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OMELIA per l’ingresso del nuovo parroco di Reda don ALBERTO LUCCARONI
Reda - 20 marzo 2016
20-03-2016

La parola di Dio della domenica delle Palme ci parla, mediante il profeta Isaia, del «servo di Dio» e della sua missione. In Lui, la tradizione cristiana ha visto da sempre un annuncio del Cristo sofferente. Il Signore Dio dà al suo servo una lingua da discepolo, perché sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.

Caro don Alberto, facendo il tuo ingresso nella comunità di San Martino in Reda, tu stesso sei chiamato dal Signore ad avere una lingua da discepolo per incoraggiare i credenti a rinsaldarsi nella fede. Il parroco, infatti, edifica i propri fratelli nella verità e nella carità ponendosi in religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con coraggio e fiducia. Così, celebra i misteri di Cristo, specie nel sacrificio eucaristico e nel sacramento della riconciliazione, per la santificazione del popolo cristiano. Promuove nei fedeli il senso dell’appartenza alla Chiesa cattolica e la consapevolezza della missione loro affidata: annunciare a tutti gli uomini la salvezza realizzata da Gesù Cristo, garanzia di un’autentica umanità. Ecco, allora, alcuni orientamenti pratici; a) crescere come una comunità che vive la dolce e confortante gioia dell’evangelizzazione; b) offrire una nuova gioia nella fede; c) evangelizzare da persona a persona.

Crescere come una comunità che vive la dolce e confortante gioia dell’evangelizzazione

Cari fratelli e sorelle, in una comunità vi sono molti compiti e molti servizi da porre in atto. La vita di una comunità, lo sappiamo, esige un minimo di organizzazione, di coltivazione della socialità, di ambienti e luoghi di incontro e di formazione. Tutto ciò comporta impegno di gestione e manutenzione, ma anche attenzione alle risorse disponibili. Quando queste siano scarse, i progetti educativi ne soffrono e, allora, è necessario preoccuparsi di reperirle. Questa comunità sa bene cosa significa operare per garantire un minimo di convivialità, per creare momenti di festa e di condivisione. Quanti sforzi e quante discussioni, sicuramente tutto a fin di bene! Ma poniamoci una domanda. In tutto quello che facciamo per rendere la nostra comunità più dotata di strutture e luoghi di vita prevale ciò che papa Francesco chiama «la dolce e confortante gioia di evangelizzare»? Detto altrimenti, quanto viene espresso in attività sociali e culturali è posto chiaramente a servizio del compito primario dell’annuncio di Gesù Cristo? Sacrifici, ore di lavoro, soldi, intelligenza, collaborazione: tutto questo è finalizzato a creare un ambiente di vita ove si possa crescere, dal più piccolo al più grande, nell’amore a Gesù? Siamo disposti a pensare che alla fine, per la nostra comunità, è prioritario prodigarsi nella gestione di una scuola ove, con l’aiuto e il sacrificio di tutti, sia possibile offrire un’educazione non qualsiasi bensì ispirata cristianamente? «La dolce e confortante gioia di evangelizzare» non ci deve mai abbandonare, costi quel che costi. Perché? Perché ai nostri ragazzi e giovani non può mancare l’incontro con Gesù Cristo. Senza di Lui sono più soli e disorientati. Viene meno il senso vero della vita. La capacità di farsi dono affievolisce e intristisce, sospingendo a chiudersi in se stessi, nell’individualismo. L’amore di Cristo deve possedere i nostri giovani. Li deve potentemente spronare a portarLo ai loro amici.

Cari fratelli e sorelle di Reda, vale anche per noi il monito paolino: guai a noi se non annunciamo il Vangelo (cf 1 Cor 9,16). Se pure lavoriamo intensamente ed alacremente nel far festa insieme ma non riusciamo a consegnare ai nostri giovani Gesù Cristo, affinché lo sentano presente nel loro cuore e lo vivano, corriamo il rischio di perdere la capacità di fare proposte alte, di aprire orizzonti e di appassionare alla missione di comunicare la vita nuova di Cristo! E quando questo succede le nostre comunità tendono a diventare il luogo di incontro di persone che invecchiano e non hanno discendenza. Non coinvolgere i giovani in un cammino di partecipazione e di collaborazione nell’evangelizzazione significa tagliarsi le gambe e non crescere più come comunità cristiana.

Offrire una nuova gioia nella fede

Spesso nelle nostre comunità, ove ci può essere la tentazione di impadronirsi dei suoi spazi, anziché di servire Cristo, cala il livello della gioia che dovrebbe contraddistinguere i credenti. Prevalgono le vedute e i progetti personali. La comunione si sfalda, cresce la diffidenza, lasciando stanchezza e poco entusiasmo per il lavoro nella vigna del Signore. La gioia delle fede, invece, dovrebbe riempire la vita della comunità dei discepoli. Perché spesso la gioia non prevale? Il motivo, forse, sta nel fatto che non comprendiamo che la gioia è segno che il Vangelo è stato annunciato e sta dando frutto. Occorre seminare e preparare la primavera! Quando nelle nostre teste e nei nostri progetti non è primaria, come già detto, la sollecitudine per l’annuncio del Vangelo c’è proprio il pericolo di perdere la gioia della fede e di negarci un futuro di speranza.

L’intimità e la compattezza della comunione tra noi crescono quando aumenta l’unione con Cristo, quando ci strutturiamo come comunione missionaria, attorno al Missionario per eccellenza che è il Figlio di Dio. La gioia della fede ci contagia, sino a trasfigurarci, allorché ci muoviamo tutti insieme verso tutti, in tutti i luoghi di vita, in tutte le occasioni, liete o tristi, senza indugio, per condividere Cristo, i suoi sentimenti. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo di Dio, ci ricorda papa Francesco. Detto diversamente, la gioia della fede cresce e si moltiplica donandola generosamente agli altri, anche ai non credenti. Ma per donarla bisogna possederla e, prima ancora, riceverla e coltivarla.

Oggi non possiamo più vivere la fede cristiana come una cinquantina d’anni fa. Sicuramente i contenuti della fede sono fondamentalmente gli stessi, ma cambia il modo di approcciarli, di comunicarli e di testimoniarli, perché il contesto sociale  e culturale è mutato. Occorre rendersene conto, come singoli, come comunità, come organizzazioni e movimenti ecclesiali, cattolici e di ispirazione cristiana. Mentre godiamo dei progressi che contribuiscono al benessere delle persone, per esempio nell’ambito della salute, della comunicazione, non si può dimenticare che crescono e ci distruggono nuove ideologie di tipo materialistico e consumistico, immanentistico e tecnocratico. La fede è spesso disprezzata ed osteggiata, anche a causa della nostra controtestimonianza. Siamo nell’era della conoscenza e dell’informazione, fonte di nuove forme di un potere molto spesso anonimo o pervasivo. Aumenta la convinzione che la propria libertà sia senza limiti e ciò erode lo Stato di diritto come anche la democrazia, che ha al suo centro la tensione al bene comune. Il male appare cristallizzato nelle strutture sociali ingiuste, per cui occorre dispiegare energie non solo nell’educazione in genere ma anche nella preparazione di nuovi rappresentanti, capaci di riforme profonde ed incisive delle istituzioni pubbliche. Oggi, anche nel nostro territorio, si è chiamati ad evangelizzare affrontando con coraggio attacchi più o meno scoperti alla libertà religiosa, sia sul piano dei segni come il crocifisso, sia sul piano delle istituzioni come le scuole paritarie. Il pericolo, però, più distruttivo per la fede è la proliferazione di un sincretismo religioso, di una spiritualità senza Dio, di una religione «fai-da-te». Pochi privilegiano il senso di appartenenza alla Chiesa e a Cristo rispetto a questo o a quel gruppo, a questo o a quel partito. Cristo non può essere venduto per trenta denari! La fede non è un affare privato, un qualcosa che deve rimanere fuori dalla vita pubblica. La vita personale non è divisa, seppur distinta, dalla vita pubblica. Vi è continuità. Per cui la fede deve svolgere un ruolo pubblico.

Evangelizzazione da persona a persona

Nella comunità ecclesiale, chiamata a rinnovarsi sul piano della missionarietà, deve crescere la convinzione che c’è una forma di predicazione che compete a tutti come un impegno quotidiano, assiduo. Si tratta di portare il Vangelo alle persone con cui ciascuno ha a che fare, tanto ai più vicini quanto agli sconosciuti. È la predicazione informale che si può realizzare durante una conversazione ed è anche quella che attua un parroco quando visita una famiglia, come farai tu don Alberto nei prossimi giorni, se non sbaglio. L’annuncio di Gesù non avviene solo nelle omelie, nei momenti di culto, nella catechesi, ma anche nell’incontro fraterno, nella visita agli ammalati, mediante un messaggino SMS, anche con un’email, e durante un viaggio in treno o sul bus. L’importante è che Gesù sia per noi il nostro Tutto e lo si veda presente nella nostra esistenza come in quella altrui. Non dimentichiamolo: tutto il popolo di Dio è soggetto collettivo dell’evangelizzazione. Non ricordiamoci di Gesù solo quando vengono tolti i crocifissi dalle aule. Gesù Cristo è la pietra angolare sulla quale siamo chiamati a costruire l’edificio della nostra vita. La nuova evangelizzazione a cui siamo chiamati implica un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati. Se siamo discepoli di Gesù siamo anche missionari. L’evangelizzazione deve contagiare tutti, dev’essere da persona a persona, da famiglia a famiglia, da giovane a giovane.

Cari giovani, voi siete gli evangelizzatori per il futuro di questa comunità. Proprio per questo, amato don Alberto, abbi cura, oltre che degli ammalati, degli anziani, delle famiglie, anche di loro. Devono diventare, come hai insegnato nell’Azione cattolica, evangelizzatori da persona a persona.

Un augurio e un vivo ringraziamento

Caro don Alberto, a nome di tutta la Diocesi, ti faccio un caldo augurio mentre ti viene affidata questa porzione eletta del popolo di Dio. Abbi cura di tutti, in particolare dei piccoli, degli ultimi, come ha sempre fatto don Elio Cenci, che in questa comunità ha donato la sua esistenza. Egli si è fatto di Reda, divenendone punto di riferimento. Non appena completamente riabilitato egli vivrà nella Nuova casa del clero, ove non dimenticherà mai la sua gente. Sarà sempre disponibile, con il suo spirito missionario, a ritornare nella sua comunità, per quel ministero che le forze gli consentiranno.

OMELIA in occasione della MESSA per l’anniversario della morte di CHIARA LUBICH
Faenza, Monastero Ara Crucis - 16 marzo 2016
16-03-2016

Ricordiamo in questa Eucaristia Chiara Lubich, una persona che si consacrò completamente al Signore e che, grazie a questa consacrazione, ha trasfigurato la sua esistenza. Non solo. Ha contribuito a trasfigurare l’esistenza di molti credenti e di molte persone. Lei, infatti, ha fondato il Movimento dei Focolari, un movimento che si è sparso gradualmente in varie parti del mondo e che oggi è pianta rigogliosa all’insegna della comunione.
Ricordiamo Chiara nel contesto del brano del Vangelo che avete sentito proclamare – Gv 8,31-42, n.d.r. –. C’è una disputa tra Gesù e i Giudei, sull’origine dell’uno e degli altri […]. Questi, secondo Gesù, non mostrano di essere da Dio, perché rifiutano il Figlio di Dio, ossia rifiutano Gesù. Gesù deriva, invece, da Dio, viene ed è inviato dal Padre: «Lui mi ha mandato». Poiché i Giudei non lo vogliono accogliere – anzi, lo vogliono eliminare –, con le loro opere e con le loro intenzioni mostrano di non essere persone che sono originate da Dio. Volendo riferire altri elementi del confronto dialettico tra Gesù e i Giudei, riportiamo quanto Egli ebbe ulteriormente a dire a proposito del rapporto con Lui in quanto Verità. Il Figlio, insegna Gesù, vi renderà liberi. AccogliendoLo sarete liberi davvero. In sostanza, i Giudei, rifiutando il Figlio, scelgono di essere schiavi. Solo accettando la Verità sarebbero liberi. La «Verità» a cui si riferisce Gesù è se stesso. […] Gesù Cristo è rivelazione del Padre, è la sua misericordia incarnata nella storia umana. Chi accetta la Verità, che è il Cristo, diventa libero, mentre chi rifiuta Gesù Cristo, cioè Dio – Gesù Cristo è Dio che si rende presente –, finisce per essere schiavo.
Sono verità che noi conosciamo molto bene ma, pur conoscendole, non sembra siamo capaci di viverle con coerenza. Infatti, abbiamo molti che dicono di essere credenti in Cristo, che dicono di seguire il Vangelo di Cristo. In realtà, poi, nella vita fanno esattamente il contrario di quello che dice Cristo e si trova scritto nel suo Vangelo. Si comportano in maniera contraria a Gesù Cristo. Come i Giudei volevano eliminare il Figlio di Dio, così oggi molti credenti, in maniera contraddittoria rispetto alla loro professione di fede, combattono e osteggiano Gesù Cristo. C’è in loro separazione tra la fede in Gesù Cristo e la loro vita. Voi direte che affermando questo si esagera. Ma, in realtà, non ci si allontana dal vero. Quanto rilevato trova riscontro nella vita di tutti i giorni: abbiamo persone che in sostanza, pur esseno credenti, danno, ad esempio, il primato all’appartenenza ad un partito e a quello che il partito ordina di votare, piuttosto che mettere Gesù Cristo e il suo Vangelo al di sopra di tutto. Abbiamo più di un caso in cui avviene questo, cioè credenti che dicono di essere tali, ma che in realtà fanno scelte politiche, scelte sociali, che vanno contro Gesù Cristo e il suo insegnamento. È questa una grande incoerenza!
Per cui dovremmo sentire come brucianti le parole di Gesù Cristo […] che sono riferite nei passi successivi. Rispondendo ai Giudei, che insistevano e rivendicavano la loro discendenza da Dio, Egli dice: ‘no, voi che non mi accettate, non accettate la verità rivelata, siete del Demonio; non siete miei, non credete in me’. Le cose che Gesù Cristo afferma con tanta chiarezza ai Giudei possono essere applicate anche a noi che non siamo coerenti con il Vangelo, con la nostra fede.
Oggi, più che mai, abbiamo la necessità di essere coerenti, abbiamo l’urgenza di essere come Chiara Lubich, la quale ha fatto della sua vita una testimonianza di amore a Gesù Cristo, dell’amore cristiano. La sua vita è stata proprio una proclamazione della vita di comunione che è nella Trinità e a noi è donata mediante lo Spirito. La spiritualità di Chiara è trinitaria. È una spiritualità che non ha solo proferito con le parole, ma ha vissuto. Chiara ha voluto che questa spiritualità non rimanesse ‘flatus vocis’, un’idea, ma ha desiderato che prendesse carne in un movimento, in istituzioni, in imprese di comunione. È stata una credente ‘coerente’, cioè una persona che non solo ha professato con la bocca, ma ha vissuto ciò che professava a parole. È stata, cioè, una testimone credibile, rivoluzionaria. Solo seguendo la via percorsa da Chiara si riesce ad essere rivoluzionari, a trasfigurare la storia. Noi conosciamo qual’è il Movimento che Chiara ha diffuso tra di noi, sappiamo anche ciò che è nato al suo interno dal punto di vista spirituale, intellettuale, culturale: una rivista,  l’impegno missionario, la creazione di una Università – Sophia – quale luogo di riflessione, di ricerca, ove elaborare, approfondire scientificamente la spiritualità di comunione.
Io ho avuto la fortuna di avere parecchi amici nel Movimento dei Focolari, a cominciare dal professor Sergio Rondinara, che ho invitato nella Facoltà di filosofia per insegnare Filosofia della natura. Veniva facendo tanta strada da Loppiano fino a Roma […]. E così ho conosciuto e stimato il professor Luigino Bruni che abbiamo avuto qui a Faenza – il 2 marzo per una conferenza del ciclo Tre sere, n.d.r. –, per non parlare di Mons. Coda, exallievo salesiano di Valsalice (TO) e ora rettore. Ma anche ho potuto usufruire della preziosa collaborazione del professor Stefano Zamagni, vicino alla spiritualità di Chiara Lubich. I professori da me citati, in modo particolare quelli che si interessano di economia, hanno espresso a livello di riflessione economica la verità della vita trinitaria. Hanno evidenziato come è intrinseca ad una vera attività economica la logica del dono e della gratuità. L’economia, perché attività dell’uomo, il quale è a immagine della Trinità, non può essere un’attività che non porti in sé traccia di una vita di comunione, quale esiste nella Trinità. Inscritto nella stessa attività economica troviamo l’indicazione di un impegno: un impegno di generosità, di passione, di servizio. Le imprese, le varie istituzioni finanziarie, in quanto attività di persone relazionali e comunionali, sono chiamate a configurarsi secondo lo spirito e la logica del dono e della gratuità.
Ho citato Chiara, la sua spiritualità – seppure in maniera sintetica – ed anche alcune delle sue «opere», che sono sostenute dai suoi figli spirituali, quali cause esemplari perché persone e istituzioni trasfigurate dall’amore di Dio. Siamo eredi della spiritualità di Chiara, che ha diffuso il carisma di una vita improntata trinitariamente in un momento storico in cui prevale l’individualismo più radicale, la frammentazione, l’indifferenza, la separazione. Chiara volle proclamare e testimoniare lo spirito di unione, di comunione tra noi, perché in noi c’è il riflesso di ‘Dio Trinità’. Partecipando all’Eucaristia in preparazione della Pasqua, vivendo il Giubileo della Misericordia, teniamo presente questo: Pasqua è passaggio da una vita di decadenza egoistica, di separazione dagli altri, di contrapposizione, a una vita di comunione, di dono nei confronti dei nostri fratelli. È passaggio a una vita di stile trinitario. Viviamo nell’Eucaristia di questa sera queste verità. Facciamo sì che presentando al Signore la nostra vita, la vogliamo proprio così, come una vita che diventa un’esistenza di comunione, di dono, di servizio per gli altri. E in questo modo, vivendo l’Amore di Cristo, trasfigureremo le nostre attività, le istituzioni, gli ambienti in cui viviamo, le nostre comunità e le nostre famiglie in senso trinitario.

OMELIA per la BENEDIZIONE dei lavori della Chiesa Arciprete di SOLAROLO
Solarolo, 5 marzo 2016
05-03-2016

Caro Signor Sindaco e Signor Maresciallo dei Carabinieri, caro Don Tiziano, parroco, la mia presenza in questa bella comunità, vivace ed attiva, è in coincidenza con alcuni lavori di manutenzione della Chiesa arcipretale di Solarolo che ne evidenziano e in certo modo ne sottolineano il progetto pedagogico delle origini.

La Chiesa Arcipretale fu consacrata il 27 novembre 1955: le croci gialle al muro lo testimoniano, segno che la costruzione è fatta di Pietre Vive.

L’idea di fondo della architettura della Chiesa Arcipretale di Solarolo, così come l’ha pensata mons. Giuseppe Babini al momento della ricostruzione post-bellica, è quella della Veste Battesimale del cristiano. Potrà sembrare austera, ma con l’adeguata illuminazione e soprattutto la tinteggiatura testè ultimata se ne apprezza ancora di più il valore e il richiamo per ogni credente.

Tutte le volte, pertanto, che si entrerà e si sosterà in questa chiesa ad ogni credente dovrà venire in mente il proprio Battesimo e, in particolare, la veste bianca che gli è stata consegnata quale segno della nuova dignità, quella dei figli e delle figlie di Dio, come indica il Battistero che si trova all’ingresso, in linea con la tradizione antica: con il battesimo si entra nella Chiesa, a far parte di un popolo, di una comunità. Il Battesimo è il sacramento che incorpora alla Chiesa, ci edifica come abitazione di Dio, ci fa sacerdoti, sacerdozio regale e popolo santo. Ci unisce come fratelli in Cristo. Con il Battesimo diventiamo popolo in cammino verso la risurrezione di Cristo, che rende partecipi della sua vita immortale, della sua gloria.

Ecco che cosa ci indicano i Tre Crocifissi di questa Chiesa: uno morente, uno appena spirato, e, poi, la grande croce senza il Cristo perché risorto, posta nel presbiterio. Questa è la croce che domina tutta la Chiesa a richiamare la centralità di Cristo, il risorto.

 

Noi siamo popolo guidato e condotto da Cristo, nostro Capo. Egli ci accompagna portando i segni della sua morte, ma è anche risorto, è Colui che ci apre la strada verso la Gerusalemme celeste.

Cosa dà forza alla chiesa, popolo di Dio che cammina nella storia, verso la meta della città del cielo? È l’Eucaristia. È il riunirsi per celebrarla, per esserne nutriti e rafforzati nella propria identità di persone che sono di Cristo, vivono di Lui. L’Eucaristia per il popolo cristiano è vitale. È il punto verso cui convergere per ripartire e allungare il passo verso il traguardo finale. È il cibo del pellegrino.

L’Altare rivolto verso la gente ci invita a pensare a questo, al punto focale a cui dobbiamo guardare e attorno a cui assieparci per fare comunità, per essere popolo compatto. Questo altare rivolto al popolo fu uno dei primi in Europa (10 anni prima della Riforma liturgica del Concilio Vaticano II), voluto da mons. Babini per richiamare il valore della famiglia parrocchiale che si riunisce attorno alla Tavola Eucaristica.

Noi ci nutriamo del pane che è Cristo, che di molti ci fa una famiglia unica. Cibandoci di Lui diventiamo fratelli. Nessuno è più straniero o forestiero per l’altro.

Giustamente il vostro amato parroco, nell’anno del Giubileo della Misericordia, dopo oltre 40 anni dagli ultimi interventi, ha voluto non solo riportare il decoro nell’edificio, ma anche riprendere l’impegno a vivere le opere di misericordia che consentono alla veste battesimale di ogni cristiano di essere quotidianamente luminosa, trasfigurata.

Un vivo ringraziamento a tutti coloro che hanno collaborato a rendere questa Chiesa più accogliente e più pedagogica. Un grazie particolarissimo va al vostro parroco don Tiziano, zelante, dinamico, pastore attento all’educazione alla fede. Egli ha desiderato, con interventi migliorativi e significativi, rendere l’edificio, fatto di pietre, luogo più funzionale alle pietre vive, alla loro più piena espressività morale ed evangelica: essere segno eloquente della vita nuova del cristiano.

Il Vangelo di questa domenica presenta a noi ancora una volta la parabola del figlio prodigo e la misericordia del Padre. Essa ci sollecita a ritornare a casa, a lasciare il peccato che ci allontana da Dio e dalla nostra dignità di figli e figlie suoi. Il Padre, visto il figlio da lontano, gli corse incontro. Lo perdona prima ancora che apra bocca, con un amore che previene il pentimento. Il figlio era tornato a casa non perché pentito ma perché affamato. L’esperienza del reincontro con il Padre misericordioso, che, nonostante tutto, lo anticipa e lo colma del suo affetto, lo sollecita a pentirsi, a chiedere perdono, a ritrovare la sua dignità, il gusto di fare il bene e di vivere un’esistenza nuova. Non dimentichiamo che Dio ci perdona sempre, ma questo non vuol dire che allora noi non ci preoccupiamo di convertirci, di cambiare vita. Non deve passare nella nostra testa l’idea che possiamo continuare a fare i peccatori incoscienti che rubano, ammazzano, tolgono l’onore agli altri, non pagano l’operaio, inquinano il territorio provocando danni al bene comune, alle persone, alla loro salute. Se Dio non condanna, nel senso che non vuole la nostra morte, che finiamo definitivamente in preda al male, non vuol dire che non ci chieda di abbandonare una vita moralmente disordinata, di lasciare il peccato, di convertirci e di chiedergli perdono.

Rimanere nel peccato grave significa voltare le spalle a Dio, costruire la propria esistenza non vivendo in comunione con Lui, scartandolo come i costruttori hanno scartato la pietra angolare. Per il credente, Cristo è la pietra angolare su cui costruire la propria casa. Senza di Lui perdiamo il riferimento per la nostra vita, non siamo in grado di avere una scala dei valori corretta.

Partecipando all’Eucaristia nutriamoci di Cristo per essere santi ed immacolati in Lui.

OMELIA per la CONSEGNA DEL SEGNO DELLA CROCE e GIUBILEO dei GIOVANISSIMI
Faenza - Chiesa dei Cappuccini, 27 febbraio 2016
27-02-2016

Cari giovani, la croce che vi verrà consegnata questa sera nel percorso della vostra professione di fede è segno dell’amore di Cristo. È segno di Cristo stesso, persona, Figlio di Dio, che ama sino a morire di croce. Questa rimanda a Colui che è morto per me, per noi. La croce che terrete tra mano mostra la misura dell’amore di Cristo per ciascuno. Egli ci ama in modo unico e personale. Ricevere la croce di Cristo che offre la sua vita per me vuol dire essere sollecitato a rispondere donandogli la mia. Così, la mia vita diventa un cammino di persona innamorata di Cristo, che Lo accoglie e Lo «vive», come soleva ripetere san Paolo: «per me vivere è Cristo».

Senza Cristo, allora, è come non vivere. Non dare senso a quello che faccio. Cristo è la persona più importante che ho. È più importante dei miei genitori e dei miei amici. È la parte migliore di me stesso. Anzi, di più. È il mio Tutto. Per cui, se mi dicessero rinuncia a Cristo, e se lo facessi, perderei me stesso, il senso della vita, la gioia. È facile, allora, comprendere come i primi cristiani per non perdere Cristo erano disposti a dare la vita, ad accettare il martirio.

Fecero così i martiri giapponesi Paolo Miki e compagni, 25 religiosi gesuiti.

Picchiati, mutilati ed umiliati pubblicamente durante il viaggio verso Nagasaki, nessuno rinnegò la propria fede in Cristo e il 5 febbraio 1597, pieni di entusiasmo, affrontarono il supplizio con una serenità ed una compostezza tali da sbalordire i loro persecutori. Chi benediva e lodava Dio con il canto dei salmi, chi recitava il Pater noster ad alta voce, chi pregava in silenzio e chi esortava i presenti ad una vita cristiana. Ma non solo. Dalla croce i 26 martiri, con gli occhi fissi al cielo, continuavano a perdonare i loro carnefici.

Un testimone oculare narra dettagliatamente il loro supplizio (un passo è riportato anche nella Liturgia delle ore) e dice: “Il nostro fratello Paolo Miki, vedendosi innalzato sul pulpito più onorifico che mai avesse avuto, per prima cosa dichiarò ai presenti di essere giapponese e di appartenere alla Compagnia di Gesù, di morire per aver annunziato il Vangelo e di ringraziare Dio per un beneficio così prezioso”, e dichiarò: “Giunto a questo istante, penso che nessuno tra voi creda che voglia tacere la verità. Dichiaro pertanto a voi che non c’è altra via di salvezza, se non quella seguita dai cristiani. Poiché questa mi insegna a perdonare ai nemici e a tutti quelli che mi hanno offeso, io volentieri perdono all’imperatore e a tutti i responsabili della mia morte, e li prego di volersi istruire intorno al battesimo cristiano”.

Questi furono i primi martiri cristiani in Giappone, dopo loro ce ne furono molti altri, perseguitati ed uccisi. Nel 1862 furono canonizzati da papa Pio IX.
I martiri ci esortano a essere fedeli alla nostra fede e, se è il caso, a perdere la vita a causa del Vangelo, come hanno fatto tutti quei giovani cristiani che sono morti recentemente nei paesi arabi, perseguitati e trucidati a causa di Cristo. I martiri giapponesi Miki e compagni hanno realizzato

la profezia di Tertulliano secondo il quale «il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani».
Chi ama Gesù Cristo più che se stesso, come il Bene più grande, è disposto a non disprezzarlo, nemmeno nella sua raffigurazione di Crocifisso appeso al muro o portato al collo con una catenina.
Per identificare quanti rimanevano segretamente fedeli al cristianesimo, in Giappone era disposta un’annuale «verifica della fede», che consisteva nel far calpestare un’immagine sacra cristiana davanti ai magistrati. Molti cristiani si rifiutarono e hanno scelto con coerenza il martirio.
Chi è credente e oggi è testimone di tanto odio contro i crocifissi nelle aule e nei luoghi pubblici non può che soffrire. Non riesce a capire come la propria fede non sia rispettata anche nei segni che la rappresentano. Cari giovani, occorre non aver paura di essere e di dirsi cristiani. Non ci si deve vergognare di portare al collo un crocifisso. Non possiamo accettare che nelle scuole pubbliche si pretenda che ci sia posto per tutte le religioni eccetto che per quella cristiana. Non dobbiamo accorgerci che nelle nostre aule c’è il crocifisso solo quando viene contestato, magari con la scusa che si tratta di un segno offensivo della libertà religiosa altrui. Ogni giorno andando a scuola preghiamo Gesù, dichiariamogli il nostro affetto.

Ma come già vi ho detto ciò che è massimamente importante è vivere Cristo.

Non bisogna dimenticare che lo stile dell’amore di Cristo è il servizio: Egli non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la vita in riscatto di molti (cf Mc 10, 45). Ebbene, caratterizziamoci, di fronte agli altri, proprio per questo. E cioè servendo le persone con lo stesso Spirito di Cristo.

Cristo ci mostra, mediante la sua umanità perfetta, l’amore che ci salva. Morendo di un amore totale per il Padre ci insegna a vincere il peccato e la morte. Ritrova la vita, mediante la risurrezione, dopo averla persa. Chi si umilia, ci ha detto il Vangelo di Luca, sarà esaltato (Lc 14, 1.7-14). Per questo, dobbiamo abbracciare e adorare la croce del Signore, farla nostra, accettare il suo peso come il Cireneo: per partecipare all’unica realtà che può redimere e trasfigurare tutta l’umanità (cf Col 1,24).

Ricevere la croce equivale a ricevere un mandato. Chi scopre che Gesù lo ama e lo chiama per nome, si sente inviato ad annunciarLo come Colui che ci ama fino a morire.

Cari giovani, rimanete fedeli a Gesù, state vicini a Lui. Mentre condividerete la sua vita non potrete non sentirvi chiamati a divenire “pescatori di uomini”, ossia annunciatori e testimoni del suo amore.

OMELIA nel ricordo di don Luigi Giussani
Faenza - San Silvestro, 22 febbraio 2016
22-02-2016

Come abbiamo sentito dalla proclamazione del Vangelo odierno di san Matteo, Gesù domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo». Diverse sono state le risposte, ma quella che coglie nel segno è la risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 13-19). La professione di fede di Pietro deriva certamente dalla rivelazione del Padre ma anche dall’esperienza della misericordia di Cristo nei suoi riguardi.
Papa Francesco nel 50° anniversario del Movimento di Comunione e Liberazione ha ricordato che il luogo privilegiato dell’incontro con Cristo è l’esperienza della sua misericordia nei nostri confronti e del nostro peccato. Solo chi è stato accarezzato dalla tenerezza della misericordia conosce veramente il Signore. È grazie all’abbraccio di misericordia che viene voglia di rispondere e di cambiare e che può scaturire una vita diversa. Il comportamento morale del credente non è tanto l’adeguazione ad una dottrina etica quanto, piuttosto, la risposta gioiosa di fronte ad una misericordia che redime, risuscita, rinnova e infonde forza e speranza.
Queste riflessioni di papa Francesco ci consentono di vivere più intensamente il Giubileo che stiamo celebrando e,  nello stesso tempo, di parlare del servo di Dio Mons. Luigi Giussani, fondatore del Movimento Comunione e Liberazione.
Come ha anche ricordato durante l’omelia delle esequie il cardinale Joseph Ratzinger, divenuto poi papa Benedetto XVI, sin da giovane Mons. Luigi Giussani aveva creato, con altri giovani, una comunità che si chiamava Studium Christi. Il programma era quello di parlare di nient’altro se non di Cristo, perché solo Cristo dà senso a tutto nella nostra vita. Detto altrimenti, Mons. Giussani e i suoi giovani amici, volevano porre al centro della loro esistenza Cristo, convinti che l’essere suoi voleva dire diventare rivoluzionari, persone capaci di rinnovare e di trasfigurare – come ci ha suggerito il Convegno nazionale della Chiesa italiana a Firenze –  il mondo e la cultura, attraverso il dono di sé, assumendo la croce.
L’esistenza incentrata in Cristo, vissuta dimorando in Lui, consente di divenire capaci di rispondere alle sfide del proprio tempo, di essere protagonisti di un nuovo umanesimo. Per il credente, il nuovo umanesimo è anzitutto Gesù Cristo, incarnato, morto e risorto. Dalla comunione con Lui deriva a noi una missionarietà efficace, novità di vita, libertà. Chi non vive unito a Cristo, come il tralcio alla vite,  non è in grado di donarlo. Chi non dà Cristo dà troppo poco, ha ricordato il cardinale Ratzinger davanti alle spoglie mortali del servo di Dio. Chi non fa trovare Dio nel volto di Cristo non costruisce, ma distrugge perché fa perdere l’azione umana in dogmatismi ideologici e falsi. Solo chi incontra realmente Cristo e vive di fede in Lui vince le ideologie e rimane libero, perché incontra la Verità. Cristo stesso ebbe a dirci che è la verità che rende liberi. Sant’Agostino d’Ippona ha sintetizzato tutto questo affermando: «Ubi fides est libertas».
Proprio nell’esperienza del credente, che vive Cristo e inabita in Lui, trova le sue radici il Movimento che non casualmente è stato denominato «Comunione e Liberazione».
Noi oggi constatiamo come stiamo gradualmente perdendo la nostra libertà, divenendo sempre più succubi di una cultura massmediatizzata che sopravaluta il mondo virtuale rispetto al reale e che appare imbevuta da un individualismo libertario, tenendenzialmente radicale. La libertà di espressione della fede cristiana è oggi progressivamente ridimensionata anche con sentenze prive di fondamento razionale, coerente con la figura di uno Stato laico ed aconfessionale ma non laicista. Basti anche pensare ai tentativi della Corte europea di condizionare la libertà di coscienza dei medeci cattolici rispetto all’obiezione nei confronti dell’aborto. Così, non possiamo ignorare come, anche nel nostro territorio, si stia procedendo ad una tassazione iniqua delle scuole cattoliche e paritarie. Ma non bisogna dimenticare come sul piano politico la stessa libertà di eleggere i propri rappresentanti venga in parte intaccata. Non si può, inoltre, negare come i nostri Parlamenti appaiono ormai sottomessi, per molte questioni, agli ordini che provengono dal mondo finanziario, che ha ormai il primato sulla politica.
Sicuramente  dal nostro essere in Cristo non proviene la libertà di cui si è fatto paladino Charlie Hebdo, il periodico settimanale satirico di Parigi, ossia una libertà di espressione senza rispetto per il diritto altrui di libertà religiosa. La libertà dei cristiani, invece, si configura come libertà che si lega alla verità e che è per il dono, per il rispetto e la cura dell’altro.
Solo se si è centrati in Cristo e nel Vangelo noi possiamo essere più liberi, essere braccia, mani, piedi, mente e cuore di una Chiesa «in uscita». Uscire significa respingere l’autoreferenzialità, l’immobilismo, la fossilizzazione delle strutture, delle associazioni e dei nostri movimenti.
Papa Francesco, l’ha ricordato al Movimento Comunione e Liberazione il 7 marzo 2015. Ma questo vale per tutti. Per non perdere freschezza e vitalità nei nostri Centri di pastorale, nelle nostre istituzioni ecclesiali e culturali occorre rinnovare ed approfondire la nostra comunione con Gesù Cristo, sentendoci missionari, inviati nel mondo per migliorarlo, a seconda delle nuove situazioni ed esigenze. L’autoreferenzialità ci «pietrifica». La comunione ci fa crescere e ci rende fecondi nelle nostre comunità e nel mondo. Rende il genio del cristianesimo più luminoso e creativo di una nuova civilizzazione.
Celebrando l’Eucaristia di questa sera ricordiamo sempre che è proprio la comunione con Cristo, morto e risorto, che ci edifica come persone nuove, come famiglia di Dio. Maria, madre della Chiesa, ci aiuti ad essere per Cristo, di Cristo, con Lui, sempre

OMELIA per il GIUBILEO DEGLI SCOUT
Faenza - Basilica Cattedrale, 21 febbraio 2016
21-02-2016

Cari ragazzi e ragazze, cari giovani, cari Capi

In questa seconda domenica di Quaresima, nella quale avete scelto di fare il Giubileo degli Scout, siamo sollecitati a riflettere sulla Trasfigurazione di Cristo. La Chiesa, dopo averci invitato a seguire Gesù nel deserto, per affrontare e vincere con Lui le tentazioni, ci propone di salire insieme a Lui sul “monte” della preghiera, per scoprirlo come Figlio di Dio. Come ci ha narrato il Vangelo, Gesù sale su un alto monte con tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Là «fu trasfigurato davanti a loro» (Mc 9,2). Il suo volto e le sue vesti irradiarono una luce sfolgorante, segno della sua divinità. Poi, una nube avvolse la cima del monte e da essa uscì una voce che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato; ascoltatelo!» (Mc 9,7). Dunque, la luce e la voce: la luce divina che risplende sul volto di Gesù, e la voce del Padre celeste che testimonia per Lui e comanda di ascoltarlo.

Perché Gesù sale sul monte a pregare portando con sé i tre discepoli? Non bisogna dimenticare che Gesù è incamminato verso il compimento della sua missione, ben sapendo che, per giungere alla risurrezione, dovrà passare attraverso la passione e la morte di croce. Di questo ha parlato apertamente ai discepoli, i quali però non hanno capito, anzi, hanno rifiutato questa prospettiva, perché non ragionano secondo Dio, ma secondo gli uomini (cfr Mt 16,23). Per questo Gesù porta con sé tre di loro per rivelare il suo essere divino. Gesù vuole che questa verità possa illuminare i loro cuori quando attraverseranno il buio fitto della sua passione e morte, quando lo scandalo della croce sarà per loro insopportabile. Gesù desidera essere la loro luce interiore, lampada che non si spegne mai ed illumina il loro cammino. Sant’Agostino riassume questo mistero con una espressione bellissima, dice: «Ciò che per gli occhi del corpo è il sole che vediamo, lo è [Cristo] per gli occhi del cuore» (Sermo 78, 2: PL 38, 490).

Cari ragazzi e ragazze, cari giovani, tutti noi abbiamo bisogno di Cristo, luce interiore per superare le prove della vita, le tentazioni. Per possedere la luce che è Cristo dobbiamo salire con Lui sul monte della preghiera. Contemplando il suo volto pieno d’amore e di verità saremo colmi di Lui. Saliamo, allora, sul monte della preghiera: come luogo non solo della salita esteriore, ma anche dell’ascesa interiore; per liberarci dal peso della vita quotidia­na, per respirare l’aria pura della creazione; per godere dell’ampiezza della crea­zione e della sua bellezza. Chiediamo alla Vergine Maria, nostra guida nel cammino della fede, di aiutarci a vivere questa esperienza nel tempo della Quaresima, trovando ogni giorno qualche momento per la preghiera silenziosa e per l’ascolto della Parola di Dio. La preghiera ci fa abitare in Gesù, misericordia del Padre!

Solo Gesù guida la nostra esistenza. Ogni anno, nel giorno in cui è nato Baden Powell, gli Scout sono invitati a vivere la giornata mondiale del pensiero. È dedicata al Guidismo, a far conoscere in particolare il compito delle Guide. Le Guide dell’AGESCI sono chiamate ad orientare la vita dei ragazzi/e e dei giovani soprattutto con il loro esempio personale, portandoli verso Gesù Cristo, la vera porta santa da attraversare, luce per il cammino della vita, Colui che connette in un legame di fraternità universale. In questa Messa, tutti insieme, Capi, ragazzi e ragazze, giovani, scegliamo, ancora una volta, Gesù come nostra Guida e nostro cibo. Egli ci aiuta ad amarci tutti come fratelli e sorelle, a formare comunità, ad aiutare il più povero

OMELIA per la S.Messa con i CRESIMANDI
Faenza - Seminario, 14 febbraio 2016
14-02-2016

Cari ragazzi e ragazze,

che vi state preparando alla Cresima o al Sacramento della Confermazione, l’inizio della Quaresima – quaranta giorni di preparazione alla Pasqua – ci fa riflettere sulle grandi scelte della vita. Con la prossima Cresima siete proprio sollecitati a compiere le scelta fondamentale di essere di Cristo e di vivere come Lui, con il suo Spirito d’amore. Al momento della futura Cresima sceglierete voi Gesù, confermando la scelta fatta dai vostri genitori per voi durante il Battesimo.

Il Vangelo di Luca, che avete appena sentito leggere, ci parla delle tentazioni che Gesù ha subito nel deserto, ove si era ritirato per prepararsi alla sua missione (cf Lc 4,1-13). Durante le tentazioni, Gesù decide come vivere, quali strade percorrere per salvare l’umanità, per essere fedele al compito che gli aveva affidato il Padre.

Considerare le tentazioni che Gesù ha affrontato e vinto è particolarmente istruttivo per voi che state preparandovi a sceglierlo con libertà e responsabilità.

Come ci insegna sant’Agostino, un grande santo della Chiesa dei primi secoli, non ci deve tanto interessare il fatto che Gesù sia stato tentato ma che Egli ha vinto le prove a cui è stato sottoposto. Le ha affrontate e le ha superate. Attraverso questa esperienza ha dimostrato di essere completamente innamorato di suo Papà, Dio, ed è stato fedele al compito affidatogli: redimere gli uomini, combattendo contro il male, sino a morire sulla croce, donando completamente se stesso.

Riflettiamo un po’ sulle singole tentazioni che Gesù ha subito e vinto. Guardando alle scelte fatte da Gesù, facendole nostre, diventiamo sempre più figli di Dio, fratelli dello stesso Gesù, persone complete, vittoriose sul male, luminose nel bene.

Nelle tre tentazioni Gesù non mercanteggia con il diavolo: tu mi dai, io ti do. Non scende a patti con lui. Non lo adora. Lo vince. Sceglie decisamente Dio, mettendolo al primo posto. Si mantiene fedele all’impegno di essere in mezzo agli uomini per insegnare a loro il mestiere di essere figli di Dio, per regalare a loro Dio, per aiutarli ad incontrarlo e ad innamorarsi di Lui.

La prima tentazione: «Se tu sei il Figlio di Dio, dì a questa pietra di diventare pane». Gesù rispose al diavolo: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo». In questa tentazione il diavolo propone di cambiare una pietra in pane, per spegnere la fame. Gesù ribatte che l’uomo vive anche di pane, ma non di solo pane. Senza una risposta alla fame di verità, alla fame di Dio e del suo amore, l’uomo non si può salvare.

Nella seconda tentazione il diavolo offre a Gesù tutti i regni della terra a condizione che si inginocchi davanti a lui per sottomettersi. Ma Gesù gli rispose: «Sta scritto: il Signore tuo Dio adorerai e a lui solo renderai culto». E così, Gesù tra il diavolo e Dio sceglie Dio, e cioè di obbedire al Padre. Non vuole allontanarsi da casa e sottrarsi all’amore di Dio. Il mondo lo si salva affidandosi a Dio, amandolo sopra ogni cosa, donandosi sino a morire. È la via dell’umiltà, dell’amore e della croce che redime e che cambia il mondo, non la via del potere per il potere.

Nella terza tentazione, il diavolo propone a Gesù di gettarsi dal pinnacolo del Tempio di Gerusalemme e farsi salvare da Dio mediante i suoi angeli, di compiere cioè qualcosa di sensazionale, per mettere alla prova Dio stesso, per vendersi alla logica del diavolo, per diventare potente. La risposta di Gesù è che non si deve usare Dio per i propri interessi, per la propria gloria e il proprio successo. Noi non dobbiamo dubitare di Dio e metterlo alla prova. È sicuro che ci ama. Tra i miracoli e Dio dobbiamo scegliere Dio. Per la nostra fede è più importante che crediamo in Dio. Più che chiedere miracoli dobbiamo chiedere Dio stesso. Nel mondo ce ne sono già tanti di miracoli, mentre c’è poca fede.

Le tentazioni di Gesù ci insegnano che come cristiani dobbiamo convertirci, scegliendo decisamente Gesù Cristo. Lui deve avere il primo posto nei nostri pensieri e nel nostro cuore. In questo momento di preparazione alla Pasqua e alla Cresima ognuno di noi deve chiedersi: che posto ha Dio nella mia vita? Penso di poter fare a meno di Lui? Durante questo anno giubilare sto vivendo il suo amore, facendo qualche piccolo sacrificio per aiutare i poveri nei quali devo sapere riconoscerlo? Dobbiamo scegliere il pane o Dio? E il pane e Dio, ma soprattutto Dio. Dobbiamo adorare il diavolo o Dio? Ovviamente, solo Dio. Dobbiamo desiderare da Dio prodigi o Lui stesso? Prima di tutto Lui, avremo anche i suoi prodigi.

Durante questa santa Messa in cui si rende presente Gesù Cristo per essere il nostro pane e la nostra vita, diciamogli tutta la nostra amicizia, facciamo comunione con Lui. Sua Madre ci aiuti a sceglierlo e ad amarlo sopra ogni cosa.

OMELIA per la GIORNATA DEL MALATO 2016
Bagnacavallo - Chiesa di San Giovanni Battista, 11 febbraio 2016
11-02-2016

La prima Lettura tratta dal Deuteronomio ci invita a considerare che tutte le volte che abbandoniamo Dio e ci costruiamo, al suo posto, altri dei per servirli, non abbiamo fortuna. Finiamo per essere schiavi. Scegliendo altri dei scegliamo noi stessi, la nostra vita, che pur essendo preziosa non ci basta, perché noi siamo fatti per Dio, per una vita più grande della nostra. Scegliendo, invece, Dio abbondiamo di vita e di gioia. Nel Vangelo secondo Luca ci sono indicati gli atteggiamenti fondamentali del cristiano: servire, rinnegare se stessi, perdere la propria vita per il Vangelo. Per essere persone in senso pieno dobbiamo guadagnare Gesù Cristo e viverlo ogni giorno, in tutti i momenti e in tutte le varie situazioni della nostra vita, compresa la malattia.

Oggi la XXIV Giornata Mondiale del Malato coincide con il ricordo della Madonna di Lourdes, la Madre che mostra una particolare tenerezza nei confronti dei malati. Da papa Francesco siamo sollecitati a vivere la suddetta Giornata alla luce delle nozze di Cana e dell’anno del Giubileo straordinario della Misericordia. Nelle nozze di Cana, Maria sollecita il Figlio a compiere il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino. È in questo modo che Maria partecipa alla gioia della gente comune e contribuisce a crescerla. Intercede presso il Figlio per il bene degli sposi e degli invitati.

Quale insegnamento possiamo trarre dal mistero delle nozze di Cana per la Giornata Mondiale del Malato? Gesù soccorre chi è in difficoltà e nel bisogno, cambiando l’acqua in vino, divenendo causa di gioia. Ma Egli è stato motivo di gioia anche per coloro che ha guarito da malattie, infermità, da spiriti cattivi, donando la vista ai ciechi, facendo camminare gli zoppi. E lo è stato pure per coloro che non sono stati guariti da mali fisici. Egli è divenuto causa di consolazione e di salvezza donando la fede. Mediante questa – una luce e una grazia particolari – ci si unisce alla vita di Cristo e alla sua opera di redenzione, partecipando alla sua morte e risurrezione. Sebbene la fede non sempre fa sparire la malattia, il dolore e l’angoscia che ne deriva, pur tuttavia può aiutare a vederli nelle loro potenzialità positive e a viverli come via per arrivare ad una più stretta vicinanza con Gesù, che cammina al nostro fianco caricato della Croce o, meglio, che ci aiuta a portare la nostra croce. La malattia può essere l’occasione di completare in noi le sofferenze di Cristo crocifisso e offrire, assieme a Lui, il dono della nostra vita e i patimenti per amor suo. Seppur devastati e condizionati dalla malattia possiamo ugualmente sperimentare la gioia di essere utili alla nostra comunità, ai giovani, al mondo, alle stesse persone che ci accudiscono e curano. Come a Cana Gesù si avvale dei servi per procurare gioia agli sposi e agli invitati al banchetto nuziale, così può servirsi degli infermieri, dei medici, degli assistenti domiciliari per farci sperimentare la gioia di essere accuditi da Lui. Le mani di coloro che ci assistono e ci curano possono essere le mani stesse di Dio. Noi possiamo essere mani, braccia, cuori che aiutano Dio a compiere i suoi prodigi di guarigione o di consolazione. La condizione, però, è che noi viviamo uniti a Cristo, sia che siamo ammalati, sia che stiamo accanto agli ammalati con un cuore pieno di amore e di tenerezza. La comunione costante con Dio ci consente di trasformare l’acqua del dolore e della malattia nel vino pregiato dell’offerta e del dono di noi stessi a Dio e ai fratelli.

Come ho suggerito nella Lettera pastorale (cf Misericordiosi come il Padre, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2015, pp. 117-123), celebriamo quest’anno della Misericordia vivendo la pastorale della salute con una operatività che esprima più intensamente l’amore di Dio, mediante un’azione comunitaria e sistematica a largo raggio.

Dovrà essere per tutti il momento privilegiato per una riflessione sulle Opere di Misericordia: «Visitare i malati» e «Consolare gli Afflitti».

«Visitare i malati» non è compito solo di alcuni, cioè di coloro che scelgono il mondo della malattia come ambito di lavoro, di servizio, di volontariato, ma di tutti noi, cominciando dai nostri familiari, dai vicini di casa, dai colleghi di lavoro e di svago, di chi condivide con noi l’appartenenza ad una associazione, ad una comunità, da chi conosciamo già. Visitare sempre, soprattutto se la malattia si prolunga, se il malato è solo, anziano. Nessuno dei malati di una parrocchia dovrebbe rimanere senza visite, perché tutti hanno tra i parenti o i vicini di casa qualcuno, adulto, giovane, anziano, che frequenta la comunità parrocchiale, battezzato e cresimato come noi. Papa Francesco ci avverte che «in forza del Battesimo e della Confermazione siamo chiamati a conformarci a Cristo, Buon Samaritano di tutti i sofferenti».1 È un’opera di misericordia che va riproposta con forza anche ai più giovani, perché oggi la fatica a rapportarsi con la malattia, la sofferenza, la disabilità, la vecchiaia porta molti ad allontanare da sé le persone afflitte da tali mali e questo impoverisce le famiglie, la società e anche le nostre parrocchie: il mondo della sofferenza, infatti, è un ambito privilegiato per incontrare Dio e la sua misericordia.

È importante anche «Consolare gli afflitti». Tanti accanto a noi vivono nel dolore, nella tristezza, nel lutto non solo per la morte di una persona cara, ma anche per la fine di un matrimonio, di un rapporto di lavoro importante. Questa situazione può essere molto pesante senza il conforto dell’ascolto, della condivisione. Siamo abituati a lasciarci coinvolgere dal dolore degli altri per brevi periodi, per poi allontanarci. Fatichiamo ad essere presenti, preoccupati spesso di non essere capaci di esprimerci, di non sapere che cosa fare, quando spesso basterebbero una parola, una stretta di mano, un abbraccio, e soprattutto la capacità di ascoltare in silenzio un dolore che, se taciuto, non può che aumentare e, se non condiviso diventa intollerabile. Dobbiamo imparare a comprendere anche il dolore di chi soffre senza avere più la capacità di manifestarlo. Questa situazione può essere molto pesante, quando non vi è il conforto dell’ascolto, della condivisione.

Viviamo la Giornata del Malato facendo il proposito che la visita ai malati e l’attenzione a chi è nel dolore diventi un’abitudine diffusa e condivisa. Maria, Beata Vergine delle Grazie ci aiuti.

1 Francesco, Messaggio per la XXII Giornata Mondiale del Malato (dicembre 2013).

OMELIA per il MERCOLEDÌ delle CENERI
Faenza - Basilica Cattedrale. 10 febbraio 2016
10-02-2016

  1. Dov’è il nostro Dio? Dove opera, dove compie prodigi?

Dio è presente e compie meraviglie dove c’è un popolo che ritorna a Lui con tutto il cuore, con il dolore delle colpe, non lacerando le vesti, bensì aprendosi a Lui, accogliendolo.

La Quaresima è per la Pasqua, per l’ascensione, per la trasfigurazione della nostra esistenza, sia come singoli, sia come Chiesa, come associazioni e movimenti. È vivere più intensamente il nostro essere di Cristo, nel servizio alla Chiesa, ai poveri, e ai giovani, perché diventino totalmente suoi, anch’essi capaci di dono.

Il brano del profeta Gioele (2, 12-18) ci ricorda che nel nostro cammino quaresimale ci possono essere falsità e menzogne. Chi vive la Quaresima solo esteriormente, mediante riti e pratiche di routine, vuote di Dio, senza cambiare interiormente, in realtà indossa una maschera, disinteressandosi di Gesù Cristo. È prigioniero in se stesso. Mette al centro i propri progetti e non quelli di Dio.

Detto altrimenti, si può correre il rischio di vivere una Quaresima senza incontrare realmente Cristo e i propri fratelli. Questo può succedere a tutti, anche a chi partecipa al Giubileo della misericordia. Noi potremmo essere qui a celebrare l’inizio della Quaresima e non riconoscere i nostri peccati, i nostri limiti, senza cioè convertirci e sentire il bisogno del perdono di Dio.

Ciò sarebbe grave. Se noi agissimo come se Dio non ci fosse, come se tutto dipendesse da noi, sconfesseremo la stessa storia gloriosa della nostra Chiesa faentina, storia di santi e di beati, storia di sacrifici, di lotta quotidiana per il bene e la giustizia, sorretti dallo Spirito. Non solo. Pregiudicheremmo l’impegno di questo stesso anno Giubilare che non dev’essere solo per noi stessi, ma per la causa del Regno di Dio. Desiderare il rinnovamento senza l’aiuto di Dio sarebbe velleitario. È pensare che ci salviamo da soli. Con ciò verrebbe meno quella mistica filiale e fraterna, quell’empatia che caratterizza le nostre parrocchie e le nostre famiglie cristiane. Ci condanneremmo ad una progressiva desertificazione spirituale, alla sterilità apostolica e vocazionale.

Per essere vivi e trasfigurati, accogliamo l’invito alla conversione che Paolo rivolge ai Corinzi: «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza» (2 Cor 6,2). «Ora»! Diciamo insieme, pertanto, senza pose e teatralità: «Abbi pietà Signore di noi, abbiamo peccato. Salvaci»! Non la nostra, ma la Tua volontà, Signore! Non la nostra ipocrisia religiosa, ma la Tua gloria. Non il nostro sale insipido, ma il Tuo fermento. Non le nostre sicurezze umane, i nostri piccoli progetti, ma la Tua pienezza di vita, la Tua missionarietà. Come Cristo ha accettato l’incarnazione diciamo con Lui: «Ecco, manda me». Solo se le nostre vite saranno salvate da Cristo, non saremo derisi. Gli increduli non potranno sogghignare: «Ma dove è andato a finire il loro Dio?» (Gl 2,17). Con Lui, Signore della vita e della storia, tutto può essere ricostruito e rinnovato, vi potrà essere una primavera senza fine anche per la nostra diocesi, le nostre associazioni e i nostri movimenti.

  1. Uno stato permanente di missione e di conversione

Non rimandiamo, dunque, la nostra conversione, il nostro incontro con il Signore. Il domani non è nelle nostre mani. Dio non si presta ad essere preso in giro. Perdona i peccatori, ma vomita i tiepidi (cf Ap. 3,16).

Ma l’urgenza di questo particolare «momento favorevole», che è dato dal Mercoledì delle ceneri, con i suoi riti austeri e corali, non è limitata solamente ad un «qui» ed «ora», puntuali e conclusi, che non superano l’immediato. L’atteggiamento di conversione deve continuare tutti i giorni e nei mesi a venire. Ciò vuol dire porsi entro un orizzonte ampio. Permette di lavorare a lunga scadenza, attivando processi comunitari che costruiscono la Chiesa del terzo millennio. Non dimentichiamo l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (=EG) di papa Francesco. Essa è un vademecum per rinnovare le nostre comunità. Man mano che se ne approfondiranno i contenuti bisognerà avere il coraggio della conversione, con i conseguenti cambi spirituali, istituzionali ed operativi. Papa Francesco, nella sua esortazione, sollecita tutte le comunità ad essere audaci e creative, ad entrare in un deciso cammino di discernimento, purificazione e riforma (cf EG n. 30). Per papa Francesco urge scegliere e porre in atto tutti i mezzi di revisione delle strutture – compreso il papato (cf EG n. 32) – degli stili, degli orari, del linguaggio, dei metodi evangelizzatori, dell’uso delle risorse, con lo scopo principale di vivere in uno «stato permanente di missione», senza ritardi.

In questa celebrazione liturgica, consentitemi di esprimere ancora una volta l’auspicio – sicuramente non ce ne sarebbe bisogno, ma sentirlo ripetere immagino che non danneggerà – che la sopracitata esortazione non sia lasciata da parte. So che il consiglio pastorale diocesano ha scelto tra i suoi impegni quello di predisporre dei sussidi affinché tutti possano penetrare e capire la EG. Sarebbe davvero consolante se entrasse nell’orizzonte e nelle scelte delle nostre parrocchie, nelle omelie, nella catechesi, nell’aggiornamento spirituale dei fedeli. In essa, in effetti, potremo incontrare un respiro e un’ispirazione che ci confermeranno, ci rafforzeranno, ci sproneranno a fare di più e meglio. Troveremo quelle sottolineature che, rammentandoci soprattutto il realismo della dimensione sociale del vangelo, ci aiuteranno a coniugare nell’oggi la stessa Lettera pastorale di quest’anno, senza introversioni ecclesiali, seminando la vita nuova di Gesù Cristo nell’attuale mondo globalizzato, sempre più secolarizzato, pervaso da un laicismo aggressivo. Quali credenti che guardano avanti non possiamo lasciare fuori dal nostro impegno missionario ed educativo, specie nei molti Centri ed Oratori di cui siamo per fortuna dotati, l’obiettivo di formare «buoni cristiani ed onesti cittadini». I giovani hanno bisogno di Gesù Cristo. Spetta a loro di diritto! Come spetta a loro un nuovo umanesimo, aperto alla trascendenza, che si forgia specialmente nelle scuole cattoliche.

  1. Un’icona emblematica: un popolo in cammino, gioioso e sereno

Essere popolo che vive un desiderio inesauribile di offrire la misericordia di Dio Padre; essere Chiesa che sa «coinvolgersi», mettendosi in ginocchio davanti agli altri, specie ai più piccoli, per servirli, per curare il loro spirito e la loro carne – carne sofferente di Cristo -; essere Chiesa che «accompagna» l’umanità e le nuove generazioni verso la pienezza di Cristo; essere Chiesa che celebra e festeggia ogni vittoria sul male lottando per il bene e la giustizia: ecco ciò che dobbiamo essere! Questa è l’immagine di popolo che dobbiamo avere di fronte e coltivare: un popolo nuovo, gioioso e sereno, perché salvato, liberato dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore. Un popolo che costruisce un mondo più fraterno, più giusto e pacifico.

La Beata Vergine delle Grazie e i santi faentini ci aiutino! Viviamo e testimoniamo una Quaresima per la Pasqua!

OMELIA nella SOLENNITÀ della EPIFANIA
Faenza - Basilica Cattedrale, 6 gennaio 2016
06-01-2016

Cari fratelli e sorelle,

con la solennità dell’Epifania celebriamo la manifestazione di Cristo ai Magi. Cristo si rivela come Luce che illumina – Egli è il Sole che sorge dall’alto (Lc 1, 78) – non solo Maria, Giuseppe, i pastori, ossia il «resto d’Israele», i poveri, gli anawin, ma anche i popoli pagani rappresentati dai Magi. Essi, prostrati, adorarono il Bambino, offrirono doni d’Oriente: oro, incenso e mirra: simboli profetici di segreta grandezza che svelano alle genti una triplice gloria! Oro e incenso proclamano il Re e Dio immortale; la mirra annunzia l’Uomo dei dolori, deposto dalla croce.

Ma, come abbiamo udito dalla lettura del Vangelo (cf Mt 2, 1-12), Gesù Cristo non appare come Luce a tutti. Non è luce per i potenti, per Erode, per coloro che abitano nei palazzi regali. Anzi, Erode vede in Cristo un possibile concorrente per il suo trono e camuffa il timore con una plateale menzogna: «… quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».

In breve, Cristo nasce per tutti come Luce, ma non tutti l’accolgono. Come ci ricorda l’evangelista Giovanni: «la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre, perché le loro opere erano malvagie» (Gv 3,19). La luce non viene accolta perché chi sceglie il male ottenebra i suoi occhi che non riescono a vederla.

L’arrivo dei Magi dall’Oriente a Betlemme, per adorare il neonato Messia, è il segno della manifestazione del Re universale ai popoli, a tutti gli uomini che cercano la verità, la sapienza e l’Amore di Dio.

Ma, chiediamoci, perché Cristo è «Luce» per i popoli?

Come spiega l’apostolo Giovanni nella sua Prima Lettera: Dio è Luce per noi perché è «Amore». La Luce che si manifesta alle genti in Gesù è l’amore di Dio, è, come ha spiegato papa Francesco nella bolla di indizione del Giubileo straordinario, la Misericordia del Padre.

I Magi giungono dall’Oriente attratti dalla Luce, dall’Amore di Dio che viene incontro a chi lo cerca nell’umiltà di un Bambino, lo accoglie tra le braccia, lo riconosce come il proprio Tutto e lo adora. Egli viene a compiere una vera e propria rivoluzione nell’umiltà, non con i mezzi potenti e violenti della guerra e delle armi, bensì mediante i «mezzi poveri» dell’amore, del dono totale di sé e del perdono, come ci hanno spiegato molto bene i nostri pensatori personalisti, a cominciare da Jacques Maritain, grande filosofo cristiano del secolo scorso.

I Magi ci ricordano che tutti gli uomini, anche i più lontani, sono chiamati ad accogliere in Gesù, la salvezza di Dio. Questa è per tutti, è un dono universale.

Ma con la Solennità dell’Epifania ci è mostrato anche il mistero della Chiesa, la sua dimensione missionaria. Essa, ci ha ricordato papa Benedetto, in un’omelia dell’Epifania , «è chiamata a far risplendere nel mondo la luce di Cristo riflettendola in se stessa come la luce del sole» (Omelia del 6 gennaio 2006).

Detto altrimenti, la Chiesa dev’essere nel mondo un punto luminoso che attira a sé tutti gli uomini e illumina il loro cammino verso Cristo, rendendo compiute le antiche profezie, come quella stupenda del profeta Isaia che abbiamo ascoltato poc’anzi: «Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere» (Is 60, 1-3). Analogamente, i discepoli di Cristo, ammaestrati da Lui, dovranno attrarre, mediante la testimonianza dell’amore misericordioso di Dio, tutti gli uomini al Padre: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Mt 5,16).

Come è possibile essere un’epifania di Cristo, una «visione di Lui», come suggeriva sant’Ireneo di Lione? Ce lo insegna Maria santissima con la sua disponibilità: «Si faccia di me secondo la tua parola». Noi siamo, per i nostri contemporanei, la «visione di Dio», stella che conduce a Lui, mediante l’evangelizzazione e una testimonianza credibile della misericordia divina. La Chiesa italiana ne ha indicato un percorso, riassumibile in cinque verbi: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare. Nelle prossime settimane, i rappresentanti della Diocesi al Convegno nazionale della Chiesa italiana a Firenze ritorneranno nei vari Vicariati per offrire la loro testimonianza e sollecitare un movimento sinodale, ovvero comunitario, facente perno proprio sui verbi citati.

Il compito dell’evangelizzatore non è quello di salvare bensì quello di far incontrare le persone con Gesù Cristo, l’unico che salva. Noi siamo chiamati a collaborare con il Redentore e Salvatore, con Colui che è Luce.

Chiediamoci: con la nostra vita annunciamo e testimoniamo Gesù Cristo affinché Egli sia incontrato, da piccini e grandi, specie da quelli che, dopo la Cresima o Confermazione l’hanno abbandonato? Noi oggi siamo giustamente preoccupati dall’eccesso e dalla pesantezza di tante strutture ecclesiali, le quali anziché essere un aiuto per l’evangelizzazione, spesso si mostrano ingombranti o troppo gravose da gestire, distraendo forze e risorse dagli obiettivi primari. E, allora, ci sentiamo chiamati alla loro riforma, al loro ridimensionamento, come anche alla revisione delle metodologie pastorali. Ma non dobbiamo dimenticare che la condizione prima per facilitare l’incontro delle persone e dei giovani con Gesù Cristo è, in definitiva, l’amore che noi abbiamo per Lui: un amore appassionato, travolgente, che trasfigura le nostre esistenze, rendendole un linguaggio eloquente che parla di Lui, che innamora e fa vibrare l’anima all’unisono con lo Spirito che grida: «Abbà, Padre». L’evangelizzazione è per un incontro con Gesù Cristo che cambia il corso della vita, come l’ha cambiato ai Magi che non ritornarono più da Erode per non essere in combutta con lui, nemico di Gesù. È Cristo che ci converte all’amore di Dio. Non siamo noi che salviamo i nostri fratelli.

A questo proposito, domandiamoci, cari fratelli e sorelle: la nostra vita è davvero cambiata al punto da non essere alleati con coloro che sbeffeggiano Gesù Cristo, il crocifisso, la Chiesa, il suo diritto alla libertà religiosa, il diritto alla vita, il Vangelo? Sui punti elencati serve oggi, anche all’interno delle nostre comunità ed associazioni, un serio e rigoroso esame di coscienza, per non trovarci gradualmente complici di una triste deriva di civiltà, ed essere persone che lavorano, consapevolmente o inconsapevolmente, ad oscurare la Luce del mondo.

Ogni comunità e ogni singolo fedele può rendere il servizio che la stella ha offerto ai Magi d’Oriente, conducendoli fino a Gesù, se viene dato il primato alla rivoluzione spirituale e morale che Cristo è venuto a portare in questo mondo. Occorre sì cambiare strutture e metodologie, ma ciò va sempre realizzato in subordine alla conversione morale e spirituale delle persone. Strutture e metodologie modificate non sono sufficienti a cambiare i cuori, gli stili di vita.

La Chiesa e i singoli cristiani possono essere luce, che guida a Cristo, solo se si nutrono assiduamente e intimamente della Parola, che si è fatta carne e cibo per noi. È la Parola che illumina, purifica, converte, non sono certo solo i nostri discorsi o i programmi pastorali rinnovati.

Che Maria, Madre di Dio e della Chiesa, ci aiuti a portare la Luce, che è Cristo, nel mondo!