Archivi della categoria: Omelia

OMELIA per le ESEQUIE di don ORESTE MOLIGNONI
Fossolo di Faenza - 14 ottobre 2015
14-10-2015

Poco fa nel Vangelo abbiamo ascoltato le parole di Gesù: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. Esse illuminano la nostra fede e sostengono la nostra speranza nel momento che stiamo vivendo, mentre, raccolti attorno al nostro caro Don Oreste, ci apprestiamo a dargli l’ultimo saluto, con sentimenti di affetto e di viva riconoscenza. Con lui vogliamo confessare, con particolare intensità, che nell’Eucaristia siamo misteriosamente resi partecipi della morte e risurrezione del Signore, coinvolti in un’opera grande di ricapitolazione di tutte le cose nell’Uomo Nuovo, Principio e Fine di ogni cosa. Mediante Cristo che tutto assume e trasfigura, Dio prepara, sin da ora, per i suoi servi buoni e fedeli, il premio della vita che non avrà mai fine.

Questa è la fede che ha guidato la lunga e feconda vita sacerdotale di Don Oreste. Con questa fede egli ha celebrato il Sacrificio, la S. Messa, cercando in essa il riferimento costante della sua vita spirituale, per essere di Cristo, con Cristo, per Lui, con animo indiviso, fedele al suo Signore. Da qui ha attinto la forza per il suo zelante ministero sacerdotale, esercitato quasi per intero in questa comunità parrocchiale di Fossolo. Qui, per 57 anni, Don Oreste ha celebrato l’Eucaristia e ha nutrito i suoi parrocchiani con il Pane della vita, affinché fossero essi stessi «eucaristizzati», più capaci di dono e di servizio, con i sentimenti del Redentore. Qui ha donato il perdono di Dio nel sacramento della riconciliazione, perché la misericordia rigenerasse e aiutasse a rialzarsi lungo il cammino; ha predicato il vangelo di Cristo, quale parola viva, efficace, più tagliente di ogni spada a doppio taglio, penetrante nel discernere i sentimenti e i pensieri del cuore. Qui ha introdotto i neonati nel Popolo santo di Dio attraverso il sacramento del Battesimo perché si riconoscessero figli nel Figlio e fratelli con pari dignità. Nel grembo di comunione del popolo di Dio che è in Fossolo ha preparato i ragazzi alla Cresima e i giovani al matrimonio affinché fossero credenti adulti, costruttori della comunità, testimoni credibili, inviati; ha benedetto coloro che sono partiti per impegni di missione e sono ritornati rinfrancati nella fede e nella carità di Cristo; infine, ha accompagnato tanti fratelli e sorelle nell’ultimo passaggio da questo mondo al Padre perché fossero da lui accolti, accompagnati dal grande Pastore i cui occhi vedono oltre le tenebre. Confidiamo che ora il Padre abbia accolto anche lui nella sua casa per partecipare al convito del cielo. Per questo nostro fratello si è ormai compiuta la “beata speranza” che, come ripetiamo ogni giorno nella celebrazione eucaristica, attendiamo cercando di vivere pellegrini sulla terra, “liberi dal peccato” e con lo sguardo rivolto alle cose di lassù. Pensiamo che don Oreste, presbitero cuore a cuore con Cristo, ora prende parte al convito messianico di cui parla Isaia nella prima Lettura, dove la morte è eliminata per sempre e le lacrime sono asciugate su ogni volto (cfr Is 25,8). In attesa di condividere anche noi, l’eterno convito di amore, ci accompagna la certezza espressa nel Salmo responsoriale: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla” (Sal 22,1). Sì, per l’uomo che vive in Cristo, la morte non fa paura; egli sperimenta in ogni momento quanto il salmista afferma con fiducia: “Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me” (22,4).

Tu sei con me”: questa espressione rimanda ad un’altra che Gesù risorto rivolse agli Apostoli: “Io sono con voi” (Mt 28,20). Don Oreste ha vissuto questa presenza trasfigurante. Per questo ha sempre desiderato che la sua esistenza e il suo ministero sacerdotale fossero un messaggio di speranza, la comunicazione di un’esperienza beatificante. Attraverso il suo sorriso buono e il suo apostolato si è prodigato di dire a tutti che Cristo è sempre con noi, vive in noi, facendoci continuamente suoi per un destino di gloria.

San Paolo ci ha ricordato nella seconda Lettura che se moriamo con Cristo, “vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà” (2 Tm 2,11-12). L’intero progetto di vita del cristiano non può che essere modellato su Cristo: tutto con Lui, per Lui e in Lui a gloria di Dio Padre. Ebbene, è stata proprio questa fondamentale verità ad orientare l’esistenza del nostro caro Don Oreste. Possiamo affermare che le parole dell’Apostolo Paolo sono state la guida di ogni sua scelta e decisione.

Raccolti qui, preghiamo perché questo nostro fratello presbitero possa vedere faccia a faccia Gesù Cristo, quel Signore che si è impegnato a servire su questa terra con fedeltà e amore.

Rendiamo grazie per il dono di averlo conosciuto e per tutti i benefici che in lui e mediante lui il Signore ha elargito alla Chiesa e in particolare a questa comunità.

Il testamento spirituale che il caro Don Oreste ci ha lasciato esprime bene il senso della sua esistenza e del suo ministero tra noi:

Questa mia vita terrena, che concluderò il giorno in cui il Signore mi chiamerà a Sé, l’ho considerata sempre nella fede. Queste le mie ultime volontà.

Funerale semplicissimo.

Invece di fiori, offerte per le opere di bene.

Non possiedo beni all’infuori di quello che si trova in casa. Ai parenti dico: nulla possiedo, nulla posso lasciarvi a simbolico compenso di quanto per me avete

fatto e per la presenza continua; Dio vi ricompenserà.

Lasciandovi, vi raccomando, anche in mia memoria la fraternità, poiché Dio ha la sua forza che non cessa nel cambiare vita. La fedeltà alla legge cristiana ed a tutti

i principi ed insegnamenti di Gesù Cristo.

L’unità nella sua Chiesa. Vogliatevi bene e siate comprensivi,

sicché nessuna offesa esca mai dalla vostra bocca.

Ringrazio i giovani e gli abitanti di allora di S. Agata, ove fui cappellano per nove anni, tutti pieni di affetto e di bontà per me inesprimibili, e dai quali ho avuto tali

testimonianze di bontà, di solidarietà, di aiuto che non so dimenticare né esprimere.

La tomba non potrà estinguere la mia gratitudine. La mia mite voce vi ripete sempre la mia riconoscenza.

Per i miei parrocchiani. Sono oltre cinquant’anni che vivo in mezzo a voi.

Quante testimonianze di bontà mi avete dato. Sono stato insufficiente all’opera mia?

Certamente.

Ma voi avete riparato per me. Grazie a voi tutti che mi avete accompagnato con le vostre preghiere e sofferenze.

Grazie a voi parrocchiani che mi avete accolto nelle vostre dimore come fratello e uomo di Dio. A tutti grazie per le preghiere di suffragio.

Un grazie particolare al mio Vescovo che è stato sempre disponibile nei miei confronti.

Vogliatevi bene sempre fra voi, in questo mi sentirò fra voi sempre vivo. Amatevi come Cristo vi ha amato. In questo ed in questo solo è il Regno di Dio.

Ogni infrazione è dolore. Mi affido alla materna intercessione della Vergine Maria, madre di Misericordia che mia madre mi ha insegnato ad amare fin da bambino.

Che Dio vi benedica.

don Oreste

Don Oreste ha affidato la sua vita e la sua morte a Maria Madre di misericordia e proprio a Lei vogliamo consegnare la sua anima.

La Vergine Maria che Don Oreste ha amato e invocato tante volte durante la sua vita terrena, lo riceva adesso tra le sue braccia come figlio carissimo e lo accompagni all’incontro con Cristo, perché lo introduca nel suo regno di luce e di pace.

OMELIA nel CINQUANTESIMO della morte del Ven. mons. VINCENZO CIMATTI
Chofu (Giappone) - 6 ottobre 2015
06-10-2015

Carissimi, nel brano del vangelo proclamato (Lc 10, 38-42) non dobbiamo cercare l’opposizione fra due stati di vita, di cui uno sarebbe «migliore dell’altro. Gesù vuole semplicemente ricordare che per tutti esiste una «parte buona» a cui nessuno può rinunciare, e che consiste nell’ascolto della parola di Dio e in un profondo rapporto di amicizia con Cristo stesso. Il Venerabile don Cimatti incentrò la sua vita operosa, ad essere più precisi contemplativa nell’azione,  nell’amore a Gesù, il Buon Pastore, sulle orme di don Bosco.
 

  1. A Faenza: «Vicenzino guarda don Bosco»

Don Bosco è a Faenza nel maggio 1882. In mezzo alla folla, mamma Rosa solleva sopra un mare di teste suo figlio e gli dice: «Vicenzino, guarda don Bosco!». Ancora negli ultimi anni della sua vita qui in Giappone don Cimatti ripeteva con commozione: «Ho guardato e ancora conservo la sua immagine in mente. C’era anche mio fratello Luigi. Don Bosco fin da allora ci fece suoi!». «Essere di don Bosco»: per noi, che abbiamo appena finito di celebrare il bicentenario della nascita di don Bosco, essere «suoi» significa «stare» con Lui, come gli apostoli stavano con Gesù. Significa essere il nostro Fondatore oggi, completamente per Dio e per i giovani, pregando, lavorando, evangelizzando, formando, educando alla fede.
 
 

  1. Fu la personificazione del metodo preventivo di don Bosco

Uno dei suoi allievi ebbe ad affermare: «Don Cimatti fu il più salesiano dei figli di don Bosco». Don Renato Ziggiotti, Rettor Maggiore salesiano, altro allievo di don Cimatti a Valsalice, in occasione del giubileo d’oro sacerdotale di quest’ultimo, si espresse con parole simili: «Per me don Cimatti è il Salesiano più completo che abbia conosciuto, per religiosità, abilità, spirito di fraternità, paternità, arte di conquistatore d’anime. Fu educatore più che professore di pedagogia, versatilissimo e affabilissimo, vera copia di don Bosco». Don Alfonso Crevacore, ben conosciuto da voi, ha tratteggiato così il suo metodo: «Non aveva bisogno di rimproverare alcuno; si trovava dappertutto come carissimo fratello maggiore. Tutto prevedeva e preveniva, fraternamente ragionava e dolcemente spronava; precedeva tutti, specialmente quando c’era da vincere difficoltà e ripugnanze. E lo faceva armonizzando così bene l’autorità con la schietta fraternità, che era praticamente impossibile dargli un dispiacere o meritare da lui un rimprovero». «Religione, ragione, amorevolezza», era il trinomio educativo di don Bosco, che è quanto mai attuale. L’umanità e i giovani hanno un bisogno sterminato di Dio e della sua tenerezza, del suo amore pieno di verità: non facciamo mancare questo pane ai giovani di oggi.
Nel suo recente incontro con il mondo del lavoro a Torino, lo scorso 21 giugno, papa Francesco ha parlato di san Giovanni Bosco come di un gigante del metodo preventivo non solo nell’ambito pedagogico, ma anche in quello sociopolitico.[1] Il santo torinese insegnava che è possibile prevenire l’inequità e la violenza della società, attuando la giustizia, ossia offrendo ai giovani, oltre a una casa e una famiglia, l’istruzione necessaria per poter esercitare un mestiere o una professione, senza dimenticare il valore formativo del gioco e dello sport, e aprendoli contemporaneamente  al rapporto con Dio. La società odierna nei confronti dei giovani deve seguire l’esempio di don Bosco, imitato da don Cimatti: essere preventiva più che repressiva e coercitiva.
 
 

  1. Don Cimatti maestro di vita. Così visse, così scrisse

Don Gaetano Compri, vice postulatore della Causa di beatificazione, ha recentemente pubblicato un volume con la raccolta di alcune lettere di don Cimatti e lo ha così intitolato: Don Cimatti maestro di vita. Così visse, così scrisse. Monsignor Cimatti fu apostolo, scienziato, musico, pedagogista. Fu soprattutto un grande missionario. La sua fu una spiritualità profonda e pratica, quella del lavoro e della vita quotidiana, per persone che ogni giorno devono risolvere nuovi problemi, e che devono vivere e specialmente con-vivere con altri fratelli. Egli come educatore, fu definito il «don Bosco del Giappone», seppe dire la parola giusta basata sulla fede e sulla sua esperienza. Parlò come egli stesso visse. Non dobbiamo agitarci ma vivere d’amore, in un incessante dono di noi stessi. Non dimentichiamo che saremo giudicati sul fatto se saremo stati testimoni credibili.
Partecipando a questa Eucaristia nel cinquantesimo anniversario della sua morte ringraziamo il Signore per avere dato alla Chiesa il venerabile don Cimatti. Il padrone della messe mandi operai nella sua vigna e consenta a noi di essere come don Cimatti costruttori della Chiesa, suscitatori di nuove vocazioni sacerdotali, religiose e laicali, vivendo nelle nostre comunità lo spirito di don Bosco.

 


[1] Francesco, Discorso al mondo del lavoro (Torino, Piazzetta Reale, domenica, 21 giugno 2015).

OMELIA per la FESTA DEI SANTI ARCANGELI
Bagnacavallo, Chiesa Collegiata di San Michele - 29 settembre 2015
29-09-2015

Cari fratelli e sorelle,
oggi celebriamo e onoriamo gli Arcangeli che nella Scrittura sono menzionati per nome: Michele anzitutto, che è il patrono di questa comunità, ed anche Gabriele e Raffaele. Alla luce della missione degli arcangeli possiamo comprendere meglio noi stessi e il compito di ciascuno di noi. C’è una corrispondenza tra il nostro ministero nella Chiesa e nel mondo e la missione dell’Angelo.
Ma chi è un Angelo? La Sacra Scrittura e la tradizione della Chiesa, come ci ricordò Benedetto XVI che seguiamo, ci presentano gli angeli attraverso due tratti distintivi. Da una parte, l’Angelo è una creatura che sta davanti a Dio, è orientata con tutto il suo essere verso Dio. Tutti e tre i nomi degli Arcangeli finiscono con la parola “El”, che significa «Dio». Dio è scritto nei loro nomi e nel loro essere. La loro vera natura è l’esistenza in vista di Lui e per Lui. Il secondo tratto è collegato col primo: essi sono messaggeri di Dio. Portano Dio agli uomini, aprono il cielo e la terra. Proprio perché sono presso Dio, e lo vedono faccia a faccia, possono anche essere molto vicini all’uomo. Gli Angeli parlano all’uomo in nome di Dio. Parlano agli uomini di ciò che costituisce il loro vero essere, della loro vera identità, di ciò che nella propria vita spesso è dimenticato o sepolto. Invitano a rientrare in se stessi, spronano e incoraggiano. Sollecitano ad accogliere Dio e il suo progetto sulla nostra vita.
Gli angeli, esseri spirituali che vivono per Dio e godono la sua gioia, secondo la Chiesa, ci sono costantemente a fianco per essere, anche noi, totalmente di Dio e partecipi della sua vita. Desiderano per noi – vescovi, consacrati e christifideles laici-,  che diventiamo «angeli» della nostra comunità, angeli gli uni per gli altri: angeli che annunciano Dio, che distolgono da vie sbagliate e che ci invitano ad orientarci sempre di nuovo verso Dio; angeli che pregano e intercedono per i propri fratelli presso Dio.
Tutto ciò diventa ancora più chiaro se guardiamo alle singole figure dei tre Arcangeli la cui festa oggi celebriamo. Michele, ricordato da questa comunità come patrono, lo si incontra soprattutto nel Libro di Daniele, nella Lettera dell’Apostolo san Giuda Taddeo e nell’Apocalisse. Egli svolge due fondamentali compiti. Difende, anzitutto, la causa dell’unicità di Dio contro la persecuzione del drago, il «serpente antico», che tenta l’uomo a mettere se stesso al posto di Dio, perché Dio ostacolerebbe la libertà. In realtà, chi mette in disparte Dio, accantona anche l’uomo. Gli toglie la dignità, quella di Figlio di Dio nel Figlio. L’uomo diventa un prodotto di se stesso, la misura del vero e del bene e con ciò stesso la sua libertà è concepita senza limiti. Compito di Michele è sconfiggere il drago perché ci sia nella vita dell’umanità spazio per Dio. È anche compito dei vescovi e dei credenti, in quanto figli di Dio, e secondo il loro ministero, di far spazio a Dio nel mondo contro le negazioni e di difendere così la grandezza dell’uomo. Chi toglie Dio all’uomo umilia la libertà e la responsabilità delle persone: senza Dio, la libertà perde il  suo riferimento ultimo e non riesce a stabilire una scala nei valori. Proprio su questo desidera farci riflettere il prossimo Convegno nazionale della Chiesa italiana che si terrà a Firenze e che ha come tema In Cristo un nuovo umanesimo. Anche la nostra diocesi vi parteciperà attraverso alcuni rappresentanti che in questo periodo stanno passando nei vari Vicariati per sollecitare la riflessione e la concretizzazione storica di un nuovo umanesimo. La seconda funzione di Michele, secondo la Scrittura, è quella di protettore del Popolo di Dio (cf Dn 10, 21; 12,1). Cari fratelli e sorelle, siamo, allora, sull’esempio di san Michele, «angeli custodi» delle nostre comunità ecclesiali, della «chiesa domestica» che è la famiglia, delle istituzioni cattoliche sempre più deboli, ma di cui abbiamo un estremo bisogno in questa società, sapendole rinnovare e rendere più efficaci nel servizio al Vangelo.
L’Arcangelo Gabriele, tutti noi lo ricordiamo come messaggero dell’incarnazione di Dio (cf Lc 1, 26-38). Egli bussa alla porta di Maria e, per suo tramite, Dio stesso chiede a Maria il suo «sì» alla proposta di diventare la Madre del Redentore. L’incarnazione di Dio, il suo farsi carne deve continuare, mediante la chiesa, i pastori e i fedeli, sino alla fine dei tempi. Tutte le generazioni devono essere riunite in Cristo, in un solo corpo. Cristo ha bisogno di persone che, per così dire, gli mettono a disposizione la propria carne, perché tutto sia ricapitolato in Lui e tutti diventino un solo corpo.
San Raffaele nel libro di Tobia è l’Angelo a cui è affidata la mansione di guarire, secondo due modalità: guarire la comunione disturbata tra uomo e donna, affinché i due tornino a riaccogliersi per sempre; guarire gli occhi ciechi. Sappiamo quanto oggi siamo minacciati dalla cecità. Quanto grande è il pericolo che, di fronte a tutto ciò che sulle cose materiali sappiamo e con esse siamo in grado di fare, diventiamo ciechi per la luce di Dio. Guarire la cecità per Dio mediante il messaggio della fede e la testimonianza dell’amore, è il servizio di Raffaele affidato giorno per giorno ai credenti, ai sacerdoti e al Vescovo. Così, spontaneamente siamo portati a pensare al Sacramento della Penitenza che, nel senso più profondo della parola, è un sacramento di guarigione. La vera ferita e la vera cecità dell’anima è il peccato.
Siamo, sull’esempio degli Arcangeli, impegnati a sconfiggere il male, a far spazio a Dio nella vita dei nostri fratelli, offrendo la nostra collaborazione all’incarnazione di Cristo, guarendo la cecità per Dio educando alla fede.
In questa Eucaristia ricordiamo il Signor Cesare Tavella cooperante di una ong olandese impegnata in progetti di sviluppo rurale ed alimentazione, barbaramente ucciso nella capitale del Bangladesh, Dacca.
 

OMELIA per l’ORDINAZIONE PRESBITERALE del diacono MARCO MAZZOTTI, scj
Bagnacavallo, 19 settembre 2015
19-09-2015

Carissimi,
sono lieto di essere qui, questa sera, in questa bella chiesa parrocchiale che assume, per l’occasione, la solennità di una cattedrale, per conferire il sacramento dell’Ordine al caro Marco Mazzotti, figlio spirituale del venerabile P. Dehon e originario di questa terra romagnola, generosa e ricca di fede.
Vorrei rivolgere un particolare saluto a te, caro Marco. Oggi sei al centro dell’attenzione del Popolo di Dio, rappresentato da tutti coloro che gremiscono questa chiesa, riempiendola di preghiera e di canti, di affetto sincero e profondo, di commozione, di gioia umana e spirituale. In questo Popolo, hanno un posto particolare i tuoi genitori e familiari, gli amici e i compagni di studio, i giovani che hai incontrato nelle Opere della tua Congregazione e nei nostri oratori, il tuo P. Provinciale, i tuoi superiori ed educatori dehoniani che ti hanno accompagnato durante gli anni di preparazione al sacerdozio.
Si può dire che tutta la Chiesa è qui rappresentata e questa sera rende grazie a Dio e prega per te insieme ai tuoi confratelli, che ripongono tanta fiducia e speranza nel tuo domani. Dalla freschezza del tuo ministero sacerdotale si aspettano frutti abbondanti di santità e di bene.
Ci sentiamo, allora, tutti invitati ad entrare nel “mistero”, nell’evento di grazia che si sta realizzando in te con l’Ordinazione presbiterale. Lasciamoci illuminare dalla Parola di Dio che è stata appena proclamata.
 
Iniziamo dalla prima lettura, un testo sapienziale che denuncia la congiura perpetrata dal mondo corrotto nei confronti di un uomo  giusto, uno che non si rassegna, che non manda il cervello all’ammasso e la coscienza allo sfacelo. Anche oggi, in un mondo spesso corrotto e fortemente edonistico come il nostro, chi si sforza di formare la propria coscienza per renderla lucida e onesta rappresenta un intralcio che va assolutamente rimosso. La fede è considerata nemica, ostacolo ed impedimento alla piena realizzazione della persona. Non dimentichiamo che proprio nel nostro tempo della libertà conclamata, il gruppo umano più perseguitato è quello dei cristiani, la cui morale appare un argine da abbattere.
In una situazione analoga si è trovato Gesù – siamo al brano del vangelo – quando inizia quel viaggio verso Gerusalemme che avrà come momento culminante la croce. Non si tratta di un cammino trionfale. La sua vita è umile, servizievole, discreta. Sfocia inesorabilmente nella passione, perché è votata all’amore, al dono di sé, al sacrificio fino all’effusione del sangue. Durante il viaggio, Gesù annuncia la sua passione ai suoi discepoli, ma essi non capiscono perché il loro modo di pensare è ancora terribilmente umano e assai poco divino. Questa “dura cervice”, come la chiamava l’Antico Testamento, emerge nella discussione incentrata sulla ricerca dei primi posti. Dobbiamo purtroppo riconoscere che pure oggi il carrierismo è uno dei mali più pericolosi nella comunità dei credenti. Mentre l’uomo fa di tutto per salire e per primeggiare, Gesù si abbassa, discende dal cielo per servire. Lo ha fatto simbolicamente con la lavanda dei piedi, lo fa realmente offrendo tutto il suo sangue sull’altare della croce.
L’Apostolo Giacomo, nella seconda lettura, ci dà modo di pensare seriamente a quanta verità e a quanto bene possono essere seminati in noi, se siamo capaci di accogliere “la sapienza che viene dall’alto” che è un dono di Dio ed è frutto dello Spirito Santo; e quanto, invece, tutto può andare distrutto se si confida in una pseudo-sapienza che è solo frutto della nostra umanità.
Infine il salmo responsoriale fa da cornice alle letture che sono state proclamate. Il salmo esprime bene la preghiera del giusto ingiuriato e condannato; egli confida che il Signore lo salverà e lo renderà vincitore e non lascerà prevalere i suoi nemici. Per questo la liturgia ci ha fatto ripetere: “Il Signore sostiene la mia vita”.
 
Caro Marco, la certezza che il Signore non ci abbandona e che nessun ostacolo potrà impedire la realizzazione del suo universale disegno di salvezza, sia per te motivo di consolazione – anche nelle difficoltà – e di incrollabile speranza. Il Sacramento dell’Ordine che stai per ricevere, ti farà partecipe della stessa missione di Cristo. Sarai chiamato a predicare la Parola di Dio, a celebrare i divini misteri, a dispensare la divina misericordia e a nutrire i fedeli alla mensa del suo Corpo e del suo Sangue. Per essere suo degno ministro dovrai alimentarti costantemente dell’Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana. Accostandoti ogni giorno all’altare, scoprirai sempre più la ricchezza e la tenerezza dell’amore di Gesù che oggi ti chiama ad una più intima amicizia con Lui.
Non dimenticare che per essere ministri al servizio del Vangelo è necessaria quella “scienza dell’amore” che si apprende solo nel “cuore a cuore” con Cristo. E’ lui infatti a chiamarci per spezzare il pane del suo amore, per rimettere i peccati e per condurre il gregge in nome suo. Proprio per questo non dobbiamo mai allontanarci dalla sorgente dell’Amore che è il suo Cuore trafitto sulla croce.
Il riferimento al Cuore di Gesù ricorda a tutti noi che tu appartieni alla Congregazione dei “Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù”, fondata da P. Dehon con lo scopo di promuovere la devozione al Cuore di Gesù e la diffusione del suo Regno nei cuori e nella società. Non ti mancheranno, quindi, i mezzi necessari per far sì che Gesù divenga il Cuore dei cuori umani e per cooperare efficacemente al misterioso “disegno del Padre” che consiste nel “fare di Cristo il cuore del mondo”.
Saprai, inoltre, imitare il tuo Fondatore lasciandoti conquistare pienamente da Cristo. Questo è stato lo scopo di tutta la sua vita, questa è stata la méta di tutto il suo ministero. Vieni ordinato in prossimità del prossimo Giubileo dedicato alla Misericordia di Dio. Pensa, allora, di essere sacerdote della misericordia di Dio: una misericordia che, come pensa qualche avversario della Chiesa, non è troppo debole per cambiare la società. La misericordia implica e presuppone, invece, la giustizia. Essere sacerdote della misericordia di Dio ti abilita ad essere protagonista di una nuova evangelizzazione del sociale, degno figlio del tuo Fondatore, grande protagonista della Dottrina sociale della Chiesa.
“Ne scelse dodici perché stessero con Lui”. La vita del sacerdote è uno “stare con Lui”, con il Signore. Non dobbiamo lasciarci distrarre dal mondo: noi siamo nel mondo ma non del mondo! Dobbiamo credere di più al potere della grazia che si nutre della preghiera, dello stare con il Signore, cuore a cuore, da soli. Il successo pastorale, infatti, non sta nell’avere attorno uno stuolo di gente che applaude, ma nel fare intravvedere la bellezza di Cristo e il suo fascino, così che la gente ne viva e sia felice. E’ questa la gloria di Dio. A volte il mondo non ti capirà, a volte ti rifiuterà: non avere paura, il Signore è con te e sostiene la tua vita.
Caro Marco, tra poco lo Spirito Santo scenderà su di te e, per il ministero del Vescovo, il sigillo dello Spirito sarà impresso nella tua anima e sarai generato alla grazia del Presbiterato per sempre. La Parola di Dio illumini tutta la tua vita. E quando il peso della croce si farà più pesante, sappi che quella è l’ora più preziosa, l’ora di rinnovare con fede e con amore il tuo “sì, con l’aiuto di Dio lo voglio”.  
 
Ti affido alla Madre di Dio, la Santa Vergine, Madre dei sacerdoti, Aiuto dei cristiani, colei che saprà ogni sera donarti la carezza che cura le ferite, riempie il cuore, dona calore e fiducia. Amen.

OMELIA per la GIORNATA della SALVAGUARDIA del CREATO
Felisio - 1 settembre 2015
01-09-2015

IN CRISTO UN UMANESIMO DELLA CUSTODIA DEL CREATO

Un umano rinnovato per abitare la terra

Nella decima Giornata per la custodia del creato siamo invitati a riflettere sull’urgenza di vivere Cristo, di vivere in Lui, per diventare protagonisti di un nuovo umanesimo con riferimento alla questione ecologica: per abitare e custodire la terra abbiamo bisogno di un umano rinnovato.

Il tema specifico della Giornata di quest’anno è stato scelto in vista del prossimo Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze (9-13 novembre 2015), che si concentrerà proprio sulla ricerca di un nuovo umanesimo a partire da un rinnovato incontro con Cristo.

Mi preme sottolineare che celebriamo – Arcidiocesi di Ravenna-Cervia e Diocesi di Faenza-Modigliana – la Giornata in uno spirito ecumenico, assieme ad altre Chiese, come quelle Ortodosse. Ricordo, a questo proposito, che papa Francesco, il 6 agosto scorso, imitando la Chiesa Ortodossa, ha istituito anche nella Chiesa Cattolica la “Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato”, che, a partire proprio da quest’anno corrente, sarà celebrata il 1° settembre.

Cari fedeli, care associazioni, è accettando Gesù Cristo, è innamorandoci di Lui che possiamo essere capaci di risolvere la crisi ecologica odierna, che è anzitutto crisi dell’uomo, del suo comportamento nei confronti di Dio e del creato. Papa Francesco, nella sua enciclica sociale Laudato sì’ (=LS), più volte ha ricordato che si può cambiare un rapporto di dominio e di rapina, di spreco dissennato delle risorse solo se ci saranno persone nuove nel pensiero, nel cuore, nell’azione. In sostanza, solo se ci sarà in loro una conversione spirituale. Ci dev’essere una profonda conversione ecologica, ossia relativa all’ambiente, che prevede prima la conversione a Dio. È possibile parlare di peccati ecologici perché, in ultima analisi, si riconosce di peccare contro Dio, contro il suo progetto sull’umanità e sul creato.

Cari fratelli e sorelle, possiamo disporre di persone nuove, che non distruggano la casa comune danneggiando anche i propri fratelli, proprio mediante la conversione a Dio, abbandonando visioni errate o riduttive sull’uomo e sui suoi compiti. Occorre, in particolare, superare quell’antropocentrismo deviato che abbiamo ereditato dalla cultura moderna, e secondo il quale l’uomo è creatore della realtà e, quindi, è misura della verità delle cose; è dotato di una libertà senza limiti, e la ragione tecnica è il bene più grande. Se l’uomo si considera Dio, proprietario assoluto del creato, giunge a coltivare, inevitabilmente, un’ideologia di dominio e di potere, e compie le sue scelte sulla base di un relativismo pratico, per il quale non vi sono verità oggettive né principi stabili, se non quelli posti da lui. Secondo un’antropologia prometeica, solo la tecnica, assieme al mercato, è capace di risolvere i problemi della fame e della miseria del mondo. E così è fatto prevalere su tutto, anche sull’economia, sulla finanza, sulla politica, sulla gestione dell’ambiente e della terra un paradigma tecnocratico.

Ma se non esiste una verità oggettiva né vi sono principi stabili non vi sono limiti all’aborto, alla tratta degli esseri umani, alla criminalità organizzata, al narcotraffico, al commercio di diamanti insanguinati (cf LS n. 133), allo sfruttamento indiscriminato delle risorse. Ci si comporta in maniera egoista, pensando solo a se stessi, mostrando indifferenza nei confronti dell’altro, approfittando di lui, trattandolo come una cosa.

Per quanto detto sin qui, se non si vuole dilapidare e inquinare il pianeta e, di conseguenza, danneggiare il nostro territorio e i più deboli, occorre reagire con forza ad una visione distorta sull’uomo, sulla sua libertà, sulla sua relazione con il creato e i propri fratelli. Occorre, con la conversione a Dio e ai giusti rapporti che egli desidera che abbiamo con il creato, abbandonare quanto prima quell’antropocentrismo individualistico ed utilitaristico di cui sono impregnate la nostra cultura e i nostri stili di vita, e che inducono ad essere predatori, schiavi di una mentalità consumistica e dello spreco. Papa Francesco indica sostanzialmente tre vie di uscita.

La prima via è rappresentata da un insieme di convinzioni di fede che con la loro prospettiva integrano quelle offerte da altri saperi, non esclusa la tecnoscienza, prodotto meraviglioso della creatività umana, che così viene ridimensionata, ricondotta alla sua giusta valenza, rispetto alla sua assolutizzazione. Lo sguardo della fede consente un approccio più completo alla complessità della crisi ecologica e, quindi, una conoscenza più esaustiva delle sue cause e delle terapie necessarie. Le soluzioni non possono derivare da un unico modo di interpretare e trasformare la realtà. Nessuna forma di saggezza può essere trascurata. La fede offre alcuni punti essenziali di riferimento che sono indispensabili per il nostro discernimento e sono raccolti nel capitolo della LS intitolato il «Vangelo della creazione». Eccoli:

La natura ci precede e ci è donata da Dio come ambiente di vita: un ambiente che porta scritta in sé una «grammatica» che l’uomo deve saper leggere, non stravolgere, bensì apprendere per un uso corretto delle risorse e per lo sviluppo della creazione;

Il creato, come la terra, appartiene a Dio (Dt 10,14), e sono state donate all’umanità non come una proprietà esclusiva, bensì come realtà destinate a tutte le generazioni. Il creato e l’ambiente sono un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva. Detto diversamente, è inscritta nella creazione e nella terra una destinazione universale, che è una «regola d’oro» per l’uso dei beni (cf LS n. 93);

Dal fatto di essere creati ad immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra non si può dedurre un dominio dispotico sulle altre creature (cf LS n. 67);

Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno, ma ha anche il dovere di tutelarla e di garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future;

La libertà dell’essere umano non è senza limiti o indifferente nei confronti del bene, del vero e di Dio: è per la verità, il dono e per Dio;

Essendo stati creati dallo stesso Padre noi esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione: la desertificazione del suolo, ad esempio, è come una malattia per ciascuno;

Il traguardo del cammino dell’universo è nella pienezza di Dio, raggiunta da Cristo risorto, fulcro della maturazione universale. Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Tutte avanzano verso Dio.

Da questi fulcri del «Vangelo della creazione» deriva una nuova visione dell’uomo, delle sue relazioni con il creato e con i propri fratelli. Detto altrimenti, deriva un nuovo umanesimo, che si rafforza vivendo in comunione con Gesù Cristo l’Uomo Nuovo per eccellenza. Detto diversamente, deriva un nuovo umanesimo:

Aperto alla realtà, al suo mistero: un umanesimo non chiuso in se stesso, totalmente autonomo rispetto a Dio e al creato, bensì segnato dalla dipendenza nei confronti di un principio primo originario e originante e, quindi, un umanesimo caratterizzato da una libertà che riconosce il proprio limite, la bellezza della verità, la grandezza dell’universo che è come un libro scritto da Dio, in cui ogni creatura ha un suo essere e una sua funzione che non sono strumentali all’uomo. Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Tutte avanzano verso Dio;

Relazionale, che si realizza attraverso il riconoscimento della trascendenza, il dono di sé, vivendo in armonia e giustizia con i propri fratelli, con il creato, portandoli al loro compimento in Dio;

Integrale, tale cioè da integrare le molteplici dimensioni che lo costituiscono: soggettiva, etica, sociale, economica, politica, ambientale, culturale e religiosa. L’autentico umanesimo, come anche l’ecologia, non è a una sola dimensione.

La seconda via di uscita da un antropocentrismo deviato, come quello oggi dominante, secondo papa Francesco, è data dall’ideale storico e concreto dell’ecologia integrale.

Al fine di poter meglio conoscere la crisi ecologica nelle sue molteplici sfaccettature, di poter esprimere un giudizio teologico, antropologico ed etico su di essa, e di poter meglio individuare le cose da fare per salvaguardare l’ambiente, papa Francesco segnala ciò che possiamo anche chiamare il principio dell’ecologia integrale. La crisi ecologica si risolve affrontando e superando la crisi antropologica ed etica. Non è pensabile di curare i mali dell’ambiente senza curare i mali dell’uomo, della società e della cultura. Poiché la crisi ecologica è inestricabilmente connessa con la crisi dell’uomo, occorre pensare ad un’ecologia integrale, comprendente le dimensioni ambientali, umane e sociali. C’è bisogno di un umanesimo ecologico, capace di integrare storia, cultura, economia, architettura, vita quotidiana nelle città e nelle aree rurali, vita equilibrata degli ecosistemi. Se tutto è in relazione, anche lo stato di salute delle istituzioni di una società, compresa la famiglia, comporta conseguenze per l’ambiente. Ogni degrado della famiglia, della vita cittadina, degli spazi e delle aree pubbliche e private, delle leggi, della cultura, della scuola provoca danni ambientali. Occorre pertanto coltivare un’ecologia sociale, senza la quale non si perviene ad un’ecologia integrale.

La terza via di uscita da un antropocentrismo deviato come quello consumistico e materialista, neoutilitarista, è rappresentata dall’educazione e dalla spiritualità, considerate congiuntamente.

Gli esseri umani, capaci di degradarsi sino all’estremo, possono anche superarsi, ritornare a scegliere il bene e rigenerarsi. Non esistono sistemi sociali e culturali che annullino completamente l’apertura innata al vero, al bene, alla bellezza. È possibile risalire la china, impiantare una nuova cultura, mobilitare le coscienze, formare movimenti di consumatori che smettano di acquistare certi prodotti e così diventino, mediante il loro portafoglio, capaci di influire sul comportamento di alcune imprese che puntano solo al profitto e non rispettano l’ambiente.

L’educazione ad un’ecologia integrale diventa possibile previa elaborazione di un nuovo umanesimo integrale, sociale, solidale, aperto alla trascendenza, che sollecita ad uscire da se stessi e ad infrangere l’autoreferenzialità. La suddetta educazione non deve limitarsi a dare informazioni scientifiche, a far prendere coscienza e a far prevenire rischi. Deve includere, per quanto già detto, una severa critica dei «miti» della modernità, basati su una ragione strumentale; deve aiutare a recuperare i diversi livelli dell’equilibrio ecologico, a fare quel salto verso il Mistero che solo consente di dare un fondamento certo all’etica ecologica. L’obiettivo principale è quello di formare ad una cittadinanza ecologica, a tutta quella serie di piccole azioni quotidiane che diffondono un bene nella società e restituiscono il senso della dignità, come: evitare l’uso di materiale plastico o di carta, ridurre il consumo di acqua, differenziare i rifiuti, cucinare solo quanto ragionevolmente si potrà mangiare, trattare con cura gli altri essi viventi, piantare alberi, spegnere le luci inutili, riutilizzare qualcosa invece di disfarsene.

Ambiti educativi alla cittadinanza ecologica sono: i mass media, la catechesi, la famiglia, i Seminari, i movimenti e le associazioni. All’educazione di una cittadinanza ecologica può offrire un validissimo contributo la spiritualità cristiana. Questa aiuta:

A vivere motivazioni ben radicate che, con idee chiare, aiutano a vivere una vera e propria passione per la cura del mondo;

A compiere quella conversione ecologica, personale e comunitaria, di cui si è già parlato. La conversione ha per oggetto non tanto e non solo un cambio di atteggiamenti nei confronti dell’ambiente, quanto piuttosto un cambiamento nei confronti della creazione di Dio e del suo progetto sul mondo e sull’umanità;

A comprendere l’insufficienza dell’essere «buoni» singolarmente. Per rispondere in maniera pertinente ed efficace ai problemi sociali ed ambientali è necessario costruire reti comunitarie;

A nutrire stili di vita improntati alla sobrietà, alla condivisione, alla semplicità, alla contemplazione, allo stupore;

A pregare, ringraziando Dio per i suoi doni, per la sua redenzione che fa nuovo l’uomo e lo stesso creato;

A celebrarla nei sacramenti, specie nell’Eucaristia, rinnovando la personale adesione alla propria vocazione di custodi del creato.

È senz’altro di grande significato la presenza congiunta del Corpo forestale e delle Associazioni dei coltivatori. In questo modo essi dichiarano il loro impegno nella custodia del creato, in una porzione stupenda del territorio che si trova qui in Romagna. Se noi possiamo godere dei frutti della terra, di un patrimonio ambientale ed agroalimentare così cospicuo e meraviglioso, lo dobbiamo, in particolare, anche a loro. Credo che per noi sia l’occasione di prendere coscienza dell’importanza e dell’indispensabilità di queste forze specializzate nella tutela e nella promozione del creato a vantaggio di tutti. Forse non sempre apprezziamo adeguatamente il loro lavoro sacrificato.

Celebrare la Giornata della Custodia del creato, in un modo non formale, è anche occasione per pensare al supporto che la società intera deve mostrare nei loro confronti. Quando venga meno la presenza degli agricoltori nelle zone collinose e montagnose subito, specie in coincidenza di calamità naturali, ci si accorge della loro indispensabilità per la tutela del territorio. Noi oggi abbiamo bisogno di una maggior stima nei confronti di coloro che con fatica e con redditi e mezzi molto scarsi si dedicano alla custodia e alla coltivazione della terra. Politiche che sostengano i redditi e aiutino la diversificazione produttiva consentono all’intelligenza umana di creare ed innovare, ed anche di proteggere l’ambiente e creare più opportunità di lavoro.

Al termine di queste riflessioni ringrazio i responsabili dell’Ufficio Pastorale Sociale e del Lavoro, Giustizia e Pace, Custodia del Creato dell’Archidiocesi Ravenna-Cervia e del Centro per la Pastorale Sociale della Diocesi di Faenza-Modigliana per l’organizzazione di questa celebrazione. Grazie anche a tutti voi qui presenti che vi renderete sicuramente protagonisti nella ricezione, nell’approfondimento, nella sperimentazione dell’enciclica LS di papa Francesco, a partire dalle vostre comunità parrocchiali, dalle vostre Associazioni.

OMELIA per le esequie di MONS. GIUSEPPE PIANCASTELLI
Brisighella - Collegiata, 28 agosto 2015
29-08-2015

  1. Morte lacerazione profonda ma non totale

La morte è esperienza tragica di rottura con questo mondo, con la nostra condizione terrena, con le nostre responsabilità, con la nostra comunità e famiglia. I nostri progetti finiscono repentinamente. Mentre ci ritenevamo fino a poco tempo prima indispensabili, con la nostra scomparsa  non lo siamo più. La storia prosegue nel suo cammino senza sosta e senza di noi. Lasciamo tutto. Non portiamo nulla con noi. Tutto finisce e non apparteniamo più a questa terra, a noi tanto cara, se non con i nostri resti mortali, e con una nuova presenza invisibile. La nostra morte recide i legami terreni, e tuttavia non ci separa del tutto dai nostri fratelli e da Dio. La vita non è tolta ma trasformata (cf 1 Cor 15, 51-57). Nulla ci separerà dall’amore di Cristo (cf Rm 8,35). Sant’Agostino, santo di cui oggi la Chiesa celebra la memoria così si esprimeva a proposito della morte: «La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora. La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza. Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista? Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo». Cara comunità di Brisighella ricordiamo Mons. Giuseppe, sempre così attento alle persone, specie ai poveri, come uno che sta nella stanza accanto alla nostra. Preghiamolo, sorridiamo come prima, pensiamolo.
 
 

  1. Morte liberazione dal contingente e apertura all’incorruttibilità, alla pienezza di Dio

La morte, per alcuni aspetti, è una liberazione dalle nostre ansie e dai limiti dovuti alla contingenza, al male. Con la morte, che è il massimo della nostra fragilità, siamo, specie quando avanza l’età e crescono le malattie, sollevati dal limite, dalla sofferenza, dal sentirci sproporzionati rispetto ai nostri compiti. Siamo portati verso la vivente Luce che è Dio, pienezza di vita. Se i pesi delle croci che portiamo con Cristo, per suo amore, uniti a Lui, possono essere fonte di redenzione, nondimeno schiacciano e fanno sentire la loro forza condizionatrice, distruttiva. Monsignor Giuseppe, in un incontro avuto con me, dopo il mio ingresso di qualche mese fa, dopo aver espresso alcune sue preoccupazione di fronte alla complessità di alcune situazioni della parrocchia, aveva confidato il desiderio di essere trasferito. Viveva quasi in punta di piedi, ha scritto un suo collaboratore. Non amava i clamori. Preferiva agire ed influire nel nascondimento, formando le coscienze, affinandole nel giudizio, non ignorando, anzi apprezzando e sapendo utilizzare al meglio quei mezzi di comunicazione sociale, che sono stati definiti il quarto potere, ma che per lui erano considerati soprattutto un megafono per dire dai tetti la Parola. La sua morte improvvisa ha provocato per noi, per lui e per questa comunità le condizioni di un passaggio radicale. Ora, tocca ad altri predisporre i nuovi piani pastorali, organizzare la carità, annunciare con gioia il Vangelo, piantare e coltivare, spezzare il pane della Parola e dell’Eucaristia. Quando ci avviamo al giorno senza tramonto, come già detto, non ci separiamo del tutto dai nostri fratelli, ma partecipiamo alla vita delle comunità qui in terra collocandoci in un’altra dimensione. Ci teniamo uniti mediante la comunione dei santi, mediante il ponte che è Cristo, Sommo Sacerdote, e che, come Dio-Uomo, tiene unite le due sponde, quella della mortalità e quella dell’immortalità. I sacerdoti, i religiosi, i fedeli laici che passano ad un’altra esistenza, rivestendosi di incorruttibilità, sono presenti in un altro modo, fanno il tifo per coloro che rimangono, sostenendoli spiritualmente e moralmente nel loro pellegrinaggio verso la meta finale, la città santa, la gioia della Gerusalemme celeste.
 

  1. L’incontro a cui aneliamo

Poco tempo fa, celebrando la solennità di santa Chiara nel convento delle Clarisse di Faenza abbiamo avuto modo di ricordare anche il momento del suo trapasso. La santa, nel momento del suo distacco dalla comunità che aveva fondato e dalla Chiesa – che, assieme a Francesco, aveva contribuito a riparare, specialmente dal punto di vista spirituale – fu consolata dalla visita di papa Innocenzo IV, di cardinali e di prelati. Don Giuseppe è partito dalla sua comunità senza avere nessuno accanto, senza che nessuno, come desiderò per sé il Cardinale Martini, gli tenesse la mano nel momento della partenza. Egli ha condiviso la sorte di tanti poveri e di tante persone sole. Con ogni probabilità, quando giungerà la nostra ora – dobbiamo essere sempre pronti a prendere in mano il bastone da viaggio e a calzare i sandali – non avremo al nostro capezzale chissà quali personaggi – sicuramente sarebbe auspicabile avere una presenza amica e fraterna -, ma sarà soprattutto consolante l’incontro con il Signore, il Pastore dagli occhi grandi che vede oltre il buio della morte e ci conduce a casa, dal Padre. Nelle vicende della nostra vita, affrontiamo la strada ad occhi aperti, lottiamo ed amiamo anche quando l’uomo esteriore si sta disfacendo, desiderando sempre e solo Lui, la pace della sua presenza, fissando lo sguardo sulle cose di lassù.
 

  1. Caro Monsignor Giuseppe, Dio ti accolga nel suo abbraccio

La dipartita di un figlio per il padre, di un sacerdote e di un confratello del presbiterio è una ferita profonda al cuore. Quello che non abbiamo fatto in tempo a darti, caro don Giuseppe, te lo doni il Padre, Colui che vede tutto e che tu hai amato sopra ogni cosa, donandolo a tutti quelli che hai incontrato con il tuo ministero pastorale e culturale. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna», ci ha assicurato Gesù (Gv 6, 51-58). Noi viviamo con questa fede e ti pensiamo nell’abbraccio di Dio.
 Peraltro, non si deve interrompere una maternità e una paternità nei confronti della comunità che ti ha avuto quale padre e maestro zelante e premuroso. Proprio per questo ieri stesso ho provveduto a nominare amministratore parrocchiale il sig. don Vecchi Stefano, Vicario foraneo della porzione di Chiesa che include la comunità di Brisighella. La Madonna del Monticino che veglia sulla città accolga l’arciprete Mons. Giuseppe Piancastelli e accompagni l’intera comunità nel suo cammino di fede e di crescita nell’amore di Dio.

OMELIA per la FESTA di SANTA CHIARA
Faenza, Monastero Santa Chiara - 11 agosto 2015
11-08-2015

SANTA CHIARA

Faenza, Convento di santa Chiara, 11 agosto 2015.

  1. La scelta di Cristo

Chiara, rinuncia a nobiltà e ricchezza, per vivere umile e povera, per essere tutta di Cristo. Questa sua scelta è frutto di molte concause. Essa, però, per essere ben compresa, va letta in particolare, come suggerisce nella prima Lettura il profeta Osèa, in termini nuziali. Proprio nella sua giovinezza, allorché si è chiamati a decidere o a confermare l’orientamento della vita, sente di essere irresistibilmente attratta dal suo Signore. Si verifica per Chiara ciò che è avvenuto e avviene per l’umanità, per la Chiesa: Dio in Gesù è innamorato di noi ed esercita, in mille modi, una forma di seduzione pervasiva ed avvolgente, finché non ci si innamora di Lui, non ci arrendiamo a Lui, come accadde per i profeti (cf ad es. Ger 20,7-9). E, così, si avvera per Chiara quanto è stato profetizzato da Osèa: «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (2, 16b.17b.21-22).

Dio ci chiama ad essere suoi, vivendo della sua tenerezza, della sua fedeltà. Non siamo noi a sceglierlo per primi. Egli ci ha pensati, voluti, creati per l’amore con Lui, per essere e vivere nella giustizia e nel diritto, per rispondere al suo amore con amore, ed essere suoi sposi per sempre.

Dio pensa un’umanità in piena comunione con Lui, sostenuta ed alimentata dalla sua Vita di Amore e di Dono, perché possa godere della sua pienezza e della sua felicità.

A 18 anni, con un gesto audace, con la spregiudicatezza di chi è invaghito della vita ed è attratto dalla sua sorgente incontaminata e altissima, Chiara lascia la casa paterna. Raggiunge segretamente altri giovani, i frati minori di Francesco, presso la piccola chiesa della Porziuncola. Là, la domenica delle Palme del 1211, l’attendono fratelli innamorati di Dio, che per Lui avevano abbandonato tutto e si erano consacrati ad annunciare la bellezza del suo amore, vivendo la spogliazione di Cristo, fattosi umanità, tutto a tutti.

Francesco tagliò i capelli a Chiara che indossò un rozzo abito penitenziale. Era un gesto chiaramente simbolico: da quel momento Chiara era diventata la sposa di Cristo, umile e povero. Tutta per Cristo, solo per Lui e la sua Chiesa, per l’umanità, con cuore indiviso, con uno stile di vita segno dell’abbandono totale a Lui, alla sua Provvidenza.

  1. La fecondità del suo esempio

Nella Vita di santa Chiara, attribuita a Tommaso da Celano, si racconta del contagio provocato dall’esempio di Chiara, con la sua decisione, con il suo proposito di essere, assieme ad altre compagne di viaggio, comunità nuova sul monte, luce per il mondo: una comunità che viveva non nella separatezza, nella chiusura al mondo e alla Chiesa. Era, infatti, comunità che viveva nella Chiesa, per essere di, in e per Cristo in maniera emblematica ed eroica; era comunione di credenti, che viveva dei doni materiali e dell’affetto degli altri credenti: questi ne erano beneficati con lo splendore e l’attrazione di un’esistenza che si mostrava più conforme a quella di Cristo, traendone energia e capacità di dono nel proprio stato di vita.

L’esempio di Chiara, delle altre sorelle minori, come già accennato, provoca in Italia e in Europa una forte emulazione, che si spande a macchia d’olio, specie tra i giovani, coppie di sposi, nobili, regine ed eredi al trono. Molti di essi desiderano essere testimoni di una mistica sponsale e fare di Cristo il loro amore più grande. Ecco quanto si può leggere nella Vita di santa Chiara: «Sul suo esempio si affrettano le vergini a conservarsi come sono per Cristo; le donne sposate stabiliscono di vivere in modo più casto; le nobili e aristocratiche, disprezzati i grandi palazzi, si costruiscono stretti monasteri e considerano grande gloria vivere per Cristo in cenere e cilicio. Ed anche l’impeto dei giovani è sospinto verso battaglie immacolate ed è provocato al disprezzo dei piaceri della carne dai forti esempi del sesso debole. Molti coniugi, infine, scelgono di mutuo accordo la continenza: i mariti entrano in ordini religiosi, le mogli in monasteri. La madre invita la figlia e la figlia invita la madre a seguire Cristo, la sorella attrae le sorelle e la zia le nipoti. Tutte desiderano servire Cristo con lo stesso fervore» (cf MARCO BARTOLI, Chiara. Una donna tra silenzio e memoria, Edizioni san Paolo, Milano 2001, pp. 167-168).

  1. Il nostro impegno oggi

Leggendo la vita di santa Chiara e di san Francesco, si scorge che la loro vita di totale consacrazione a Cristo si traduce nell’impegno di rendere più giovane e bella la Chiesa, ricostruendola là ove è cadente. Non va dimenticato, infatti, che Francesco si convertì più convintamente all’amore di Cristo e al servizio della Chiesa di fronte al Crocifisso di san Damiano, una chiesetta diroccata. Mentre era in ginocchio davanti alla Croce una voce gli fece udire: «Francesco, va’ e ripara la mia casa che vedi tutta distrutta». Francesco, i suoi frati minori e le sorelle minori di Chiara, si sentivano impegnati non solo a ricostruire le chiese fatte di pietre materiali, ma specialmente la chiesa costruita con pietre spirituali.

Questi semplici cenni storici su Chiara e su Francesco d’Assisi, maestro di fede, amico spirituale della santa, ci fanno riflettere sulla novità di vita che portarono nella Chiesa del loro tempo. Abbiamo noi oggi altri san Francesco o altre santa Chiara che provocano nella Chiesa un movimento di rinascita e di consacrazione a Cristo? Riusciamo noi ad accompagnare i nostri giovani nel rispondere al fascino che Dio esercita su di loro, sino ad innamorarli di Lui?

In una società che tiene i giovani in panchina – molti né studiano né lavorano – oppure addirittura li scarta o li abbandona ad esperienze pericolose come quelle delle discoteche insicure; in una società in cui i giovani sono sollecitati a vivere né come padri né come madri, né come vergini, siamo noi figure carismatiche e profetiche come Chiara e Francesco, capaci di mostrare la bellezza dell’amore di Cristo e del donarsi a Lui totalmente? Impegniamo i giovani nel rinnovare o nel ricostruire la Chiesa? Riconosciamo che, anche noi, nella nostra Diocesi, senza ignorare il bene che si compie e i giovani che con entusiasmo si donano al Signore, abbiamo non solo l’urgenza di riparare i tetti delle chiese, di vendere proprietà per pagare i debiti, ma anche di ricostruire un tessuto comunitario e culturale che si sta sfilacciando e impoverendo: per scarsità di nascite, per calo di vocazioni sia religiose che laicali, per diminuzione di scuole e istituzioni cattoliche, per associazioni ed organizzazioni che perdono di vista la propria identità e funzione in linea con l’ispirazione cristiana, per mancanza di visione, di sguardo verso il futuro? Non abbiamo la necessità di convertirci pastoralmente, pedagogicamente, spiritualmente, come sollecita a fare papa Francesco? Per ritrovare la dolcezza e la pace incredibile dell’essere totalmente di Cristo, per ritrovare slancio missionario e desiderio di essere portatori della sua gioia, guardiamo a santa Chiara, ma anche a santa Umiltà, che le somiglia molto e che è co-patrona della nostra città. Sono i santi che ci aiutano a cambiare la Chiesa e il mondo in meglio, li trasformano in modo duraturo, immettendo le energie che solo l’amore ispirato dal Vangelo può suscitare. I santi sono i nostri grandi benefattori, le nostre guide nel forgiare progetti di rinnovamento spirituale e culturale! Essi sono per noi fonte di gioia e di speranza. Preghiamoli. Chiediamo che ci portino a Gesù!

Nella Solennità di S. Chiara rendiamo grazie al Signore per il dono delle Sorelle Clarisse che continuano la speciale missione dell’umile pianticella di S. Francesco  a favore dell’umanità intera. Siano esse fedeli a quello stile di vita che le contraddistingue quali «pellegrine e forestiere in questo mondo»: lo siano con tutte le creature del mondo, come sollecita a fare la lettera enciclica Laudato sì’ di papa Francesco.

                                                   + Mario Toso, vescovo

OMELIA per la Solennità dei Ss. PIETRO e PAOLO
Faenza - Basilica Cattedrale, 28 giugno 2015
28-06-2015

Cari fratelli e sorelle,

celebriamo oggi la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, due giganti della Chiesa, fratelli nella fede, diversi per carattere e per approccio alla nascente esperienza cristiana, eppure uniti nello stesso amore a Cristo, creduto e donato a tutti, sino al martirio. Quando ci rechiamo a Roma, a visitare la Basilica di san Pietro, due imponenti statue ce li raffigurano uno con le chiavi, simbolo del potere di rimettere i peccati, e l’altro con la spada, lo strumento con cui fu ucciso. Entrambi hanno servito la Chiesa, ognuno a modo proprio, con un proprio ministero, vivendo per Cristo.

È quanto mai istruttivo seguire i testi della liturgia odierna per cogliere la coscienza di questi due sommi apostoli, entrambi perseguitati per il loro amore a Cristo. La loro consapevolezza di essere sempre aiutati dal Signore ci è di conforto tra le molteplici prove della vita.

Pietro viene imprigionato dal re Erode, per far piacere ai Giudei che lo odiavano e lo volevano morto. Ma, nella notte, prima di essere presentato al popolo, venne liberato da un angelo sfolgorante, mentre dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui. Tutto avviene nella fretta. Pietro era tra il sonno e uno stato di dormiveglia. Appena liberato, riavutosi, così si esprime: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva» (At 12, 11).

Paolo, l’apostolo delle genti, invece, sta per essere decapitato. Ecco qual’è il suo stato d’animo: «[…] io sto per essere versato in offerta… Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede… Il Signore mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno…».

Sia Pietro sia Paolo attribuiscono a Dio la loro liberazione. Dio libera i suoi discepoli da ogni male, dalla persecuzione, dalla prigionia e dalla stessa morte che essi subiscono.

Ancora oggi la Chiesa è sottoposta a persecuzioni. In tante parti del mondo è Chiesa di martiri. Basta essere cristiani per diventare bersaglio di coloro che odiano Cristo e la sua Croce. Anche nei nostri Paesi occidentali, la Chiesa sembra debba prepararsi a sostenere attacchi tesi a ridurre la sua libertà di espressione. Basti pensare che in Italia giacciono in parlamento progetti di legge secondo i quali se qualcuno, pastore o credente, sostenesse pubblicamente che la famiglia vera è solo quella fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna – come peraltro è riconosciuto nella costituzione italiana – sarebbe dichiarato omofobo, intollerante e razzista, soggetto da perseguire penalmente. Evidentemente, i credenti hanno il compito di impegnarsi per influire affinché non vadano in porto simili progetti illiberali e intolleranti.

Per i credenti che lottano per il bene e per la giustizia, viene dai testi biblici, che abbiamo sentito proclamare, questa consolazione: Dio è vicino ai suoi fedeli servitori. Li libera da ogni male. Libera la Chiesa dalle potenze negative del male.

Se pensiamo ai due millenni di storia della Chiesa, occorre riconoscere che se non sono mai mancate le persecuzioni, non è neanche mai mancato l’aiuto del Signore. Egli non ha lasciato soccombere la sua stirpe. Però, come per tutti i beni, anche la libertà della Chiesa non è mai un dato scontato e definitivo. Essa va sempre ricercata e difesa. Il nostro non dev’essere il metodo della lotta contro le persone che la pensano diversamente da noi. È, piuttosto, il metodo della lotta per il bene e la giustizia, scendendo anche in piazza se occorre, come è avvenuto recentemente, a favore della famiglia. Altre opere di giustizia, di diversa portata, vanno realizzate là ove è pregiudicata la stessa esistenza fisica delle comunità cristiane, come in Medio Oriente, in Paesi arabi e in Africa. Purtroppo dobbiamo lamentare, da parte dei grandi della terra, indifferenza, lentezza. Spesso volgono lo sguardo altrove.

Ma le persecuzioni, malgrado le sofferenze che provocano, non costituiscono ancora il pericolo più grave per la Chiesa. Spesso i pericoli peggiori vengono dal di dentro. Il danno maggiore che la Chiesa subisce proviene da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, deturpando la bellezza del suo volto. La seconda Lettera a Timoteo di cui abbiamo ascoltato un brano, parla di pericoli degli «ultimi tempi», identificandoli con atteggiamenti negativi che appartengono al mondo e che possono contagiare la comunità: egoismo, avarizia, vanità, orgoglio, idolatria del denaro, superbia, attaccamento ai piaceri più che a Dio (cf 3, 1-5). Venendo più vicini a noi, papa Francesco nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium non esita ad elencare una lunga serie di pericoli o tentazioni che assediano e aggrediscono i credenti, gli operatori pastorali. Ne elenchiamo alcuni: essere mummie da museo e non cristiani vivi e ricchi di missionarietà, vedere solo rovine e nessun germe di bene, lasciare progredire la desertificazione spirituale, pensare di vivere senza Cristo, rinchiudersi nella conservazione dell’esistente, amare un Gesù Cristo senza carne e senza impegno con l’altro, non credere realmente e fattivamente nella fraternità, lasciarsi rubare la comunità, il Vangelo; dominare lo spazio della Chiesa, nel senso di impadronirsi di Cristo attribuendolo solo a se stessi e al proprio gruppo, ostracizzando gli altri.

Comunque sia, i discepoli assediati, attaccati dall’esterno e dall’interno, non devono perdersi di animo. Le forze del male non prevarranno sulla Chiesa (cf Mt 16,18). Questa è la promessa di Gesù Cristo. Il Signore è sempre con i suoi discepoli per salvarli. Con il suo amore li rigenera e li trasfigura. La condizione perché tutto questo avvenga è una sola. Essere, come Pietro e Paolo, di Cristo, vivendolo, donandolo. Essergli, cioè, fedeli sino alla morte, per poter dire anche noi: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede». Lasciamoci costruire come suo Corpo, nell’unità e nella comunione. Nutriamoci alla sua mensa eucaristica, per avere la sua forza di amare.

OMELIA per la Celebrazione di San Josè Maria ESCRIVA’ de Balaguer
Faenza - Basilica Cattedrale, 25 giugno 2015
25-06-2015

Cari fratelli e sorelle, oggi celebriamo la festa di san Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei. Egli si è particolarmente prodigato a promuovere, fra persone di ogni ceto sociale, la ricerca della santità e l’esercizio dell’apostolato, attraverso la santificazione del lavoro, in mezzo al mondo e senza cambiare stato di vita. Detto altrimenti, si è impegnato ad insegnare ad ognuno a farsi santo nel proprio lavoro, mediante il proprio lavoro. Tutti sono chiamati a farsi santi, ossia a vivere Cristo, ad amarlo sopra ogni cosa, a donarlo agli altri, affinché ognuno possa godere della comunione con Lui, della sua capacità di amare, di offrirsi al Padre con tutta la propria vita, divenendo gloria vivente di Dio. Tutti, ossia mamme e papà, operatori ecologici, notai, avvocati, amministratori della cosa pubblica, politici, sindacalisti, professori, metalmeccanici, elettricisti, operatori dei mass media, ingegneri elettronici, bancari, broker finanziari nella Borsa, broker assicurativi, infermieri, muratori, ferrovieri, coltivatori della terra, cooperatori ed imprenditori; tutti coloro che svolgono una professione tradizionale o nuova – a dire il vero anche i disoccupati, con una difficoltà in più perché senza lavoro – sono chiamati a essere santi, ossia a vivere immacolati al cospetto di Dio, come suoi figli e figlie amantissimi. Ebbene, san Josemaría Escrivá, visse la sollecitudine di insegnare a tutti i credenti, specie ai christifideles laici, di vivere nella santità, di essere santi, anche se non entro le mura di un convento o se non sono sacerdoti o religiosi o religiose. Santità è una parola caduta in disuso, forse anche perché, in una società sempre più secolaristica come la nostra, l’amore per Dio si è affievolito, come anche la percezione della sua presenza in noi, nella storia, nelle vicende di ogni giorno. A fronte del grande impegno apostolico di san Josemaría Escrivá viene subito da fare un esame di coscienza comunitario ed individuale. Ma oggi, nelle nostre comunità ecclesiali, nelle nostre associazioni ed organizzazioni, nonché nei movimenti, parliamo ancora di santità, siamo convinti che l’appello alla santità non è uguale per tutti e che ognuno dev’essere accompagnato a viverla secondo la sua professione, nella sua professione? Nel passato si curava di più la pastorale per le varie categorie di persone, anche per coloro che guidavano i bus e i tram, per le ostetriche. Oggi sembra essersi persa questa abitudine. Avviene per scarsità di operai nella messe del Signore? Sarà anche per questo. Pare, però, che ciò succeda, perché è diminuita la nostra fede, perché si crede meno alla nostra identità, perché è carente lo spirito missionario. Siamo giustamente preoccupati di portare Cristo nelle terre più lontane. Ma non sarebbe errato incominciare a preoccuparci di essere missionari anche qui, nelle nostre terre. Le nostre omelie, rimaste quasi, sia pure impropriamente, l’ultima spiaggia della formazione, sembrano pronunciate per tutti e per nessuno. Così, i nostri momenti educativi hanno perso una delle più belle peculiarità: preparare laici e laiche a vivere l’amore per Cristo e per il prossimo secondo la loro specifica professione. I nostri discorsi passano sopra le teste, non coinvolgono i singoli, perché non scendono nel quotidiano. Un primo insegnamento che possiamo trarre dalla considerazione della bella e nitida figura del fondatore dell’Opus Dei è senz’altro questo: impegnarsi di più a vivere la nostra missionarietà come un accompagnamento più personalizzato dei credenti nel cammino della santità.

Ma come educare alla santità, come la si ottiene? «Siate perfetti come è perfetto il Padre mio che è nei cieli», ci ha detto Gesù. Ciò vale per tutti i battezzati. La conversione è questione di un momento. Ma la santificazione dura tutta la vita, osservava san Josemaría Escrivá. Essa si ottiene dando una motivazione sovrannaturale alla propria occupazione professionale. Detto diversamente, diventiamo santi vivendo la nostra professione rimanendo uniti a Cristo, dimorando in Lui, assumendo i suoi stessi sentimenti, riconoscendolo presente e amandolo nelle persone che si incontrano.

Se l’impegno della santificazione è lo stesso per tutti i tempi e tutti i luoghi, esso si realizza in forme diverse e nuove, a seconda dei contesti geografici, storici e culturali. Un tempo non eravamo abituati a sentir parlare dei problemi ecologici, dell’ecologia ambientale e dell’ecologia umana. Oggi, a fronte della questione ecologica, sì. Qualche giorno fa, papa Francesco, mediante la sua enciclica sociale, che sin dal suo incipit si ispira a san Francesco d’Assisi, ha richiamato i credenti e tutti gli uomini di buona volontà, ma anche i non credenti, a costruire un grande movimento ecologico mondiale per dedicarsi seriamente ed urgentemente alla cura della casa comune. Non interessarsi della casa comune equivarrebbe a disinteressarsi del destino comune, significherebbe non amare Dio, le sue creature, l’umanità, le generazioni future. Sono peccati – ha scritto chiaro e tondo il pontefice, citando il patriarca Bartolomeo – contro la creazione. «Che gli esseri umani distruggano la diversità biologica nella creazione di Dio; che gli esseri umani compromettano l’integrità della terra e contribuiscano al cambiamento climatico, spogliando la terra delle sue foreste naturali o distruggendo le sue zone umide; che gli esseri umani inquinino le acque, il suolo, l’aria: tutti questi – scrive papa Francesco nella sua enciclica, costringendoci ad aggiornare i formulari per l’esame di coscienza allorché si va a confessarsi – sono peccati». Perché “un crimine contro la natura è un crimine contro noi stessi e un peccato contro Dio”» (Laudato sì n. 8).

Allargando quanto detto da papa Francesco, circa l’impegno per un’ecologia integrale, ossia comprensiva dell’ecologia ambientale ed umana, nella lista dei peccati andrebbero inseriti anche i peccati contro la vita, la famiglia, il matrimonio, la manipolazione del genoma, il capitale sociale. Fa parte, dunque, dell’impegno di una santificazione aggiornata, di crescita nella fede, la cura responsabile della casa comune, l’impegno per un’ecologia integrale, assunte e vissute per amore di Dio, del suo progetto, dell’umanità, del creato. In particolare, fa parte del cammino nella/della santità la «conversione ecologica» – che fa emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni col mondo -, l’educazione ad una ecologia integrale, una catechesi attenta alla questione ecologica, interpretata anche come questione di ecologia umana, il perseguire uno sviluppo sostenibile, ossia uno sviluppo non contrassegnato dall’avidità, dal consumismo, bensì da uno sguardo contemplativo e dalla creatività, dalla convivialità tra le generazioni, dalla sobrietà, dall’umiltà, da una spiritualità della gioia e della pace, dalla creazione di nuove istituzioni internazionali proporzionate ai problemi ambientali globali.

Sicuramente san Josemaría Escrivá, amante della Chiesa e del papa e, soprattutto di Gesù Cristo, Signore dell’universo, non avrebbe esitato ad indicare come cammino di santificazione ciò che papa Francesco ha coraggiosamente proposto in questi giorni, chiamando le cose per loro nome, sollecitando a riformare quel sistema culturale che tutti ci domina e che è contrassegnato da materialismo consumistico, dal capitalismo finanziario che assolutizza il profitto a breve, dalla cultura dello scarto e dall’ideologia della tecnocrazia. Anche san Josemaría avrebbe attirato l’attenzione sulle radici etiche e spirituali dei problemi ambientali, sulla necessità di riconoscere i peccati contro la creazione, di costruire una città abitabile, di realizzare la giustizia tra i popoli e le generazioni.

Vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana. La santificazione dei credenti comprende una cura generosa e piena di tenerezza per la casa comune. Implica gratitudine e gratuità, vale a dire il riconoscimento del mondo come un dono ricevuto dall’amore del Padre, che provoca come conseguenza disposizioni di rinuncia e gesti di condivisione con i propri fratelli. Si fonda sulla consapevolezza, rafforzata dallo Spirito (cf Seconda Lettura: Rm 8, 14-17)), di vivere come figli di Dio che partecipano, con e nel Figlio, ad una nuova creazione che trasfigura il mondo.

Ma per Josemaria, come peraltro suggerisce il brano del Vangelo odierno (cf Lc 5, 1-11), fa parte della propria santificazione quotidiana anche l’essere apostoli, pescatori d’uomini. Il cristiano non deve santificare solo il proprio lavoro professionale. Occorre predicare il Vangelo. Occorre prendere il largo e gettare le reti per la pesca. Occorre lavorare per portare le persone all’Amore (con la A maiuscola). Chiediamoci: ricerchiamo e viviamo realmente una santità così? Ricerchiamo persone, giovani per accompagnarle da Gesù, il Redentore? Solo Lui può dare risposta alle loro attese più profonde. Solo Lui può salvare. Le tappe del Cammino spirituale di cui parla Josemaría Escrivá – cerca Cristo, trova Cristo, ama Cristo – si completano in un’ultima tappa: dona Cristo! Da tempo le nostre comunità sono impegnate in una nuova evangelizzazione, affinché le persone, i giovani, coloro che sono alla ricerca, possano incontrarLo. L’incontro con Lui, l’innamorarsi di Lui fa la differenza. Rimanendo uniti a Lui, come i tralci alla vite, possiamo trasfigurare le nostre esistenze e portare frutti abbondanti di opere buone. A fronte della perdurante frattura fra fede e vita, la Chiesa è sempre impegnata ad insegnare che noi possiamo essere costruttori di un nuovo umanesimo vivendo Cristo. La nostra Chiesa, che è in Faenza e Modigliana, condivide con le altre Chiese d’Italia il cammino che conduce al prossimo Convegno di Firenze e che sollecita a riconoscere in Cristo Colui che ci consente di rigerarchizzare le nostre scale di valori. Nei prossimi mesi, prima di novembre, sarete invitati – mi riferisco in particolare a coloro che vivono in questa diocesi – dai vostri parroci e, prima ancora, dai vicari foranei, coadiuvati dai rappresentanti della nostra diocesi al Convegno nazionale di Firenze, a riflettere su quale tipo di umanità noi crediamo, su quale figura di persona noi incentriamo la nostra educazione, su quale modello di uomo noi costruiamo la nostra città. La nostra fede in Gesù Cristo non ci consente di accettare supinamente una visione economicistica ed immanentista della vita, un concetto di uomo chiuso in se stesso, inteso in senso individualistico, senza fraternità e solidarietà, senza apertura a Dio.

Partecipando all’Eucaristia, imitando san Josemaría Escrivá, celebriamo ed offriamo un’umanità in ascolto, ricca di interiorità e trascendenza, disponibile al dono totale di sé, come quella di Cristo, vittima e sacerdote insieme.

OMELIA per la Festa della COOPERAZIONE (SS. Trinità)
Faenza - Cooperativa Intesa,
04-06-2015

Oggi celebriamo la santissima Trinità, la nostra famiglia. Da essa proveniamo, ad essa siamo diretti. La famiglia di Dio – Padre, Figlio e Spirito santo – è punto di partenza e approdo ultimo della storia umana. Il nostro cammino su questa terra non è essere pellegrini verso un Assoluto indefinito, astratto, estraneo alla realtà e alla nostra vita. L’Assoluto, di cui noi, fra l’altro, abbiamo un bisogno estremo, per avere un punto di riferimento certo, in mezzo ad una realtà sempre cangiante, fluida, non è un’entità vaga, che ci sovrasta, togliendoci  la libertà. L’Assoluto, che è al termine di ogni ricerca, desiderosa di trovare fondamenta solide per la vita morale e sociale, è un «noi» di Persone divine, unite dall’amore reciproco, ove il dare e il ricevere contrassegna le relazioni, tramite una circolarità incessante di gratuità. Grazie a Gesù incarnato, che ha assunto le nostre esistenze, noi viviamo nella vita di comunione di Dio. Siamo e ci muoviamo in essa.
Creati ad immagine di un Dio trino ed unico, siamo strutturati secondo la comunione per eccellenza, siamo per la comunione. Siamo esseri strutturati a tu, che crescono mediante il dono, il mutuo potenziamento d’essere. La nostra vocazione è quella di vivere relazioni ricche di gratuità, di condivisione, di solidarietà fraterna. Per cui, se ci troviamo in un contesto socio-economico che non intesse relazioni d’incontro, di scambio, di mutuo aiuto e di solidarietà, non possiamo che vivere a disagio, ci sentiamo spaesati, fuori contesto. Abbiamo bisogno di costruire mondi ove ci sentiamo a casa e veniamo rispettati per quello che siamo, ossia come figli di Dio e fratelli che si accolgono e si aiutano.
L’essere icone della vita trinitaria ci abilita a costruire un mondo caratterizzato da relazioni in cui l’«altro» non è considerato uno «scarto», un essere inutile o un semplice mezzo, bensì un io-con, un io-per l’altro, sulla base di un amore oblativo. Possiamo dire che la Trinità è cifra interpretativa del nostro essere e del nostro destino. È paradigma del nostro vivere civile, economico e politico, che va conseguentemente finalizzato al bene e alla felicità altrui. Dio è con noi, sino alla fine dei giorni, così: come una comunione che fermenta dal di dentro l’umanità e la sospinge verso l’unità di una famiglia che accoglie tutti.
«La Trinità è il nostro programma sociale», scriveva san Sergio, monaco russo del secolo quattordicesimo. Detto altrimenti, la Trinità è fonte ispiratrice della costruzione di una comunità economica, civile e politica a misura d’uomo, essere relazionale e comunionale, avente un’altissima dignità, alla quale spetta l’Amore infinito di Dio. La vita trinitaria, partecipata in Cristo, diventa forza creatrice di nuove relazioni, di strutture ed ambienti di vita che la ricalcano sul piano umano, nella storia.
La cooperazione è, in un certo senso, coltivare nella quotidianità sociale, una vita improntata ad una relazionalità di comunione e di collaborazione. È innalzare imprese ispirate al principio della solidarietà, capaci di «creare socialità» che abbraccia e che aiuta, come è avvenuto in maniera esemplare anche in questa terra della diocesi di Faenza.
Ma domandiamoci: quale, in particolare, la relazione fra movimenti di cooperazione e la solennità odierna della Trinità? Più precisamente: che cosa può arrecare alla cooperazione la celebrazione del legame d’amore che è la famiglia di Dio? Il comando dell’«Andate e battezzate nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito», oltre a voler dire «Andate ad annunciare e a donare Cristo a tutti» può anche voler dire per i soci cooperatori «Andate e immergete il mondo economico nel mare dell’amore di Dio, amore di comunione e di unità»?
Cari fratelli e sorelle, che vivete ed animate il mondo della cooperazione in molteplici settori, la fede nella Trinità vi può rendere rivoluzionari rispetto a culture dominate da capitalismi finanziari senza limiti e da prospettive tecnocratiche e materialistiche che vorrebbero mercificare tutto.
Dimorando nella vita di comunione della Trinità – tramite partecipazione all’Eucaristia, tramite il sacramento della Riconciliazione – si può mantenere viva la forza profetica della cooperazione, ossia quella tensione che la sospinge a guardare in avanti, a perfezionare e ad aggiornare le buone e solide realtà che sono già state costruite; si possono generare nuove prospettive, nuove responsabilità, nuove forme di iniziative di imprese cooperative specie nelle frontiere del cambiamento, nelle nuove periferie esistenziali. Dall’innesto nella vita di comunione di Dio, che ci riempie di amore per gli altri, per il loro bene, per il bene comune, possono derivare: nuove imprese cooperative che creano possibilità di lavoro specie per i giovani disoccupati; un nuovo protagonismo nella realizzazione di nuove soluzioni di welfare; reti efficaci di assistenza e di solidarietà che mettono al centro la gente, i più bisognosi, e non il dio denaro; nuove generazioni di soci della cooperazione che crescono soprattutto come persone, socialmente e professionalmente, nella responsabilità, nel concretizzare la speranza, nel fare insieme, nel mettere insieme con determinazione i mezzi buoni per realizzare opere buone; un vero e proprio impegno di lotta nella difesa e nella promozione di forme di cooperazione vera, giusta, democratica, partecipativa, trasparente (cf Discorso di papa Francesco ai rappresentanti della Confederazione Cooperative Italiane, Aula Paolo VI, sabato 28 febbraio 2015).
Dalla comunione con Dio possono derivare non solo nuove figure di cooperazione ma anche di dirigenti, meno attaccati al posto, più disposti al servizio disinteressato, al cambiamento, ad un ricambio salutare delle dirigenze. In questa fase storica si sente proprio la necessità di poter contare su cooperatori e dirigenti competenti sì dal punto di vista tecnico ma soprattutto dal punto di vista umano e morale.
L’economia cooperativa, infatti, per essere autentica e capace di svolgere una funzione sociale forte, ha bisogno di quell’onestà e di quell’amore per il bene di tutti che solo Dio Padre può alimentare ed irrobustire.
La Chiesa italiana sta chiedendo in questo momento storico, in cui l’identità di diverse associazioni ed organizzazioni appare sbiadita e, quindi, ininfluente, di riscoprire le radici della propria fecondità sociale. Per questo sollecita, in particolare, a guardare a Cristo come alla sorgente di un nuovo umanesimo concreto. Il mondo della cooperazione potrà confermarsi come portatore di un umanesimo integrale, solidale, cooperativo, aperto alla Trascendenza se si terrà alla scuola della Trinità, ma soprattutto se saprà viverne la comunione e la gratuità, con una spiritualità ad alta tensione.
La partecipazione al sacrificio di Gesù ci aiuti ad investire convintamente nell’ispirazione cristiana e a far sì che la cooperazione cresca in creatività, in un’imprenditorialità capace di innovarsi e di servire, per contribuire ad offrire pane e lavoro per chi non ce li ha, collaborando con tutte le persone di buona volontà.