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OMELIA per la SOLENNITA’ del CORPUS DOMINI
Faenza - S.Agostino, 4 giugno 2015
04-06-2015

Le letture che abbiamo ascoltato ci parlano dei sacrifici dell’antico ebraismo e di quello di Cristo, che instaura un nuovo culto, un nuovo modo di rapportarsi personalmente con Dio. Cristo è Colui che realizza in sé la Nuova Alleanza con Dio mediante il proprio sacrificio. Egli rende gradita, sacra, la propria vita, perché la dona sino a dare il suo corpo e a versare il suo sangue in quella terribile morte, che è la morte di croce. I sacrifici antichi, compiuti mediante l’uccisione di animali e l’aspersione del popolo con il loro sangue (cf Es 24, 3-8), e anche l’usanza del capro espiatorio abbandonato nel deserto, propiziavano in certo modo una comunione con il Signore, ma non comportavano la conversione interiore, la remissione definitiva dei peccati.

Con la sua morte, Gesù ristabilisce quell’unione, che era andata perduta con la colpa dei progenitori, annullando il peccato, ossia il rifiuto di Dio da parte degli uomini, e trasformando il loro cuore con il suo Spirito di amore. Egli è la Nuova Alleanza (cf Mc 14, 12-16.22-26). Ne è Sommo Sacerdote non mediante un rito sacrificale di animali, bensì come umanità che si offre totalmente al Padre, per compiere la sua volontà, per essere cioè Figlio obbediente, modello di risposta al suo amore, con un atto di totale abbandono.

L’Eucaristia, che celebriamo tutti i giorni nelle nostre chiese, da un lato commemora e rinnova il sacrificio di Gesù Cristo, dall’altro attua la comunione dei fedeli con il Redentore. Essa rende presente nel nostro quotidiano, nel reticolato delle nostre relazioni, il sacrificio di Gesù sulla croce. Partecipandovi, mangiando letteralmente il Corpo di Cristo e bevendo al calice del suo Sangue, siamo resi capaci di vivere costantemente quella unione con Dio, che Cristo stesso ha conquistato per noi.

Nella celebrazione eucaristica, facendo comunione con Cristo, diventiamo una cosa sola con il Nuovo Adamo, con Colui che si è posto come inizio di una nuova umanità, di una nuova storia, di un nuovo popolo. Siamo resi «nuovi», soprattutto perché inseriti nella vita del Padre, accolto e amato sopra ogni cosa.

Nutrendoci di Cristo, che è umanità che dà il primato a Dio, ci trasformiamo in persone capaci di rigerarchizzare quelle scale di beni-valori che oggi sono disinvoltamente capovolte e pongono in cima a tutto il successo, il potere, il denaro, il sesso, lasciando all’ultimo posto i beni spirituali, la cura dell’altro, la gratuità e la fraternità. Solo partecipando con sincerità e consapevolezza al mistero eucaristico, possiamo diventare protagonisti di un nuovo umanesimo aperto alla Trascendenza, relazionale, solidale, integrale. Possiamo allora essere rivoluzionari rispetto all’attuale cultura, che privilegia l’individualismo anarchico e libertario, il materialismo tecnocratico, incline a mercificare ogni cosa, anche i rapporti umani.

Nutrendoci del cibo dei forti non siamo noi a trasformare Cristo, bensì noi ad essere trasfigurati in Lui (cf Sant’Agostino, Confessioni, VII, 10,16).

Diventiamo Eucaristia! Al sacrificio del corpo e del sangue di Gesù che facciamo sull’altare, si accompagni l’offerta della nostra esistenza.

Uniti a Cristo-Eucaristia, noi, suoi discepoli, siamo sollecitati a eucaristizzarci, ossia a divenire come Lui vita donata, fermento di rinnovamento, pane «spezzato» per tutti, specie per coloro che versano in situazioni di disagio, di povertà e di sofferenza fisica e spirituale. L’Eucaristia, azione liturgica dell’amore di Cristo che si offre al Padre, si completa e diventa nel quotidiano: agape, educazione alla fede, Caritas, cura dell’altro, cooperazione, impegno civile e politico di servizio al bene comune, difesa e promozione dei doveri e dei diritti umani, della giustizia, della famiglia e della pace. Quando il nostro cuore è toccato dalla presenza di Gesù nell’Eucaristia, nella realtà nascosta del pane, allora riceviamo nuovi occhi, capaci di riconoscerlo nelle persone concrete. Non possiamo vivere gli uni senza gli altri, specie i più poveri.

L’Eucaristia è medicina di immortalità, il cibo del viandante. È il vero viatico, il sacramento del Dio che non ci lascia soli nel nostro pellegrinaggio verso la comunione d’amore che è la Trinità, la famiglia divina da cui proveniamo e verso la quale siamo diretti.

È questo il significato della processione di questa sera, che parte dalla parrocchia di sant’Agostino per raggiungere la Cattedrale: andare per le strade del mondo non da soli, bensì accompagnati, inabitati dall’Emmanuele, il Dio-con-noi, il Dio della misericordia e della tenerezza, camminando dietro Colui che è la Via: Gesù.

L’Eucaristia ci fa Chiesa, unifica i molti in un solo pane, in un solo corpo (cf 1 Cor 10,17), in una sola missione, che si concretizza in quell’«Andate e fate tutti i popoli discepoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28, 16-20). Il vero pane, che è Cristo, ci fa passare dall’essere moltitudine, mero coacervo di individui, all’essere comunità; dall’anonimato, al sentirci fratelli e sorelle; da una pluralità di culture e di esperienze diverse, a divenire «Suo» popolo; da un mondo corrotto dalla decadenza del peccato ad un mondo di risurrezione, un mondo di Dio; dall’indifferenza nei confronti degli altri ad essere capaci di dare da mangiare a chi ha fame, di garantire cibo per tutti.

Nella solennità di quest’anno, ripromettiamoci almeno di ravvivare il culto di onore e di adorazione al Santissimo Sacramento, che ha nella processione del Corpus Domini uno dei suoi momenti più espressivi. Chissà che, iniziando l’anno giubilare della Misericordia, non possiamo istituire anche nella nostra città un punto di adorazione permanente. Adorare il Dio di Gesù Cristo, fattosi pane spezzato per amore, è il rimedio più valido e radicale contro le idolatrie di ieri e di oggi. Inginocchiarsi davanti all’Eucaristia è professione di libertà: chi si inchina a Gesù non si prostrerà davanti a nessun potere terreno, per quanto forte e seducente. 
Aiutiamo le giovani generazioni a capire il significato profondo di una tradizione che, mediante un corteo di festa, intende rendere visibile quella comunione (comune-unione) che l’Eucaristia suscita e che si manifesta nel camminare insieme nelle nostre città, lungo i tornanti della storia, con la gioia di essere salvati, in compagnia dei nostri fratelli in Cristo. Quel Cristo che si dona nell’Eucaristia e che non ci lascia mai soli, ha promesso di rimanere con noi tutti i giorni, sino alla fine del mondo.

OMELIA per la celebrazione in ricordo della Ven. NILDE GUERRA
San Potito, 23 maggio 2014
23-05-2015

CELEBRARE LA PENTECOSTE CON LA VENERABILE NILDE GUERRA

San Potito, 23 maggio 2015

Credo che per la nostra comunità di Potito e per la nostra diocesi, la celebrazione della Pentecoste insieme al ricordo della venerabile Nilde Guerra sia una felice coincidenza. È l’occasione per comprendere meglio l’opera di trasfigurazione che lo Spirito santo compie nei credenti. Lo Spirito santo scendendo sugli apostoli e la Vergine, riuniti nel Cenacolo, li colma della sua vita, della sua capacità di amare e di lottare per il bene contro il male. Da tristi e disorientati li trasforma in apostoli coraggiosi. Non abbiamo bisogno anche noi di Dio, della comunione che è in Lui, del suo Spirito, per essere maggiormente uniti e intrepidi? Noi che spesso siamo morti dentro e sepolti nella tomba dell’egoismo, noi che diventiamo, come ci fa intuire il profeta Ezechiele, ossa inaridite e senza speranza, non abbiamo bisogno di rivivere, di ritrovare la forza della profezia?

Fonte inesauribile di giovinezza, lo Spirito rinnova continuamente la vita dei credenti, della Chiesa e del mondo.

La Pentecoste inonda la terra di vita nuova, la arricchisce di germogli, porta primavera nelle nostre famiglie e nelle nostre parrocchie. L’universo stesso, grazie all’effusione dello Spirito santo, geme e soffre le doglie del parto di una nuova creazione. Lo Spirito di Dio Padre e del Figlio unifica tutti i popoli in un’unica famiglia di fratelli: la Chiesa, principio e luogo di trasfigurazione dell’umanità. Mediante lo Spirito santo, i credenti vengono unificati nel corpo di Cristo, partecipano al suo sacrificio, al suo impegno di rinnovamento delle persone, delle relazioni e del cosmo, alla «ricapitolazione» che Egli ha realizzato; sono condotti alla pienezza di vita, verso la Gerusalemme celeste.

La venerabile Nilde Guerra, che noi oggi contempliamo come fiore di nuova umanità redenta e cristificata, sbocciato in questa comunità, ci insegna la partecipazione appassionata, indivisa al progetto di Dio, mossi dallo Spirito d’amore che il Padre e il Figlio ci donano. Innamorata di Cristo, sedotta dal Suo Cuore misericordioso, desiderava rispondere con tutta se stessa al suo Amore. Nonostante una salute fragile e l’opposizione del suo papà, aspirava a donarsi a Lui abbracciando il carisma delle Suore del Sacro Cuore di Gesù Agonizzante. Ardeva, cioè, dal desiderio di sperimentare e di comunicare l’amore di Gesù, non un amore platonico, astratto, ma sensibile, coinvolgente, che lega l’anima in un vincolo sponsale, vittimale. Per il bene della gente, specie dei suoi, che all’infuori della mamma, al tempo della seconda guerra mondiale, si erano allontanati tutti da Dio e dalla Chiesa, voleva essere martire col Martire. Chiedeva allo Spirito santo il dono di riversare in Lei la capacità di amare di Cristo sino a morire per il Padre e per l’umanità. Ecco come si esprimeva: «O Amore accetta l’olocausto della mia giovinezza per la conversione dei miei cari, in modo speciale di mio fratello, per la santificazione dei sacerdoti e la conversione dei poveri peccatori» (Dall’Offerta di Piccola Vittima).

Nilde Guerra non riuscirà a essere Suora del Sacro Cuore di Gesù Agonizzante. Ne indosserà solo l’abito, allorché fu composta nella sua bara. Ma il suo cuore era già tutto dello Sposo Gesù. Come una sposa non visse più per sé, ma per Colui che ella amava, divenendo modello luminoso nell’amicizia a Cristo Crocifisso. È così che è riuscita ad ottenere il ritorno alla fede del fratello Achille. Cresciuta tra le fila dell’Azione cattolica, coltivò un intenso impegno di evangelizzazione e di educazione alla fede. Volendo immedesimarsi all’amore di Cristo, che muore per salvare, è per noi modello della vita trasfigurata che produce la Pentecoste. Chi evangelizza desidera per le persone il bene più grande, ossia il loro incontro con Gesù Cristo, l’unico che salva. Questo desiderava Nilde Guerra consacrandosi al Signore: essere portatrice di salvezza, non la sua, ma quella di Cristo.

Anche oggi abbiamo bisogno di evangelizzatori come Nilde. È donando agli altri Gesù Cristo, il suo Spirito, che saremo capaci di favorire la primavera e la speranza che la Pentecoste porta nel mondo. È solo offrendo Gesù Cristo, desiderandoLo con tutto il cuore per gli altri, che contribuiremo a far rivivere le ossa inaridite, e riempiremo i cuori di speranza e di gioia, portando la pace.

Lo Spirito santo ci divinizzi, ossia ci doni la capacità di amare di Dio; ci renda conformi a Gesù Cristo, Colui che per noi si è fatto Vittima. Con Nilde Guerra preghiamo, proprio oggi, in cui siamo invitati dalla C.E.I. a pregare per i tanti fratelli martiri contemporanei: «O Gesù […] ti chiedo un amore senza limiti e senza misura. Gesù, fa che io muoia martire per Te; dammi il martirio del cuore e quello del corpo; meglio, dammeli tutti e due».

Vivere la Pentecoste è anche essere capaci di un amore sovrumano, quello eroico e fedele dei martiri. Come ho ricordato ieri sera durante la Veglia di preghiera per la Pentecoste i nostri fratelli martiri non si preoccupano tanto di essere uccisi. Non sono adirati con Dio, ma si abbandonano completamente nelle Sue mani. Temono, tuttavia, di esser dimenticati dai loro fratelli, per i quali stanno morendo. In definitiva, sono consapevoli di andare incontro alla morte non solo per se stessi, ma anche per noi. Testimoniano, così, un amore totale a Cristo, affinché non venga meno il nostro amore a Colui che è Signore della vita.

Analogamente, non dimentichiamo la testimonianza della venerabile Nilde Guerra, gloria di questa terra e di questa comunità. Il suo slancio missionario, il suo dono vittimale per la salvezza dei fratelli, sull’esempio di Cristo, siano anche il nostro impegno. Lo Spirito santo guidi alla verità tutta intera, invada nell’intimo i nostri cuori, accenda in essi il fuoco del suo amore.

OMELIA per la VEGLIA DI PENTECOSTE
Faenza - S.Giuseppe artigiano, 22maggio 2015
22-05-2015

Cari fratelli e sorelle,

la partecipazione a questa Veglia ci aiuti a divenire sempre più consapevoli della nostra appartenenza alla Comunità dell’Amore, generativa di vita, che è la Santissima Trinità. Lo Spirito d’amore di Dio Padre e del Figlio, pertanto, dev’essere il nostro Spirito: Spirito di ricezione della vita divina e di dono; Spirito di comunione e di dialogo; Spirito dei figli che riamano il Padre offrendo tutto il proprio essere, come l’offrì il Figlio Unigenito; Spirito di verità, di intelletto, di scienza, di sapienza, di fortezza, di consiglio, di pietà, di timor di Dio.

Solo se la potenza dello Spirito santo, Spirito creatore e redentore, inonderà, nostro tramite, la terra, sarà possibile una nuova umanità e una nuova storia, un grande popolo che riunisca tutte le genti del globo in un’unica famiglia, la famiglia di Dio. Lo Spirito di Dio non ha confini. Non trova altro ostacolo al suo soffio se non la libertà dell’uomo, quando si chiude egoisticamente in se stesso.

Solo chi si lascia pervadere, strutturare e scolpire da Dio, che è Spirito d’amore e di verità, Spirito di vita, si costituisce nella famiglia, nella scuola, nel lavoro, nelle opere di cooperazione e di solidarietà, nella comunità civile, come soggetto di innovazione, che trasfigura persone, istituzioni, strutture, ambienti di vita in termini relazionali, comunionali e comunitari.

Oggi, a casa nostra e nel mondo, si avverte l’urgenza di testimoni dello Spirito Santo, capaci di agire per umanizzare e liberare. Trasfigurati dall’amore di Dio, siamo chiamati a vivere una vita strutturata a «tu», una rete di relazioni e di comunicazioni senza barriere, ove le persone non sono considerate un mezzo o una cosa da utilizzare a nostro vantaggio, bensì un tu da amare non solo in se stesso, ma in Dio, per quanto possibile con lo stesso amore con cui è da Lui amato. In particolare, siamo sollecitati a crescere, instaurando legami di solidarietà, di aiuto e potenziamento reciproco. L’esperienza della vita, ma soprattutto la fede, ci dicono che non possiamo raggiungere il nostro compimento umano sulla tomba della comunità, distruggendo i legami sociali. Al contrario, solo l’incessante offerta di noi stessi consente di essere ad immagine di quel Dio amore, sul cui fondamento siamo e ci muoviamo. Possiamo rendere reale il sogno di un’unica famiglia umana, diffondendo l’amore filiale di Cristo per il Padre e riconoscendoci in Lui come fratelli.

Quando in tutti alberga uno stesso Spirito, lo Spirito dei figli nel Figlio, la Pentecoste diviene l’alba di una nuova storia.

Oggi, festa di santa Umiltà, co-patrona della città di Faenza, viene spontaneo pensare a Lei come testimone luminosa di quello Spirito che ricrea l’umanità, le relazioni con l’ambiente, paradossalmente anche mediante una vita eremitica. Santa Umiltà non è partita missionaria in terre lontane. È rimasta nella sua piccola cella presso la chiesa di sant’Apollinare, appena fuori Faenza. Da lì, irradiava novità di vita, mediante il digiuno, la contemplazione, l’accompagnamento spirituale. Lei, che per ben due volte era stata sfortunata come madre, divenne generatrice di innumerevoli figlie e figli spirituali. La sua vita di reclusa non era solitaria. La sua cella era arredata unicamente da un tavolaccio che usava come giaciglio ed aveva due finestrelle: una aperta verso la chiesa, per partecipare alla celebrazione dei Sacramenti, e l’altra verso la strada, per ricevere qualche elemosina ed ascoltare chiunque venisse, come aveva stabilito l’abate di Crespino, alla cui autorità si era sottomessa. Lì accorrevano persone di ogni rango: contadini, mamme, giovani e vecchi, sacerdoti, lo stesso vescovo della città, ed anche suo marito, che aveva abbandonato ogni cosa per farsi monaco e l’aveva scelta come guida spirituale, chiamandola «madre». Le faceva compagnia una donnola, arrivata inopinatamente. Umiltà la considerava un dono inviatole da Dio. Quando pregava, la bestiola si accovacciava ai suoi piedi. Rifiutava persino i bocconi di carne, che le offrivano quanti venivano a parlare con Umiltà. Sembrava voler partecipare alla vita di colei che l’ospitava. L’amore di Umiltà per Dio, il suo Tutto, coinvolgeva anche le creature del suo Signore. Si potrebbe dire che Umiltà sia stata un’ecologista ante litteram, come Francesco d’Assisi.

Anche noi, nel nostro oggi, possiamo essere propiziatori di un’alba di Pentecoste, di nuove relazioni, quando partiamo missionari, come testimoni itineranti di vita nuova, Ce lo confermano i nostri giovani, che questa sera riceveranno il mandato e andranno in varie parti del mondo ad affiancare sacerdoti e volontari nelle loro opere di evangelizzazione e di umanizzazione.

Colmi dello Spirito del Padre e del Figlio, porteranno una nuova umanità, parleranno col linguaggio dell’amore, per riadunare i dispersi, ricucire le divisioni, aprire la via a dialoghi fecondi nella comune ricerca del vero, del bene e di Dio.

Per chi rimane e per chi parte un faro di luce è rappresentato dalla schiera dei martiri contemporanei, nel nostro tempo più numerosi che nei primi secoli del cristianesimo. Non possiamo dimenticarli e rimanere indifferenti, voltando la testa dall’altra parte, come spesso vediamo fare dalle grandi Nazioni.

La C.E.I. ha proposto di dedicare questa Veglia di Pentecoste a tutti i martiri di oggi. Essi ci appartengono, perché sono corpo di Cristo al pari di noi. Le persecuzioni, gli assassinii di questi fratelli colpiscono anche noi. Sono il Cristo nuovamente martirizzato e assassinato. Come ha scritto recentemente padre Douglas Bazi, parroco a Bagdad, i nostri fratelli martiri non si preoccupano tanto di essere uccisi. Non sono adirati con Dio, ma si abbandonano completamente nelle Sue mani. Temono, tuttavia, di esser dimenticati dai loro fratelli, per i quali stanno morendo. In definitiva, sono consapevoli di andare incontro alla morte non solo per se stessi, ma anche per noi. Testimoniano, così, un amore totale a Cristo, affinché non venga meno il nostro amore a Colui che è Signore della vita.

Cari fratelli e sorelle, questa sera preghiamo i nostri fratelli martiri, al fine di essere degni di Cristo, e di non tradirlo qui, nel nostro Paese, nelle nostre famiglie. Dobbiamo avere il coraggio di testimoniare una vita nuova, accogliendo lo Spirito Santo, principio di ogni vera rivoluzione religiosa e sociale. E saremo Suoi testimoni, diventando costruttori di un mondo migliore, ove la vita trinitaria sia incarnata nelle leggi, nelle strutture e in tutti gli ambienti della società civile. Occorre prevenire le guerre del fanatismo religioso, le torture, le esecuzioni, perché ogni persona è un essere umano come noi, non importa se di etnia, colore della pelle, credo religioso o provenienza differente.

Alla preghiera solidale, aggiungiamo dunque un proporzionato impegno nella vita politica, nelle legislazioni, nelle relazioni internazionali, per concorrere a creare condizioni che permettano a tutti indistintamente di godere della libertà di esprimersi e, in particolare, della libertà religiosa.

Lo Spirito di Dio rinnovi la terra e l’umanità che la abita.

OMELIA per il PELLEGRINAGGIO DIOCESANO A TORINO (Maria Ausiliatrice e Sindone)
Torino - Santuario di Maria Ausiliatrice
11-05-2015

Carissimi,

siamo finalmente giunti nella grande Basilica che don Bosco ha innalzato alla Madonna, da lui considerata la fondatrice della Congregazione salesiana. Veniamo dalle nostre diocesi per onorare e pregare il Santo che, con le sue opere – specie scuole ed oratori –, ha contribuito alla formazione cristiana e culturale di intere generazioni di italiani, ed anche di ravennati, riminesi, forlivesi e faentini. Lodiamo il Signore per le meraviglie che ha compiuto mediante l’infaticabile dedizione di don Bosco che si prolunga nell’oggi tramite i suoi «figli» e le sue «figlie». Lo facciamo con riconoscenza tanto più profonda quanto più percepiamo le gravi carenze valoriali delle nuove generazioni nelle città ove i salesiani ed altri istituti religiosi non sono più attivi. È questa la ragione per cui molti giovani non sono più aiutati nella ricerca di un senso alla loro vita, e rimangono demotivati, perché senza Dio.

Essi hanno bisogno della presenza amorevole di genitori, di nonni, di educatori che li accompagnino, li aiutino ad acquisire fiducia in se stessi, sperimentando l’appartenenza ad una famiglia accogliente, di cui Dio è il Padre pieno di tenerezza, che desidera riversare il suo amore su tutti, indistintamente. Spesso vivono in un mondo virtuale, quello di Internet, che, pur offrendo mille informazioni e infinite possibilità di comunicazione, in realtà è asetticamente impersonale, non elargisce vero affetto, tenerezza, il contatto caldo di un abbraccio, come avviene nelle famiglie normali. Non sperimentando in molti casi, l’appoggio e la comprensione dell’amore materno e paterno, i nostri giovani si sentono orfani, sempre alla ricerca di una compensazione purchessia.

Ai piedi di Maria Ausiliatrice, di san Giovanni Bosco e di san Domenico Savio, capolavoro del metodo pedagogico salesiano, rinnoviamo il nostro impegno di essere protagonisti di una nuova educazione dei giovani. Raggiungeremo questo obiettivo, se saremo capaci di far loro incontrare o re-incontrare Gesù Cristo, il Salvatore, in un rapporto personale e pertanto unico.

Impariamo, allora, da don Bosco.

Don Bosco è Chiesa «in uscita da sé», che va incontro ai giovani ovunque si trovino: agli incroci delle strade, nelle piazze, e li raduna e li invita «a casa». Noi, spesso, lasciamo che vivano nel loro mondo, senza preoccuparci di intavolare un dialogo franco ed utile sui problemi che li preoccupano, sulle visioni di vita che assorbono dai mass-media, proiettati, come sono, in un mondo per molti versi artificiale che avvolge e penetra.

Don Bosco è Chiesa che «si coinvolge». Come Gesù vive con i suoi discepoli, così don Bosco vive con i suoi giovani, prodigandosi senza risparmio di fatiche: gioca con loro nei cortili, li affianca, trova sempre le parole adatte, sa essere fratello e, soprattutto, sa essere «padre». Lo udivano spesso affermare: «Io per voi studio, per voi lavoro, per voi sono disposto anche a dare la vita». Dobbiamo, allora, essere convinti che stare con i giovani non è tempo sprecato, ma è un momento privilegiato per dimostrare il nostro affetto, la nostra simpatia e la nostra disponibilità ad ascoltarli facendoci partecipi dei loro problemi.

Don Bosco è Chiesa «samaritana», una Chiesa che non sta lontana, ma si abbassa, si mette in ginocchio per lavare i piedi affaticati, impolverati, quando non infangati. Accorcia le distanze, si prende cura di questi figli di Dio, della loro umanità, «carne» sofferente di Cristo.

Don Bosco, per usare le parole di papa Francesco, va verso le «periferie» dei giovani della società della prima rivoluzione industriale, che scendevano dalle valli verso Torino in cerca di lavoro e spesso erano vittime dello sfruttamento da parte di padroni senza scrupoli. Costruisce per loro oratori, laboratori, scuole, collegi. Per proteggerli, redige un contratto di lavoro. Riforma la pastorale e l’azione apostolica della Chiesa del suo tempo: a fronte di chierici e sacerdoti che si tenevano a distanza dai giovani, perché ritenevano sconveniente stare in mezzo a loro, in cuor suo si propone di comportarsi esattamente nel modo opposto.

A tal fine, crea un imponente movimento di educazione e di emancipazione, ridonando alla Chiesa quel contatto con le masse che era venuta perdendo, e del quale parla il gentiliano, laicista, pedagogista catanese, Giuseppe Lombardo Radice. San Giovanni Bosco intese formare «buoni cristiani» ed «onesti cittadini»: pertanto riteneva che il loro impegno nei compiti ecclesiali non dovesse avvenire a scapito della testimonianza dei valori cristiani nel sociale e nelle istituzioni pubbliche. Oltre che dal punto di vista religioso, li preparò intellettualmente e professionalmente, affinché potessero accedere a un lavoro che consentisse il proprio mantenimento e la formazione di una famiglia, mettendoli così in grado di dare un apporto efficace al bene comune. Come già detto, si impegnò a stipulare i primi contratti di lavoro, facendo in certo modo le veci di un «sindacato», preoccupandosi di verificare non solo il comportamento dei dipendenti, ma anche quello dei datori di lavoro, e incoraggiò la costituzione di Casse di Mutuo Soccorso.

Don Bosco, in definitiva, è Chiesa che accompagna i giovani lungo i faticosi processi di crescita integrale, di umanizzazione e di divinizzazione a un tempo. Ma non solo. Giunge a farne evangelizzatori, ossia a formare una chiesa di giovani, capaci a loro volta di essere «in uscita da sé», disposti a dare la vita, sino al dono totale.

Domenico Savio, autentico emblema del metodo educativo e preventivo donboschiano, fu apostolo tra i suoi compagni, specie i più piccoli, ed ebbe l’occasione di vivere concretamente l’amore di Cristo assistendo qui a Torino le vittime del colera.

Don Bosco è stato Chiesa sempre attenta ai frutti di vita nuova: con i suoi giovani celebrava e festeggiava ogni piccola vittoria sul male, mediante una liturgia gioiosa, che offre e rilancia l’impegno di progredire nel bene mediante una più intima comunione con Dio.

Guardò in profondità la realtà umana, cogliendola con gli occhi della fede come la grande famiglia di Dio Padre, ove tutti sono fratelli e sorelle, e nessuno può essere una «vita da scarto», un essere inutile. Tutti debbono avere la possibilità di una crescita in pienezza, crescita in Dio. La vita delle sue case, lo stesso metodo educativo erano contrassegnati da uno stile di esistenza familiare, dove si sperimentava la paternità di Dio e quella fraternità mistica, che papa Francesco descrive come un vivere insieme, un mescolarsi, un incontrarsi, un prendersi in braccio, un appoggiarsi, un partecipare ad una carovana solidale, a un santo pellegrinaggio (cf Evangelii gaudium n. 87).

Don Bosco ha generato nella Chiesa un popolo di giovani fraterni, gioiosi, perché la sua vita era colma di Dio. Riempiva il loro cuore di Gesù, di quel Gesù che libera dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Ne fa fede una commovente pagina che il Santo don Orione scrive ai suoi chierici nel 1934, l’anno della canonizzazione di don Bosco: «Ora vi dirò la ragione, il motivo, la causa per cui don Bosco si è fatto santo. Don Bosco si è fatto santo perché nutrì la sua vita di Dio. Alla sua scuola imparai che quel santo non ci riempiva la testa di sciocchezze, o di altro, ma ci nutriva di Dio, e nutriva se stesso di Dio, dello Spirito di Dio. Come la madre nutre se stessa per poi nutrire il proprio figliolo, così don Bosco nutrì se stesso di Dio per nutrire di Dio anche noi» (Strenna 2014, pp. 12-13).

Oggi, Congregazione e Famiglia salesiane, e tutti coloro che a Forlì, a Ravenna, a Rimini e a Faenza sentono il fascino di don Bosco, a fronte di una cultura chiusa alla Trascendenza la quale, in forza dell’assolutizzazione del profitto a breve termine, svaluta ed emargina il lavoro e l’economia reale, hanno due compiti: sono chiamati a favorire l’incontro dei giovani con Gesù Cristo, mediante una nuova tappa evangelizzatrice; e a promuovere case-famiglia, scuole e centri di formazione professionale, nonostante le difficoltà di finanziamento da parte delle istituzioni pubbliche. L’obiettivo di ogni Paese civile dev’essere quello di una economia inclusiva, dove c’è spazio anche per coloro che cadono e rimangono feriti a causa di eventi estranei alla loro volontà, come la crisi economico-finanziaria, in cui purtroppo siamo ancora immersi. Mentre persiste il dramma lacerante della droga, sulla quale si intende lucrare in spregio a leggi morali e civili sino a volerla liberalizzare, a danno specialmente delle nuove generazioni, dobbiamo credere nella formazione di persone aperte e scommettere sulle potenzialità positive dei giovani.

In un momento in cui gli Stati sembrano offrire diritto di cittadinanza persino all’omologazione dell’arbitrio, don Bosco sollecita oggi a investire su un amore di tenerezza, sull’amicizia con Dio, su una retta ragione.

Come don Bosco, non lasciamoci defraudare dello slancio missionario, non abbandoniamo i giovani a se stessi. Facciamo sì che, unendo le forze, le nostre comunità si impegnino ad evangelizzarli e ad educarli. Impariamo a comunicare con loro nel linguaggio che essi comprendono. Crediamo in loro, lottiamo per loro. Non rinunciamo a proporre un cammino di speciale consacrazione. Offriamo a loro ciò che di più prezioso abbiamo: Gesù Cristo, la sua pienezza di vita

OMELIA per il PELLEGRINAGGIO degli ANZIANI e MALATI alla MADONNA DELLE GRAZIE
Faenza - Basilica Cattedrale, 10 maggio 2015
10-05-2015

Cari fratelli e sorelle,

nell’occasione della Festa della nostra Patrona, la Parola di Dio ci consola e ci sostiene nel nostro cammino di fede. Sia che siamo giovani o anziani, sia che siamo in salute o ammalati, Gesù ci invita a rimanere in Lui, nel suo amore, per portare frutto. Se viviamo in Lui, la nostra vita, le nostre sofferenze, l’impegno di cura dei nostri fratelli e sorelle, l’annuncio e la testimonianza, l’animazione cristiana delle realtà temporali, la grande opera dell’educazione acquisiscono una valenza trascendente.

Se entriamo nell’amore di Cristo e vi dimoriamo, c’è gioia, gioia piena: nel servire i nostri fratelli e sorelle bisognosi, nel seguire la nostra vocazione, nel vivere la nostra attuale situazione.

L’unica condizione per vivere costantemente nella gioia è amare come Lui, che ci ha dato il comandamento nuovo: amatevi gli uni e gli altri come io vi ho amati (cf Gv 15, 9-17).

Chi ama in Gesù, come Lui, porta molto frutto, in qualsiasi condizione si trovi ad operare: da sano, da ammalato, da mamma o da papà, da fedele laico o da sacerdote, da religioso o da diacono, da responsabile della cosa pubblica o da semplice cittadino, da imprenditore o da lavoratore.

In questa santa Messa, che vede in particolare la presenza degli anziani e degli ammalati, siamo invitati a riflettere sui frutti che l’amore di Cristo consente a loro di portare nella famiglia, nella società e nella Chiesa.

Gli anziani, che hanno fede e continuano a riempire il loro cuore dell’amore di Gesù Cristo, sono come alberi che continuano a portare frutti. La vecchiaia, come ogni stagione dell’esistenza, è tempo di grazia, in cui il Signore rinnova quotidianamente la sua chiamata. Egli chiama i nonni a custodire e a trasmettere la fede ai bambini che sovente sono a loro affidati dai genitori, impegnati nel lavoro da mattina a sera. In alcuni Paesi ove si subisce la persecuzione religiosa, come ci informano anche i giornali, sono i nonni che portano i bambini ad essere battezzati di nascosto, a dare loro la fede. «Ai nonni, che hanno ricevuto la benedizione di vedere i figli dei figli (cf Sal 128,6) – ha detto papa Francesco nel suo discorso del 28 settembre 2014, pronunciato in occasione del suo incontro con gli anziani – è affidato un compito grande: trasmettere l’esperienza della vita, la storia di una famiglia, di una comunità, di un popolo; condividere con semplicità una saggezza, e la stessa fede: l’eredità più preziosa! Beate quelle famiglie che hanno i nonni vicini! Il nonno è padre due volte e la nonna è madre due volte».

Ma anche gli ammalati sono chiamati a portare frutti copiosi nelle loro famiglie, nella comunità ecclesiale, negli ambienti in cui vivono.

Gli ammalati, come ci ha insegnato Cristo stesso, sono persone in cui riconoscere la sua presenza, sicché se non li aiutiamo ed amiamo non accogliamo, non amiamo Lui. Chi assiste gli ammalati, specie quelli gravi o in fase terminale, diventa i loro occhi, i loro piedi (cf Giobbe 29,15). Le persone che assistono gli ammalati bisognosi di un’assistenza continua per lavarsi, vestirsi e nutrirsi, si santificano accogliendo tra le loro mani la vita dei propri fratelli e sorelle, ossia la carne sofferente di Cristo. Gli ammalati, che sono affidati o si affidano a loro, diventano come i loro figli, i loro bimbi da accudire e da amare con tanti gesti di tenerezza e di servizio. I medici, gli infermieri, i volontari sono chiamati ad essere, in un certo senso, «madri» e «padri» nei confronti di coloro che si sono o sono consegnati a loro come esseri bisognosi di cura e di tutto. I nostri ammalati sono una vita affidata a noi, ai medici, alla società, la quale mostra il suo grado di civiltà proprio da come li tratta.

Ma gli ammalati non sono solo destinatari d’amore e di cure. Essi sono persone che vivono la loro esistenza trepidando ed amando insieme.

Gesù li vuole attivi, ricchi di amore, non passivi e rassegnati. Sopportare le sofferenze in maniera stoica non è cristiano. Gesù desidera che il dolore non sia vissuto invano, negativamente, e cioè come una triste occasione di sconforto e di disperazione.

Il dolore, se è vissuto con l’amore di Gesù Cristo, ossia come Egli ha vissuto la sua passione, con fiducia e speranza in Dio, acquista un altro senso. Se si immette nella malattia lo Spirito d’amore di Cristo essa si trasforma in un’esperienza di bene e di valore per gli altri. Le malattie, le sofferenze possono divenire un’occasione di apostolato e di dono. Il beato Mons. Luigi Novarese, sacerdote di origine piemontese, fondatore del Centro Volontari della Sofferenza e dei Silenziosi Operai della Croce, che ha saputo rinnovare la pastorale dei malati, rendendoli soggetti attivi nella Chiesa, era pienamente convinto di questo. Egli soleva ripetere che gli ammalati, i disabili possono diventare sostegno e luce per altri fratelli, trasformando l’ambiente in cui vivono. Sentite cosa ha detto papa Francesco quasi due anni fa incontrando l’U.N.I.T.A.L.S.I. e gli ammalati che essi accompagnavano: «Cari fratelli e sorelle ammalati, non consideratevi solo oggetto di solidarietà e di carità, ma sentitevi inseriti a pieno titolo nella vita e nella missione della Chiesa. Voi avete un vostro posto, un ruolo specifico nella parrocchia e in ogni ambito ecclesiale. La vostra presenza, silenziosa ma più eloquente di tante parole, la vostra preghiera, l’offerta quotidiana delle vostre sofferenze in unione a quelle di Gesù crocifisso per la salvezza del mondo, l’accettazione paziente e anche gioiosa della vostra condizione, sono una risorsa spirituale, un patrimonio per ogni comunità cristiana. Non vergognatevi di essere un tesoro prezioso della Chiesa!» (Discorso ai partecipanti dell’incontro con l’U.N.I.T.A.L.S.I. 9 novembre 2013).

Maria, B. V. delle Grazie, Patrona di questa città e di questa Diocesi, e Madre dell’Amore, aiuti tutti i credenti, compresi gli anziani e gli ammalati, a portare frutti abbondanti, accogliendo soprattutto Gesù Cristo, il suo Figlio, e unendo il nostro sacrificio al Suo.

OMELIA per la MESSA della Offerta dei CERI alla MADONNA DELLE GRAZIE
Faenza - Basilica Cattedrale, 9 maggio 2015
09-05-2015

Cari fratelli e sorelle,

diamo anzitutto il nostro benvenuto ai rappresentanti della città tedesca Schwäbisch Gmünd gemellata con la città di Faenza. Herzlich willkommen!

In questa VI domenica del tempo di Pasqua troviamo finalmente risposta ad una delle domande che ci siamo posti fin da giovani: come conoscere Dio? Nasciamo con questo anelito insito in noi. Tutti gli uomini, di qualsiasi razza, nazione e colore, cercano Dio, perché siamo tutti pellegrini della verità e del bene. Anche chi conclude la sua ricerca, affermando che Dio non esiste e si professa ateo, reca inevitabilmente in sé l’inclinazione ad incontrare Dio. Si nega l’esistenza di Dio movendo, in ogni caso, da una qualche idea di Lui, che il Creatore stesso ha inscritto nel pensiero e nella volontà degli uomini.

Un grande pensatore francese del Novecento, Etienne Gilson, che con i suoi studi ha contribuito a sfatare quel pregiudizio che definiva il Medio Evo epoca dei secoli bui, ci ha lasciato un volumetto dal titolo: L’ateismo difficile. La tesi che egli sosteneva era la seguente. Nonostante che molti si dichiarino atei convinti, e che esistano numerosi testi sulle varie forme di ateismo, bisogna dire che è difficile, se non praticamente impossibile, sostenere questa posizione, perché nel nostro spirito è impressa, che lo si voglia o no, l’idea di Dio. E nessuno, neanche chi lo nega, la può cancellare.

Potremmo dire che la nozione di Dio fa parte del «patrimonio genetico», che ogni persona porta sempre con sé. In Paolo leggiamo che «Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, che grida: “Abbà, Padre”». (Gal 4, 6).

Per conoscere Dio, pertanto, come insegna san Bonaventura da Bagnoregio nella sua opera intitolata Itinerario della mente in Dio, basta scrutare in se stessi, dentro la propria intelligenza e la propria volontà. Proprio qui è possibile scorgere riflessa la Sua immagine e così giungere ad una conoscenza sia pure indiretta, che ovviamente non sarà una visione faccia a faccia.

San Giovanni apostolo, nella sua Prima lettera, ‘ che vi esorto a meditare ‘, afferma che possiamo approfondire la nostra conoscenza di Dio attraverso l’esperienza dell’amore fraterno. Chi ama il proprio fratello conosce Dio. Chi non ama il fratello non può dire di amare e di conoscere Dio intimamente, perché Dio è amore (cf 1 Gv 4,7-10).

Non solo possiamo conoscere Dio in maniera astratta, concettuale o mediante la cosiddetta via negativa. Possiamo addirittura inabitare in Lui, fare esperienza del suo Essere, a condizione di amarci come Lui ci ha amati per primo: «Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore», ci assicura il Signore Gesù (Gv 15, 9-17). Sono davvero parole consolanti ed incoraggianti.

Per conoscere Dio, quindi, non è necessario studiare moltissimi libri, fare profonde ricerche scientifiche, viaggiare per venire a contatto con le molteplici religioni della terra. È sufficiente amare il proprio fratello, amarlo con lo stesso amore di Gesù Cristo, perché «l’amore autentico di sua natura tende all’infinito e all’eternità».

Tra le persone che hanno maggiormente amato l’umanità e i propri simili emerge sovrana la figura di Maria santissima, nostra Patrona. Proprio per questo suo amore per noi, per la nostra salvezza, ha potuto conoscere e amare Dio nella maniera più completa.

Se viviamo la sua apertura all’accoglienza di Dio ‘ che in Lei si è verificata prima nella mente e poi nel grembo ‘, anche noi potremo davvero conoscere il Padre, sperimentare la sua trascendenza, quasi sino a «toccarla» e a comunicarla. La Figlia di Sion ha «conosciuto» e sperimentato Dio come Madre, poiché, attraverso la sua maternità, ha intessuto la carne, l’umanità del Figlio di Dio, ospitandoLo in sé, sotto il proprio cuore.

Maria è madre delle Grazie, perché ha generato Colui che è la Grazia, Gesù Cristo. Non dobbiamo dimenticare mai che la Vergine è strada privilegiata che ci porta a Dio. Vogliamo conoscere ed amare di più Dio? Impariamo da Maria, la Madre, che ha accolto e generato Colui che è Verità, Vita e Via. Non sbaglieremo, allora, dicendo che possiamo conoscere più intimamente Dio attraverso l’amore della Madonna per il Figlio Gesù.

In questa Eucaristia la città di Faenza ha la bella consuetudine di offrire alla Patrona della città e della diocesi tanti ceri quanti sono i Rioni, quale gesto che coinvolge tutta la cittadinanza nell’amore a Maria.

L’omaggio dei ceri da parte dei Rioni della Città non sta a significare soltanto una manifestazione d’affetto verso Colei che, come ogni madre, protegge i suoi figli, ma anche un ringraziamento, perché suo tramite possiamo conoscere e ad amare meglio Gesù Cristo, l’Uomo-Dio.

Egli ci salva e redime con il dono della sua stessa Vita, rinnovato ogni giorno nell’Eucaristia, come quella che stiamo celebrando.

OMELIA per la Festa di SAN GIUSEPPE LAVORATORE
Faenza - Chiesa di San Giuseppe Artigiano, 1 maggio 2015
01-05-2015

Festeggiare san Giuseppe artigiano ci consente di riflettere sul lavoro umano in un contesto in cui scarseggia e se ne perde sempre più il senso e la valenza. Il lavoro, apprendiamo dalla prima lettura tratta dal Libro della Genesi, fa parte della condizione originaria dell’uomo, precede la sua caduta, e non è una punizione o una maledizione. Ben al contrario, è attività che assimila l’uomo a Dio, che durante sei giorni ha “lavorato” per l’opera della creazione ed ha riposato il settimo (cf Gn 2,2). L’uomo, creato ad immagine di Dio, è chiamato ad imitarlo. La Genesi pone per ultimo la creazione dell’uomo e della donna, ai quali Dio comanda: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gn 1,28).

«Soggiogare» e «dominare» sono due verbi che si prestano a fraintendimenti. Potrebbero giustificare un dominio dispotico e sfrenato, che, anziché curarsi della terra e dei suoi frutti, ne faccia scempio. In realtà, è la stessa Genesi a spiegare come vada svolto questo compito: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2,15). Adamo ed Eva, l’uomo e la donna – cioè l’umanità nell’unità e nella complementarità delle sue componenti –, sono così chiamati a «dominare» la creazione custodendola, coltivandola, sviluppandone le potenzialità in maniera sostenibile.

Mediante il lavoro, l’uomo governa il mondo con Dio, assurgendo al ruolo di suo stretto collaboratore, e compie, secondo le proprie capacità, cose buone per sé e per gli altri. La specificità della creazione è di essere e rimanere un dono per tutti i popoli, per tutte le generazioni. Il primo comando di Dio, per conseguenza, impone di conservare e di coltivare la terra, nel rispetto della sua natura di dono e benedizione, affinché serva e resti a disposizione di ogni uomo. In un tempo in cui si inaugura a Milano l’EXPO e gli stessi vertici della FAO sottolineano il pericolo di neocolonialismi alimentari, di espansione di neolatifondi ottenuti soprattutto tramite land grabbing a spese delle popolazioni più povere, emerge chiaro dalla parola di Dio che la terra non può e non deve essere trasformata in proprietà per pochi, in strumento di potere o in motivo di divisione e di angoscia. Il diritto-dovere della persona umana di «dominare» la terra deriva dal suo essere a somiglianza di Dio. Purtroppo, il peccato originale, da cui nessuno di noi è immune, ferisce la terra e la fa soffrire, «condizionando» il piano di Dio, impedendogli di realizzarsi.

Il profeta Osea descriveva nel suo tempo una situazione che sembra appartenere ai nostri giorni: «Si spergiura, si dice il falso, si uccide, si ruba, si commette adulterio, tutto questo dilaga e si versa sangue su sangue. Per questo è in lutto il Paese e chiunque vi abita langue, insieme con gli animali selvatici e con gli uccelli del cielo; persino i pesci del mare periscono» (Osea 4, 2-3).

La terra e il lavoro umano hanno urgente bisogno di redenzione per riacquistare il loro senso originario, il loro valore. Il nostro pianeta dev’essere «casa per tutti», che accoglie e nutre i suoi abitanti. Il lavoro non può ridursi a mero strumento di sfruttamento indiscriminato delle risorse del globo e tantomeno ad attività che dilapidano e sperperano un patrimonio che non appartiene solamente alla presente generazione. Non va dimenticato, inoltre, che oggi, più di ogni altro lavoro viene esaltata una speculazione sfrenata, sempre più staccata dalla responsabilità sociale e dalla sicurezza alimentare dei popoli.

Non di rado, il lavoro manuale e produttivo è disprezzato rispetto alle molteplici attività speculative. È ritenuto una variabile dipendente dei meccanismi finanziari e monetari, e un mezzo marginale rispetto alla produzione della ricchezza delle Nazioni.

San Giuseppe artigiano, che con la sua attività lavorativa contribuisce alla crescita del Figlio di Dio a lui affidato, e Gesù stesso «carpentiere», come ci informa il Vangelo odierno di Marco, ci aiutano a rivalorizzare lo spessore antropologico ed etico del lavoro. Gesù giunge addirittura a descrivere la sua missione come un lavoro. «Il Padre mio opera sino ad ora, ed anch’io opero» (Gv 5,17). Il lavoro, in definitiva, ha anche un senso religioso, una valenza salvifica. Non vale solo per quanto produce per se stessi e la società, ma soprattutto perché, suo mediante, si collabora con l’opera creatrice e redentrice di Dio.

Care lavoratrici, cari lavoratori, è questo il lavoro che dobbiamo realizzare e festeggiare, specie diventando protagonisti di una nuova evangelizzazione del sociale, di un nuovo umanesimo del lavoro.

È mediate il lavoro che ci si dignifica, ci si personalizza, ci si socializza, si concorre alla realizzazione della pace e del bene comune. Il lavoro consente di formare una famiglia. È antidoto alla povertà. È titolo di partecipazione. Nessuno deve essere escluso dal lavoro. Dobbiamo dire chiaramente che il lavoro, oltre che un dovere, è un diritto di tutti.

San Paolo ‘ che aveva affermato: «Chi non lavora neppure mangi» ‘ annuncia la speranza della terra di essere redenta da Cristo. E questo può avvenire soltanto mediante un lavoro umano vissuto nel Verbo di Dio, il Logos. Ciascun lavoratore, afferma sant’Ambrogio, è la mano di Cristo che continua a creare (cf Ambrogio, De obitu Valentiniani consolatio, 62; PG 7, 1210), e a redimere, trasfigurando, portando a compimento la «nuova creazione». Nel suo sforzo lavorativo l’uomo, che in Cristo partecipa dell’arte e della saggezza divine, rende più bello il creato, il kósmos, già ordinato dal Padre (cf Ireneo, Adversus Haereses, 5,32,2: PG 7, 1210), che lo destina a tutti, facendo sì che ogni figlio di Dio possa accedere ai beni necessari e sufficienti per vivere secondo dignità e libertà.

Specie di fronte a chi è povero e senza lavoro, il credente non può essere sordo. Deve sentirsi convocato ad operare, memore dell’insegnamento di Cristo: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37); «Ebbi fame e mi avete dato da mangiare» (Mt 25,42). Ciò implica l’impegno, sia a livello di collaborazione per risolvere lo sviluppo integrale della parte più disagiata della società, sia i gesti più semplici e quotidiani di solidarietà di fronte alle miserie molto concrete che incontriamo ogni giorno.

Il cristiano, come va ripetendo papa Francesco, non deve limitarsi a dar da mangiare a chi ha fame mediante un’azione caritativa o piani assistenziali. Deve lavorare, assieme ad altri cristiani e uomini di buona volontà, per creare opportunità di lavoro, per liberare il lavoro schiavo, perché la classe dirigente assuma le sue responsabilità di soggetto di politiche attive del lavoro per tutti.

Cari fratelli e sorelle, dobbiamo essere degni fratelli di quei cattolici che, qui a Faenza, all’inizio del secolo scorso, decisero di mettere in campo tutte le loro energie spirituali, culturali e pedagogiche per sconfiggere una concezione del lavoro ridotto a merce, e per favorire la promozione sociale dei lavoratori, avviando nuove iniziative volte al superamento delle opere caritative di Patronato. Il loro intento era di passare a un coinvolgimento organizzativo e istituzionale dei più poveri, delle classi che si aiutavano (cf P. Baccarini, I sindaci di Faenza. Antonio Zucchini fra religiosità e politica 1891-1971, Edit. Faenza, Faenza 2015, p. 27).

È quanto, sia pure in circostanze diverse, ci viene richiesto oggi, al fine di includere nel mercato e nella democrazia coloro che una cultura, idolatra delle cose, sospinge o mantiene ai margini della società.

A Giuseppe di Nazaret, che insegnò a Gesù il mestiere di carpentiere, affidiamo il nostro impegno di testimoni credibili del «Vangelo del lavoro».

OMELIA per la festa di SAN GIORGIO, patrono degli Scout
25-04-2015

Cari Scout di Faenza,

oggi festeggiamo san Giorgio, patrono in particolare degli Esploratori.

Baden-Powel sollecitava gli scout a guardare a san Giorgio come punto di riferimento per il proprio cammino formativo. E invitava anche a concentrarsi, più che sulla figura del cavaliere antico, sul significato della sua lotta contro il drago. Il drago simboleggia il male che uccide. San Giorgio combatte contro Satana, che mira a distruggere le persone, soprattutto i cristiani. Ma, potremmo domandarci, come è possibile che avvenga questa devastazione? Basti pensare alla persona di Giuda. Come leggiamo nei Vangeli, Satana, il nemico, l’avversario, l’accusatore, si impossessò di lui e lo indusse, prima, a tradire Gesù, e poi, a disperare del perdono che il Signore gli avrebbe certamente concesso, fino a suicidarsi.

Sappiamo che san Giorgio è chiamato dagli orientali «il grande martire» ed è festeggiato nei riti siro e bizantino. Aveva intrapreso la carriera militare ai tempi di Diocleziano, ma, a causa della fede venne perseguitato e torturato. Essendosi rifiutato di abiurare (sapete che cosa significa abiurare?), verso l’anno 303fu decapitato a Lidda l’odierna Lod, in Palestina. Con il suo martirio offre anche oggi a tutti noi un esempio di fortezza e di perseveranza nella fede in Cristo, in ogni circostanza della vita.

Guardando a san Giorgio, un esploratore e una guida sanno di poter vivere anch’essi la grande avventura di figli di Dio, fedeli e pronti nel compiere il bene, anche a costo di dover superare prove difficili. La lotta vittoriosa di san Giorgio contro il drago di Selem è simbolo della lotta del bene contro il male, la lotta che deve sostenere ogni credente che voglia seguire Gesù. Il cristiano che, come Gesù, si impegna a vincere il male operando il bene e donandosi totalmente al Padre, incontra sulla sua strada il sacrificio e talora la morte. È a causa della sua determinazione a seguire Gesù in tutto e per tutto, che san Giorgio è andato volontariamente incontro alla morte. Non si è mostrato cristiano solo a parole, ma ha dato la prova di esserlo, annunciando Gesù Cristo con la sua stessa vita.

In sostanza, nel suo tempo san Giorgio non ha esitato a dire a tutti che per lui Gesù Cristo era la persona più importante, per cui considerava essenziale suo dovere annunciarlo, comunicarlo e testimoniarlo. È stato ucciso per la sua fedeltà a Cristo. Ma quanti altri sono stati uccisi per amore a Gesù! Nel passato, la Chiesa è stata Chiesa di martiri, ma lo è anche oggi. Tra i martiri contemporanei papa Francesco indica quei nostri fratelli sgozzati sulla spiaggia della Libia; quel ragazzino bruciato vivo dai compagni, soltanto perché cristiano; quei migranti che sono stati buttati in mare, perché nel pericolo invocavano il Signore Gesù; quegli etiopi e quegli studenti kenioti assassinati, soltanto perché cristiani.

Chi ci dà la capacità di annunciare Gesù Cristo, di testimoniare che lo amiamo più della nostra vita? Cristo stesso! Egli è il pane della vita che, alimentandoci, ci dà la forza e la capacità di annunciarlo, come Filippo lo annunciò a quell’eunuco, funzionario di Candàce, regina di Etiopia di cui ci parlano gli Atti degli apostoli (cf At 8, 26-40). Se letteralmente lo mangiamo e facciamo comunione con Lui, diventeremo capaci di essere, come Lui ‘ il martire e il testimone per eccellenza ‘, pane che si dona, che nutre e che sostiene. Non solo riusciremo a dar da mangiare il pane materiale agli affamati ‘ «Date voi stessi da mangiare» ha ordinato Gesù ai suoi discepoli ‘, ma soprattutto riusciremo a donare Lui, il pane vivo disceso dal cielo, quel pane che fa vivere in pienezza e che sazia la nostra fame di eternità (cf Gv 6,44-51).

Il vostro, cari scout, è un grande metodo educativo, che insegna con l’agire e che tiene conto del volume totale delle dimensioni della persona, e quindi anche di quella religiosa. Cristiani non si nasce. Cristiani si diventa a poco a poco, ogni giorno. E lo si diventa vivendo appunto da cristiani, annunciando Cristo e testimoniandolo nel proprio gruppo oltre che nel proprio ambiente. Ma ricordate che senza Cristo, vero pane della vita, non sarà possibile tener fede neanche alla Promessa scout che insieme reciteremo fra breve.

OMELIA per la MESSA VESPERTINA DI PASQUA
Faenza - Basilica Cattedrale, 5 aprile 2015
05-04-2015

Il brano di Vangelo (cf Lc 24, 13-35), che abbiamo appena udito proclamare, è davvero importante per comprendere la trasformazione che opera la Pasqua nei discepoli di Cristo, ma anche per capire la centralità dell’Eucaristia per la vita della Chiesa. È l’Eucaristia che fa la Chiesa e i credenti, come peraltro sono loro che celebrano  e fanno l’Eucaristia.
La vita dei credenti può essere ben rappresentata dai due discepoli di Emmaus. Mentre si allontanavano da Gerusalemme ed è già incominciato – grazie alla morte e risurrezione di Cristo – un mondo nuovo, essi sono ancora rinchiusi nel mondo vecchio.
È davvero paradossale. Discepolo vuol dire seguace, colui che si sforza di mettere i piedi sulle orme del maestro. I piedi, invece, dei due discepoli, diretti a Emmaus, sono lontani anni luce dal Risorto. Stanno percorrendo la strada come persone tristi, come chi è morto dentro ed è nella disperazione. L’avventura di seguire Gesù di Nazareth come discepoli era terminata tragicamente e bruscamente.
Sebbene Gesù si avvicina a loro non lo riconoscono. I due viandanti hanno la sorgente della luce accanto, ma nemmeno se ne accorgono. «Essi non lo riconobbero, perché i loro occhi erano come accecati».
Che cosa li accecava e li rendeva incapaci di leggere il presente, di capire con chi si accompagnavano? Che cosa impediva a loro di comprendere che tutto era cambiato e che una nuova storia, per loro e il loro popolo, era iniziata? Erano chiusi ermeticamente nei loro pensieri e progetti. «…Noi – risponde Cleofa a Cristo che li interrogava  a riguardo dei ragionamenti che stavano facendo sull’uccisione e sulla crocifissione di Gesù – speravamo che fosse lui a liberare il popolo di Israele».
I due discepoli di Emmaus vivevano nel passato ed erano vittime del messianismo dei dotti, dei farisei, degli scribi e dello stesso popolino, i quali attendevano un liberatore potente, con apparati di controllo e di governo, capace di riscattare l’umiliazione del popolo ebreo dominato dai romani. Essi aspettavano un Messia forte, nazionalista, miracolista, proiezione dei loro desideri umani e terreni.
A fronte di quanto era avvenuto a Gerusalemme erano rimasti profondamente delusi. Gesù aveva scelto un altro tipo di messianismo, quello del rifiuto del potere – proposto da Satana che l’aveva tentato nel deserto -, ossia quello dell’accettazione dell’amore, proposto dal Padre. Gesù scelse un messianismo che comportava essenzialmente il sacrificio, il sangue, l’ignominia della croce. È proprio questo che i due discepoli non potevano capire e mandare giù, tanto più che si era ormai al terzo giorno, per cui non c’era più nulla da sperare.
I due discepoli erano così incupiti e rabbuiati nel loro spirito che non erano in grado di decifrare e capire ciò che alcune donne del loro gruppo avevano riferito, e cioè che andando al sepolcro di Gesù l’avevano trovato vuoto e avevano udito angeli che dicevano che il Maestro era vivo.
Chi è riuscito a liberare i due discepoli dalla loro cecità? Gesù stesso: spiegando le Scritture, ricostruendo nella loro testa, tratto dopo tratto, la figura del vero Messia. E così i due si ricredono, sino a credere la risurrezione di Gesù. Dobbiamo constatare che a questo punto i discepoli credono sì in Gesù risorto, ma non sono ancora arrivati a riconoscerlo nel loro compagno di viaggio. Ci vuole un’esperienza più profonda per percepirlo presente. Intanto, nel loro cuore, mentre Gesù, lungo la via, parlava e spiegava le Scritture, cresceva un fuoco che li illuminava, li purificava e li riscaldava, e nello stesso tempo li predisponeva ad accogliere e ad ospitare il loro compagno di viaggio ancora misterioso.
Ed è dopo che Gesù fece finta di voler continuare il viaggio per accrescere in loro il desiderio di trattenerlo – «Resta con noi perché si fa sera» – e dopo che si mise a tavola con loro, prese il pane e pronunciò la preghiera di benedizione, lo spezzò e cominciò a distribuirlo, che finalmente lo riconobbero. È solo allora che ai due ciechi spirituali si aprirono gli occhi. Il processo di riconoscimento di Gesù presuppone più cose: la familiarizzazione con la Parola e, poi, il rinnovo della Cena eucaristica, preceduto dal gesto dell’ospitalità, del servizio del povero. Per riconoscere pienamente Gesù occorre sempre mettersi sulla strada della Parola, dell’accoglienza del bisognoso e dell’Eucaristia.
Allo «spezzare del pane» si aprirono, dunque, i loro occhi. Ma appena lo riconobbero, il Cristo scomparve. La sparizione del Risorto non fa, però, piombare i due nella tristezza  e nella delusione. Piuttosto, li mobilita. Cleofa e l’amico si alzarono e ritornarono subito a Gerusalemme. Il fuoco non lascia in pace. Essi intendono portare la buona notizia agli apostoli, raccolti nel Cenacolo, terrorizzati «per timore dei giudei» e, poi, sconvolti dalle parole delle donne. A loro riferiscono di averlo riconosciuto «allo spezzare del pane»! Annunciano e testimoniano.
E, così, è la prima volta che la comunità nascente prende coscienza che l’Eucaristia è il luogo privilegiato dell’esperienza vitale del suo Signore. Non solo. L’Eucaristia, oltre a compattare i discepoli in una comunità, rendendoli Chiesa, li fa annunciatori e testimoni. È l’esperienza dell’Eucaristia che rende evangelizzatori e testimoni sino agli estremi confini della terra. Detto altrimenti, è impossibile essere comunità cristiana, essere cristiani, senza l’Eucaristia. Una simile coscienza era ben presente nei cristiani di Abitene. Essi hanno affrontato coraggiosamente la morte, pur di non rinnegare la loro fede nel Cristo risorto e non venir meno all’incontro con Lui nella celebrazione eucaristica domenicale. Uno di loro, il lettore Emerito, che li ospitò in casa sua, al proconsole che gli chiedeva perché li avesse accolti, contravvenendo alle disposizioni dell’imperatore Diocleziano, rispose: « Sine dominico non possumus»: non possiamo cioè, né essere né tanto meno vivere da cristiani senza riunirci la domenica per celebrare l’Eucaristia. Per i martiri di Abitene l’Eucaristia, celebrata nella domenica, era un elemento costitutivo della loro identità di credenti che annunciano e testimoniano Cristo. Il cristiano vive della celebrazione dell’Eucaristia, e questa richiede la presenza dei cristiani. Essi non possono sussistere l’uno senza l’altra, e viceversa.
Domandiamoci: noi cristiani del terzo millennio pensiamo di essere cristiani perché frequentiamo e celebriamo l’Eucaristia o pensiamo di poterlo essere anche senza l’Eucaristia domenicale? Oramai le percentuali dei credenti che osservano il precetto domenicale ci informano che il loro numero è progressivamente in calo e che molte delle nostre chiese sono prossime ad essere chiuse o a diventare al massimo dei musei. Noi e i nostri giovani viviamo il convincimento dei martiri di Abitene, e cioè che l’Eucaristia ci struttura come annunciatori e testimoni? Educhiamo i credenti ad identificarsi con la loro missione evangelizzatrice? Le nostre chiese si svuotano progressivamente, perché il precetto si è trasferito ai supermercati o alle stazioni sciistiche? Forse, anche in vista della presenza dei credenti all’Eucaristia, dobbiamo riconoscere di dover promuovere una nuova evangelizzazione e una nuova catechesi! Che i nostri santi patroni e i santi, che hanno reso la nostra città ricca di fede e di opere, ci aiutino!

OMELIA per la MESSA del GIORNO di PASQUA
Modigliana - Concattedrale, 5 aprile 2015
05-04-2015

Come si narra negli Atti degli apostoli, i componenti della prima comunità dichiarano di essere stati testimoni della presenza di Cristo in mezzo a loro come Colui che ha beneficato e risanato tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con Lui. Essi anche affermano di essere stati testimoni della sua crocifissione e che Dio lo ha risuscitato il terzo giorno.
Dopo averlo incontrato da Risorto, dopo aver mangiato e bevuto con Lui – prova che non era un’allucinazione, bensì l’esperienza reale della sua Persona – esprimono la coscienza di essere stati trasformati e costituiti come gruppo prescelto per testimoniarlo come Colui che toglie il peccato del mondo e crea una nuova umanità.
Domandiamoci: noi che siamo stati battezzati in Cristo, che abbiamo ricevuto il suo Spirito d’Amore mediante il sacramento della confermazione, che mangiamo e ci nutriamo del pane eucaristico alla mensa che Lui imbandisce, viviamo la chiara consapevolezza di essere persone redente e salvate, riunite in una comunione-comunità progettata ed attuata per essere l’esperienza della forza trasfigurante della risurrezione nella storia? Abbiamo forza e coraggio sufficienti per annunciarlo come Luce e speranza del mondo, in un contesto in cui il Crocifisso è dileggiato con volgarità bestemmiatrice? Siamo convinti che è rimanendo uniti a Lui che noi riusciremo a sconfiggere Satana che fa di tutto per occuparci, per toglierci Cristo, la fede in Lui, la pace del cuore, la gioia di vivere insieme e di operare per il bene di tutti?
Se constatiamo che noi e le nostre comunità siamo un po’ spenti, stanchi, senza forti convinzioni e capacità di esprimere la vita nuova donata da Cristo, se non riusciamo a consegnarlo alle nuove generazioni come il tesoro più grande, sia benvenuta, anche quest’anno, la Pasqua del Signore Gesù!
Riviviamola non come un semplice rito di stagione. Lasciamoci coinvolgere nel suo mistero che abbraccia l’umanità intera – con tutte le generazioni -, ma anche il cosmo.
Con l’incarnazione di Gesù il cielo, Dio, si è fatto terra, umanità: il Verbo si è fatto carne, uno di noi, Dio con noi, in noi, per cui cammina con noi e non siamo soli quaggiù a lottare contro il male. Ma Cristo non si è incarnato solo nell’umanità per divinizzarla, è disceso anche nella materia del pane e del vino quando ha istituito l’Eucaristia; è disceso nella stessa morte, negli Inferi. Con la risurrezione la terra, l’umanità, diventa cielo, Dio. La morte è sconfitta, e viene aperto per noi un passaggio verso la vita eterna.
Da esseri corruttibili, così come siamo posti nelle tombe, diventiamo esseri rivestiti di immortalità, per cui possiamo dire che, quando moriamo, la vita non ci è tolta ma trasformata. Anche il creato reca in sé un principio di vita nuova, sicché come afferma san Paolo, esso geme nelle doglie del parto di una nuova creazione.  Come i raggi del sole, a primavera, fanno spuntare e schiudere le gemme sui rami degli alberi, così la Risurrezione di Cristo fa germogliare nel mondo una nuova umanità, la Chiesa. Ugualmente produce un nuovo cosmo che risplende e gioisce perché coinvolto nella primavera dell’umanità. Se le persone sono redente da Cristo esse sono in grado di vivere nuovi rapporti con il creato. Se con la Pasqua è possibile un’umanità nuova è possibile anche un’ecologia umana, e così diventa accessibile uno sviluppo sostenibile per tutti, che non saccheggia l’ambiente, ma considera la terra una casa comune per tutte le generazioni, presenti e future.
Ecco perché nella risurrezione di Cristo non gioisce solo l’uomo, ma gioiscono anche i cieli e la terra! Del loro inno di lode muta se ne deve fare interprete l’umanità. L’alleluia pasquale, che risuona nella Chiesa pellegrina nel mondo, deve esprimere l’esultanza silenziosa dell’universo, e soprattutto l’anelito di ogni anima sinceramente aperta a Dio.
 
Al processo di incarnazione, di discesa e di svuotamento, mediante la risurrezione viene fatto corrispondere un movimento di ascesa, di risalita. Cristo è innalzato e ritorna al Padre, siede con la sua umanità gloriosa alla sua destra. E così, la nostra umanità, assunta da Cristo, giunge in paradiso.
 In Cristo che siede glorioso nei cieli è preparato per l’umanità un approdo definitivo, di stabilizzazione nel bene e nella vita piena. Noi siamo attesi lassù. La nostra vita, cari fratelli e sorelle, non è destinata a finire in una tomba, in un pugno di cenere. La nostra vita non è per il nulla, come insegnava, il filosofo francese Jean Paul Sarte. Siamo, invece, esseri per la vita, incamminati verso un futuro di pienezza. I credenti sanno che con-morti, con-sepolti, con-risorti in Cristo non vanno incontro ad un’esistenza diminuita ed indebolita, come quella delle ombre umane che vivono nell’Ade degli antichi, ma vanno verso una vita potenziata, nella quale le loro facoltà di conoscenza e di amore sono accresciute dalla comunione con Dio.
Proprio perché siamo pellegrini verso una dimora definitiva, la città di Dio, san Paolo sollecita la comunità cristiana e tutti noi a guardare non alle cose passeggere, caduche, contingenti, bensì a quelle definitive, e quindi a volgere lo sguardo verso il futuro: «Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3,1-4).
Se, dunque, grazie alla risurrezione, siamo destinati alla pienezza umana che abita in Cristo glorioso, e che consolida il bene da noi compiuto su questa terra, cari fratelli  e sorelle, vale la spesa soffrire per il bene, vale la pena lottare perché sia vinto il male, non è inutile combattere contro la corruzione che ammorba la vita sociale, vale la spesa impegnarsi affinché la politica sia un servire il bene comune e non il proprio interesse particolare. Ogni fatica per sconfiggere le cause strutturali della povertà viene premiata. Ogni sacrificio è compensato. Nulla andrà perduto del bene conquistato. Tutto ciò che di positivo è stato fatto sarà recuperato.  E possiamo sempre sperare nonostante tutto. La vittoria di Cristo sul male mi dà la certezza che io posso sempre ancora sperare, anche se per la mia vita o per il momento storico che sto vivendo apparentemente non ho più niente da sperare. Solo la grande speranza-certezza che, nonostante tutti i fallimenti, la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell’Amore di Cristo risorto  – e, grazie ad esso, hanno per esso un senso e un’importanza -, solo una tale speranza può dare ancora il coraggio di operare e di proseguire sulla strada del dono, anche quando si è in fin di vita.
Poiché Cristo ha vinto il male e la morte è possibile il bene, una nuova umanità più fraterna, giusta e pacifica. Dobbiamo, allora, non essere tristi, senza speranza. Dobbiamo essere nella gioia. La risurrezione di Cristo è il punto archimedico su cui far leva per riprendere fiducia in noi stessi e rimetterci in marcia per costruire un mondo migliore, a misura della dignità trascendente di ogni persona, specie dei più deboli.
Ricordiamo il monito di san Paolo: «Se Cristo non è risorto, vana è la nostra predicazione e vuota la nostra fede» (1Cor 15,14).
La risurrezione ha trasformato gli apostoli, facendoli passare dalla paura al coraggio, dal desiderio di nascondersi alla determinazione di esporsi, dall’atteggiamento della rinuncia a quello della proposta. Un simile cambiamento avvenga nelle nostre comunità, nelle nostre famiglie. Dobbiamo, allora, augurare una Buona Pasqua alle nostre comunità cristiane: ritrovino la freschezza e la gioia del primo annuncio della comunità primitiva, quando questa era appena un seme! Così, le nostre famiglie non abbiano la paura di testimoniare la ricchezza e la bellezza della loro vita di relazione affettiva e di condivisione, arricchite dall’amore totale e fedele di Cristo.
Buona Pasqua ai nostri giovani, perché sappiano scorgere in Cristo l’umanità in pienezza, la sorgente della loro felicità.
Buona Pasqua alla finanza, perché sappia ritornare a svolger più pienamente la sua funzione di offrire il credito alle famiglie, alle imprese, ai giovani e alle donne che intendono aprire una nuova attività imprenditoriale.
Buona Pasqua all’economia: sia amica delle persone, sia un’economia onesta e non dell’ingiustizia, dello sfruttamento delle persone. Sappia vincere la tentazione di scivolare verso gli affari facili, verso la delinquenza, verso i reati.
Buona Pasqua alla politica, perché sia fedele al compito di servire il bene comune e sia capace di aiutare la gente a riappropriarsi della democrazia, varando soprattutto politiche attive del lavoro, antidoto alla povertà e titolo di partecipazione.
Buona Pasqua al mondo del volontariato, della cooperazione:  trovino nuove forme di iniziativa per combattere, come ha chiesto papa Francesco, la «cultura dello scarto», per portare la cooperazione sulle nuove frontiere del cambiamento.
Buona Pasqua alla cultura e all’educazione: siano in grado di smantellare quell’individualismo libertario ed anarchico che distrugge lo Stato di diritto e pone le premesse per svuotare la libertà, riducendola a libertà che non si prende cura dell’altro, ossia a libertà di fare tutto ciò che si crede purché non si leda il diritto altrui: troppo poco per costituire la base di una nuova Europa fondata sulla solidarietà.
Buona Pasqua al mondo, a quelle Nazioni in cui essere cristiani è motivo sufficiente per essere uccisi o cacciati dalla propria casa. Cristo risorto apra la via della libertà, della giustizia e della pace. La sua luce vinca le tenebre dell’odio e della violenza.
Cari fratelli e sorelle, Cristo risorto, presente nell’Eucaristia, cammina davanti a noi verso i nuovi cieli e la terra nuova. Nel nostro cuore c’è gioia e dolore, perché pur consapevoli della vittoria finale, viviamo in un mondo ferito. L’Eucaristia è per noi viatico, pane che ci sostiene nella lotta per un mondo migliore. Partecipiamo al sacrificio di Gesù per seminare nel mondo fiducia e fraternità.