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OMELIA per il LXXI anniversario della Liberazione
Faenza, Basilica cattedrale - 25 aprile 2016
25-04-2016

Oggi, 25 aprile, la Chiesa ricorda l’evangelista san Marco, patrono di Venezia. Con ogni probabilità egli compose il suo Vangelo a Roma, al tempo in cui era fedele collaboratore di Paolo e di Pietro. Il suo testo è il più antico dei quattro vangeli e tramanda l’eco della predicazione di Pietro. Nel suo Vangelo ritroviamo l’itinerario dei Dodici dopo l’incontro con quel Gesù, di fronte al quale non si poteva fare a meno di chiedersi: «Chi è, dunque, quest’uomo?».

Marco ci conduce a rispondere a tale domanda facendo nostre le parole che per fede scaturirono dal cuore di Pietro. Nel brano di oggi (cf Mc 16, 15-20) abbiamo letto il mandato di Gesù ai suoi discepoli: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato». Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni e le opere che la accompagnavano.

La Chiesa ancora oggi obbedisce a questo mandato del Signore. È un mandato che evidenzia come la sua missione è radicata nel comando di Cristo. Noi credenti riteniamo che, se la Chiesa ha questo grande compito, non l’ha da se stessa, per se stessa. Non se lo attribuisce autonomamente. Le è stato affidato direttamente dal Figlio di Dio, inviato dal Padre. La libertà di svolgere la sua opera di santificazione e di evangelizzazione ha un’origine divina, non è semplicemente umana. L’attestazione di una simile derivazione proviene da Cristo stesso, che agisce lungo i secoli insieme ai suoi discepoli e loro mediante. Siamo di fronte ad una realtà che ci trascende per cui non ci è permesso rapportarci con superficialità sia nel valutarla sia nell’assecondarla. Opporsi a quest’opera di trasmissione della verità non tornerebbe ad onore di nessuno, specie se si è suoi figli. Lungo il tempo, abbiamo assistito a lotte di libertà sia da parte della Chiesa nei confronti di Stati oppressori sia, viceversa, da parte di popoli nei confronti del suo potere temporale.

Oggi, dopo vicende anche dolorose, è possibile comprendere meglio quali debbano essere i rapporti tra Chiesa e comunità politiche, in un equilibrio rispettoso delle singole identità e autonomie, scolpito nell’espressione «libera Chiesa in libero Stato». Il Concilio Vaticano II ha confermato questo principio, riconoscendo però, che entrambe le istituzioni, in un’essenziale collaborazione, pur mantenendosi distinte, sono a servizio della persona umana concreta, per la promozione della sua crescita integrale. Tali rapporti non potranno mai essere definiti una volta per tutte, ma dovranno seguire il tumultuoso procedere delle vicende umane, e quindi essere continuamente rivisti entro l’attuale quadro multietnico e multiculturale.

Anche la libertà del proprio popolo esige di essere coltivata senza mai essere considerata una conquista definitiva.

Oggi siamo qui a celebrare il settantunesimo anniversario della liberazione dell’Italia alla fine dell’ultimo sanguinoso conflitto mondiale, e a ricordare che il prezioso bene della libertà, così faticosamente conquistata, va coltivato in tutti i suoi aspetti di accoglienza reciproca e di fratellanza. Sono queste le basi di una vita civile pacifica ed armoniosa, che è nostro compito difendere e promuovere per noi e le future generazioni. Libertà non significa soltanto rispetto dell’altro: è anche prendersi cura di lui e del creato per riscoprire la sua originale dimensione di casa comune. Celebrando la libertà del nostro Paese, non possiamo non pensare a tutti quei popoli che ancora non l’hanno raggiunta e a quanto questo incida sulla situazione mondiale. Il nostro non è certo il mondo in cui hanno creduto e hanno combattuto i nostri padri e i nostri nonni. Non è il mondo che noi vorremmo: un’agorà aperta, ove si scambiano idee ed esperienze, ove tutti sono liberi di esprimersi e di dare il proprio apporto al bene comune. La libertà è la cosa più bella, ma è anche la più ardua, e dobbiamo meritarla ogni giorno, lottando insieme, dialogando incessantemente, per superare gli squilibri di ogni genere che impediscono a molti di godere di pari opportunità. Di certo il superamento di tali ostacoli può avvenire mediante risposte concertate dalla comunità internazionale. E, tuttavia, non può mancare il nostro contributo quotidiano, con scelte civili di condanna della violenza e di solidarietà verso coloro che decidono di rimanere nel loro Paese. Dobbiamo aiutarli, per quanto possibile. La solidarietà, offerta a casa nostra, dovrà essere volta non solo ad accogliere e ad integrare, ma anche a rendere capaci i profughi a soccorrere, in un domani, i propri fratelli, senza escludere di ritornare in patria, affinché possano godere di una vita laboriosa, libera e democratica.

In questa Eucaristia, preghiamo Cristo. Uniamoci a Lui, che è la Verità che rende liberi e preghiamo lo Spirito perché ci faccia una sola cosa, capaci di vivere la comunione con il Padre e tra noi.

OMELIA per la VEGLIA per le VOCAZIONI
Bagnacavallo, Pieve di San Pietro - 16 aprile 2016
16-04-2016

Cari giovani e fedeli,

il brano del Vangelo di Luca (Lc 19, 1-10) ci presenta l’incontro di Gesù con Zaccheo. Fermiamo l’attenzione su due nuclei dell’episodio che sono: la ricerca di Zaccheo e l’iniziativa missionaria di Gesù. Ciò può aiutare a vivere meglio la nostra Veglia di preghiera per le Vocazioni e l’ammissione di Emanuele Casadio, Marco Fusini e Michele Rosetti tra i candidati al Diaconato e al Presbiterato.

La ricerca di Zaccheo. Egli è un esattore-capo degli impiegati del fisco, un funzionario che è anche ricco. Fa parte di una categoria considerata perduta, dannata, perché nell’opinione comune si riteneva impossibile che un ricco si potesse convertire e salvare (cf Lc 18, 24-25). Ma nell’incontro con Gesù avviene quello che umanamente è impossibile. È interessante considerare come l’evangelista Luca descriva, un po’ divertito, Zaccheo: «piccolo di statura», incuriosito dal passaggio di Gesù, il maestro, che attraversava la città di Gerico. Poiché la folla era numerosa e nascondeva Gesù, Zaccheo escogita la trovata di arrampicarsi su un sicomoro. Il funzionario del fisco, superando ogni complesso di dignità e di prestigio sale sull’albero per vedere Gesù. In tal modo, inizia il cammino che lo porta all’incontro con Gesù. Zaccheo, come ogni uomo, ricco o povero, umile o altolocato, è in ricerca. In ognuno di noi c’è il desiderio di un «di più» di quello che può offrire la nostra vita quotidiana di studio o di lavoro, di dedizione, passione e delusioni. Siamo sempre protesi verso un Assoluto che possa appagare il cuore, e spegnere la nostra sete di bene, di vero e di Dio. Zaccheo che sale sull’albero è il simbolo dell’uomo che per vedere meglio ciò a cui aspira dal profondo di sé, sceglie di cavarsi fuori dalla confusione, dalla folla. Esce dalla mischia per guadagnare un punto di osservazione superiore, al fine di scorgere meglio ciò che, ultimamente, ricerca.

Sappiamo che Gesù, pur immerso in una folla confusionaria, non è distratto dalla ressa che lo circonda. Ha «occhi» per Zaccheo. Lo vede, lo chiama, e si autoinvita a casa sua. Gesù entra nella vita del funzionario del fisco, solidarizza con lui sfidando le critiche dei benpensanti. La gente con i suoi pregiudizi si frappone tra Zaccheo e Gesù. Ma Zaccheo risponde subito all’invito. È senz’altro questa la ragione per cui questo brano evangelico è stato scelto per l’odierna Veglia di preghiera per le vocazioni. Alle parole: «Zaccheo, presto, vieni giù, perché oggi devo fermarmi a casa tua», corrispose una pronta risposta. Zaccheo, narra Luca, «discese in fretta e lo accolse con gioia in casa» (Lc 19,6).

Tutti i credenti, fedeli laici, sacerdoti, religiosi e consacrati, trovano in Zaccheo un modello di vocazione e di risposta. Zaccheo vive l’esperienza della vocazione come uno che spalanca prontamente la propria casa e la propria vita a Gesù, e si mette a disposizione, non solo a parole ma coi fatti, dei suoi fratelli, non cambiando professione ma modo di esercitarla. Davanti a Gesù decide un mutamento radicale, relativo al suo status di funzionario del fisco e di uomo facoltoso: dà metà dei suoi beni ai poveri e restituisce il quadruplo a chi ha frodato.

Cari giovani, noi mostriamo agli altri di essere persone vocate, chiamate, appartenenti a Dio, quando la nostra vita è trasformata, non è più solo per noi, ma per Gesù, per i fratelli, specie per i più poveri. Pregare per le vocazioni significa domandare al Signore persone nuove, coraggiose nel bene, capaci di mettersi in discussione e di assumere nuovi atteggiamenti e stili di vita. La comunione con Cristo, accolto a casa nostra, ci fa rinascere e ci restituisce alla nostra vocazione originaria: essere di Dio e dei fratelli. Sentirsi responsabili della loro dignità e della loro crescita. Non defraudarli dei loro diritti. Concepire la propria vita come un servizio a Dio e a loro. Farsi poveri, dando soprattutto la vita, sull’esempio di Gesù che «da ricco che era, si fece povero per arricchirci con la sua povertà» (2 Cor 8,9). In definitiva, Zaccheo incontrando Gesù si è sentito chiamato ad «evangelizzare» i poveri, un inviato a porsi al loro servizio.

Gesù il missionario, l’evangelizzatore. Nell’incontro con Zaccheo, il ricco pubblicano di Gerico, Gesù si mostra come Colui che prende l’iniziativa. Come abbiamo udito, fa la proposta di autoinvitarsi a casa. Annuncia la salvezza a lui e alla sua famiglia. Entrando nella casa del funzionario, Gesù porta la salvezza anche a chi è ritenuto estraneo o ai margini del popolo di Israele. Siamo così al secondo momento della nostra riflessione: l’iniziativa missionaria di Gesù. Tutti i credenti, battezzati e cresimati, sono chiamati ad essere missionari, sono mandati ad evangelizzare. Emanuele, Michele e Marco questa sera chiederanno di imitare più da vicino Gesù, il missionario. Domanderanno, in particolare, di essere ammessi tra i candidati al sacramento dell’Ordine. A suo tempo, associati al ministero del vescovo, serviranno la Chiesa. Con i sacramenti e la Parola edificheranno le comunità dei credenti. Condivideranno con tutti i credenti, sia pure in maniera diversa, la missionarietà di Cristo.

A questo proposito, desidero ricordare a tutti noi che – preti, diaconi, consacrati, laici – siamo impegnati nell’evangelizzazione non come persone che si sono autodestinate a ciò. Non siamo mandati in missione per una nostra iniziativa autonoma, per una smania di protagonismo, per conto nostro, ma per conto di Dio, per «conto-Terzi», per conto della Trinità. Ma se questo è vero, occorre anche dire che non andiamo in missione come persone «forzate», telecomandate. Non siamo costretti ad uscire e ad andare. La missione a cui ci dedichiamo non è un’imposizione da parte di Dio. Il Padre ha mandato il Figlio non contro la sua volontà. Fa altrettanto con noi. Dio non è un «Padre-padrone» incombente, despota. Egli è e resta sempre il nostro fortissimo e tenerissimo Abbà, il nostro Babbo. La nostra determinazione a partire per l’evangelizzazione è frutto di un amore ricevuto, di un innamoramento. Gesù affida il compito di pascere le pecore nel momento in cui domanda a Pietro se lo ama e dopo averne ricevuto l’assicurazione. Ricordiamo qui il brano del Vangelo che abbiamo sentito leggere domenica scorsa. Gesù non ha chiesto primariamente a Simone: Pietro, hai capito il mio messaggio? È chiaro per te ciò che ho fatto? Ciò che devi annunciare agli altri? Chiede, anzitutto: Mi ami? Mi vuoi bene? Detto altrimenti, per l’evangelizzatore e il costruttore di comunità cristiane è richiesto prima di tutto l’amore a Gesù. Senza di esso si fatica invano. Questo, allora, non vuol dire che non conta lo studio serio, l’approfondimento razionale della nostra fede, l’impegno ad inculturarla nei vari contesti e nelle istituzioni. Meno conosciamo la persona che amiamo e meno il nostro amore è stabile e duraturo. Il nostro amore per lei è meno motivato e fondato. Non si può amare una persona senza conoscerla adeguatamente. Tantomeno Dio. Pertanto, cari figli, candidati al sacerdozio: ci vuole e affetto per Gesù e conoscenza di Lui: una conoscenza non solo teorica, dottrinale, bensì esperienziale, ossia acquisita abitando a casa sua, dimorando con Lui, in Lui, pregandolo, condividendo i suoi stessi sentimenti.

In questa felice circostanza per la nostra Chiesa, che è in Faenza-Modigliana, mi preme sottolineare ancora un altro elemento. Uscire oggi ad evangelizzare non vuol dire coltivare solo la preoccupazione di far crescere e maturare una fede che c’è già, con il catechismo, con i sacramenti e le devozioni. Oggi è cruciale farla nascere, anzi – cosa ancora più difficile – farla rinascere in coloro che, per varie ragioni, l’hanno abbandonata. Per questo non basta una pastorale di conservazione. Ne occorre una di evangelizzazione o di ri-evangelizzazione, alle quali non sempre siamo preparati e formati. Viviamo in un tempo in cui occorre tornare a seminare per la prima volta o bisogna farlo per la seconda. Occorre aiutare le persone, i giovani, i ragazzi, i non credenti, ad incontrare per davvero Gesù, non tanto come una dottrina da apprendere, non come una persona da studiare o da analizzare in laboratorio, ma da amare! O diventiamo evangelizzatori appassionati o ci riduciamo a freddi professionisti della Parola, del sacro. Dobbiamo essere discepoli innamorati di Gesù, e questo in ogni periodo della nostra vita. Conta l’unione a Lui, l’essere cuore a cuore con Lui, costantemente, ora dopo ora. Minuto dopo minuto. Occorre essere completamente suoi.

Cari Seminaristi, in un mondo in cui sono di più le ombre delle luci, c’è per noi una consolante novità. Sta rifiorendo in non pochi laici la consapevolezza di non essere solo i destinatari o i semplici fruitori dell’insegnamento offerto dai pastori ma i nuovi protagonisti di una nuova evangelizzazione. I laici non si sentono più truppe di riserva. Ebbene, cari Emanuele, Marco e Michele, mentre vi donate al Signore abbiate coscienza di non essere da soli a lavorare nella vigna del Signore. Crescete con l’intento di raccordarvi con altri operai-evangelizzatori, mandati dal Signore in campi ricchi di messe. Una chiesa più popolata da vocazioni forti, non solo sacerdotali ma anche laicali e religiose, è più bella, più giovane, più ricca di gioia contagiosa: la gioia di vivere Cristo, salvezza e speranza del mondo intero.

OMELIA per la PASQUA dello SPORTIVO
Faenza, Basilica Cattedrale - 4 aprile 2016
04-04-2016

Cari ragazzi e giovani, cari responsabili ed associazioni,
quest’anno celebriamo la Pasqua dello Sportivo il giorno dell’Annunciazione del Signore, ovvero della sua comparsa in questo mondo, della sua incarnazione. In sostanza, oggi la Chiesa desidera ricordarci che Gesù viene ad abitare tra noi, assumendo la nostra condizione umana. Egli incomincia ad esistere come uomo nel grembo di Maria di Nazareth, sua mamma, che dice di sì all’angelo Gabriele che glielo propone a nome di Dio. Venendo tra noi Dio chiede il nostro assenso.
La Chiesa pone la solennità dell’incarnazione di Gesù, ossia dell’inizio della gestazione di Gesù bambino, a circa nove mesi dalla sua nascita che, come sapete, avviene a Natale.
Ma cosa viene a fare Gesù sulla terra?
Viene ad insegnarci il mestiere di uomo o di donna, ad essere cioè persone vere ed autentiche, oneste e buone, come Lui desidera da noi, come Lui è stato.
Come? Presentandosi come Colui che vince il male e il peccato vivendo in piena comunione con Dio, mettendo in gioco se stesso: E cioè impegnandosi personalmente, e offrendo non olocausti, sacrifici per il peccato, perché è impossibile che il sangue di tori e di capri lo elimini, ma offrendo se stesso.
Nel brano tratto dalla Lettera agli Ebrei troviamo espresso il pensiero di Cristo che entra nel mondo facendosi uomo. Egli dice: «Tu [Dio] non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato». Allora ho detto: «Ecco, io vengo […] per fare la tua volontà».
L’Autore della Lettera agli Ebrei spiega: «Dopo aver detto: “Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato”, cose che vengono offerte secondo la Legge (antica), soggiunge: “Ecco, io vengo a fare la tua volontà”. Così egli abolisce il primo sacrifico per costituire quello nuovo».
Domanda: qual è il nuovo sacrificio, diverso da quelli nei quali si versa il sangue di tori e di capri e che non eliminano i peccati? È l’offerta di Gesù al Padre, aderendo alla sua volontà. Il nuovo sacrifico è compiuto da Gesù con la sua vita stessa che è un’esistenza pienamente conforme alla volontà di Dio Padre.
Cari ragazzi e giovani, noi compiamo il nostro sacrificio, gradito a Dio Padre, quando gli offriamo noi stessi interamente, rispondendo al suo amore amandolo con tutte le nostre forze, con tutto il nostro cuore, come ha fatto Gesù.
Cosa vuol dire questo in concreto? Significa che praticando il mio sport devo rimanere unito a Gesù, non separandomi da Lui, compiendo sempre quello che desidera Dio da me. Tutti i minuti della mia vita di sportivo, ma non solo, devono essere vissuti con Gesù, che si è impegnato e si impegna con me a lottare contro il male sino a morire.
Vuol dire che quando indosso la mia divisa sportiva e lascio gli indumenti abituali, appesi all’attaccapanni o nella cassetta a me riservata, nello spogliatoio, non devo appendervi o deporvi anche il mio essere di Cristo, la mia fede. Mentre gioco, mi diverto, scherzo e socializzo con i miei compagni o compagne; mentre mi misuro con l’obiettivo della vittoria e faccio il gioco di squadra, cercando di coordinarmi nel miglior modo con gli altri per battere la squadra avversaria, non devo dimenticarmi che faccio tutto questo con uno stile e con un comportamento che è quello di uno che crede, e per il quale i propri compagni ed anche i propri avversari non sono nemici da abbattere, bensì amici da sfidare: anzi, di più: sono fratelli da rispettare ed amare.
Lo sportivo cristiano, co-risorto con Cristo a vita nuova, gioca, si diverte, si coordina con i compagni come tutti gli altri atleti, ma porta in sé uno spirito e una sensibilità diversi. Anche quando scende in campo o in acqua, nella piscina, chi crede sa che è bello poter giocare e divertirsi senza creare nessun danno o offesa agli altri. Posso sì infliggere una sconfitta sportiva, ma mai posso calpestare la dignità o la fede degli altri e nemmeno posso far del male fisico o spirituale con comportamenti irresponsabili e volgari.
Le gare agonistiche sono per temprare il nostro corpo, per renderlo più sano, per allenarsi a lottare nella vita e nella società tutti insieme contro il male, l’ingiustizia, il danno ambientale, per la libertà di tutti. Nella vita ci sono beni ben più importanti e più alti di quelli che ci propone lo sport. Basti pensare alla difesa della vita, della famiglia, del lavoro, della giustizia, della pace. Da uomini e da donne cristiani dobbiamo, ad esempio, impegnarci a collaborare, a fare gruppo compatto non solo per vincere una partita o una gara sportiva, nella quale, in definitiva ci si amalgama in vista di una vittoria che consente di conseguire punti in classifica, di ricevere un riconoscimento come una targa o una coppa o trofeo. Nella società di oggi siamo e saremo sempre più chiamati a collaborare e ad armonizzarsi per il bene umano, civile e culturale dei propri simili o concittadini.
Su questo piano, come credenti, siamo invitati a diventare responsabili della crescita umana e spirituale dell’altro, di tutti gli altri, anche degli avversari, ricercando costantemente il bene comune, il bene di tutti.
Durante la santa Messa uniamoci a Gesù, al suo sacrificio, ossia al suo offrirsi al Padre, per fare squadra tra noi tutti e con Lui, il nostro «capitano», per essere  più affiatati nell’impegno per il bene nostro e dell’umanità intera.

OMELIA per la II domenica di PASQUA (Domenica della Divina Misericordia)
Faenza, Basilica Cattedrale, 3 aprile 2016
03-04-2016

Abbiamo portato il Crocifisso della Chiesa dei Cappuccini sin qui, in cattedrale, con grande concorso di popolo. Questa processione è avvenuta per vivere come parrocchie della città il Giubileo della Misericordia nel contesto della Pasqua.

La risurrezione non annulla la croce, vertice dell’amore misericordioso.

Un tempo ai piedi del Crocifisso dei Cappuccini, incarnazione e visibilizzazione della misericordia divina, accorreva tutta la Diocesi, con flussi continui di persone, di famiglie, di associazioni. Il Crocifisso era considerato polo di attrazione e di rigenerazione della vita cristiana, professata e testimoniata nel territorio. Diversi frati confessavano senza soste, accompagnavano spiritualmente il popolo, contribuivano a corroborarlo e a trasfigurarlo mediante soprattutto il sacramento della riconciliazione e la ricchezza umana e cristiana delle loro persone. Tant’è che alcuni di essi sono morti in concetto di santità e sono avviati i processi per il riconoscimento delle loro virtù eroiche.

Vivere il Giubileo cittadino della misericordia, proprio nella II domenica di Pasqua, dedicata da san Giovanni Paolo II alla celebrazione della misericordia, assume per le nostre comunità parrocchiali in significato del tutto particolare. Riunite attorno al Crocifisso intendono rinnovare il loro impegno di essere missionarie della misericordia, mediante una nuova evangelizzazione che consente il reincontro o l’incontro con Gesù; mediante una conversione spirituale e pastorale; mediante una testimonianza credibile, ponendo dei segni di misericordia. Quali segni? Abbiamo ascoltato dagli Atti degli apostoli il fervore e l’impegno apostolico della prima comunità dei credenti (cf At 5, 12-16). Per opera degli apostoli avvenivano fra il popolo «molti segni e prodigi», così che la gente li esaltava. Crescevano i credenti: una moltitudine di uomini e donne si aggregano alla piccola comunità degli apostoli. Ad essi erano portati ammalati, persone tormentate da spiriti impuri e venivano guariti. Domandiamoci: le nostre comunità sono oggi, nel tessuto cittadino ed extra urbano centri di guarigione per gli uomini e le donne di oggi, spesso disorientate e scoraggiate nel compiere il bene, nell’annunciare Gesù Cristo? Noi siamo individuabili e apprezzati attraverso segni e prodigi compiuti con l’aiuto del Signore? Oppure siamo comunità stanche, scolorite, incapaci di guarire e rigenerare le persone, poco significative per la gente, per la cultura? Il Crocifisso è additato ancora nelle nostre famiglie come segno di vita nuova e di vittoria sul peccato, su una vita disimpegnata, piegata verso il consumismo materialista o vittima dei nuovi idoli come la tecnocrazia, il profitto a breve termine?

La sera di Pasqua – come narra il Vangelo odierno (Gv 20, 19-31) – il Crocifisso-Risorto – Gesù portava su di sé i segni della sua Passione – entrò nella stanza chiusa ove si trovano sbarrati i discepoli per timore dei Giudei. Stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Aggiunse: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Ma non li invia da soli. Infatti, soffiò su di loro e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo». Sono pochi, ma con loro c’è, dunque, Gesù Cristo, il suo Spirito, che è un amore misericordioso, che vuole offrire il perdono di Dio. Così arricchiti ed amalgamati, come piccola comunità, il loro mandato diventa un invio per il perdono: «a coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati». Da persone timorose diventano coraggiosi. Escono e si presentano alla gente, predicando e operando meraviglie nel nome di Gesù Cristo morto e risorto. Diventano comunità «in uscita», ricca di opere.

A ben riflettere, le nostre comunità hanno scritta in sé una vocazione e una missione: manifestare e comunicare il perdono di Dio, la sua «vendetta» singolarissima. Infatti, Egli non vuole la morte o l’annientamento del peccatore, di chi sbaglia, bensì che si penta, cambi esistenza e viva! Mediante la sua misericordia, donata mediante Cristo, Dio guarisce e rigenera il peccatore, l’umanità. Fa nuove le persone, le rende più capaci di amore e di perdono, ossia capaci di «risuscitare» i propri fratelli con la sua Vita donata, perché in definitiva il dono della sua misericordia equivale al dono della vita divina. Noi possiamo compiere prodigi, guarigioni non grazie solo a noi stessi, ma con Gesù, il suo Spirito.

Le comunità cristiane sono presenti nel tessuto cittadino per generare un nuovo stile di vita, per divenire centri e luoghi di rinascita morale, spirituale e culturale, per essere, in questo modo, creatrici di nuove relazioni, diffusive di speranza. Assiepandosi attorno al Crocifisso, che rimane perennemente in mezzo a noi come Colui che si dona totalmente ed è con le braccia aperte non in segno di resa ma di accoglienza, attingono dal suo Spirito e dal suo fianco squarciato energie nuove, possibilità di ricominciare, di rinascere. Si rinasce morendo al peccato, al male, all’apatia nell’annuncio del Vangelo, alle chiusure, all’odio, all’inimicizia, alla violenza, ai conflitti. Dal Crocifisso viene capacità di fedeltà e di dono per le nostre famiglie, per le comunità religiose, per le associazioni, i movimenti, le nostre parrocchie, per il volontariato, per la Caritas, per l’attività di servizio agli ammalati, ai profughi, per la vita nascente. Quanto abbiamo bisogno della misericordia di Dio! Quanto abbiamo bisogno di vivere e comunicare nelle nostre relazioni, agli altri – al povero, ai bambini, agli anziani, ai fratelli e alle sorelle, allo straniero – la misericordia di Dio, la sua tenerezza. Ognuno di noi ne ha bisogno e ne ha un diritto! A noi, figli e figlie di Dio, spetta il Suo amore misericordioso. Per noi, però, non dimentichiamolo mai, c’è un dovere di misericordia. Guai a noi se non fossimo annunciatori e testimoni di misericordia. Noi stessi finiremmo per vivere in città contrassegnate dall’indifferenza e dall’ostilità.

Siamo come il Risorto, il capo del Corpo che è la Chiesa, comunità risorte, capaci di generare e di rigenerare, di guarire e di offrire speranza alla nostra città e ai suoi abitanti, caratterizzati dalla molteplicità delle fedi e delle culture.

Sia lodato il Crocifisso-Risorto, che salva il mondo!

OMELIA per la MESSA di PASQUA 2016
Faenza, Basilica Cattedrale - 27 marzo 2016
27-03-2016

Come abbiamo ascoltato dagli Atti degli apostoli, i componenti della prima comunità dichiarano di essere stati testimoni della presenza di Cristo in mezzo a loro come Colui che ha beneficato e risanato tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con Lui. Essi affermano di essere stati testimoni anche della sua crocifissione e che Dio lo ha risuscitato il terzo giorno. L’esperienza della risurrezione di Cristo trasforma gli apostoli da persone impaurite e timorose a testimoni coraggiosi. Diventano popolo, una comunione di persone nuove. Hanno la consapevolezza di dover compiere una missione nel mondo: annunciare e testimoniare la forza redentrice e trasfiguratrice dell’Amore di Cristo, morto e risorto.

Viviamo anche noi la Pasqua non come una semplice cerimonia di stagione. La risurrezione va ritrovata con stupore, ri-sperimentata dentro di noi, ri-alimentata ogni giorno. Va mostrata agli altri, irradiata dal proprio essere-agire, incarnata nel quotidiano, ventiquattro ore su ventiquattro.

«Se voi siete risuscitati insieme con Cristo – scrive san Paolo ai cristiani di Colossi – cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2). «Le cose di lassù» non sono realtà che si trovano al di là dell’ultima galassia o al di là della storia dell’uomo, ma sono le «cose del Regno di Dio», le realtà più importanti, che durano sempre, e cioè la comunione con Dio, la sua vita in pienezza. Noi, dunque, dobbiamo vivere su questa terra con lo sguardo rivolto alle realtà che dureranno sempre e ci riempiranno di gioia. Queste cose saranno il nostro guadagno definitivo, la nostra paga per tutto quello che avremo fatto di buono.

Noi siamo attesi in paradiso, nella città di Dio. In Cristo, che siede glorioso nei cieli, è, dunque, preparato per l’umanità un approdo definitivo, di stabilizzazione nel bene e nella vita piena. La nostra vita non è destinata a finire in una tomba, in un pugno di cenere. Non è per il nulla, come insegnava, il filosofo francese Jean Paul Sarte. Siamo, invece, esseri per la vita, incamminati verso un futuro di pienezza. I credenti sanno che con-morti, con-sepolti, con-risorti in Cristo non vanno incontro ad un’esistenza diminuita ed indebolita, come quella delle ombre umane che vivono nell’Ade degli antichi. Vanno verso una vita potenziata, nella quale le loro facoltà di conoscenza e di amore sono accresciute dalla comunione con Dio, Sommo Bene, Verità e Bellezza supreme.

Proprio perché siamo pellegrini verso una dimora definitiva, la città di Dio, san Paolo, come già accennato, sollecita la comunità cristiana e tutti noi a guardare non alle cose passeggere, caduche, contingenti, bensì a quelle definitive, e quindi a volgere lo sguardo verso il futuro che è Dio stesso, il futuro più certo.

Se, dunque, grazie alla risurrezione, siamo destinati alla pienezza umana che abita in Cristo glorioso, se il bene da noi compiuto su questa terra viene ad essere stabilizzato da Cristo, vale la spesa soffrire per esso, vale la pena lottare perché sia vinto il male. Non è inutile combattere contro la corruzione e illegalità che oggi ammorbano la vita sociale. Vale la spesa impegnarsi affinché la politica sia un servizio al bene comune e non agli interessi particolari. Ogni fatica per sconfiggere le cause strutturali della povertà viene premiata. Ogni sacrificio è compensato. Nulla andrà perduto del bene che si riuscirà ad imprimere nelle istituzioni. Tutto ciò che di positivo viene fatto qui in terra sarà recuperato e conservato. E, inoltre, possiamo sempre sperare nonostante tutto. La vittoria di Cristo sul male ci dà la certezza che noi possiamo sempre ancora sperare, anche se per la nostra vita singola o per il momento storico che stiamo vivendo non abbiamo molto da sperare. Solo la certezza che, nonostante tutti i fallimenti, la nostra vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell’Amore di Cristo risorto – e, grazie ad esso, hanno un senso e un’importanza -, solo una tale certezza può dare ancora il coraggio di operare e di proseguire sulla strada del dono, anche quando si è giunti allo stremo.

Poiché Cristo ha vinto il male e la morte, è possibile il bene, una nuova umanità più fraterna, giusta e pacifica. Dobbiamo, allora, non essere tristi, senza speranza. Per vivere nella gioia, dobbiamo, però, come sollecita a fare san Paolo, togliere da noi il «lievito vecchio», per essere pasta nuova. La risurrezione di Cristo – spiega sant’Agostino – si realizza in noi se viviamo bene, se muore la vita cattiva, e la vita nuova progredisce ogni giorno (cf Sermones 232, 8; PL 38, 1111-1112).

La risurrezione ha trasformato gli apostoli, facendoli passare dalla paura al coraggio, dal desiderio di nascondersi alla determinazione di esporsi, dall’atteggiamento della rinuncia a quello della proposta. Un simile cambiamento avvenga nelle nostre comunità, nelle nostre famiglie. Dobbiamo, allora, augurare una Buona Pasqua alle nostre comunità cristiane: ritrovino la freschezza e la gioia del primo annuncio della comunità primitiva, quando questa era appena un seme! Così, le nostre famiglie non abbiano la paura di testimoniare la ricchezza e la bellezza della loro vita di relazione affettiva e di condivisione, arricchite dall’amore totale e fedele di Cristo.

Ci auguriamo, però, una Buona Pasqua anche per la società.

Buona Pasqua, allora, ai nostri giovani, perché sappiano scorgere in Cristo l’umanità in pienezza, la sorgente della loro felicità.

Buona Pasqua alla finanza, perché sappia ritornare a svolger più pienamente la sua funzione, e cioè ad offrire un credito sicuro alle famiglie, alle imprese, ai giovani e alle donne che intendono aprire una nuova attività imprenditoriale.

Buona Pasqua all’economia: sia amica delle persone, sia un’economia onesta e non un’economia che uccide. Sappia vincere la tentazione di scivolare verso gli affari facili, verso la delinquenza, verso l’idolatria del profitto a breve termine.

Buona Pasqua alla politica, perché sia fedele al compito di servire il bene comune e sia capace di aiutare la gente a riappropriarsi della democrazia, varando soprattutto politiche attive del lavoro, antidoto alla povertà e titolo di partecipazione.

Buona Pasqua al mondo del volontariato, della cooperazione: trovino nuove forme di iniziativa per combattere, come ha chiesto papa Francesco, la «cultura dello scarto», per portare la cooperazione sulle nuove frontiere del cambiamento.

Buona Pasqua alla cultura e all’educazione: siano in grado di smantellare quell’individualismo libertario che distrugge lo Stato di diritto e pone le premesse per svuotare la libertà, riducendola a libertà che non si prende cura dell’altro, ossia a libertà slegata dalla verità e dal bene altrui, troppo insufficiente per costituire una nuova Europa fondata sulla solidarietà.

Buona Pasqua al mondo intero, all’Europa incapace di darsi alti ideali e percossa da un terrorismo assassino. Cristo risorto apra a tutti la via della libertà, della giustizia e della pace. La sua luce vinca le tenebre dell’odio e della violenza.

Cristo risorto, presente nell’Eucaristia, ci porta verso nuovi cieli e terra nuova. Pur consapevoli della vittoria finale, viviamo in un mondo ferito. L’Eucaristia sia per noi viatico, pane che ci sostiene nel risanarlo, nel renderlo migliore. Partecipiamo al sacrificio di Gesù diventando più fraterni e giusti.

OMELIA per la VEGLIA PASQUALE 2016
Faenza, Basilica Cattedrale - 26 marzo 2016
26-03-2016

In questa Veglia Pasquale – la Veglia più solenne dell’anno, chiamata anche madre di tutte le veglie – stiamo ri-vivendo l’inizio della nuova creazione, la redenzione di Cristo.

La liturgia ci aiuta a cogliere questi eventi straordinari attraverso alcuni segni. Essi ci consentono di partecipare ai grandi misteri della fede non solo con la ragione ma anche con la percezione del nostro essere corporei. Sono in particolare tre: la luce, l’acqua e il canto dell’alleluia. Indicano una realtà unica, tragica e stupenda insieme: la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. È proprio Gesù Cristo, morto e risorto, che inaugura una nuova creazione, nella quale l’umanità, da Lui assunta, passa da morte a vita. L’umanità peccatrice co-muore e co-risorge con Gesù. È arricchita della sua capacità di amare e di perdonare, di vivere immortale.

La Veglia Pasquale è iniziata con il simbolo della luce, più precisamente del fuoco. Ci siamo posti attorno ad un fuoco che ardeva e lo abbiamo benedetto. Per noi credenti, la fiamma del fuoco rappresenta il mistero di luce che è Cristo, che si distacca da Dio e viene nel mondo per illuminarci. Al fuoco che crepitava e fiammeggiava abbiamo acceso il cero pasquale, che è stato portato processionalmente nel presbiterio, perché resti lì sino a Pentecoste, quale simbolo di Cristo, luce della Chiesa e del mondo, principio e fine della storia, cuore di un mondo ricreato mediante la vittoria sulla morte e sul peccato.

Dal cero pasquale, ossia da Cristo, abbiamo attinto la luce della nostra candelina, ricordando il nostro Battesimo: passaggio da morte a vita, ingresso nella vita luminosa di Cristo, vittorioso sulle tenebre. Il cero pasquale arde consumandosi, in un intreccio inseparabile di morte e risurrezione. Ci ricorda come Cristo donandosi totalmente al Padre diviene per noi modello di umanità nuova: nuova perché in piena comunione con Dio-Amore; nuova, perché colmata dalla capacità di donarsi totalmente e di perdonare. Il cero che, mentre si consuma illumina, ricorda una cosa fondamentale per il credente: si diventa luce per gli altri quando si vive donando se stessi e quando la propria esistenza viene impostata come un pro-essere incessante, vissuto in Cristo, per Lui.

San Pier Damiani, le cui spoglie mortali sono ospitate nella nostra maestosa cattedrale, soleva ripetere che il cero pasquale arde e si consuma in mezzo all’assemblea per la gioia dei credenti. Guardando al cero acceso essi vedono Cristo che continua il dono di sé per la redenzione di tutti, piccini e grandi. Grazie a Cristo, che è la Verità che illumina e ci fa liberi, possiamo essere persone di luce, ossia persone in grado di discernere il bene dal male, il vero dal falso; persone che non solo li vedono e li riconoscono ma anche li scelgono e li vivono; persone che per affermarli in se stessi e nelle istituzioni sono disposti a morire perché li apprezzano, ma soprattutto per amore di Cristo.

Il cristiano, come soleva ripetere don Oreste Benzi, vedono in Cristo il loro Tutto. Essi non sono tanto innamorati delle idee del bene e del vero ma di Cristo. Essi non si innamorano delle virtù, della povertà, ma di Cristo che, «pur essendo ricco, si è fatto povero per noi» (2 Cor 8,9). Noi cristiani non dobbiamo essere innamorati delle nostre opere e delle nostre istituzioni, pur importanti e necessarie per testimoniare il nostro servizio all’uomo, ma soprattutto di una Persona, che è Gesù Cristo. Don Oreste diceva anche: «Il Signore non vuole tanto dei facchini che sgobbano per Lui, ma vuole degli innamorati che agiscono e vivono per Lui, con Lui e in Lui». Noi diventiamo luce per il mondo quando il nostro io è immerso in quello di Gesù Cristo, ossia quando noi riusciamo a far vedere agli altri quanto siamo innamorati di Lui.

Il secondo simbolo della Veglia Pasquale è l’acqua, nella sua duplice valenza, negativa e positiva. L’acqua simboleggia il mare, elemento di morte e, in particolare, della morte in croce di Gesù: Cristo è disceso nel mare, nell’acqua della morte come Israele nel Mar Rosso. Risorto dalla morte, Egli ci dona la vita. Ciò avviene nel Battesimo. La Veglia Pasquale è la notte per eccellenza del Battesimo, ossia del passaggio dalla morte del peccato alla vita dei figli di Dio.

Ma l’acqua simboleggia pure la vita. Le sorgenti d’acqua fresca donano vita ai campi, al deserto. Nella Chiesa primitiva il Battesimo doveva essere amministrato con acqua sorgiva fresca. Senza acqua non c’è vita. Così, per il credente, senza Cristo non c’è vita. Da Lui sgorga il grande fiume che nel Battesimo rinnova il mondo e lo fa fruttificare. Nel Battesimo il Signore fa di noi non solo persone di luce, ma anche sorgenti dalle quali scaturisce acqua viva. Come ha scritto papa Benedetto XVI «non dobbiamo necessariamente pensare ai grandi come Agostino, Francesco d’Assisi, Teresa d’Avila, Madre Teresa di Calcutta e così via, persone attraverso le quali veramente fiumi di acqua viva sono entrati nella storia. Grazie a Dio, le troviamo continuamente anche nel nostro quotidiano: persone che sono una sorgente. Certo, conosciamo anche il contrario: persone dalle quali promana un’atmosfera come da uno stagno con acqua stantia o addirittura avvelenata. Chiediamo al Signore, che ci ha donato la grazia del Battesimo, di poter essere sempre sorgenti di acqua pura, fresca, zampillante dalla fonte della sua verità e del suo amore»! (Omelia Veglia Pasquale 11 aprile 2009).

Il terzo grande simbolo della Veglia Pasquale è di natura tutta particolare; esso coinvolge l’uomo stesso. È il cantare il canto nuovo – l’alleluia. Nella Veglia Pasquale, anno per anno, noi cristiani intoniamo dopo la terza lettura questo canto, lo cantiamo come il nostro canto, perché anche noi, mediante la potenza di Dio, siamo stati tirati fuori dall’acqua e liberati alla vita vera. 

Partecipando alla liturgia pasquale di questa Veglia lasciamoci attrarre dalla luce di Cristo. Entriamo sempre più nel suo campo gravitazionale per diventare offerta pura, santa, immacolata; per essere uomini e donne pasquali, testimoni gioiosi del Risorto!

OMELIA per la celebrazione del VENERDI’ SANTO
Faenza, Basilica Cattedrale - 25 marzo 2016
25-03-2016

Ci siamo radunati attorno alla Parola di Dio per celebrare la passione e la morte in croce di Gesù. Potremmo dire che oggi è già Pasqua. È il primo giorno del Triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto.

Nel cuore di questa celebrazione della passione si staglia il Crocifisso sulla croce: centro di tutta l’attenzione, sintesi della rivelazione del volto di Dio, manifestazione della misericordia del Padre. Tutto sgorga dall’Uomo della croce che, innalzato, attira tutti a sé. Tra poco, nel suggestivo rito dell’adorazione della croce, tutti ci metteremo in cammino verso la croce sulla quale è inchiodato il Crocifisso. Questo essere attirati dal Crocifisso, l’andare tutti ai suoi piedi, il manifestare con intensità la propria vicinanza al Signore crocifisso e abbandonato, sono gesti centrali nella nostra fede. Sono gesti che riusciamo a compiere contemplando il cuore trafitto: “uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua” (Gv 19,34). Nell’anno del Giubileo straordinario della misericordia siamo invitati a “volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37). In Gesù che muore per noi riconosciamo che Dio ha per ciascuno di noi un cuore ricco di misericordia. Ma dobbiamo comprendere bene che “La misericordia di Cristo non è una grazia a buon mercato, non suppone la banalizzazione del male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto il peso del male, tutta la sua forza distruttiva. Egli brucia e trasforma il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente. Il giorno della “vendetta” e l’anno della misericordia coincidono nel mistero pasquale, nel Cristo morto e risorto. Questa è la “vendetta” di Dio: egli stesso, nella persona del Figlio, soffre per noi. Quanto più siamo toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà con la sua sofferenza – diveniamo disponibili a completare nella nostra carne “quello che manca ai patimenti di Cristo” (Col 1,24). (Joseph Ratzinger, omelia Missa pro eligendo Romano Pontifice, 18.04.2005). Per mezzo dell’acqua e del sangue sgorgati dal suo cuore trafitto, noi siamo purificati dai nostri peccati, dalle nostre umane miserie e possiamo dire con S. Ignazio di Loyola: “Sangue di Cristo, inebriami; acqua del costato di Cristo, lavami” (dalla preghiera Anima Christi di S. Ignazio).

Meditando sulla Passione del Signore, il filosofo Blaise Pascal scrisse un giorno queste parole: “Cristo è in agonia fino alla fine del mondo: non bisogna dormire durante questo tempo”. Non possiamo dormire se pensiamo alle piaghe sociali del nostro tempo: la fame, la povertà, l’ingiustizia, le diseguaglianze, gli immigrati che fuggono disperati da casa, lo sfruttamento dei deboli, gli assassinati dalla mano omicida di terroristi accecati dall’odio? Non possiamo dormire se pensiamo alle sofferenze di tanti nostri fratelli nella fede: alle torture inflitte a sangue freddo da esseri umani ad altri esseri umani, perfino a dei bambini. Quanti, nel mondo, si trovano nelle stesse condizioni di Gesù sulla croce: soli, derisi, insultati, in balìa di persone piene di odio, che si abbandonano a ogni sorta di crudeltà fisica e psicologica, accanendosi sui propri fratelli.

I cristiani non sono certamente le sole vittime della violenza omicida che c’è nel mondo, ma non si può ignorare che in molti paesi essi sono le vittime più frequenti. Chi ha a cuore le sorti della propria religione, non può rimanere indifferente a tutto ciò. Gesù disse un giorno ai suoi discepoli: “Viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere onore a Dio” (Gv 16,2). Mai, forse, queste parole hanno trovato, nella storia, un compimento così puntuale come oggi.

Eppure, nonostante tutto, in questo venerdì santo, siamo esortati ad assumere l’atteggiamento del perdono; Gesù morì gridando: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Questa preghiera non è semplicemente mormorata a fior di labbra, ma è gridata perché tutti la possano sentire ed è fatta con l’autorità che gli viene dall’essere il Figlio: “Padre, perdona loro”. E poiché lui stesso ha detto che il Padre ascoltava ogni sua preghiera (Gv 11,42), dobbiamo credere che ha ascoltato anche questa sua ultima preghiera dalla croce per i suoi crocifissori, a testimoniare fin dove è stato capace di spingersi l’amore di Dio. Il suo esempio propone a noi, suoi discepoli, una generosità senza limiti. Il Signore non ci ha dato solo il comando di perdonare e neppure soltanto un esempio eroico di perdono; con la sua morte ci ha procurato la grazia che ci rende capaci di perdonare. Egli non ha lasciato al mondo solo un insegnamento sulla misericordia, come hanno fatto tanti altri. Egli, essendo anche Dio, ha fatto scaturire per noi dalla sua morte fiumi di misericordia. Da essi possiamo attingere a piene mani nell’anno giubilare della misericordia che stiamo vivendo, accostandoci al sacramento della Riconciliazione, perdonando chi ci ha calunniato ed offeso, trasfigurando la nostra vita con l’amore di Cristo.

OMELIA PER LA MESSA CRISMALE 2016
24-03-2016

Cara Eccellenza Mons. Claudio Stagni, cari presbiteri, diaconi, religiosi e religiose, fedeli laici, cari ministranti,

la Messa crismale di quest’anno è inserita nel Giubileo della Misericordia. Come abbiamo programmato da tempo, in questa Eucaristia, desideriamo celebrare, in particolare, il Giubileo del presbiterio. Come ho scritto nella Lettera pastorale una via di misericordia per il clero diocesano potrà essere, oltre alla preparazione dell’apertura della nuova casa per il clero e l’insediamento della Caritas nella nuova sede, nonché l’offerta di attenzione premurosa e fraterna ai sacerdoti in difficoltà e in situazione di fragilità per malattia o anzianità, fare assieme al vescovo esperienza comunitaria di misericordia, per testimoniare alla propria gente come i sacerdoti vivono la misericordia del Signore tra loro e verso il popolo di Dio.

Eccoci, allora, qui per la Messa crismale e per il Giubileo del presbiterio. Siamo già passati attraverso la porta santa. Apriamoci alla misericordia di Dio per essere misericordiosi come il Padre. Chiediamo perdono al Signore per i nostri peccati, soprattutto con riferimento agli impegni assunti con l’ordinazione sacerdotale verso il popolo di Dio e tutte le sue componenti. Perdoniamoci reciprocamente, se vi sono state incomprensioni, gelosie, rivalità, diffidenze, chiusure, incapacità di dialogo e comunicazione, di vivere nella comunione. Perdoniamoci, per essere missionari autentici della misericordia, ossia segno che dice la presenza di Dio che accompagna il cammino dell’uomo, e che si avvicina, in particolare, all’uomo ferito dal male, per sostenere la fatica del viaggio.

Cari sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, fedeli laici, la nostra missione di annunciatori gioiosi di Cristo risplende meglio, davanti a tutti, ed è più efficace, quando noi per primi mostriamo un’esistenza riconciliata con Dio e tra noi. Il Vangelo si diffonde più facilmente quando testimoniamo unità, sincerità nei rapporti, schiettezza, accoglienza, aiuto reciproco. Siamo chiesa «in uscita», ovvero missionaria, soprattutto così: mediante l’ostensione – non l’ostentazione – di una vita di gratuità e di fraternità sacerdotale. Il presbiterio, oltre che essere una comunità a servizio di Cristo per predicare e santificare i credenti, mediante i sacramenti della fede, è famiglia e comunione di fratelli, che condividono la gioia di esserlo: una gioia che cresce e si moltiplica lavorando insieme per donare il Vangelo. Si è felici quando, dopo aver lavorato intensamente nella vigna, si alza la testa per asciugare il sudore con il dorso della mano e si scorgono attorno i frutti copiosi che il Signore fa germogliare e maturare, grazie anche al nostro impegno missionario. La gioia, in particolare, trabocca se si vedono venire avanti giovani operai per la messe che, nelle nostre terre, grazie a Dio, è sempre abbondante, nonostante il calo demografico.

Non dimentichiamo che riusciremo a trovare in noi risorse insospettate, per una fatica più lunga, quando ci doteremo di un progetto pastorale – sia diocesano sia a livello di vicariati -, volto non solo alla conservazione dell’esistente ma a coltivare credenti e comunità per il futuro di questa diocesi. Occorre che pensiamo ad educare i credenti a costruire l’edificio della loro vita in Cristo. Allora sì che la loro fede sarà capace di evangelizzare persone, istituzioni, culture e stili di vita.

Siamo sicuri che la grazia del Signore non verrà mai meno. Ma siamo anche sicuri che ci attende un domani contrassegnato – se le cose non cambiano – da presenze sempre più esigue di credenti, come anche di vocazioni sacerdotali e religiose. L’aiuto di Dio non è venuto meno nelle regioni nordafricane, oggi pressoché deserte di comunità cristiane. Forse, assieme a condizioni storiche particolari, lì è scemato il coraggio di testimoni credibili ed intraprendenti. Detto altrimenti, non può mancare, da parte nostra, una fede viva ed incarnata, una fede propositiva e costruttrice di nuove presenze, relazioni e istituzioni. Non può essere assente, soprattutto, la nostra passione missionaria. Nella nostra Regione in cui la fede è stata seminata da santi fin dai primissimi secoli del cristianesimo, l’attività missionaria rappresenta, ancor oggi, la massima sfida per la Chiesa. Non possiamo rimanere tranquilli, in attesa passiva, dentro la nostra chiesa. Come sollecita papa Francesco nell’Evangelii Gaudium (=EG) «è necessario passare da una pastorale di semplice conservazione ad una pastorale decisamente missionaria» (EG n. 15).

Occorre accedere, passando attraverso l’esperienza della Misericordia di Dio, ad una nuova tappa dell’evangelizzazione, come ho anche sottolineato nella Lettera pastorale. Annunciare e testimoniare la misericordia implica fervore e dinamismo nella trasmissione della fede cristiana, conversione nella prassi pastorale, rilancio dell’educazione alla vita nuova secondo il Vangelo. Non dimentichiamo quello che ci dicono i sociologi e cioè che ogni giorno di più, in mezzo alla nostra società così intelligente e dotata di nuovi mezzi di comunicazione, si diffonde l’analfabetismo religioso. La celebrazione del Giubileo della misericordia deve essere per noi un’occasione di annunciare il messaggio della fede con nuovo zelo e con rinnovata gioia.

In sintonia con la Chiesa italiana ci siamo dati l’impegno di verificare, specie mediante il consiglio pastorale e presbiterale diocesani, la ricezione della EG nelle comunità parrocchiali, nei movimenti, nelle associazioni, nelle aggregazioni, nelle unità pastorali e nei vicariati. In particolare, come Diocesi di Faenza-Modigliana, abbiamo scelto l’impegno, oltre al rilancio della missionarietà: a) della revisione dei Centri pastorali e delle strutture amministrative e la loro eventuale riorganizzazione, in modo da renderle più agili ed efficaci, più funzionali rispetto alla priorità pastorale; b) della collaborazione con le persone di buona volontà, per meglio affrontare i problemi sociali sul tappeto, senza dimenticare la necessaria e previa collaborazione tra i vari soggetti ecclesiali, tra i movimenti, le associazioni e le aggregazioni che traggono ispirazione e vitalità dalla comunione con Cristo Gesù.

In questa fase storica della Chiesa che è in Faenza-Modigliana, si è, dunque, anche scelto di porre l’accento sulla dimensione sociale dell’evangelizzazione.

L’impegno per la giustizia e i più diseredati è parte essenziale dell’annuncio del Vangelo. I poveri vanno aiutati non solo con piani assistenziali, ma soprattutto mediante lo sradicamento delle cause strutturali della povertà e l’instaurazione di una democrazia inclusiva.

Secondo papa Francesco, in un tempo in cui prevale l’individualismo libertario, che frantuma i legami sociali, è pregiudiziale ritrovare una comune unione morale tra le persone e i popoli, suscitare nuovi ed ampi movimenti. In vista di ciò è sorta la Scuola per la formazione sociale e politica dei giovani credenti e ai primi del prossimo aprile vivremo una Due giorni imperniata sul tema “Per la libertà, insieme”: un’iniziativa quanto mai attuale anche dopo la recente tragedia di Bruxelles. Guardiamo, allora, con simpatia al fatto che varie associazioni, aggregazioni, organizzazioni e movimenti cattolici e di ispirazione cristiana si sono compattati per offrire ed animare una Fiera di buone pratiche intitolata «Giovani e lavoro».

Siamo convinti che una nuova presenza nella società passa attraverso il serrare le file, convergendo in Gesù Cristo, la Verità, che ci rende più liberi. Alla luce di questa fondamentale esperienza di fede è chiaro che potremo trasfigurare il mondo ripartendo sempre dalla preghiera fervorosa, dalla celebrazione dell’Eucaristia. Questa ci costruisce popolo di Dio per la Chiesa e per il mondo.

Diveniamo Eucaristia! Sia proprio questo il nostro costante desiderio e impegno, perché all’offerta del corpo e del sangue del Signore che facciamo sull’altare, si accompagni il sacrificio della nostra esistenza. Ogni giorno, attingiamo dal Corpo e Sangue del Signore quell’amore libero e puro che ci rende degni ministri del Cristo e testimoni della sua gioia. Preghiamo gli uni per gli altri, in particolare per coloro che ammalati non sono qui presenti.

In spirito di fraternità, durante questa celebrazione, ricordiamo e ringraziamo il Signore per il 70° giubileo sacerdotale di S. Em. Card. Achille Silvestrini; il 65° giubileo di: don Alfio Alpi, don Leonardo Poggiolini, Mons. Pietro Magnanini; il 60° del can. Baldassarri Antonio; il 50° di: S. Em. Il Card. Gualtiero Bassetti, di don Romano Baldassarri; il 25° di episcopato di S. Ecc. Mons. Claudio Stagni e il 25° di sacerdozio di don Massimo Goni. Per tanti anni di servizio e di dono al Signore da parte di cardinali, monsignori e presbiteri diciamo: sia lodato Gesù Cristo! Così sia!

OMELIA per la MESSA in COENA DOMINI
Faenza, Basilica Cattedrale - 24 marzo 2016
24-03-2016

Gesù prima di morire ha compiuto un gesto che non solo si è scolpito nella memoria dei suoi discepoli ma di tutta la Chiesa, tant’è che ogni giovedì santo viene ripetuto. Anche questa sera ripeteremo la lavanda dei piedi. Un gesto inatteso da parte di un Dio. Il vescovo Tonino Bello, già vescovo di Molfetta, ha scritto parole memorabili sulla Chiesa del e col grembiule: ovvero su una Chiesa che si abbassa e si rende serva, mostrando nei fatti quanto ha compiuto Cristo stesso. Egli non ha considerato un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso e ha assunto la condizione di un servo. L’unico paramento che Gesù Cristo ha indossato nell’ultima cena è stato proprio un grembiule per lavare i piedi ai discepoli.

La Chiesa che si cinge i fianchi col grembiule e si inginocchia di fronte agli uomini per lavare i loro piedi mostra la sua essenza più propria: essere comunità di persone al servizio dell’umanità non solo con opere di assistenza caritativa, ma soprattutto per offrire la salvezza di Cristo, la vita di Dio. La Chiesa del grembiule è Chiesa della prossimità e dell’accoglienza, è Chiesa che divinizza e trasfigura, che costruisce nella storia un popolo nuovo.

Nel Compendio della Dottrina sociale troviamo spiegato bene la complessità del servizio che la comunità cristiana rende al mondo: «La Chiesa, partecipe delle gioie e delle speranze, delle angosce e delle tristezze degli uomini, è solidale con ogni uomo ed ogni donna, d’ogni luogo e d’ogni tempo, e porta loro la lieta notizia del Regno di Dio, che con Gesù Cristo è venuto e viene in mezzo a loro. Essa è, nell’umanità e nel mondo, il sacramento dell’amore di Dio e perciò della speranza più grande, che attiva e sostiene ogni autentico progetto e impegno di liberazione e promozione umana. La Chiesa è tra gli uomini la tenda della compagnia di Dio — “la dimora di Dio con gli uomini” (Ap 21,3) — cosicché l’uomo non è solo, smarrito o sgomento nel suo impegno di umanizzare il mondo, ma trova sostegno nell’amore redentore di Cristo. Essa è ministra di salvezza non astrattamente o in senso meramente spirituale, ma nel contesto della storia e del mondo in cui l’uomo vive, dove è raggiunto dall’amore di Dio e dalla vocazione a corrispondere al progetto divino» (n. 60).

In breve, il servizio della Chiesa al mondo non si riduce all’opzione preferenziale dei poveri, pur importante. Implica un’azione di liberazione e di umanizzazione su più piani, nei confronti di povertà molteplici: materiali, spirituali, morali, culturali, istituzionali. La diakonia di Cristo, e per conseguenza dei cristiani, nei confronti del mondo, non è uniforme, riducibile all’attività assistenziale, caritativa. Si tratta di un servizio più ampio, in termini di redenzione globale, che si articola in diversi ambiti dell’esistenza.

Nello scorso Convegno della Chiesa italiana a Firenze, il servizio della Chiesa al mondo è stato espresso mediante cinque verbi o cinque vie da percorrere: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare. I cinque verbi indicano le diverse fasi o momenti del servizio che la Chiesa è chiamata a rendere all’umanità per renderla nuova, trasfigurata dall’amore di Cristo. Come ho spiegato nella Lettera pastorale di quest’anno, il servizio della Chiesa, che è riassumibile nell’annuncio e nella testimonianza della misericordia di Dio, va compiuto con riferimento a tutti gli ambiti esistenziali: la famiglia, l’educazione, il lavoro, la finanza, l’economia, la politica, i mezzi di comunicazione sociale, la cultura, la salute, la comunità internazionale. La misericordia, vita di Dio comunicata a noi, va accolta e testimoniata in tutte le attività della nostra esistenza. Accogliendo la vita divina diventiamo capaci di trasfigurare l’umano e di generare nuovi umanesimi nella famiglia, nel lavoro, nell’economia, nella politica.

La lavanda dei piedi dobbiamo, dunque, comprenderla bene. Si tratta di un gesto che implica molto di più di ciò che effettivamente mostra. Non dimentichiamo la risposta di Gesù all’obiezione di Pietro che non voleva che il Cristo – solitamente erano i servi a farlo – gli lavasse i piedi: «Se non ti laverò, non avrai parte con me» (Gv 13, 1-15). Come a dire che se non si fosse lasciato lavare i piedi non sarebbe stato redento, non avrebbe fatto comunione con Lui, non sarebbe stato purificato come persona intera. Gesù assume la condizione di un servo perché i suoi discepoli imparino ad essere umili, apprendano la sua logica di amore, di dono e di servizio. Con la lavanda dei piedi intende dire che essi debbono prodigarsi a servire gli altri non solo con semplici gesti domestici, di cortesia, ma soprattutto offrendo Colui che salva, lo stesso Gesù, che redime amando, lavando sì i piedi, ma soprattutto purificando tutta la persona.

La lavanda dei piedi, pertanto, dev’essere considerato più che un gesto di abluzione rituale o di igiene. È gesto che, stando anche alle parole di Gesù che fanno riferimento ad un «bagno che rende mondi», vuole indicare lo stesso battesimo, che realizza una purificazione integrale, il passaggio dalla morte alla vita nuova del credente.

Ma come abbiamo sentito nell’ultima parte del Vangelo proclamato, Gesù attribuisce al gesto della lavanda ai piedi anche un altro significato che non dobbiamo dimenticare. Dopo aver compiuto quel gesto sconvolgente, sedutosi a tavola, così si rivolge ai discepoli: «Capite quello che ho fatto per voi? […] Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (13,12.14). In questo modo Gesù indica ai suoi discepoli un servizio reciproco, tra fratelli. Lavando i piedi dei discepoli e chiedendo loro di fare altrettanto, Gesù invita anche a confessare a vicenda le nostre mancanze e a pregare gli uni per gli altri per saperci perdonare di cuore. In questo senso, merita ricordare le parole del santo vescovo Agostino che scriveva: «Non disdegni il cristiano di fare quanto fece Cristo. Perché quando il corpo si piega fino ai piedi del fratello, anche nel cuore si accende, o se già c’era si alimenta, il sentimento di umiltà […] Perdoniamoci a vicenda i nostri torti e preghiamo a vicenda per le nostre colpe e così in qualche modo ci laveremo i piedi a vicenda» (In Joh 58,4-5).

Abbiamo bisogno tutti di chiedere a Dio perdono, di perdonarci tra fratelli, vescovo e sacerdoti; tra vescovo, sacerdoti, fedeli laici, insieme. Chiediamo perdono per le mancanze contro la comunione, per le omissioni nell’evangelizzazione, per l’indolenza nel riformare le strutture, per la tiepidezza nell’amare i più poveri, per non aver riconosciuto in loro Cristo stesso. Partecipando a questa eucaristia nella «cena del Signore», in cui è stato istituito anche il ministero sacerdotale, domandiamo perdono per il poco impegno nel discernimento vocazionale. Uniamoci a Cristo, il Sommo sacerdote che dà la sua vita per i suoi. Preghiamolo perché invii operai nella sua messe, e conservi quelli che già lavorano nella vigna: sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, laici e laiche, laici consacrati.

OMELIA per la DOMENICA DELLE PALME 2016
Faenza, Basilica Cattedrale - 20 marzo 2016
20-03-2016

La domenica delle Palme  è il giorno dell’entrata trionfale di Gesù Cristo in Gerusalemme. È accolto come re. Il Vangelo di Luca lo presenta proprio così: «Benedetto colui che viene – il re – nel nome del Signore» (Lc 19, 28-40). Ma noi tutti sappiamo che Egli non viene in questo mondo come un re terreno, come capo di una monarchia o come un comandante di eserciti, come un governatore o un amministratore della giustizia civile. Il compito di Colui che entra nella città cavalcando un asinello è ben diverso rispetto a quello di un capo delle Nazioni. Il suo regno appartiene ad un altro ambito rispetto a quello politico. L’azione di Cristo si pone su un piano prettamente religioso e morale. Egli viene a redimere e a salvare il mondo trasformando le coscienze, senza conquiste territoriali e senza l’uso della forza, dei missili e dei droni. La sua regalità trascende quella dei sovrani che hanno la potestà di comandare secondo ragione, facendo leva sul diritto, utilizzando anche la forza coercitiva.

La regalità di Cristo è quella di Colui che è Figlio di Dio. La sua regalità è data dal suo essere l’Amore di Dio. Cristo è re perché è Dio, è vita divina. Cristo manifesta la sua vera identità e la sua peculiare missione – differenti da quelle di un monarca o di un sovrano umano – in una maniera sconvolgente, per noi impensabile. Pur essendo Dio, si incarna, e non considera un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma svuota se stesso, assumendo la condizione di un servo, facendosi obbediente sino alla morte di croce (cf Fil 2, 6-11).

In tal modo, comunica, all’umanità ferita dal peccato, ed orgogliosa, la stessa vita di Dio, la sua forza di amare, di opporsi al male, al peccato, all’ingiustizia, alla violenza. Gesù Cristo governa e cambia l’umanità non tanto mediante leggi statali, emanate e codificate in un ordinamento giuridico, bensì comunicando se stesso, il suo Spirito d’amore, lo Spirito di Dio. La legge fondamentale della vita cristiana è l’amore. E questo non è custodito e reperibile nelle banche o nelle Borse, come la BCE o la Borsa di Milano. Cristo è re dei cuori attraverso il dono di sé, offrendo all’uomo peccatore l’amore misericordioso del Padre. Salendo sulla croce manifesta quanto siamo amati da Dio e sollecita ciascuno di noi a rispondere a tale dono. Dio ci ama al punto da consegnare il Figlio alla morte. La morte  di Gesù è  una grande prova di amore che Il Padre e Gesù hanno compiuto per l’uomo. «Dio – spiega san Giovanni – ha tanto amato il mondo da consegnare il suo figlio unico» (Gv 3,14). E san Paolo commenta: «Ha amato me e si è dato per me» (Gal 2,20). Le braccia spalancate in croce non sono le braccia di uno che si arrende, ma l’abbraccio permanente di Cristo sul mondo a nome di Dio. 

La crocifissione del Figlio non è solo un fatto tragico, umanamente doloroso. È la via della redenzione e della trasfigurazione dell’umanità. Mediante l’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù, Dio immette se stesso nell’umanità, nella storia, nell’esperienza della morte, per riviverle, risignificarle. E così, l’uomo non è più solo a lottare contro il peccato, l’ingiustizia, a passare attraverso il tunnel buio della morte. Cristo cammina con noi, ci insegna ad amare sino alla fine.

Ogni anno siamo sollecitati a schierarci dalla sua parte, a prendere posizione, per essere persone nuove, ossia persone in piena comunione col Padre, più precisamente servi crocifissi. La precondizione di una nuova primavera nella Chiesa e nelle nostre comunità è rappresentata dalla croce, segno di un dono senza misure, mediante lo svuotamento del proprio io. Cristo è un re crocifisso. Egli regna dall’alto della croce, effondendo sul mondo il suo Spirito d’amore. I credenti possono «regnare», al pari di Lui, percorrendo la stessa via, vivendo il suo dono totale, abbracciando la croce, assumendo la condizione di uno che serve.

La domenica delle Palme, che ci parla della regalità di Cristo ci fa comprendere che questa non esiste senza la croce, ossia senza lo svuotamento del proprio essere, senza il dono incondizionato di sé al Padre misericordioso, divenendo servi dei propri fratelli. Apprendiamo da Cristo l’amore, vivendo in comunione con Lui. Riceviamo da Lui la vita nuova. L’amore – come agápe – è la vita nuova.

L’evangelista Giovanni così scrive nella sua Prima Lettera: «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli […] Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (3,16.18).

Siamo servi crocifissi. Servire regnare est! Solo così condivideremo la gloria del Risorto e la sua regalità.