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OMELIA nella SOLENNITÀ di MARIA MADRE DI DIO
Faenza - Basilica Cattedrale, 1 gennaio 2016
01-01-2016

Nel primo giorno del nuovo anno abbiamo la gioia e la grazia di celebrare la Santissima Madre di Dio e, al tempo stesso, la Giornata Mondiale della Pace. In entrambe le ricorrenze celebriamo Cristo, Figlio di Dio, nato da Maria Vergine e nostra vera pace.

È stato il beato Paolo VI, il papa che portò felicemente a conclusione il Concilio Vaticano II, iniziato da san Giovanni XXIII, a volere l’abbinamento della celebrazione della divina Maternità di Maria con la Giornata mondiale della Pace.

Maria, donando al mondo il Figlio di Dio, offre all’umanità intera Colui che la riunisce in un’unica famiglia. Ma non solo. Grazie all’incarnazione di Gesù Cristo in ogni persona, tutti sono resi fratelli, figli di uno stesso Padre. Dal momento che Dio si unisce all’umanità, ogni persona è più che se stessa. È divinizzata. Ogni uomo è figlio nel Figlio. È reso più capace di vero, di bene e di amore nei confronti del proprio simile. E, quindi, è reso più capace di vincere i pregiudizi, l’odio e la violenza che sono all’origine delle guerre, dei terrorismi e delle ingiustizie che stanno colpendo la famiglia umana, precipitandola in una «terza guerra mondiale a pezzi».

Papa Francesco, in un mondo sempre più bisognoso di tenerezza e di redenzione, nel suo Messaggio per la giornata mondiale della Pace 1° gennaio 2016, intende attirare la nostra attenzione su un’altra causa dei conflitti: la globalizzazione dell’indifferenza.1 A motivo di questa, i popoli rallentano il loro procedere verso la costruzione della pace. Le persone appaiono incapaci di compassione, prive della volontà di essere giuste, di dedizione al bene comune, di prendersi cura del creato.

L’indifferenza assume molti volti: indifferenza nei confronti dei senza lavoro, tetto e istruzione; nei confronti della pena di morte, dei perseguitati per la loro fede religiosa, degli ammazzati per motivi di odio razziale, dei migranti troppo numerosi per poter essere aiutati secondo la loro dignità; nei confronti dei nascituri uccisi, del creato selvaggiamente depredato e ormai sull’orlo del collasso. Secondo papa Francesco, l’indifferenza nei confronti del prossimo e del creato è originata da un’altra indifferenza, quella nei confronti di Dio. Quando l’uomo pensa di essere l’autore di se stesso si sente autosufficiente. Mira a sostituirsi a Dio, a farne completamente a meno. Ritiene di essere misura di ogni verità, di non avere limiti ai suoi diritti. E così pensa di godere di una libertà senza confini. Gli interessa solo se stesso. Gli altri sono considerati antagonisti, avversari, mezzi o strumenti per la propria affermazione incondizionata.

L’indifferenza, dai rapporti interpersonali si estende alla sfera sociale e pubblica, investe le istituzioni internazionali, le relazioni tra gli Stati. Si traduce in progetti economici e politici che anziché esprimere collaborazione e giustizia nei rapporti, nascondono intenzioni di dominio sull’altro, di sfruttamento.

Orbene, suggerisce papa Francesco, se si vuole conquistare la pace, occorre vincere l’indifferenza. Questa può essere battuta solo convertendosi alla fraternità e, quindi, in ultima a analisi, a Dio, a Gesù Cristo, che è la misericordia fatta carne ed anche causa della nostra fraternità.

Solo accogliendo l’amore di Dio e riconoscendoci membri dell’unica grande famiglia dei suoi figli noi siamo in grado di sconfiggere l’estraneità, l’inimicizia tra noi e tra i popoli della terra. Possiamo coltivare meglio l’unità, la dignità altrui, i diritti dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Gesù ci insegna ad essere misericordiosi come il Padre, ovvero ad usare nei confronti dei nostri fratelli e sorelle la giustizia più grande, ossia quella giustizia che dà a ciascuno il «suo», non solo in conformità alla dignità umana ma anche a quella divina. Agli uomini, figli di Dio, spetta una giustizia più che umana.

La pace vera di cui ha bisogno il mondo è, dunque, frutto della misericordia di Dio, che presuppone e comprende la giustizia. Non la esclude. Tutt’altro. La rende più cogente. Senza giustizia nei confronti degli altri – persone, popoli, creato – non c’è misericordia, non c’è amore e cura per il loro bene. L’indifferenza, che può tramutarsi facilmente in odio e violenza, può essere vinta solo con una cultura della misericordia, della fraternità, della solidarietà e della trascendenza.

La pace è un dono dall’alto ma richiede anche la nostra collaborazione. Per noi che tendiamo a rinchiuderci in noi stessi, a non aprirci al bisogno dell’altro, Dio misericordioso rimane, specie all’inizio di un nuovo anno dedicato alla sua Misericordia, un punto di riferimento imprescindibile, come causa esemplare. Occorre guardare a Lui, vivere di Lui, venendone trasfigurati! Occorre guardare a Maria, Madre di Dio. Ella concepisce il Figlio di Dio prima nella sua mente e, poi, nel suo grembo, per donarlo al mondo. Maria, non a caso, è invocata come Madre del Principe della pace e Regina della pace. Noi saremo grandi protagonisti della pace se diventeremo testimoni credibili di un Dio Misericordioso, che non vuole la distruzione dei propri figli, bensì la loro conversione.

I vari educatori e operatori pastorali e culturali delle nostre comunità sono chiamati a ricordare che Dio non è indifferente e tantomeno un Dio violento. A Lui importa dell’umanità. Si interessa della sorte dell’uomo. Noi, figli e figlie di un Dio Misericordioso, non possiamo essere da meno. I credenti, per imparare a vivere la misericordia e a vincere l’indifferenza debbono vivere in comunione con lo Spirito del Padre e del suo Figlio incarnato, quello Spirito d’Amore che grida: «Abbà! Padre!» (cf Gal 4,4-7). Come narra l’Antico Testamento, quando i figli di Israele si trovano schiavi in Egitto, Dio interviene. Osserva, ode il grido del suo popolo, scende e libera. È attento ed opera. In maniera analoga si comporta il Figlio Gesù. Egli è Dio che scende tra gli uomini, si incarna, si mostra solidale con l’umanità, in ogni cosa, eccetto il peccato. Non si accontenta di insegnare alle folle, ma si preoccupa di loro, specialmente quando le vede affamate (cf Mc 6, 34-44) o disoccupate (cf Mt 20,3). «Il suo sguardo – si legge nel Messaggio per la pace 2016 – non era rivolto soltanto agli uomini, ma anche ai pesci del mare, agli uccelli del cielo, alle piante e agli alberi, piccoli e grandi; abbracciava l’intero creato. Egli vede, certamente, ma non si limita a questo, perché tocca le persone, parla con loro, agisce in loro favore e fa del bene a chi è nel bisogno. Non solo, ma si lascia commuovere e piange (cfr Gv 11,33-44). E agisce per porre fine alla sofferenza, alla tristezza, alla miseria e alla morte».2

Maria, Madre di Dio, ci insegni ad accogliere Gesù. Solo se abbiamo Dio nel cuore, siamo in grado di cogliere nel volto dell’altro un fratello in umanità, non un mezzo ma un fine, non un rivale o un nemico, ma un altro me stesso, una parte dell’infinito mistero dell’essere umano. Senza Dio nel cuore è molto difficile che possiamo essere costruttori di pace, vittoriosi sull’indifferenza.

1 FRANCESCO, Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace 2016, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015.

2 FRANCESCO, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2016, n. 5.

OMELIA per la S.MESSA a conclusione dell’anno e TE DEUM in RINGRAZIAMENTO dell’ANNO
31-12-2015

Raccolti nella nostra bella cattedrale concludiamo l’anno 2015 celebrando la Messa vespertina della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio. Alla contemplazione del mistero della divina maternità si unisce, pertanto, il cantico della nostra gratitudine per il 2015 che tramonta e il 2016 che già intravvediamo. Il primo sentimento che si affaccia è quello della riconoscenza. Ringraziamo il Signore per i molti benefici che ci ha elargito, colmando tutte le nostre componenti ecclesiali, comunità e Centri pastorali di tanta tenerezza. Penso al vescovo emerito, S. Ecc. Mons. Claudio Stagni, al sottoscritto, ai presbiteri, ai diaconi, alle persone consacrate, ai tanti fedeli laici qui convenuti, ma anche alle molteplici associazioni, aggregazioni e movimenti.

Alla fine di quest’anno, il ringraziamento va anche a tutti coloro che hanno collaborato, in vario modo, all’annuncio della fede e alla testimonianza della carità, specie ai più poveri. Quanto bene è stato compiuto nella nostra Diocesi, grazie all’aiuto del Signore e della Beata Vergine delle Grazie, dei nostri santi copatroni e dei beati! Un ringraziamento speciale va alla Madre di Dio, che è anche madre nostra. Donandoci il Figlio del Padre consente a noi di partecipare al suo essere filiale, di diventare figli nel Figlio. E ciò ci consente di vivere con la sua capacità di amare, di divenire protagonisti nel mondo della giustizia più grande.

Il nostro grazie riconoscente va anche al Sommo pontefice, papa Francesco, per lo slancio missionario che sta imprimendo alla Chiesa intera, sollecitandola a vivere intensamente il Giubileo straordinario della Misericordia. Il prossimo 2016 dovrebbe vederci, assieme in particolare alle altre Diocesi italiane, impegnati nel rileggere, approfondire, tradurre nei vari ambiti pastorali, la sua lettera apostolica Evangelii gaudium. Con il suo discorso tenuto a Firenze, il 10 novembre nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore, davanti a tutti i vescovi e i rappresentanti del V Convegno Nazionale della Chiesa italiana, ha nuovamente sollecitato le comunità parrocchiali, i Centri pastorali, associazioni, movimenti ed aggregazioni ad uscire, annunciare, dimorare, educare, trasfigurare le relatà nelle quali viviamo ed operiamo quotidianamente.

Come insegna l’Anno straordinario del Giubileo, e come cerca anche di spiegare la Lettera pastorale Misericordiosi come il Padre,1 la trasfigurazione della nostra esistenza e del mondo avviene annunciando e testimoniando che Gesù Cristo è la Misericordia di Dio. La nostra umanità per divenire più se stessa necessità di sperimentare l’Amore misericordioso del Padre. Detto altrimenti, per essere più umana ha bisogno di Dio, di essere divinizzata, ossia di essere resa più capace di vero, di bene e di Dio, grazie ad una più intensa comunione con Colui che è l’Uomo Nuovo, il Nuovo Adamo.

Questa è, allora, la nostra preghiera questa sera: soccorri, Signore, con la tua misericordia la nostra Diocesi. Aiutala ad andare incontro a coloro che hanno bisogno di Te, non solo a coloro che necessitano di cose materiali, di un lavoro, di ospitalità, ma specialmente a coloro che non ti conoscono o che hanno abbandonato le nostre comunità per la nostra controtestinianza e la nostra incapacità di rispondere alle loro domande più profonde. Aiuta la nostra Diocesi a guardare avanti, ad avere una visione di futuro, a non adagiarsi, ad offrire speranza soprattutto alle nuove generazioni di credenti. Sia capace di rinnovarsi nelle sue prassi pastorali e nelle sue istituzioni.

Abbiamo tanti altri motivi di ringraziamento. Basta che pensiamo al folto gruppo di fedeli laici e di giovani che animano la vita comunitaria e si dedicano alla catechesi. E, tuttavia, nelle nostre comunità non possiamo dire che l’«emergenza educativa» sia alle spalle. In alcune parrocchie, purtroppo, mancano catechisti. Ma anche non ci sono sufficienti guide per l’accompagnamento delle nuove generazioni nell’inserimento nel mondo del lavoro e nella società, come anche nella vita parrocchiale ed associativa.

Chiediamo al Signore di benedire le iniziative missionarie della nostra Diocesi, nonché i giovani che, grazie a Dio, intendono consacrarsi al sacerdozio. Sono una dozzina. Per noi rappresentano un fondato motivo di fiducia nel futuro.

Ringraziamo, inoltre, tutti coloro che ci hanno aiutati a realizzare quei «segni» giubilari della misericordia, che sono stati individuati come emblematici per la nostra Diocesi, ossia: la Scuola di formazione all’impegno sociale e politico; l’inaugurazione del nuovo Centro di ascolto e della nuova Casa per il clero.

Cantando il Te Deum pregheremo: «Salvum fac populum tuum, Domine, et benedic Hereditati tuae- Salva il tuo popolo, Signore, guarda e proteggi i tuoi figli che sono la tua eredità».

Con tenacia e paziente fiducia lavoriamo per la difesa della vita, per la famiglia, chiesa domestica e semenzaio della società.

È senz’altro confortante constatare che il lavoro intrapreso dalle parrocchie, dai movimenti e dalle associazioni, dal Centro Diocesano per la pastorale famigliare, nelle sue molteplici articolazioni, continua a svilupparsi e a portare risultati importanti.

Cari fratelli e sorelle della Chiesa che è in Faenza-Modigliana, chiediamo al Signore che faccia di ciascuno di noi un autentico fermento di speranza nei vari ambienti di vita, perché ci possa essere un futuro migliore. È questo l’augurio per tutti. Maria, Madre della Misericordia, interceda per noi.

1 Cf M. TOSO, Misericordiosi come il Padre, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015.

OMELIA per la MESSA DELLA NOTTE di NATALE 2015
Faenza - Basilica Cattedrale, 25 dicembre 2015
25-12-2015

Cari fratelli e sorelle,

in questa notte beata, attraverso la Parola di Dio, ci è comunicata una notizia unica, sensazionale, destinata a rivoluzionare il mondo, a portare pace e speranza a tutti.

Ecco la notizia più consolante di tutti i tempi, per tutte le generazioni: «Oggi – scrive san Luca – nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2, 11).

Il «cuore» dell’annuncio sta in questo: «per noi è nato il Salvatore». Una simile notizia non può lasciarci indifferenti. Infatti, se viene a noi il Salvatore tutto cambia, tutto può essere diverso. Non abbiamo, forse, bisogno di chi, oggi, ci salvi, dal momento che viviamo in un mondo di odio, violenza, guerre, terrorismo, ingiustizie, povertà, e gli sforzi delle persone di buona volontà appaiono fortemente impari rispetto alle necessità, a tirarci fuori dall’iniquità e dalle tenebre del male? Non dobbiamo anche noi, già logori e stanchi a causa di tante angustie ed oscurità, riconoscere, come gli antichi greci, che oramai solo un Dio ci può salvare? Non aveva ragione il grande filosofo Martin Heiddeger quando affermava che nulla, né la filosofia né alcuna altra intrapresa umana, può produrre un significativo cambiamento del mondo se non Dio?1

Il Signore, che si rende presente nella storia, e diventa «Dio con noi», non è più il Dio distante. Entrando nel mondo è il Vicino, che rimane con noi sino alla fine del mondo (cf Mt 28,20). Egli viene a salvarci, nel senso che non ci lascia soli a combattere contro il male, l’illegalità, la corruzione, e tutte quelle idolatrie che rendono l’uomo schiavo di se stesso. Dio si schiera dalla nostra parte. È per noi, come ci ricorda l’anno giubilare inziato lo scorso 8 dicembre, la Misericordia di Dio. Con Lui presente, in noi e negli altri, tutto è possibile. È possibile sconfiggere l’egoismo, il peccato, il fratricidio, l’odio alle religioni, gli attacchi alla vita, alla dignità umana, alla pace, alla casa comune che è il creato; la tratta degli esseri umani, le emigrazioni forzate, lo sfruttamento del lavoro, l’emarginazione dei più deboli. È possibile perdonare.

Siamo come quei pastori che vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge, e all’annuncio dell’angelo «si affrettarono» – dice letteralmente il testo greco – per andare sino a Betlemme a vedere il grande evento. Anche noi, ai quali non rimane che presidiare il bene rimasto – nel cuore, nella famiglia, nella città, nella politica, nella finanza, nella cultura – muoviamoci per vedere meglio, e capire sempre più profondamente, il mistero dell’incarnazione che congiunge cielo e terra. Afferriamo il suo significato per la nostra vita e la storia umana. Svegliamoci. Usciamo dalle nostre visioni corte ed anguste. Entriamo, ancora una volta, nella realtà del Natale. Comprendiamone la verità intera. Cogliamo le conseguenze di quel mirabile scambio che, come spiega sant’Agostino, avviene tra Dio e l’umanità, dal momento che il Verbo si è fatto carne: et Verbum caro factum est! Cerchiamo di capire perché il Bambino posto nella mangiatoia e non in una culla regale, dissolve le tenebre ed è luce per noi (cf Is 9, 1-6).

Nella Notte Santa, Dio viene a noi come uomo, affinché noi diventiamo veramente umani. Accogliendo l’Uomo Nuovo che è Cristo, ci umanizziamo, ricevendo la sua capacità divina di vincere il male, di perdonare, di amare. Diventiamo più umani perché il Figlio di Dio ci divinizza. Il Creatore del genere umano ci conferisce, assumendo un corpo, la sua divinità.

Nel Natale Dio, il «Cielo», si fa uomo, diventa «terra», perché l’uomo, la «terra», diventi Dio, «Cielo». Grazie all’admirabile commercium che avviene tra Dio e l’umanità non possiamo più ragionare alla maniera di Thomas Hobbes, teorizzatore di un umanesimo pessimista: homo homini lupus. L’uomo è per l’altro uomo un lupo, una bestia feroce. Dovremmo, piuttosto, pensare e dire con le parole di un altro filosofo, Baruch Spinoza: homo homini Deus. L’uomo è per l’altro uomo un «Dio». Ne derivano conseguenze importanti per le relazioni interpersonali, diverse da quelle comandate da una visione belluina dell’uomo: ossia relazioni di misericordia, di fraternità, relazioni familiari, solidali. L’uomo non dev’essere considerato un nemico, tantomeno uno «scarto», ossia un essere inutile ed inservibile, ma neppure uno strumento e una cosa da usare. La persona umana, ha spiegato bene Immanuel Kant, dev’essere sempre per l’altro un fine, mai un mezzo.

L’altro da me, l’altro «io», giacché in lui, come in me, abita Cristo, dev’essere considerato un simile, un mio pari nella dignità: non solo sul piano meramente umano, ma anche su quello divino.

Come ha scritto santa Edith Stein, ebrea convertita al cristianesimo, allieva e poi assistente del filosofo Edmund Husserl, morta nel lager di Auschwitz, «Dio è diventato un figlio degli uomini, affinché gli uomini potessero diventare figli di Dio».2 Mediante l’incarnazione e il dono del suo Spirito, il suo amore vive in noi. Agiamo come Lui, amiamo in maniera non semplicemente umana. «L’amore naturale tende ad avere per sé la persona amata e a possederla nella maniera più indivisa possibile. Cristo è venuto per riportare al Padre l’umanità perduta; e chi ama con il suo amore vuole gli uomini per Dio e non per sé. Questa è naturalmente nello stesso tempo la via più sicura per possederli eternamente; quando infatti abbiamo posto in salvo una persona in Dio, siamo con lei in Dio una cosa sola, mentre il desiderio di conquistarla conduce spesso – anzi prima o poi sempre – alla sua perdita. Ciò vale per l’altrui anima come per la propria e per ogni bene esteriore: chi si dedica alle cose esteriori per conquistarle e conservarle, le perde. Chi ne fa dono a Dio, le guadagna».3

Cristo, a noi che spesso abbiamo un cuore di pietra, indifferente all’altro, desidera donare un cuore di carne. Come già detto, Dio nella Notte Santa viene a noi perché diventiamo più umani. Ascoltiamo Origene: «In effetti, a che gioverebbe a te che Cristo una volta sia venuto nella carne, se Egli non giunge fin nella tua anima? Preghiamo che venga quotidianamente a noi e che possiamo dire: vivo, però non vivo più io, ma Cristo vive in me (Gal 2,20)» (in Lc 22,3).

Sì, per questo desideriamo pregare in questa Notte Santa con le stesse parole di Benedetto XVI: «Signore Gesù Cristo, tu che sei nato a Betlemme, vieni a noi! Entra in me, nella mia anima. Trasformami. Rinnovami. Fa che io e tutti noi da pietra e legno diventiamo persone viventi, nelle quali il tuo amore si rende presente e il mondo viene trasformato. Amen».4

1 Cf M. HEIDEGGER, Ormai solo un Dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987, p. 136.

2 EDITH STEIN, Il mistero del Natale, Queriniana, Brescia 201511, pp. 29-30.

3 Ib., p. 33.

4 BENEDETTO XVI, Omelia del 24 dicembre 2009.

OMELIA per la presa di possesso delle parrocchie di FOGNANO, POGGIALE e CASALE PISTRINO di don MIRKO SANTANDREA
19-12-2015

In questa IV domenica di Avvento e ad anno straordinario del Giubileo della Misericordia iniziato, caro don Mirko Santandrea, prendi possesso della parrocchia di san Pietro in Fognano, ma anche delle comunità di Santa Maria in Poggiale, di santo Stefano in Casale, di san Cassiano e san Giovanni Battista in Ottavo. Giungi a questa tappa della tua vita sacerdotale dopo esserti dedicato, come vicerettore del Seminario regionale in Bologna, alla formazione di nuovi presbiteri. La Diocesi di Faenza-Modigliana ha così contribuito fattivamente ad un’istituzione indispensabile per preparare gli annunciatori del Vangelo nella Romagna, ove scarseggiano in maniera preoccupante.

Quanto tu ora farai sarà esattamente quello di continuare ad edificare, con l’aiuto del Signore, la porzione di Chiesa che vive ed opera in un ampio territorio ove i presbiteri si sono significativamente ridotti e da dove molti giovani, in cerca di condizioni più favorevoli di lavoro, se ne sono andati. L’emoraggia di forze giovani è congiunta alla carenza di adulti che si facciano carico di loro, accompagnandoli nel loro graduale inserimento nell’economia e nella società.

E così, una tardiva o mancata cooptazione, l’assenza di guide, assieme ad un ambiente culturale generale improntato al materialismo e al consumismo, avaro di prospettive di trascendenza, rendono i giovani particolarmente esposti alla deresponsabilizzazione, al non senso, all’edonismo, ed anche, purtroppo, alla droga.

La nostra società, l’economia e le comunità ecclesiali non possono permettersi il lusso di perdere i giovani, di lasciarli a se stessi, senza reali opportunità di impegno e di crescita in umanità e nella fede. Sarebbe resa vana la salvezza di Cristo. Ma verrebbe anche pregiudicato il futuro delle nostre parrocchie, delle associazioni e dei movimenti. I giovani, se responsabilizzati ed educati sanno rispondere con generosità ed entusiasmo. Occorre avere fiducia in loro. Solo così essi potranno dare il meglio di sé ed essere, come soleva ripetere Giorgio la Pira, il sindaco «santo» della città di Firenze, le rondini che annunciano una nuova primavera.

Caro don Mirko, la Chiesa ha bisogno, oltre che di nuovi santi presbiteri, anche di fedeli laici che sappiano essere nella comunità cristiana i protagonisti della sua costruzione in senso comunitario e missionario, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II del quale stiamo celebrando il cinquantesimo anniversario con il Giubileo straordinario. Ma non basta. Come dice papa Francesco nell’ Evangelii Gaudium (=EG) , in un contesto di marcata sfiducia nei confronti del messaggio della Chiesa e un certo disincanto, occorre aiutare i vari operatori pastorali a vincere quella sorta di inferiorità che li conduce a relativizzare o ad occultare la loro identità cristiana e le loro convinzioni. Ed, inoltre, va contrastata la più grande minaccia che è il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando e degenerando nella meschinità. Si sviluppa la psicologia della tomba, che a poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo (cf EG n. 83).

Altri rischi, che vanno contrastati con determinazione ed intelligenza, sono quelli della mondanità spirituale e della estraneazione dalla vita sociale e politica. La mondanità spirituale consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere personale. Può toccare tutti i credenti, compresi i presbiteri. Si tratta di un modo sottile di cercare i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. Tra le espressioni della mondanità spirituale, presso alcuni fedeli laici impegnati nella comunità, può esserci la pretesa di «dominare lo spazio della Chiesa» (cf EG n. 95).

Detto diversamente, può emergere la voglia di farsi gruppo a sé stante, di pochi intimi, con l’obiettivo di imporre la propria esperienza spirituale e il proprio iter formativo a tutti gli altri, sganciandosi anche dal costante riferimento ai responsabili delle comunità parrocchiali e al vescovo.

Per quanto concerne l’estraneazione rispetto al sociale e alla politica, ecco quanto scrive papa Francesco: «Anche se si nota una maggior partecipazione di molti ai ministeri laicali, questo impegno non si riflette nella penetrazione dei valori cristiani nel mondo sociale, politico ed economico. Si limita molte volte a compiti intraecclesiali senza un reale impegno per l’applicazione del Vangelo alla trasformazione della società. La formazione dei laici e l’evangelizzazione delle categorie professionali e intellettuali rappresentano un’importante sfida pastorale» (EG n. 102).

Sono molte le esigenze delle nostre comunità, che si edificano sul fondamento della Parola di Dio, sull’Eucaristia e sugli altri sacramenti. Sono diverse le categorie di persone alle quali un parroco deve andare e far sentire la sua vicinanza di pastore, maestro e guida: bambini, ragazzi, giovani, professionisti, lavoratori, industriali, persone della cooperazione, amministratori della cosa pubblica, maestri, anziani, ammalati, divorziati. Il lavoro pastorale non ti mancherà. Non sarai certamente disoccupato. Ci può essere, piuttosto, il rischio dello stress. Ma quando gli impegni sono assunti con passione l’usura del proprio cuore e della propria mente è minore.

Consapevole delle molteplici comunità e categorie di persone che accompagnerai e guiderai, non desisto, tuttavia, dall’affidarti, in solido con gli altri confratelli parroci e presbiteri del territorio, l’incarico di coltivare e di accompagnare i giovani verso la montagna che è Gesù Cristo, per renderli capaci di annuncio e di testimonianza credibile anche presso i loro coetanei. È noto che molti giovani si allontanano dalle loro comunità ecclesiali perché non trovano risposte alle loro inquietudini o alle loro richieste. Occorre parlare con loro nel linguaggio che essi comprendono. Si deve riconoscere che, nell’attuale contesto di crisi dell’impegno e dei legami comunitari, sono molti i giovani che offrono il loro aiuto solidale di fronte ai mali del mondo e intraprendono varie forme di militanza e di volontariato. Alcuni partecipano, in vario modo, alla vita della Chiesa, ma sono troppo pochi. Devono, poi, essere di più quelli che donano al Signore se stessi nel sacerdozio o nella vita consacrata. È specialmente preso i giovani che devono trovare maggior ospitalità la forza e lo slancio missionario. Tu, come il parroco don Stefano Vecchi che ti ha preceduto e che ringraziamo per il suo prezioso servizio pastorale, non ne sei sprovvisto. Non perderli. Maria, Madre della Misericordia, ti assista e ti accompagni nel far vivere a tutti, piccini e grandi, la grazia speciale del Giubileo che abbiamo appena iniziato.

OMELIA per le presa di possesso del nuovo PARROCO DI MARZENO, DI SARNA e DI RIVALTA don Stefano Vecchi
Sarna, 13 dicembre 2015
13-12-2015

Cari presbiteri, diaconi e fedeli, associazioni, autorità civili e militari, la presa di possesso delle parrocchie di Marzeno, Sarna e Rivalta da parte di don Stefano Vecchi, già parroco di Fognano, coincide con il giorno dell’apertura della Porta santa in diocesi nell’anno del Giubileo Straordinario della Misericordia indetto da papa Francesco. Mentre ringraziamo Mons. Elvio Chiari, nominato parroco di Brisighella, e don Romano, per il loro prezioso e generoso servizio pastorale, auguriamo a te di proseguire con gioia e dedizione un tale ministero.

Le comunità in cui vivrai e seguirai sono incastonate in uno stupendo contesto rurale, che parla il linguaggio d’amore di Dio per l’uomo. In questo periodo, stiamo assistendo al fatto che nella città quello che potrebbe essere uno spazio prezioso di incontro e di solidarietà tra le persone, spesso si trasforma in un luogo della fuga e di impoverimento del tessuto sociale. In maniera analoga, per altre ragioni, lo stesso avviene anche nelle zone limitrofe alle zone urbane. Tuttavia, a differenza della città, in ambito rurale si mostra una notevole vivacità e fecondità dal punto di vista ecclesiale, oltre che civile. Appaiono particolarmente attive significative porzioni delle nuove generazioni, che sono tali perché gruppi di adulti hanno saputo raccordarsi in una corresponsabilità pastorale davvero ammirevole. Siamo convinti che simili comunità possono essere semenzai di vocazioni forti: nel matrimonio, nel sacerdozio e nella vita consacrata.

Tuttavia, se da una parte le comunità cristiane delle zone rurali usufruiscono di un ambiente ancora favorevole all’incontro con Dio, dall’altra parte non si può ignorare che si sta producendo un indebolimento nella trasmissione generazionale della fede cristiana. È innegabile, poi, che non pochi si sentono, per varie ragioni, delusi e cessano di identificarsi con la fede e la tradizione cattoliche; che aumentano i genitori che divorziano e non battezzano i figli e non insegnano a pregare. E ciò anche per l’influsso di una società dell’informazione che diffonde modelli di vita privi di trascendenza. L’ambiente delle nostre città, come pure delle campagne e delle colline, sono tutte costellate di riferimenti a Cristo. Eppure, oggi l’essere di Cristo rischia di svuotarsi della sua verità e dei suoi contenuti più profondi; rischia di diventare un orizzonte che solo superficialmente abbraccia la vita; rischia di ridursi ad un cristianesimo nel quale l’esperienza di fede in Gesù crocifisso e risorto non anima e non illumina il cammino dell’esistenza.

La famiglia attraversa una crisi culturale profonda. Il matrimonio tende ad essere visto come una mera gratificazione affettiva che può costituirsi in qualsiasi modo. Il Giubileo della Misericordia può aiutarci a rendere più vivo e vitale il sostrato culturale ed etico dei nostri paesi, nei quali i valori di fede e di solidarietà si sono radicati e continuano ad esistere come brace sotto la cenere. Occorre ravvivarli con una nuova evangelizzazione, senza perdere i contenuti validi della tradizione. Peraltro, vanno sanate alcune debolezze come il materialismo, il consumismo, il soggettivismo relativista, la trascuratezza nei confronti degli anziani, una certa confusione di idee sul piano del rapporto tra fede e politica, che porta a dare il primato all’appartenenza partitica e non ai beni-valori fondamentali della vita, della famiglia, del lavoro, della libertà di coscienza.

Celebrare il Giubileo aiuterà a valorizzare, con le opere di misericordia, la Parola di Dio, i Sacramenti, specie quello della Riconciliazione o Confessione, che costituiscono i pilastri sui quali si fonda ogni comunità cristiana. Spesso ci lamentiamo che i nostri sacerdoti o presbiteri si limitano ad amministrare i sacramenti, mentre trascurerebbero l’educazione alla fede, l’accompagnamento spirituale, la presenza in mezzo ai giovani. Noi sappiamo perché questo avviene (invecchiamento del clero, calo delle vocazioni, povertà del tessuto comunitario delle comunità parrocchiali). Resta, comunque, vero che senza l’annuncio della Parola e la celebrazione dei misteri della fede non è possibile crescere come comunità, come testimoni credibili, dediti alla diakonia intesa in senso ampio. Chi educa sa bene che senza l’incontro personale con Gesù Cristo, che avviene soprattutto mediante i sacramenti, è impossibile crescere nella fede. Questa non è tanto un insieme di contenuti e di verità, quanto piuttosto comunione e comunicazione, dialogo con Gesù. È vita con Lui, in Lui. È possedere i suoi stessi sentimenti. È partecipare a quell’opera imponente di ri-creazione di tutte le cose che egli ha iniziato e sta portando a compimento, vincendo il peccato, trasfigurando ogni persona. È essere profeti e sacerdoti graditi al Padre.

In vista di ciò occorre lasciarsi istruire da Gesù: innanzitutto, ascoltando e amando la Parola di Dio, perché riscaldi il nostro cuore e illumini la nostra mente, e ci aiuti ad interpretare gli avvenimenti della vita e dare loro un senso. Poi, occorre sedersi a tavola con il Signore, diventare suoi commensali, affinché la sua presenza umile nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue ci restituisca lo sguardo della fede, per guardare tutto e tutti con gli occhi di Dio, nella luce del suo amore. Bisogna rimanere con Gesù che è rimasto con noi: le porte delle nostre chiese rimangono chiuse per troppo tempo durante le settimane, senza che si possa entrare per una preghiera, per sostare davanti al Santissimo Sacramento. Occorre assimilare lo stile di vita donata dal Salvatore, scegliere con lui la logica della comunione tra di noi, della solidarietà e della condivisione. Occorre riconciliarsi con Dio e con gli uomini.

La misericordia di Dio accolta, vissuta e celebrata, renderà le tre comunità di Marzeno, Sarna e Rivalta più compatte e collaborative nell’evangelizzazione. Esse si tenderanno la mano e opereranno nella fraternità, perché Gesù Cristo sia per ognuno, piccolo e grande, il bene più grande della vita. Egli è il nostro Tutto. Lui ci basta. Lui solo ci salva, nessun altro.

Vi affido don Stefano Vecchi, docente presso le scuole superiori, assistente ecclesiastico regionale dell’Agesci. Dico così perché voi sarete accompagnati e guidati dal nuovo parroco. Ma non c’è solo la responsabilità da una parte. C’è anche l’impegno delle comunità di collaborare con il proprio pastore, condividendo gioie, speranze, ma anche la stessa missione, comprese le difficoltà. La comunità cristiana è una comunione di ministeri e di carismi, ove ognuno deve vivere in sinergia con gli altri in vista dell’annuncio di Cristo e di una testimonianza credibile per la salvezza del mondo.

Dio vi aiuti. Maria, Madre della Misericordia, vi accompagni nella realizzazione della rivoluzione della tenerezza di cui il mondo ha tanto bisogno. Ci sia tra le varie comunità di Marzeno, Sarna, Rivalta, non la distanza, non l’indifferenza, bensì quella stima e quel caldo amore, quell’empatia che ci fa considerare tutti figli di uno stesso Padre, membra di un’unica famiglia.

OMELIA per l’APERTURA della PORTA SANTA DELLA CATTEDRALE DI FAENZA
Faenza - Basilica Cattedrale, 13 dicembre 2015
13-12-2015

Cari presbiteri, diaconi, religiosi, fedeli laici,

nel cinquantesimo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II papa Francesco ha desiderato aprire la Porta Santa. Egli lo ha fatto sia per ricordare l’impegno della Chiesa in una nuova tappa dell’evangelizzazione, non rimanendo chiusa in se stessa ma andando incontro all’uomo d’oggi, sia per donare a tutti i nostri contemporanei l’esperienza trasfiguratrice e consolante del perdono di Dio. Oggi il mondo ha bisogno di misericordia e di perdono, ha bisogno di una tenerezza sconfinata. Detto altrimenti, ha bisogno di salvezza, ossia di essere cavato fuori dal peccato, dall’egoismo, dall’indifferenza, dalla spietatezza, dall’odio e dalla violenza, piaghe che alimentano altre piaghe come diseguaglianza, fame, povertà, guerre.

La malattia mortale che colpisce la nostra società non si manifesta solo attraverso il dominio di una tecnica che, anziché essere posta al servizio del progresso e dello sviluppo sostenibile, sfrutta sino all’inverosimile le risorse del pianeta ed è applicata in maniera indiscriminata, per cui tutto è possibile anche ciò che non è eticamente lecito, come l’eutanasia, la manipolazione genetica, la clonazione, il licenziamento di massa.

Anche i numerosi episodi di terrorismo, i molti conflitti in atto sulla faccia della terra – pezzi di una terza guerra mondiale -, ne sono una manifestazione e ci testimoniano come l’umanità abbia bisogno di misericordia, di un cuore nuovo, oltre che di un pensiero nuovo. L’urgenza del perdono di Dio a ciascuno e tra noi è avvertita con più cogenza perché ognuno di noi è nativamente ad immagine del Padre misericordioso. Siamo stati creati per vivere come figli di Dio, come fratelli e sorelle. Ad ognuno spetta un amore più che umano, quello divino. Il gap tra l’esistente e il nostro dover essere figli adottivi di Dio, famiglia di popoli, è troppo evidente in molte circostanze della vita contemporanea, che vede crescere disparità e ingiustizie.

Ebbene, la Chiesa è ben conscia di questa distanza. Proprio l’esperienza della misericordia di Dio la sospinge a farsi carico dell’annuncio del perdono a ogni uomo, a ogni popolo, affinché la tenerezza di Dio aiuti a raddrizzare le strade storte, a colmare i burroni che separano.

Il desiderio inesauribile della Chiesa di offrire misericordia deriva dalla sua esperienza di accoglienza del mistero di Gesù Cristo vissuto e celebrato. Detto altrimenti, per cambiare noi stessi, la Chiesa e il mondo dobbiamo passare attraverso la Porta che è Cristo.

Ciò non è possibile d’un colpo. Occorre porsi in stato di pellegrinaggio e convertirsi al Redentore. Ecco quanto siamo chiamati a compiere. Per avere maggior consapevolezza di tutto ciò è necessario che ci poniamo alcune semplici domande.

Perché si diventa così spietati e crudeli nei confronti dei propri simili? Perché assolutizziamo il denaro, il profitto, la tecnica sino a rivolgerli contro noi stessi? Perché l’altro da me è spesso considerato mero strumento o addirittura uno «scarto», ossia un essere inutile, inservibile?

Ciò che ci rende gradualmente indifferenti nei confronti degli altri, del vero, del bene e di Dio, sprezzanti nei confronti dei fratelli, è il considerarci superiori ad essi. Decidendo di essere noi la misura della verità, del bene e della realtà finiamo per considerare gli altri «tu» quali esseri che non ci appartengono, antagonisti, estranei, concorrenziali. E così essi diventano anche esseri da sfruttare, quasi fossero semplici mezzi e non fini per noi. Assolutizzando il proprio io esiste solo il nostro punto di vista, la nostra verità e nient’altro. Non viviamo la fraternità. Teniamo la porta sbarrata anche a Colui che per primo ci cerca e viene incontro. Inoltre, bruciamo ogni possibilità di confronto e di dialogo.

Tutto questo lo possiamo considerare frutto di un individualismo libertario e anarchico che ci deriva dalla crisi della cultura contemporanea, liquida, senza ancoraggi certi. I doveri e i diritti, non hanno un’esistenza obiettiva, universale. Se dei diritti devono esserci essi sono pretese individuali illimitate, senza confini, senza reciprocità. L’arbitrio è scambiato per diritto. Si giunge a rivendicare un diritto all’eutanasia, all’aborto. Tanti dei nostri giovani, ma non solo, pensano che esistano questi falsi diritti. È certo che chi considera l’aborto un diritto non lo ritiene un peccato e, pertanto, non ritiene di confessarlo. Bisogna che lo diciamo chiaro: non esiste un diritto all’aborto, anche se esistono leggi, come in Italia, che regolamentano questo triste fenomeno, che non deve inorgoglire le nostre società occidentali, gonfie di superbia e sempre più misere dal punto di vista demografico ed economico. Cari fedeli, per noi credenti in Cristo esiste il peccato dell’aborto. È tra le colpe gravissime che, in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia, i confessori hanno la facoltà di perdonare. Evidenziamolo nei formulari predisposti per la preparazione alla Confessione, come anche i peccati relativi all’ambiente.

Viviamo, dunque, quest’Anno Santo facendo l’esperienza della Misericordia di Dio. Inondiamo il mondo della sua tenerezza.

L’incontro personale e comunitario con Dio, che ci perdona e risuscita, ci porta naturalmente verso una visione di uomo non autoreferenziale e non prometeico. L’uomo ha bisogno di Dio, perché è stato creato per vivere non in maniera solipsista, in una torre d’avorio, bensì in comunione con Lui, di Lui, per Lui. Togliendo Dio è tolta la sua parte migliore. È renderlo monco, incompiuto. Il criterio di realtà ci fa, invece, riconoscere creature di Dio, bisognose della sua redenzione.

L’esperienza dell’amore e del perdono di Dio ci trasfigura. Infatti, accogliendo la misericordia di Dio Padre ci riconosciamo figli e insieme fratelli dei nostri simili, riuniti in una stessa famiglia.

L’indifferenza, l’odio, la spietatezza possono essere vinti allorché ci si percepisce proprio così. Sarà più facile, come suggerisce il profeta Isaia, sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi, dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri e i senza tetto, vestire chi è nudo, togliere il puntare il dito e il parlare empio, saziare l’afflitto di cuore (Is 58, 6-11).

L’esperienza della misericordia rafforzando la fraternità consolida il senso della giustizia. Chi vede nell’altro un fratello è maggiormente disposto a dargli ciò che gli spetta, a impegnarsi affinché chi è carne della propria carne possa avere ciò che corrisponde alla sua dignità. La misericordia presuppone la giustizia, non la bypassa. La rende più cogente. La sospinge a superare se stessa per diventare una giustizia più commisurata ai figli di Dio.

Viviamo, allora, quest’anno della Misericordia come popolo samaritano che apre il cuore a quanti vivono ai margini della società; come popolo che inonda di vita nuova i molteplici luoghi esistenziali della misericordia, come illustrato nella Lettera pastorale indirizzata dal vescovo a tutti all’inizio di quest’anno pastorale.

Rendiamo le nostre famiglie, le nostre parrocchie, le associazioni e i movimenti ambienti di perdono e di comunione. Maria, Madre della Misericordia, ci accompagni nel porre segni concreti. Ai primi di novembre abbiamo aperto con successo la Scuola di formazione all’impegno sociale e politico per i giovani. Oggi stesso è stato inaugurato il nuovo Centro di Ascolto e Accoglienza della Caritas. A breve sarà aperta la nuova Casa per il clero e per i laici, quale segno tangibile dell’amore nei confronti dei nostri sacerdoti anziani. Ma non dimentichiamo che segni di misericordia, intesa non come semplice assistenza caritativa, debbono essere posti nei vari luoghi esistenziali segnalati nella già citata Lettera pastorale e cioè con riferimento alla famiglia, al mondo del lavoro e dell’economia, della politica, dei mass media, della salute, della scuola e dell’ambiente.

Partecipando all’Eucaristia offriamo il nostro impegno di perdono e di misericordia per far nuove tutte le cose.

OMELIA per la SOLENNITA’ della IMMACOLATA CONCEZIONE
Faenza - Chiesa di San Francesco, 8 dicembre 2016
08-12-2015

Nel cammino verso Natale, mentre prepariamo le vie alla venuta del Redentore, la Chiesa ci propone nell’Immacolata un sublime modello di attesa operosa.

L’Immacolata Concezione è, per sé, evento che concerne la Beata Vergine e Madre di Dio, Maria, in forza della redenzione che sarà realizzata da suo Figlio. Dal primo istante della sua esistenza, gode del dono della Grazia santificante che la pone in uno stato particolare. E così non è toccata dal «peccato originale». L’Immacolata Concezione consiste, dunque, nel possesso, da parte di Maria, sin dal suo concepimento, della vita di grazia che, senza merito da parte sua, le è donata dall’azione preveniente di Dio, perché possa diventare madre del Redentore. Questo è, in semplicità, il contenuto della Dottrina che Pio IX, nel lontano 1854, ha solennemente definito come verità della fede cattolica. 

L’Immacolata come un “essere per” 

Se ben riflettiamo, la solennità dell’Immacolata ci invita, dunque, a non fermarci sulla figura di Maria in se stessa, ma ad inserirla in un quadro più vasto. Il senso compiuto dell’Immacolata Concezione si coglie pensando, sì, all’essere di Maria in sé, ma soprattutto al suo essere in relazione con lo Spirito, con il Figlio di Dio, con l’umanità, con la Chiesa. Maria è creata senza peccato, ossia in piena comunione con Dio, per essere Madre di Gesù Cristo e della Chiesa, per generare il Principe della pace, una nuova umanità. Maria immacolata sta dunque a indicare, una vita per: vale a dire una «vocazione», una relazionalità, un essere per. Con tutta la sua esistenza aderisce al progetto di rinnovamento dell’umanità intera e di tutto il cosmo. 

L’immacolatezza di Maria va intesa, allora, non solo come l’effetto dell’azione di Dio in Lei, come il risultato di una mera ricettività o addirittura come un’assenza di libera adesione personale, mediante l’annichilimento del proprio pensiero, immaginazione, creatività, speranza. È, invece – così la Figlia di Sion ha poi anche impostato tutta la sua vita –, massima immedesimazione con il Lógos e con l’Agápe, con la comunità delle Persone divine, con le scaturigini della Verità, della Bontà, della Bellezza. È immacolata non solo perché Dio l’ha creata così, ma anche perché vuole essere e vivere in piena comunione con Dio. È essere che si espropria totalmente di sé per Dio e per gli altri, senza riserva e senza misura. Crede nella possibilità del cambiamento delle strutture e delle coscienze. Crede che solo Dio può salvare e cambiare questo mondo, prima ancora dell’opera dell’uomo.

L’Immacolata, icona di libertà responsabile, ovvero una libertà che diventa sempre più libera votandosi a Colui che è il Tutto 

L’Immacolata, in altre parole, è una creatura pensata ed amata da Dio. Risponde di sì e si rende corresponsabile. Colei che è «Figlia del suo Figlio», e si trova in un particolare stato di vicinanza a Dio, decide di essere totalmente di Dio, di esserne serva, per generarlo e donarlo al suo popolo e poi al mondo, come a Lei è stato dato. La prima e grande Credente, piena di fiducia in Dio, ne diviene dimora vivente. In Lei il Signore non fallisce.

Il suo spirito ha una viva percezione del piano di salvezza, della sapienza divina. Vive in empatia con la Trinità. Non teme per la sua libertà ed autonomia come l’uomo di oggi. Essa sa che dalla intimità con Dio si ricava il potenziamento del proprio essere e della propria libertà. Chi si pone in stato di totale ricezione e dà il  massimo di disponibilità a Dio diviene forte nella lotta contro il Maligno, l’Ingannatore dell’uomo. Come ci ha ricordato san Paolo nella Lettera agli Efesini, Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi ed immacolati di fronte a Lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà. Solo divenendo completamente del Signore possiamo cantare il nostro Magnificat ed esultare perché avvengono sulla terra cose stupende: i superbi sono dispersi nei pensieri del loro cuore, i potenti sono rovesciati, gli umili esaltati, gli affamati ricolmati di beni, i ricchi rimandati a mani vuote, germoglia sulla terra un nuovo umanesimo.

A ben riflettere, celebrare l’Immacolata Concezione è fare memoria della magnificenza della creazione e della redenzione attuate da Dio. In pari tempo, è fare memoria dell’esemplarità eccelsa del coinvolgimento di Maria nell’opera della Trinità nella storia. È celebrare la grandezza della sua libertà. Questa è grande in se stessa, ma lo è ancor più per le responsabilità a cui è chiamata e si dispone a ricevere: «Ecco, la Serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». La dignità di Maria deve essere certamente valutata sulla base dell’uso positivo che essa fa della sua libertà, ma soprattutto perché ha vissuto la propria libertà servendo e amando il Bene più grande. La libertà di Maria non è stata solo un mezzo per la conquista di piccole gioie quotidiane, certamente legittime e apprezzabili. È stata soprattutto il campo ove è germogliato il Figlio di Dio. È stata quell’umanità in cui si è incarnato il Salvatore, per cui essa sarà benedetta da tutte le generazioni. La grandezza di Maria sta nell’aver vissuto, mediante la sua libertà, un’estasi totale di sé verso Colui che tiene nelle sue mani le sorti dell’esistenza umana, il principio e il fine della storia. 

Immacolata e Giubileo Straordinario della Misericordia

Quest’anno la solennità dell’Immacolata coincide con l’apertura della Porta Santa. Come non vedere in Maria, Madre della Misericordia, Colei che può aiutarci ad accoglierla e donarla? Chi accoglie il perdono di Dio viene redento e risuscitato, trasfigurato, rinascendo a vita nuova. La misericordia ricevuta, vissuta e celebrata rafforza nella capacità di vero, di bene e di Dio. Chi sperimenta l’amore misericordioso di Dio, a sua volta, aiuta i fratelli a risuscitare, a ritrovare il desiderio del vero, del bene e di Dio. L’anno della misericordia sia, dunque, per ciascuno l’occasione di una rinascita come anche di rinnovamento spirituale delle nostre famiglie, delle parrocchie, famiglie di famiglie, dei movimenti, delle associazioni, delle varie istituzioni. Per essere Chiesa, per essere movimenti ed associazioni che trasfigurano, come ci invita a fare papa Francesco, dobbiamo prima di tutto essere pienamente evangelizzati e trasfigurati dall’amore di Cristo. Dobbiamo passare attraverso la Porta santa. Il che significa che dobbiamo convertirci sempre di più a Cristo. Mai è finito di convertirsi, di rivestirsi dell’amore di Cristo. Convertirsi è soprattutto dire di no a quell’indolenza che non ci fa cambiare di una virgola i nostri atteggiamenti abituali. Si va magari dal papa per ricevere la sua benedizione, per sentire la sua parola, ma quando si ritorna a casa le cose nella famiglia, nell’amministrazione, nell’associazionismo, vanno più o meno come prima. Convertirsi, come dice il termine, implica cambiare direzione, mutare stili di vita, diventare occasione di speranza per gli altri, per coloro che, specie come i giovani e le donne, sono senza lavoro. Vuol dire capire che la tecnica, così importante per lo sviluppo, non può diventare un assoluto sicché diventa un pretesto per licenziare indiscriminatamente operai su operai. Vuol dire recedere dal rivendicare un diritto all’aborto: non esiste un diritto all’aborto, anche se esiste una legge che regolamenta questo triste fenomeno che non fa onore alla nostra civiltà, gonfia di superbia e sempre più misera dal punto di vista demografico ma anche economico. La conversione per noi importa rinunciare a quell’individualismo libertario ed anarchico che sta distruggendo lo Stato di diritto e lo Stato democratico, perché pone la persona come misura assoluta della verità e del bene. Implica rinunciare alla guerra tra noi, all’ideologia del gender che non è assolutamente una conquista di civiltà quanto piuttosto un rendere indistinte le identità e le vocazioni con gravissimi danni per la società. Comporta rifiutare le diseguaglianze, la fame, la povertà e quel denaro che governa anziché servire, l’economia che esclude anziché includere tutti. Convertirsi è dire di sì: ad una spiritualità missionaria: Cristo non va negato a nessuno. È credere al realismo della dimensione sociale del Vangelo (cf Evangelii Gaudium, capitolo IV). Rispetto ad un declino quasi inesorabile delle nostre comunità cristiane anche perché abbiamo paura di essere e di dirci cristiani, convertirsi vuol dire in definitiva un deciso e rinnovato impegno nella formazione di nuove guide spirituali e di fedeli laici, nell’evangelizzazione delle categorie professionali e degli intellettuali. Occorre ascoltare e responsabilizzare di più i giovani, includere i poveri non solo mediante l’assistenza caritativa ma soprattutto mediante politiche attive del lavoro, politiche industriali, innovazione e ricerca, costruzione di una società politica almeno a misura dell’Europa. Non deve mancare, poi – a meno di non vivere fuori dal tempo e dalle urgenze che ci testimoniamo un insano suicidio collettivo sul piano ambientale – una conversione ecologica (cf Laudato sì’, n. 217).

Durante l’Eucaristia di oggi offriamoci a Dio quale popolo che si converte e si rinnova per le nostre famiglie, per le nuove generazioni ed è nel territorio un torrente di vita nuova strutturata a tu, come un essere per. Vediamo in Maria immacolata – è ormai prossimo il terzo centenario della creazione della cappella della B. Vergine della Concezione annessa alla Chiesa di san Francesco –  un modello di disponibilità ad un mondo nuovo consegnandoci al suo Figlio. Solo un Dio accolto ci potrà salvare.

OMELIA per la presa di possesso del nuovo PARROCO DI BRISIGHELLA mons. Elvio Chiari
06-12-2015

Cari fedeli, associazioni, Suore, sacerdoti è questo un momento importante per la comunità di Brisighella. Essa, dopo una premurosa cura da parte dell’amministratore don Stefano Vecchi, ora nominato parroco di Marzeno, Sarna e Rivalta, riceve il suo nuovo pastore nella persona di Mons. Elvio Chiari. Non è molto tempo che la comunità è stata colpita dall’improvvisa scomparsa di Mons. Giuseppe Piancastelli per il quale eleviamo ancora una prece al Signore affinché possa godere dell’abbraccio del Padre che conosce i pensieri e vede nel profondo del cuore.

L’entrata e la presa di possesso della parrocchia da parte di Mons. Elvio si colloca sotto il segno dell’anno giubilare della Misericordia, che sarà aperto a breve a Roma da papa Francesco. Quale fortunata coincidenza per l’inizio del tuo ministero in questa comunità ecclesiale, caro Monsignor Elvio, ove sei già stato presbitero coadiutore nella tua giovinezza sacerdotale e ove sei ricordato per la tua dinamicità e la tua capacità di coinvolgere le persone. L’incominciare il ministero all’insegna della Misericordia traccia già un iter pastorale. Offre, inoltre, l’indicazione di uno stile di vita comunitario. Una parrocchia che accoglie, celebra e testimonia la misericordia di Dio non solo trasfigura e rende migliore la propria vita interna, ma diventa nel territorio fontana vivace di un’esistenza nuova, strutturata a tu, a cui ogni viandante, credente o no, si disseta.

Una vita civile più conforme alla dignità delle persone e più attenta ai bisogni di tutti i cittadini, specie nascituri, poveri, giovani, adulti disoccupati, procede dalla comunione con Dio Padre misericordioso, dall’esperienza del suo amore premuroso e trasfiguratore. Se non si accoglie l’amore di Dio, donatoci mediante Cristo, incarnato nella storia e in ciascuno di noi, non è possibile amare il prossimo come il Padre desidera da noi. L’amore del prossimo esige la nostra unità a Cristo, alla sua vita, al suo Spirito di amore. Consiste «nel fatto che io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco e neanche conosco. Imparo a guardare all’altra persona non soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo lo sguardo di Gesù Cristo. Il suo amico è il mio amico. Al di là dell’apparenza esteriore dell’altro scorgo la sua interiore attesa di un gesto d’amore, di attenzione, che io non faccio arrivare a lui soltanto attraverso le organizzazioni a ciò deputate, accettandolo magari come necessità politica. Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all’altro ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo d’amore di cui egli ha bisogno» (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 18).

A ben riflettere, in vista di una comunità viva, inserita nel territorio, che viene irrigato e irrorato con energie morali nuove, provenienti dalla condivisione della capacità di dono propria di Cristo, occorre sviluppare una pastorale che investe sull’annuncio della Parola di Dio, sull’Eucaristia, sul sacramento della Riconciliazione o Confessione, sulla catechesi, oltre che sull’esercizio della carità o diakonia. L’anno giubilare aiuterà a valorizzare, in modo particolare, il sacramento della Riconciliazione. Non si può pensare di accogliere la pienezza di grazia e di rinnovamento che può offrire l’incontro con Dio misericordioso senza la conversione a Cristo e al prossimo, senza confessarsi. Qualcuno, quando si è parlato delle condizioni per vivere con autenticità il prossimo Giubileo, è arrivato a dire che non è poi così necessario ricevere il perdono di Dio, cambiare vita, riconciliarsi con Dio e con i fratelli. Ebbene, se si vivesse il Giubileo della Misericordia così, esso diventerebbe solo l’occasione di una scampagnata o di una gita a Roma. Occorre prendere sul serio l’opportunità del perdono di Dio. Quanto ne abbiamo bisogno tutti, a tutti i livelli. Viviamo, poi, con slancio le opere di misericordia sia spirituali sia corporali. Tanti nostri giovani, forse, non hanno mai sentito parlare di esse. Papa Francesco ha fatto la proposta di viverne una al mese.

Il Giubileo per la comunità di Brisighella dev’essere proprio l’occasione di un nuovo inizio nella sua vita pastorale e missionaria, specie tra gli ultimi e i giovani. I giovani sono la nostra più grande ricchezza sia nella comunità ecclesiale sia in quella civile ed economica. Allorché sono responsabilizzati mostrano un’inventiva e una creatività insospettate. Occorre credere di più in loro. Additiamo loro l’ideale di una vita non mediocre, bensì quello della vita cristiana. Non dobbiamo rinunciare di far loro comprendere che si tratta di una vita coraggiosa, rivoluzionaria, che riempie il cuore di felicità. Mons. Elvio è ben preparato anche per la pastorale degli adulti. Da anni è incaricato degli adulti dell’Azione Cattolica. Egli ben sa che senza adulti ben formati la meta di una catechesi giovanile è pressoché irraggiungibile.

Coloro che ci hanno preceduti ci possono aiutare. Guardare alla storia della propria comunità non è mai male, specie se in essa si incontrano personaggi illustri. Impariamo da coloro che hanno dato con generosità il meglio di se stessi nella comunità ecclesiale – se ci si guarda attorno scorgiamo nomi e ritratti anche in questa chiesa collegiata – e nella comunità civile: uomini e donne che hanno reso ricca e gloriosa la propria città; ricca di opere e di istituzioni, ma soprattutto di amore fraterno e di una forte passione per il bene comune.

Non dimentichiamo il prevosto che ha lasciato questa comunità, iniziando opere importanti che attendono di essere ultimate. Accompagniamo con affetto Mons. Elvio Chiari, che entra in questa comunità con passione d’amore, con doti di intelligenza, pastore esperto nella cura delle persone, delle famiglie, degli ammalati e delle varie organizzazioni ecclesiali. Abbiamo anche un ricordo riconoscente al Cardinale Silvestrini che ci accompagna con la preghiera.

La Madonna del Monticino vegli e protegga il popolo di Dio che è in Brisighella e il suo nuovo parroco.

OMELIA per la solennità di TUTTI I SANTI
Faenza - Basilica Cattedrale, 1 novembre 2015
01-11-2015

La solennità di tutti i santi è il momento in cui la Chiesa festeggia la sua dignità di madre, immagine della città celeste, la nuova Gerusalemme. In questa solennità, essa mostra la sua bellezza di sposa immacolata di Cristo, sorgente e modello di ogni santità. Oggi la Chiesa onora e ricorda tutti i suoi figli, quelli passati e presenti. Nella prima lettura, l’autore del libro dell’Apocalisse li descrive come «una moltitudine immensa» che nessuno può contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua (cf Ap 7,9). Tra di essi sono compresi i santi dell’Antico Testamento, a partire dal giusto Abele e dal fedele Patriarca Abramo, quelli del Nuovo Testamento, i numerosi martiri dell’inizio del cristianesimo e i beati e si santi dei secoli successivi, sino ai martiri e ai testimoni di Cristo del nostro tempo. Li accomuna tutti la volontà di essere di Cristo, di incarnare nelle loro esistenze i suoi sentimenti, di lottare come Lui contro il male col bene, di perdonare, secondo il suo insegnamento, settanta volte sette.

Nella moltitudine dei santi non vi sono solo quelli canonizzati, ufficialmente riconosciuti, ma i battezzati di ogni epoca e nazione, che hanno cercato e cercano di compiere con amore e fedeltà la volontà di Dio. Della gran parte di essi non conosciamo i volti, ma con gli occhi della fede li vediamo risplendere, come astri pieni di gloria, nel firmamento di Dio. Non dimentichiamo che oggi la Chiesa non festeggia solo i suoi figli che sono in paradiso ma anche coloro che camminano su questa terra, verso l’approdo definitivo. Sant’Agostino ha raffigurato la Chiesa come un popolo immenso che si muove, quale teoria sterminata di persone, verso la Gerusalemme celeste. Di questo popolo una parte è ancora quaggiù, pellegrino sulla terra. Un’altra parte è giunto in prossimità di quel tempio di luce ove coloro che vedono il volto di Dio faccia a faccia esultano e gioiscono godendo la sua piena comunione. Si tratta di coloro che debbono ancora purificarsi e perciò si trovano nel pronao, all’entrata del tempio, in attesa di fare il loro ingresso definitivo.

La liturgia di oggi ci esorta, dunque, a concentrare lo sguardo sull’interezza della nostra famiglia, fatta di credenti e battezzati. Desidera che ci vediamo per quello che siamo: una grande e sconfinata comunione. Formiamo la comunione dei santi del cielo e della terra. Noi non siamo soli. Ma siamo in compagnia di una grande moltitudine di fratelli e sorelle, tutti partecipi, in maniera diversa, della vita gloriosa e piena di Cristo. La comunione dei santi esiste proprio grazie a Cristo, ossia per mezzo di Colui che incarnandosi ha assunto la nostra natura umana e ci ha arricchiti della vita immortale, quella di Dio. Noi siamo in comunione con i nostri fratelli, la cui vita non è stata tolta ma trasformata. Lo siamo a motivo del fatto che formiamo con Colui che si è fatto uomo, ed è morto e risorto, un solo Corpo, un solo Essere di persone in comunione. Viviamo uniti a Cristo come i tralci alla vite.

In questa comunione dei santi, attraverso Cristo pontefice massimo, ossia costituito ponte tra noi che viviamo sulla sponda della mortalità e i nostri cari che sono approdati sulla sponda dell’immortalità, le nostre preghiere passano e possono aiutare coloro che hanno bisogno di purificazione. Peraltro, sempre attraverso Cristo, coloro che si sono già stabilizzati nella vita eterna ci aiutano con la loro intercessione e la loro solidarietà.

Quale mistero! Quale ricchezza di tenerezza, che travalica i confini dello spazio e del tempo. Nella comunione dei santi il nostro amore per i nostri cari defunti continua. Il loro affetto per noi non cessa mai. Il Signore tiene vivo il legame che ci unisce in terra e lo rende eterno. Benedetto sia il suo nome. Non siamo mai orfani. La paternità e la maternità dei nostri genitori continua. Possiamo essere sempre cuore a cuore con loro.

Questa solennità non serve solo a rincuorarci e a rassicurarci che in Gesù Risorto, vincitore della morte, tutto continua come prima, sebbene in una condizione d’esistenza diversa. È anche il momento in cui, guardando ai nostri fratelli e sorelle Santi – che come diceva san Bernardo non hanno bisogno dei nostri onori e nulla viene a loro dal nostro culto – siamo accesi da un desiderio più grande di amare Cristo (Disc. 2; Opera Omnia Cisterc. 5, 364 ss). Ecco un ulteriore significato dell’odierna solennità: guardando al luminoso esempio dei santi risvegliare in noi il desiderio di essere come loro: felici di vivere Cristo, di respirare con i suoi polmoni, di pensare come Lui, di volere e di amare come il Figlio di Dio.

Di tanto in tanto facciamo una visita nella nostra cattedrale, guardando e soffermandoci a destra e a sinistra, ma anche al centro. Qui troviamo immagini di santi, il corpo di santi e di beati cari alla nostra comunità, la tomba di sacerdoti e di vescovi. Dopo aver terminato il nostro giro ci troveremo rinfrancati, ci si sentirà confortati dalla compagnia e dall’esempio anche di coloro che hanno desiderato di essere sepolti più vicini al luogo in cui si celebra l’Eucaristia, quel sacrificio che consente ed alimenta la comunione dei santi. Impariamo da loro. Insegniamo alle nuove generazioni di pregare e di far celebrare sante Messe per i nostri cari defunti, per coloro che, sacerdoti e vescovi, catechisti e diaconi, hanno nutrito la nostra fede.

La vista di alcuni concittadini divenuti santi e beati ci confermerà nella convinzione che la santità esige uno sforzo continuo, ma è possibile a tutti perché, più che opera dell’uomo, è anzitutto dono di Dio tre volte Santo (cf Is 6, 3).

La via della santità è tracciata dalle beatitudini che poco fa abbiamo sentito risuonare. Dice Gesù: beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, i miti, beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, beati i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia (cf Mt 5, 3-10). La lettera pastorale del vescovo, intitolata Misericordiosi come il Padre, indica gli ambiti in cui essere santi in termini attuali, nella famiglia, nel lavoro, nell’economia, nella finanza, nella politica, nei mezzi della comunicazione sociale, nella cura della salute. La santità non è una realtà astratta, fuori dal tempo e dallo spazio. Essa concerne la nostra vita quotidiana, quella di oggi. Siamo santi nella quotidianità della vita, imitando Cristo, il quale ci ha detto che solo colui che perde la propria vita la ritroverà.

OMELIA per l’ORDINAZIONE DIACONALE dell’accolito CLAUDIO PLATANI
Faenza - Cattedrale, 24 ottobre 2015
24-10-2015

Caro Claudio, l’intera Chiesa oggi rende grazie a Dio e prega per te, riponendo tanta fiducia e speranza nel tuo impegno ministeriale ed apostolico. La Chiesa conta su di te perché il cuore di ogni persona, di ogni giovane, anela, come il cieco di Gerico, Bartimèo, all’incontro con Gesù Cristo, che riaccende la vita. Grazie all’incontro con Lui un’altra esistenza è possibile, non confinata nel buio, ai margini della società. Caro Claudio, sentiti, allora, per tanti della tua gente, anzitutto un Gesù che passa e che riaccende speranza perché si accorge di chi soffre e grida di dolore per la sua vita perduta, spesso rinserrata nel buio della non verità. Sentiti servo di Cristo Gesù. Annuncia la Parola di Dio. Fai innamorare le persone del Salvatore, perché ricevano da Lui, una vita nuova ed eterna, vera libertà e gioia piena.

Il diacono è il «servo», colui che è interamante dedito al servizio. Tutti i ministeri nella Chiesa possono essere definiti «diaconie». Ma se c’è un ministero in cui la parola diacono, cioè servo, indica una funzione specifica, in una maniera più accentuata, è proprio quella che assumerai questa sera, dopo esserci pervenuto con una scelta lucida e matura.

Ciò non significa che si tratta di un servizio migliore o più importante, ma piuttosto di un servizio in un senso più stretto, implicante diversi aspetti: l’operare per gli altri, la subordinazione (e, quindi, l’obbedienza e l’umiltà), la carità.

Se è vero, dunque, che tutti i ministeri sono «servizi», in quanto sono un «operare per gli altri», che deve essere esercitato con umiltà, carità e disinteresse, nel diacono viene accentuato l’aspetto della «subordinazione», che lo costituisce «servo» in senso stretto.

Il servizio del diacono è «partecipazione» alla «diaconia» del vescovo. Come risulta dagli scritti di sant’Ignazio e di Ippolito, i diaconi ricevono dal Vescovo l’incarico di vivere l’aspetto diaconale del suo ministero. Il vescovo deve vivere la diaconia di Gesù Cristo. Partecipando alla diaconia del vescovo, il diacono diventa, a sua volta, segno sacramentale di Cristo servo.

I diaconi, in ultima analisi, sono chiamati a vivere, nella modalità della dipendenza dal vescovo, come Gesù Cristo che si è fatto diacono (servo) di tutti.

Secondo la tradizione, i diaconi compiono il loro ministero soprattutto verso i sofferenti nel corpo e nello spirito, porta a porta, animando altri fratelli a fare altrettanto. Mentre servono i fratelli e le sorelle bisognosi, evangelizzano in maniera capillare; e, inoltre, svolgono il servizio liturgico per il culto di Dio, specie nell’Eucaristia.

Caro Claudio, ecco alcune dimensioni del tuo futuro ministero. Tale diaconia non verrà meno nel prossimo ministero sacerdotale. In questo tratto di tempo, prima di essere ordinato sacerdote, immedesimati a Gesù Cristo, servo di tutti, specie dei più piccoli, dei più indifesi, dei più poveri. Vivi con Lui lo svuotamento di te stesso, perché l’essere-per-gli-altri, che struttura ogni esistenza, si attui in te secondo la misura di Cristo, ossia in pienezza, al fine di costruire un popolo che accoglie, celebra, annuncia e testimonia la vita d’amore della Trinità.

Sii, dunque, diacono di Cristo per edificare il suo corpo, la Chiesa, per testimoniare l’Amore di Dio.

A ben riflettere, la tua diaconia di Cristo si tradurrà necessariamente in diaconia a Cristo.

Sei ordinato diacono in una Chiesa chiamata ad uscire per abbracciare tutte le genti, per superare le frontiere di razza, di classe, delle nazioni, per essere cattolica. Sei inviato perché la Pentecoste sia universalizzata, in un contesto socio-culturale in cui i popoli si mescolano. Sei chiamato ad una nuova evangelizzazione che aiuta a vivere più autenticamente la dimensione sociale della fede.

Sei ordinato diacono di Cristo, per Cristo, all’inizio di questo terzo millennio che vede la chiesa europea con i tratti di una nonna che invecchia e non sembra dotata di tutte le forze della giovinezza. La passione per Gesù Cristo, l’essere innamorato di Lui ti consentirà di penetrare più a fondo nella sapienza del Vangelo e di forgiare nuovi modi di «dire Dio» in una società multireligiosa, multietnica, spesso indifferente rispetto alla fede, sempre più emarginata nel privato. Potrai servire meglio Cristo se non cesserai di studiare, di aggiornarti, ma soprattutto di vivere in un’empatia costante con Lui, mediante la preghiera, in un cuore a cuore incessante. Solo se ti lascerai amare da Gesù comprenderai la necessità di rendere ragione della speranza che abita in te e di aiutare tutti a rendere santa la propria vita unendola al sacrificio di Cristo.

Ricordati anche che sei ordinato diacono in un periodo della Chiesa in cui le vocazioni sacerdotali, religiose e laicali hanno bisogno di particolari cure e di un accompagnamento indefesso

Imita Gesù che ha chiamato a sé ed inviato apostoli. Potrai essere gestore di importanti opere, ma se in esse non sarà percepibile un progetto educativo animato dall’amore a Dio come Sommo Bene, sarai solo manager o operatore culturale e sociale come ve ne sono tanti. È necessario il colloquio personale coi giovani, la presenza in mezzo a loro. In particolare, è importante l’accompagnamento spirituale delle persone. La forma più convincente di pastorale vocazionale si ha quando dei giovani incontrano sacerdoti che irradiano lo splendore e l’intima bellezza del loro appartenere totalmente e gioiosamente a Cristo.

La grazia del diaconato che tra poco ti sarà donata ti collegherà intimamente all’Eucaristia. Diventerai più familiare dei sentimenti di Cristo che ama sino alla fine. Rivestiti di Cristo che si è fatto servo.

Alla cura per la celebrazione eucaristica si accompagni l’impegno per una vita eucaristizzata, vissuta cioè come un dono totale per Cristo, per le vocazioni. È un grande servizio che farai alla tua chiesa. Così sia.

+ Mario Toso, SDB