sconfitta. Ma alla misericordia di Dio sono sufficienti pochi «sì» per dare inizio a un nuovo popolo, il sì di Gesù, il Figlio, quello di Giuseppe, l’uomo giusto, quello di Maria, la Madre, quello del Battista il precursore e di Giovanni, il discepolo che stava sotto la croce, assieme a tutti i «sì» di coloro che lo tradiscono, l’abbandonano, ma poi ritornano a Lui con il pentimento.
 Noi, come battezzati e cresimati, come tralci uniti alla vite; noi, come persone libere che hanno scelto di vivere Cristo e quindi di appartenergli, non possiamo non sentirci interpellati e coinvolti dalla sua volontà di salvarci, dandoci un cuore nuovo, ponendo dentro di noi il suo Spirito d’amore, per trasfigurare la nostra esistenza e renderci popolo di Dio.
Di fronte a Cristo che, con l’incarnazione e l’effusione del suo Spirito dall’alto della croce, vive in noi e con noi; che potenzia in noi l’anelito al vero, al bene e a Dio; che accresce una profonda inquietudine per la globalizzazione dell’ingiustizia, dell’illegalità, della corruzione, dell’indifferenza, dell’esclusione, della tragica violenza dei conflitti, non possiamo sentirci distanti e separati da Lui.
Il succedersi incalzante degli eventi della sua passione cruenta, perversamente istigata dal Maligno che pensava di riuscire ad annientarLo, è stato l’occasione, per il popolo e per i discepoli, di schierarsi con il Maestro.
Nell’Ora di Gesù, quell’ora suprema del suo «sì» al Padre in cui l’uomo è riconciliato con Dio e, mediante una lotta drammatica ed eroica contro il male e il peccato dà l’avvio ad una nuova storia di alleanza; in quell’Ora, sempre attuale, anche oggi a casa mia, nel mio quartiere, nella mia città, nella mia Nazione, in Europa e nel mondo intero, dove mi pongo? Decido per Gesù o mi dissocio da Lui? Lo tradisco, fuggendo? Me ne lavo le mani come Pilato? Mi unisco, in certo qual modo, a chi lo schiaffeggia, lo umilia, lo crocifigge? Sono domande che debbono porsi anche i nostri giovani che hanno fatto recentemente la professione di fede e che intendono prepararsi a partecipare alla prossima  Giornata Mondiale della Gioventù che si terrà a Cracovia nel 2016. Sicuramente debbono domandarsi se è proprio in Gesù Cristo che  essi ricercano la loro felicità.
Le domande che ci dobbiamo porre possono essere anche più circostanziate. Siamo tra coloro che, per indolenza e grettezza, vogliono bloccare quei processi di rinnovamento e di trasfigurazione, che Cristo, con la sua presenza e il suo Spirito, semina e attiva nei cuori, nelle comunità, nelle culture, nelle istituzioni, nelle legislazioni, nella politica, nelle nostre stesse associazioni ed organizzazioni cattoliche o di ispirazione cristiana? O, peggio, siamo tra coloro che prendono volontariamente la via del male, rubando la speranza agli altri, alla società, praticando magari gli affari facili, sfruttando coloro che non possono rifiutare una paga da fame? Annunciamo il Vangelo della gioia e della fraternità? Testimoniamo credibilmente la bellezza di essere e di dirci cristiani non solo coltivando utopie, ma soprattutto lavorando per la costruzione di una nuova società, di una nuova economia, di una nuova finanza, di una nuova politica? Siamo impegnati a educare alla vita buona, a combattere l’analfabetismo religioso, a vivere consapevolmente nell’Amore pieno di Verità, che è Cristo? Prendiamo posizione, come uomini e come cristiani,  di fronte a scelte politiche ed economiche che non intaccano le cause strutturali dei mali sociali e rendono i poveri più poveri, relegandoli, assieme a tanti giovani, ai margini della società e del mondo del lavoro? Ci opponiamo a quelle organizzazioni che lucrano schiavizzando le persone, approfittando del loro bisogno e della loro fragilità? Dissentiamo fermamente e non solo verbalmente, mobilitandoci e formando rete, nei confronti di coloro che si fanno portatori di menzogne e di falsi diritti, destrutturando la famiglia, teorizzando l’assassinio del nascituro indifeso, l’eutanasia, la libertà senza limiti? Ci dissociamo coraggiosamente dai fenomeni di corruzione, che non toccano solo i rappresentanti della cosa pubblica, ma che trovano connivenze e complicità nella società civile, tra gli stessi cittadini, ledendo i diritti altrui e il bene comune?
Perché le nostre società devono ancora assistere alla vergogna di chi vende Cristo per trenta denari in quei ragazzi e in quelle ragazze che sono sequestrati per essere reclutati nel lavoro nero, e nei circuiti della prostituzione?  Per non parlare di quelli che, in molte parti del mondo vengono addestrati come soldati al servizio di bande armate, e spesso avviati direttamente alla morte, imbottiti di esplosivo o destinati al commercio di organi? Siamo coscienti di venir meno alle nostre responsabilità singole e comunitarie verso il «corpo di Cristo», quando gli anziani sono pressoché abbandonati nei ricoveri, ove sono spesso considerati numeri; quando i media ci informano che comunità intere di fratelli perseguitati, sono costretti a lasciare le case e ogni loro avere, e «agonizzano» in campi profughi senza adeguati soccorsi? Quanti mali, quante sofferenze, quanta morte ci circondano nella nostra città e nel mondo intero! Ma proprio là ove constatiamo la nostra pochezza e fragilità umana, come ci dice san Paolo sovrabbonda la grazia di Cristo, la sua Passione d’amore per noi, con cui ci riscatta e ci fa rinascere. Dobbiamo prendere posizione per Gesù. Insieme a lui dobbiamo lottare contro il male, optando per la via del bene e della giustizia, per la cultura della vita e non del dio denaro.
Se nel riconoscimento delle nostre colpe abbiamo il dovere di essere severi, non dobbiamo, però, lasciarci trascinare nel gorgo di quella disperazione  che ci chiude in noi stessi e non ci permette di vedere chi ci tende la mano per aiutarci. Guardiamo al Crocifisso. Confidiamo in Lui. La sua fedeltà e la sua misericordia nei nostri confronti sono doni inestimabili, che ci incoraggiano a proseguire decisi sulle sue orme, nonostante le difficoltà quotidiane, le nostre cadute, i nostri errori, e anche i nostri tradimenti. Accingiamoci a partecipare, in questa Settimana Santa, alla passione del Signore Gesù, purificandoci, accostandoci al sacramento della Riconciliazione, per sperimentare la tenerezza di Dio e riattivare il nostro desiderio di verità, di bene, per vivere di Dio, per essere luce e speranza come Lui, e offrire possibilità di riscatto.
 

CELEBRAZIONE della PROFESSIONE DI FEDE dei DICIOTTENNI
Faenza, 28 marzo 2015
28-03-2015

Benvenuti. E grazie a tutti coloro che hanno pensato ed organizzato questo momento che vede la presenza di molti giovani.
Cosa faremo questo sera? Percorreremo un itinerario molto semplice. Prenderemo le mosse dal Messaggio di Papa Francesco per la XXX Giornata mondiale della gioventù 2015 e sui suoi contenuti innesteremo la nostra riflessione sulla professione di fede che faranno i nostri giovani diciottenni.
Siamo fatti per la felicità, per una vita in pienezza, ci ricorda Papa Francesco. Dove troviamo una vita piena? In Cristo, umanità compiuta, perché Egli è ad un tempo Uomo-Dio. La divinità di Cristo fa sì che l’umanità da Lui assunta sviluppi le sue potenzialità al massimo.
Ma come possiamo arrivare a Cristo, che è uomo perfetto? Papa Francesco ci suggerisce che noi possiamo arrivare a Cristo e vederlo così com’è, ossia come umanità in pienezza, se possediamo un cuore puro. Il tema della Giornata mondiale della gioventù – «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» – ci insegna che possiamo giungere a Gesù Cristo, quasi sino a toccarlo, se abbiamo un cuore puro. Non possiamo vedere Dio e Cristo, il Figlio, se non mediante un cuore pulito, limpido, libero da sostanze contaminanti.
Ma come possiamo disporre di un cuore che «vede» Dio e Gesù Cristo? Passando attraverso due tappe. La prima tappa consiste in un lavoro di pulizia, di eliminazione della spazzatura. Si tratta di un’operazione di «demolizione», di «decostruzione», di liberazione: togliere dal nostro cuore tutto ciò che lo inquina, ossia gli impedisce di vedere e di raggiungere Colui per cui è stato fatto: Dio. Noi siamo stati fatti per Dio. Il nostro cuore è inquieto – dice sant’Agostino – finché non riposa in Lui. Noi possiamo essere impediti di vedere Dio, ma anche Gesù Cristo, quando il nostro cuore si riempie di propositi di male, quando non ricerca più il bene proprio e quello altrui, e diviene un cuore idolatra, ossia si prostituisce, si vende a falsi idoli, assolutizzando piccoli beni e mettendoli al posto di Dio: come, ad es., avviene nel culto della propria immagine, nella cura esasperata della propria corporeità, della propria salute, nel privilegiare le cose materiali rispetto a quelle spirituali, nell’adorazione del denaro, nella credenza del potere taumaturgico della tecnica, nell’attaccamento morboso e consumistico alla sessualità, nell’assunzione di atteggiamenti di autosufficienza, per cui Gesù Cristo è considerato «superfluo».
La seconda tappa consiste in un’opera di costruzione, positiva, ossia nel centrarci e nel radicarci nella vita di Cristo. Noi entriamo in possesso di un cuore puro e limpido se trapiantiamo al posto del nostro cuore, impuro e cieco, il cuore stesso di Cristo, mediante la fede in Lui. Noi possiamo avere un cuore nuovo, libero da ciò che annebbia, se vediamo e amiamo come Gesù Cristo, ossia riconoscendo e amando Dio come lo ama Gesù. Cristo riconosce nel Padre il Sommo Vero, il Sommo Bene, la Somma Bellezza, il suo Tutto, Colui per il quale vale la pena di dare se stessi, trovando in tale dono la felicità.
Dicevo che noi possiamo vedere Dio, essere felici in Dio se abitiamo in Gesù Cristo mediante la fede. Permettetemi, allora, che mi fermi qualche istante a riflettere con voi sulla fede, nel giorno in cui un folto gruppo tra voi rinnova la sua professione.
Cos’è la fede? Per professarla e confessarla debbo conoscerla bene.
Essa non è accoglienza di una teoria o di una dottrina, non è possedere una scienza. Non è nemmeno semplicemente conoscere Gesù Cristo e il catechismo, cosa peraltro fondamentale per incominciare a credere. È molto di più. È più del conoscere l’esistenza di Dio e di Gesù Cristo. Anche il Diavolo conosce e sa chi è Gesù Cristo, ma non crede in Lui.
La fede è incontrare Gesù, accoglierlo. È, come dice san Paolo, VIVERE Lui, dimorare in Lui. È partecipare alla sua vita e alla sua opera di salvezza integrale e universale, come persona innamorata ed appassionata, accesa dal suo Amore.
La fede autentica non è un rimanere passivamente, quasi abusivamente, in Gesù, nel suo «corpo», che è La Chiesa, vivendo di rendita, consumisticamente, senza essere protagonisti attivi di quella nuova creazione che Egli è venuto a compiere mediante la sua incarnazione, morte e risurrezione.
Se si è persone che vivono realmente e appassionatamente in Cristo e di Lui – che ricapitola in sé tutte le cose, e crea cieli nuovi e terra nuova, trasfigurando tutta l’umanità, ciascuno di noi, dandoci il suo cuore, il suo Spirito, ossia la sua capacità di amare, di opporsi al male costi quel che costi -, si forma, inevitabilmente un popolo di rivoluzionari, come ci ricorda papa Francesco al termine del suo Messaggio.
Grazie alla fede veniamo dotati di occhi particolari, che vedono al di là delle apparenze e dei fenomeni, e ci offrono una visione diversa della realtà e della vita.
Gli occhi della fede – che non sono i nostri occhi biologici e fisici – ci consentono di Vedere Gesù in chi mi è accanto, nei miei stessi genitori, nei più poveri, in chi è senza casa, lavoro, vestiti, cibo; in chi è carcerato, emigrato, anziano ed ammalato, solo, scartato.
 A partire da questo sguardo di fede, chi rinnova la professione di fede a diciotto anni, si impegna a guardare in profondità, riconoscendo in ogni persona, ricca o povera che sia, la dignità di un figlio o di una figlia di Dio. Si impegna ad amare come Cristo: con un amore più che umano e in Dio. Grazie alla fede, cari giovani, vedrete nei vostri amici e negli altri, dei fratelli. In tal modo, tutto cambia nelle relazioni, specie se ricordiamo quanto Gesù ci ha detto e cioè che alla fine della nostra vita saremo principalmente giudicati non sul fatto se saremo diventati presidenti della repubblica o sindaci o professionisti con tre lauree – cose tutte buone, sicuramente – ma sul fatto se saremo riusciti a riconoscerLo e ad amarLo, per l’appunto, nel povero, nel carcerato, nel profugo, nell’emarginato, nell’emigrato, nei senza dimora, nei nonni soli, nei nostri genitori, nei fratelli e nelle sorelle, negli amici. «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
La nostra fede, l’avrete capito, non ci estrania dalla realtà, dalla vita quotidiana, dalla società, rinchiudendoci in un mondo artificiale, come avviene spesso con internet, con face book, con i media moderni. La nostra fede ci obbliga ad essere realisti e concreti, a «uscire» da noi e andare verso il fratello, a riconoscere il realismo dell’incarnazione di Cristo nell’umanità.  Essa ci insegna che nel fratello si trova il permanente prolungamento dell’Incarnazione per ognuno di noi. Ci sollecita a concepire la realizzazione della nostra vita come un essere per, un essere per la fraternità, per Dio, per la comunione, la convivialità.
La fede vede in Cristo, Uomo-Dio, l’attuazione dell’uomo perfetto, al massimo grado, l’umanità in piena comunione con Dio, totalmente aperta a Dio. Mediante la fede, noi siamo chiamati a raggiungere la misura della pienezza umana di Cristo (cf Ef 4, 11-13).
L’uomo che vuole pensare solo a sé è uomo vecchio, del passato, va lasciato alle spalle per andare oltre, per superare il limite del nostro essere isolati e divisi.
In definitiva, cari giovani, con la vostra fede siete chiamati a coltivare visioni ampie, inusuali, universali: tutti siamo fratelli e sorelle in Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Volete sognare un mondo ove la barbarie, la fame, la povertà, l’odio sono sconfitti e vincono l’amicizia, la fraternità, la libertà fondata sulla verità? Vivete sinceramente e confessate fermamente la vostra fede! Desiderate battere la menzogna sulla vita, sulla famiglia, sull’amore; volete esautorare i ladri dei vostri sogni più belli; volete smascherare i falsi profeti che si presentano con vesti di pecore, ma dentro sono lupi rapaci (cf Mt 7,15-16)? Non perdete la vostra fede!
Piuttosto, alimentatela, rendetela più forte! Guardate alla fede dei santi di cui, mediante la «caccia al tesoro», oggi pomeriggio, avete visitato i monasteri e le istituzioni che hanno innalzato qui a Faenza. La loro non è stata una fede senza opere. Al contrario. Grazie alla loro fede ricca di carità noi stessi possiamo beneficiare del loro insegnamento e del loro carisma. Imparate dai santi a vivere la fede come cittadini del cielo e pellegrini in terra; a coltivarla, come suggerisce papa Francesco, attraverso il Sacramento della Riconciliazione (con se stessi, con gli altri, con Dio e il creato), la preghiera, leggendo frequentemente la Sacra Scrittura. Mi permetto di aggiungere a queste un’altra via: sceglietevi una guida spirituale, perché vi accompagni paternamente e fraternamente, quasi come un vostro fratello ed amico,  nella scalata della montagna che è Cristo. Grazie alla vostra guida potrete crescere nella fede e compiere meglio la scelta della vostra vocazione  a formare una famiglia, alla vita consacrata, al sacerdozio.
Buona professione di fede e Buona Pasqua!

Incontro con i sacerdoti e i diaconi
Faenza - Sala don Bosco del Seminario diocesano, 18 marzo 2015
18-03-2015

 
Eccellenza e cari Sacerdoti,
desidero, anzitutto, ringraziare ancora una volta tutti coloro che, con generosità, hanno pregato per me e quanti si sono prodigati per accogliermi, perché la presa di possesso canonico della Diocesi avvenisse all’insegna della festa e dell’ospitalità fraterna.
Sono veramente lieto di essere qui con voi.
La mia venuta nella Chiesa che è in Faenza-Modigliana – comunità-comunione viva, operosa nella missione e nella testimonianza –, forse vi avrà un po’ sorpresi. Lo stesso dicasi di me, quando mi è stata comunicata la nomina da parte di papa Francesco. In concomitanza con l’attuale processo di riforma della Curia, a Lui avevo fatto conoscere la mia disponibilità a lasciare il lavoro di Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, per servire Cristo in mezzo al suo popolo, fuori da un Dicastero, peraltro avviato a fondersi con altri, per formare una nuova ed importante Congregazione, che con ogni probabilità sarà denominata Iustitia et Pax o Caritas, Iustitia et Pax.
Non avrei mai immaginato di essere nominato vescovo di questa diletta porzione del popolo di Dio che, anche considerando soltanto gli ultimi due secoli, ha annoverato tra i suoi figli insigni figure della vita cattolica. Tra di essi desidero ricordare il conte Carlo Zucchini, presidente dell’Opera dei Congressi; gli storici Giuseppe Rossini e Giandomenico Gordini; i fratelli, cardinali Gaetano e Amleto Giovanni Cicognani, quest’ultimo Segretario di Stato di Giovanni XXIII e di Paolo VI; il cardinale Pio Laghi, Prefetto per l’Educazione Cattolica ed ex-allievo salesiano, ora sepolto nella nostra cattedrale; e soprattutto le numerose e gloriose testimonianze di santità – si pensi a quella della beata Suor Maria Raffaela Cimatti –, di diversi venerabili, tra i quali mons. Vincenzo Cimatti, salesiano e fratello della beata, ed anche di vari servi di Dio.
Naturalmente ho espresso per iscritto il mio pieno assenso alla nomina, consegnatami dalle mani del Cardinale Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i Vescovi. Nella lettera a papa Francesco, col ringraziamento per la fiducia che Egli ha riposto nella mia povera persona, ho chiesto una speciale benedizione per questa Diocesi,  confidando nell’aiuto di Dio, Padre misericordioso, di Gesù Cristo, pietra angolare della Chiesa, di Maria Ausiliatrice e di san Giovanni Bosco, mio Fondatore.
E pertanto, eccomi qui con voi.
Mi unisco, allora, al vostro cammino di fede e di intenso lavoro apostolico, come  sacerdote e pastore, che porta nel cuore un desiderio: con l’aiuto dello Spirito santo, Spirito del Padre e Spirito del Figlio, di essere sempre padre, fratello e, se lo vorrete, amico.
Avviando insieme a voi un percorso di comunione in questa mia missione, che vuol’essere contrassegnato dall’amore, dalla fraternità e dalla fiducia reciproca, vengo anzitutto con il bagaglio della mia vita salesiana. Da giovane ho scelto di servire Cristo tra i giovani. Sono vissuto in varie comunità educatrici del Piemonte, dapprima come semplice chierico, e poi come insegnante di storia e filosofia nel Liceo scientifico di Novara. In seguito, dopo la laurea in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e previo un congruo periodo di impegno educativo, i Superiori mi hanno destinato all’Università Pontificia Salesiana di Roma, come docente nella Facoltà di filosofia. Qui, gradualmente, sono divenuto ordinario di Filosofia sociale e politica, e poi Decano o Preside della medesima Facoltà. Dopo qualche anno sono stato eletto Rettor magnifico. Li ricordo come anni intensi, soprattutto sul piano della verifica della qualità, della riforma, del ricambio dei docenti, della stesura del Progetto educativo, dell’accompagnamento dei numerosi Centri affiliati ed aggregati, sparsi in varie parti del mondo, e di fund raising.
Nei primi anni ho lavorato contemporaneamente nella pastorale universitaria, senza mai perdere di vista il ministero sacerdotale nelle parrocchie durante i fine settimana: dapprima, per una decina d’anni, nella comunità di Casali di Mentana, organizzando e animando l’Oratorio e seguendo i nuovi movimenti che subentravano a quelli più tradizionali; e in seguito, per una quindicina d’anni, in Sardegna, sia sostituendo parroci durante le loro ferie, sia nei periodi intensi delle settimane pasquali e nei mesi estivi, in ambienti prevalentemente agropastorali. Durante i  ventinove anni di docenza presso l’Università Salesiana, ho avuto l’opportunità di essere consultore della CEI e del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, di insegnare Dottrina sociale della Chiesa in diversi Istituti di Scienze Religiose e nell’Università Pontificia Lateranense, di predicare tridui, novene, ritiri ed esercizi spirituali a diversi gruppi di sacerdoti, di suore e di giovani, di collaborare con l’UNITALSI, di programmare Corsi di formazione all’impegno sociale e politico in varie Regioni d’Italia, di lavorare nell’orientamento vocazionale come responsabile di campi scuola.
Appena terminato il sessennio come Rettor magnifico dell’Università Salesiana, nel 2009, sono stato nominato vescovo titolare di Bisarcio (Ozieri) e Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che tra i suoi principali compiti ha lo studio e l’aggiornamento del Magistero sociale della Chiesa, al fine di promuovere la sua divulgazione e traduzione nella pratica presso i singoli e le comunità, specialmente per quanto concerne il diritto umanitario, i diritti e i doveri umani, la giustizia, la pace, la politica, il mondo del lavoro, l’ambiente, il disarmo, la società internazionale, i sistemi economici, l’impegno dei cattolici in campo sociale e politico.
Come Segretario e rappresentante della Santa Sede, oltre ad essere al servizio del Santo Padre per predisporre bozze di testi, relative a discorsi, ad encicliche e messaggi per le giornate mondiali della pace, ho avuto l’occasione di visitare Chiese locali e di essere presente presso Organismi Internazionali, quali l’ONU e l’OSCE.
Come motto episcopale, per ragioni di congenialità ed affettività, ho scelto l’incipit dell’enciclica sociale di papa Benedetto XVI, Caritas in veritate. Un tale motto mi è parso particolarmente pregnante ed emblematico del modo di essere vescovo nell’odierno contesto socio-culturale, caratterizzato da un forte secolarismo, dall’emarginazione di Dio dalla vita dei singoli e dalla vita pubblica, da un individualismo libertario ed utilitarista, dalla carenza di pensiero, dalla dittatura del relativismo e da quella colonizzazione ideologica del gender che vuole cambiare l’alfabeto antropologico. In vista di una nuova evangelizzazione, nonché di un nuovo Umanesimo e di una nuova cultura aperta alla Trascendenza capace di ricucire i legami sociali, è fondamentale vivere l’Agápe di Cristo, sperimentare un Amore pieno di Verità, simboleggiato nel mio stemma episcopale con onde rosse e oro che quasi si intersecano: il rosso rappresenta, per l’appunto, l’Amore di Cristo, mentre l’oro vuol riflettere lo splendore della Verità (Lógos). Per capire meglio come muoversi nella comunità ecclesiale e nella società odierna, più che partire da visioni astratte di Chiesa e della comunione interpersonale, da analisi sociologiche pur indispensabili, occorre anzitutto essere di Cristo, lasciarsi raggiungere dalla sua salvezza che umanizza mentre divinizza, ossia occorre partire dalla presenza reale del Verbo di Dio incarnato nella storia, nel creato e in ogni essere umano. Benedetto XVI e papa Francesco ci hanno ricordato che la nostra fede – che non è solo affidarsi ma anche leggere in profondità – non può essere disgiunta dal realismo della redenzione. Gesù Cristo trascende la storia e l’umanità, ma nello stesso tempo le possiede, vi inabita. Uscendo dal Padre è diventato uno di noi, ci ha raggiunto e vive con noi, rendendoci partecipi della vita di comunione esemplare della circolazione trinitaria. Pertanto, Egli ci appartiene, appartiene a tutti gli uomini, a tutti i popoli. La nostra fede non è un atto volontaristico verso un essere che ci è estraneo, estrinseco. È riconoscere ed accogliere chi si è fatto dono a noi e ci ha preceduto venendoci incontro. Egli è inseminato nei nostri cuori e nelle nostre coscienze (semina Verbi). Sono convinto che proprio l’esperienza o, meglio, l’inabitazione permanente nell’Amore pieno di Verità che è Cristo, può vivificare le nostre comunità, renderle sempre più capaci di testimonianza credibile. L’Amore pieno di Verità rafforza la nostra libertà, edifica i sacerdoti, il vescovo, il popolo di Dio, li aiuta a camminare sempre nella Luce di Cristo, a confessarLo, ad uscire per annunciarLo ed incontrarLo nell’altro, specie nel più povero. Cristo, che si è fatto come noi e si è posto in noi, ci attrae verso la pienezza del suo essere. E, così, il nostro pellegrinaggio non è un vagabondare senza meta. Ha una direzione precisa che, pur nelle ombre della vita, colma il nostro spirito di certezze e di speranza.
Dopo quanto detto, cari Sacerdoti e Collaboratori, non posso esimermi dal pormi una domanda. Chi sono io davanti a Dio e davanti a voi? Me lo chiedo proprio ora, riflettendo ad alta voce, per essere maggiormente consapevole di quello che ho cercato di fare nella mia vita e di quanto sono sproporzionato rispetto al ministero episcopale in questa diocesi, così ricca di fede e di opere. Sono un pastore della Chiesa che ha vissuto da principio come religioso, sacerdote, educatore, docente nella Congregazione salesiana e, poi, nel Dicastero del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Qui ho cercato di capire, approfondire e di contribuire all’aggiornamento dell’evangelizzazione del sociale e dell’insegnamento sociale della Chiesa non per me stesso, ma per la Chiesa universale, per le sue Conferenze episcopali, le Commissioni di giustizia e pace, gli Uffici per i problemi sociali e del lavoro, la Santa Sede e il pontefice. Come vescovo di Curia, ho cercato dunque di essere e camminare in mezzo al popolo di Dio nella sua dimensione universale, che abbraccia tante realtà particolari, sparse nelle varie nazioni e Chiese locali. È chiaro dunque che, come pastore sono vissuto in una condizione peculiare, inusuale, tuttavia molto reale e, penso, utile alla Chiesa.
Ora mi attende un ministero diverso, su un altro piano, ma non avulso dal precedente. Vivere e camminare con il popolo di Dio che è in Faenza-Modigliana non è, evidentemente, la stessa cosa che vivere a Roma, in quello che talvolta viene definito centro della cristianità. Proprio per questo, debbo riconoscere quanto io sia impari a tale compito. Pertanto, cari Sacerdoti, vengo a voi in umiltà, manifestando la mia disponibilità ad apprendere da voi come essere vescovo, padre, fratello ed amico, con un cammino e un discernimento fatti insieme. Mi insegnerete ad essere vescovo non per me, ma per la Chiesa, per l’unità dei cristiani, per la gente, per gli altri, per i lontani, soprattutto per quelli che, secondo un certo mondo, sarebbero da scartare. Mi aiuterete ad essere servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo, una speranza che nasce dalla Croce. Vi domando di pregare per me, affinché io possa essere uomo di Dio in cammino col suo popolo, uomo di comunione e di missionarietà, guida sicura che indica la meta del compimento umano in Cristo, e principio visibile di unità nella comune edificazione dei credenti e nella diffusione del Vangelo.
Sono insieme a voi nella barca che è questa Chiesa particolare. Il Signore ci darà giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca sarà abbondante. Vi saranno – non c’è da illudersi – anche momenti di acque agitate e di vento contrario, momenti in cui il Signore sembrerà dormire. Dovremo, però, proseguire, certi che Lui è al timone della barca, che non è nostra, ma sua. Il Signore non ci lascerà affondare. Lui la conduce, anche mediante quegli uomini che ha scelto e che spesso appaiono sproporzionati a fronteggiare le sfide e le tempeste. Questa certezza  deve renderci misericordiosi e solidali gli uni verso gli altri. Preghiamo sempre l’uno per l’altro. Camminiamo insieme in fraternità, aiutandoci reciprocamente a portare i pesi, guardando sempre al buon Pastore che non umilia nessuno.
Cari Fratelli nel sacerdozio, forse in questo momento vi attenderete da me alcune prospettive pastorali particolari. Penso, però, che sarebbe un po’ temerario da parte mia, dal momento che ancora non conosco bene la realtà. Mi sembra pertanto opportuno e logico rimandare all’ultima Lettera pastorale a firma di Sua Eccellenza Mons. Claudio Stagni dove si trovano validi orientamenti ancora attuali.
Vorrei chiarire sin d’ora – e, se necessario, rassicurare – che intendo confermare donec aliter provideatur, ossia fino a nuove disposizioni, il Vicario generale, i Vicari episcopali e tutti gli altri incarichi diocesani. Nei prossimi mesi cercherò di conoscere meglio la realtà della nostra Chiesa soprattutto con l’ascolto. Non è quindi questo il momento per me di procedere a cambiamenti, che ora sarebbero azzardati.
Credo che, dal punto di vista degli obiettivi pastorali, più immediatamente individuabili, tra altri che qui non elenco, siano da considerare:
 

  • realizzare la conversione pastorale – nel senso della comunitarietà e della missionarietà – a cui papa Francesco invita con la sua Esortazione pastorale Evangelii gaudium (=EG);
  • proseguire l’impegno nella pastorale vocazionale, con riferimento al ministero ordinato, alla vita religiosa – non dimentichiamo che stiamo celebrando l’Anno della Vita Consacrata – e ai christifideles laici;
  • curare i ministeri laicali, nel senso della scelta e della formazione dei fedeli laici, affinché si mettano a disposizione della Chiesa locale e delle parrocchie;
  • promuovere la crescita della pastorale integrata tra parrocchie, specie a partire dalle Unità pastorali;
  • individuare le periferie esistenziali presenti nella nostra diocesi e attivare un debito discernimento comunitario riguardante i disoccupati, gli emigranti, i poveri, i lontani, gli emarginati;
  • affrontare con decisione la questione antropologica e le sue implicazioni, specie con riferimento alla società domestica, prima cellula di ogni altra società, testimoniandone la centralità e la bellezza. I mutamenti in atto disegnano una cultura, che non solo non preserva la famiglia quale «baricentro esistenziale», ma la snatura, equiparandola a qualunque nucleo affettivo, a prescindere dal matrimonio e dai due generi;
  • contribuire alla formazione di nuove generazioni di credenti impegnati nel sociale e nella politica, a livello nazionale ed europeo. La prossima Settimana sociale dei cattolici, che si terrà a Cagliari nel 2017, sarà sicuramente un’occasione per riflettervi, seguendo l’iter della sua preparazione, la celebrazione e accogliendone le Conclusioni;
  • offrire un valido sostegno al Movimento sociale cattolico, in vista di un suo contributo più incisivo e significativo alla realizzazione del bene comune, almeno sul piano regionale. I vescovi dell’ultimo Consiglio permanente della CEI hanno sottolineato come la Chiesa italiana sia ricca di una storia sociale e culturale, che oggi, in base alle mutate circostanze del Paese, chiede di essere assunta in maniera nuova e diversa.

 
Come Chiesa locale, siamo chiamati a perseguire tali obiettivi, tenendo conto:
 

  1. del prossimo Sinodo sulla famiglia (ottobre 2015);
  2. degli Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio, dal titolo Educare alla vita buona del Vangelo;
  3. del Convegno della Chiesa italiana, che si terrà a Firenze dal 9 al 13 novembre 2015, sul tema: In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. Vi potranno partecipare 6 rappresentanti della nostra Diocesi più il vescovo. A proposito di questo Convegno, il recente Consiglio permanente della CEI ha condiviso l’opportunità di promuovere a livello diocesano iniziative finalizzate a favorire la conoscenza della Traccia, reperibile sul sito web www.firenze2015.it. La stampa diocesana è sollecitata a favorire la conoscenza di esperienze locali che offrano una testimonianza concreta di come annunciare e vivere il nuovo umanesimo in Gesù Cristo negli ambiti della carità, della famiglia, dell’iniziazione cristiana, della comunicazione, della cultura, del lavoro, dell’economia, della finanza, della politica, della società civile, della salvaguardia dell’ambiente senza dimenticare il 50.mo della Gaudium et spes, l’EXPO di Milano e la futura enciclica sull’ambiente;
  4. del Documento dell’Assemblea della CEI Incontriamo Gesù. Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia;
  5. della Nota pastorale La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società;
  6. della prossima Assemblea generale della CEI, prevista per il prossimo mese di maggio. Essa affronterà la verifica della ricezione della Evangelii gaudium, con speciale attenzione allo sviluppo di percorsi da proporre alle Chiese che sono in Italia;
  7. del prossimo anno santo della Misericordia (8 dicembre 2015-30 novembre 2016). Siamo in attesa della bolla del papa Francesco in modo da individuare i segni particolare da sottolineare e proporre.

Come impegno personale, mi propongo di conoscervi personalmente al più presto, visitando le comunità affidate alla vostra guida pastorale. È importante per me vedervi nella vostra realtà quotidiana, che so fatta di dedizione, a volte persino eroica, a servizio della nuova evangelizzazione in un contesto sempre più secolarizzato. Vorrei incontrarvi nelle Messe domenicali, ma anche in momenti fatti di dialogo e di scambio fraterno, ipotizzando per esempio una mattinata nell’unità pastorale, con la recita dell’Ora Media, una riflessione, un dibattito, per poi concludere con il pranzo insieme. È questo un piccolo segno della mia ferma volontà di essere per tutti voi padre, fratello e amico.
Conto anche – avvisando per tempo –  di scalettare alcuni incontri con i responsabili degli Uffici diocesani e dei Centri per la Pastorale, con i responsabili della sezione Amministrazione, dei Centri e delle Opere diocesane (secondo la Guida della Diocesi di Faenza-Modigliana, che pure va aggiornata).
L’agenda del vescovo è già definita sino al mese di luglio. Per eventuali richieste sino a luglio e dopo, è bene contattare il segretario del vescovo don Ernesto Grignani (coadiuvato da don Alberto Luccaroni). L’indirizzo email è il seguente: segretario@faenza.chiesacattolica.it Il numero di telefono è quello del vescovado e cioè: 0546 28774.
 

OMELIA per la DEDICAZIONE dell’ALTARE DEL SEMINARIO
Faenza - Seminario Diocesano, 11 febbraio 2015
11-02-2015

Dopo la grazia della dedicazione del nuovo altare della Cattedrale, sono molto lieto di poter dedicare anche il nuovo altare della Cappella del Seminario. Vedo tra questi due eventi un rapporto ideale, che unisce la Cattedrale, segno dell’unità della Chiesa locale, al Seminario dove idealmente si preparano i ministri dell’Eucaristia. Dico idealmente, perché di fatto la formazione avviene altrove, anche se qui si trova il luogo del primo discernimento vocazionale.
Dedicare un altare a Dio è un gesto che eleva il centro del tempio ad un significato preciso. Si afferma qui il primo comandamento: “Non avrai altro Dio fuori che me”; si afferma pure che esiste sulla terra un luogo che accoglie Dio; questo luogo è l’uomo Cristo Gesù, di cui l’altare  è il segno.
Eppure aveva detto Gesù alla donna samaritana che “Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”. Questo vuol dire che gli adoratori in spirito devono arrivare a Dio nella verità di Cristo morto, risorto e presente nel mistero dell’Eucaristia. È Cristo risorto che ha voluto lasciare un segno in cui incontrarlo, un segno che noi possiamo toccare, mangiare e così nutrire la vita divina che è nata in noi dal Battesimo. Afferma Tertulliano: “Caro salutis cardo”: fondamento della salvezza è la carne di Cristo e tutto ciò che egli ha preso su di sé come uomo, eccetto il peccato. Questo è contro ogni spiritualismo.
Cristo ha voluto rimanere in mezzo a noi nella realtà del pane e del vino offerti in sacrificio, perché nutrendoci di essi noi diventassimo il suo Corpo misterioso che è la Chiesa. Questo è il realismo degli adoratori in spirito e verità.
Nel dedicare a Dio un altare di pietra, non intendiamo costituire nulla di diverso da quello che Dio stesso ha già costituito come altare, vittima e sacerdote, cioè Cristo Gesù. La lettera agli Ebrei con una allusione ai sacrifici del tempio di Gerusalemme ci presenta il sacrificio di Cristo offerto una volta per sempre, nella continuità di Cristo che è lo stesso ieri, oggi e per sempre. Questo è possibile perché egli è già nell’eternità e il suo rapporto con noi, che siamo nel tempo, risulta vincitore: noi cambiamo, ma Lui resta per sempre, in una perenne contemporaneità.
Il nostro altare, continua la lettera agli Ebrei, è diverso da quello del tempio antico. È vero che Cristo fu immolato fuori della porta della città, dove si bruciavano i corpi degli animali offerti in olocausto; ma all’infuori di questa piccola analogia, noi offriamo a Dio un sacrificio perenne di lode.
La prima Chiesa aveva capito che la vita nuova nasce dallo spezzare il pane: lì c’è l’insegnamento degli apostoli, ci sono le preghiere e la comunione dei beni, perché anche la vita sociale cambia per chi vive nella fede del Signore Gesù.
Il cammino di chi si prepara a offrire il sacrificio eucaristico trova la radice della propria formazione spirituale in ciò che avviene sull’altare: la Croce, la Parola, la Comunione.
Anzitutto qui c’è il sacrificio della Croce, che non si esaurisce sull’altare, ma entra nella vita: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,24s).
L’altare consacrato è riservato all’offerta dell’Eucaristia; così colui che consacra a Dio la propria vita la spende tutta per Lui e per il suo popolo. Prendere la propria croce vuol dire anche portare sull’altare tutte le croci che incontriamo nella giornata, le nostre e quelle della nostra gente. Le consegniamo al Signore Gesù che ha trasformato il senso della croce, perché in Lui trovino valore.
Accanto alla mensa dell’Eucaristia c’è la mensa della Parola. “E’ lui che parla, quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura” (SC,7). La Parola di Dio nell’Eucaristica  ci rende presenti al mistero che si celebra, e con la grazia dello Spirito santo ci rende partecipi della vita eterna. Nel cammino formativo ci si avvicina ai misteri della fede non tanto per curiosità, ma per lasciarsi trasformare dalla loro grazia.
Infine “anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo” (Rm 12,5). La comunità cristiana viene costruita dal sacramento dell’unico pane spezzato.
Nella realtà della vita il presbitero vivrà questo mistero in due modi, che corrispondono alle sue due famiglie: la famiglia del presbiterio della Diocesi, che nasce dalla stessa ordinazione e dalla stessa missione, e la famiglia della comunità dove è inviato, nell’ambito della Chiesa diocesana, avendo tuttavia la sollecitudine per tutte le Chiese (P.O. n. 10).
Come l’altare anche il presbitero viene consacrato con il Crisma, segno dell’unzione dello Spirito Santo nel quale è stato unto lo stesso Cristo Gesù.
La Vergine Immacolata, che stava presso la Croce del Figlio partecipando al suo Sacrificio, ci accompagni in questo rito e accompagni quanti si preparano al ministero presbiterale. Maria sostenga con la sua intercessione la nostra fragilità. La Bianca Immacolata Madre del Signore ci sia accanto sempre all’altare e nella vita.
 

OMELIA per la MESSA dell’EPIFANIA 2015
Faenza, Basilica Cattedrale - 6 gennaio 2015
06-01-2015

Quando le feste sono tante e vicine, si rischia di non cogliere la grazia propria di ognuna, impoverendo quindi le occasioni che ci sono date. L’Epifania arriva alla fine delle feste natalizie, dove è il Natale a dominare almeno per l’importanza che gli viene data dal popolo di Dio. A prescindere da ogni confronto, possiamo vedere nel tempo di Natale la grazia di un unico mistero, quello di Dio che si manifesta per farsi conoscere e accogliere. Le celebrazioni liturgiche ci presentano aspetti diversi e complementari, per farci cogliere la bellezza e la grandezza di ciò che è avvenuto.
San Paolo lo ha detto nel brano della lettera agli Efesini: “Questo mistero non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo”.
C’è stato un momento preciso, che la Scrittura chiama “pienezza dei tempi”, scelto da Dio per entrare nella storia. Perché il Figlio di Dio non sia venuto prima o dopo non sta a noi giudicarlo; l’importante è che questo sia avvenuto e che questa notizia sia stata affidata a noi per farla giungere a tutti i popoli.
Nel Natale noi abbiamo giustamente ammirato la piccolezza del Dio Bambino, che per farsi accogliere ha scelto il modo più umile e povero, che diventa anche una indicazione precisa per coloro che lo vogliono seguire.
Oggi nel racconto dei Magi che vengono dall’oriente per conoscerlo, ci viene rivelata l’importanza della collaborazione dell’uomo nell’andare incontro a Cristo, a qualsiasi popolo appartenga, perché Dio non fa preferenze di persone. Però anche a costoro chiede almeno una cosa: la curiosità, la ricerca e il mettersi in cammino. I Magi hanno risposto ad una sollecitazione dall’alto, la stella che avevano visto spuntare: “E siamo venuti ad adorarlo”. Nelle cose di Dio la parte principale è sempre opera di Dio, il quale però chiede alla libertà dell’uomo una collaborazione, non fosse altro l’accettazione del dono o il desiderio e la ricerca dello stesso.
Mi spiego con una storiella, di cui chiedo scusa. Si racconta che un devoto di San Gennaro chiedesse con insistenza al Santo di vincere alla Lotteria nazionale; e il Santo gli avrebbe fatto sapere: “Almeno compra il biglietto…”. Questo rende l’idea di che cosa significa la collaborazione tra la grazia di Dio e la libertà dell’uomo.
E vero che i Magi hanno avuto l’aiuto della Sacra scrittura custodita dal Popolo di Dio; ma questa essi l’hanno incontrata dopo un lungo cammino e vi hanno dato una pronta obbedienza.
Entrando nel mondo Dio non ha mortificato la libertà dell’uomo, ma l’ha esaltata, rispettandola e lasciandole tutta l’importanza che deve avere per il compimento del suo dono. Dio non costringe nessuno; al massimo offre la luce, si colloca sulla nostra strada, fa sorgere la domanda, ma poi aspetta che facciamo la nostra parte.
Il mistero dell’Epifania ci offre una motivazione nuova per accogliere la rivelazione di Dio; questa è data non solo per noi, ma perché noi la annunciamo anche agli altri popoli, perché anch’essi “sono chiamati in Cristo Gesù a condividere la stessa eredità e a formare lo stesso Corpo” dei figli di Dio.
Sorge qui il compito della missione e dell’evangelizzazione, una volta che sia avvenuto l’incontro con Cristo. I Magi sono andati portando dei doni preziosi, pensando di aver fatto già la loro parte. Nella realtà l’incontro che hanno fatto li ha cambiati, al punto che torneranno al loro paese per una strada nuova. Chissà se sono diventati i primi evangelizzatori dei loro paesi che videro tuttavia, dopo la risurrezione di Cristo, gli Apostoli a portare il lieto annuncio del Risorto?
Comunque il mistero che nell’Epifania ci viene rivelato, comprende anche il farsi carico del comunicare ad altri ciò che abbiamo incontrato. La visione di Isaia profeta, insieme alla “tenebra che ricopre la terra e alla nebbia fitta che avvolge i popoli”, vede una luce, allo splendore della quale cammineranno i popoli. Quella speranza non è un auspicio vuoto lasciato alla fortuna degli eventi, ma è una promessa affidata a un popolo: il popolo dei credenti.
Noi facilmente rileviamo la presenza della tenebra e della nebbia, ma non sempre ci rendiamo conto che abbiamo la consegna di portare la luce, che ci è stata affidata in Cristo Gesù.
L’impegno di evangelizzatori che ci è chiesto è fatto di lavoro e preghiera. Ci insegna Papa Francesco che “la Chiesa non può fare a meno del polmone della preghiera” e “nello stesso tempo si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell’Incarnazione. C’è il rischio che alcuni momenti di preghiera diventino una scusa per evitare di donare la vita nella missione” (EG, cfr n. 262).
Ognuno deve trovare la propria vocazione, ma non possiamo aspettare che siano gli altri a mettere a posto le cose senza fare ognuno la propria parte. Forse in questo impegno comune, più ancora che il risultato delle singole nostre azioni, sarà preziosa la testimonianza di comunione e di amore fraterno che si potrà dare, mostrando come anche questo miracolo è frutto del mistero dell’Incarnazione del figlio di Dio, che ci ha resi tutti fratelli, figli dell’unico Padre che è nei cieli. Non è certo con le guerre o con le sanzioni che si insegna la convivenza e la pace tra i popoli, ma vivendo l’amore e la concordia che Cristo ha insegnato con la sua vita