Archivi della categoria: Omelia

OMELIA per la FESTA di S. ANTONIO DI PADOVA
Faenza - Chiesa di San Francesco, 13 giugno 2016
13-06-2016

Le letture della liturgia odierna ci parlano del mandato che Yahweh dà al profeta Isaia di portare il lieto annuncio ai miseri (cf Is 61, 1-3a); e dell’invio, da parte di Gesù, di settanta discepoli a «lavorare sul campo»: «La messe è abbondante, ma pochi sono gli operai. Pregate, dunque, il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe. Andate: ecco vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada» (Lc 10, 1-9).
Antonio di Padova, nato a Lisbona, cresciuto a Coimbra in una comunità agostiniana, si fece poi francescano. Reduce da un’esperienza missionaria in Marocco, bruscamente interrotta, dedicò la sua vita all’annuncio di Cristo, prima in Emilia-Romagna, a Forlì e a Bologna, vicino a noi, a partire da un’intensa vita eremitica a Montepaolo. Si recò anche a Montpellier, a Tolosa e in altre città francesi, per poi ritornare in Alta Italia, ove concluse precocemente la sua esistenza, a Padova, all’età di trentasei anni.
Come era la sua evangelizzazione? La domanda ci interessa, perché anche noi, presbiteri, religiosi e laici, nel presente contesto di progressiva scristianizzazione, siamo tutti chiamati, come Lui, a ri-evangelizzare le nostre comunità, le nostre famiglie, i gruppi e i singoli. Siamo chiamati ad infiammare le persone di amore per quel Gesù che ci redime e ci rende capaci di amare come Lui ci ha amati, trasfigurando le nostre esistenze, colmandole di gioia e di speranza.
Innanzitutto dobbiamo notare che Antonio non era un evangelizzatore desideroso di mettersi in mostra, quasi come un redentore dell’umanità. Durante i primi anni di vita religiosa, maturò nel nascondimento la sua vocazione francescana, approfondendo la chiamata missionaria, rinvigorendosi mediante l’impegno ascetico e la contemplazione. Stabilitosi in Italia, trascorreva il suo tempo nell’eremo di Montepaolo, alternandosi con i confratelli  nei compiti di Marta o di «madre» e di Maria o di «figlio». Chi faceva da «madre», ricopriva il ruolo di Marta, badando alle faccende di casa, al fuoco, alle pulizie, alle questue nei paesi del circondario. Chi faceva da «figlio», ricalcava il comportamento di Maria, vivendo in un luogo appartato, nella preghiera e nella meditazione del Vangelo. Periodicamente, i ruoli si invertivano. I «figli» assumevano le mansioni delle «madri», e viceversa. E così, Antonio, stimato dai suoi confratelli e  unico sacerdote nel suo eremo, ebbe anche modo di tenere pulite le poche stoviglie di cucina, di spazzare la casa, di fare la questua per sé e per la sua comunità. Improvvisamente, venne il momento del suo esordio come predicatore. Accadde a Forlì, allorché si trattò di rivolgere parole di incoraggiamento ai candidati agli ordini sacri. I superiori, domenicani e francescani, si erano dimenticati di incaricare un predicatore, per cui si rivolsero ai presbiteri presenti, ma nessuno si sentì in grado  di improvvisare in un compito così impegnativo. Tra i convenuti, vi era frate Antonio, sulla cui conoscenza del latino si poteva fare affidamento. Il frate «guardiano» di Forlì riuscì a convincerlo, e Fra Antonio meravigliò e commosse l’uditorio con la profondità della sua cultura biblica, con la sua coinvolgente spiritualità, con le espressioni calde e suadenti che seppe usare.
La missione di Antonio come predicatore – è bene notarlo -, ebbe inizio in un momento di rievangelizzazione della cristianità, perché proliferavano  ovunque i movimenti eretici. Nelle città, non era raro che i vari gruppi sociali e anche religiosi si contrapponessero in continue lotte. Frate Antonio si era inserito nel giovane movimento di rifondazione cristiana dei Frati Minori. Ciò richiedeva un impegno nel lavoro apostolico in pianta stabile. Nella sua qualità di predicatore itinerante, si immerse quotidianamente nel contesto sociale, prima della Romagna e poi delle altre Regioni del Nord Italia, a stretto contatto con la popolazione, condividendone l’esistenza, spesso misera e tormentata. Il suo compito di evangelizzatore non si limitava alla catechesi morale-penitenziale. Fu un solerte pacificatore, sia nelle diatribe politiche sia nei dissidi familiari. Combatté l’usura. Si occupò della revisione di statuti comunali. Venne invitato a pronunciare discorsi di riforma della curia papale, a riunioni monastiche, ad assemblee di confratelli, a gruppi di studenti e anche di governanti. In definitiva, seppe anticipare e far vivere ciò che papa Francesco, nel IV capitolo della Evangelii gaudium, ha definito la dimensione sociale della fede.
Apostolo infaticabile, fu pastore di misericordia, indulgente e amorevole, ricco di pazienza con gli erranti, ma anche determinato nel denunciare il male, l’ingiustizia. Proclamava francamente la verità a tutti, popolani o nobili signori. Non indietreggiava davanti allo status di nessuno, neanche a costo della vita. Tuttavia, il suo parlare in pubblico, pur condito con il sale, non mancava mai di dolcezza e di grazia. Era garbato e, in pari tempo, severo, suscitando simultaneamente amore e timore negli ascoltatori  (cf Vita secunda, 4, 13-19). È rimasta celebre la sua predica a Bourges, in Francia, ove, alla presenza del clero, apostrofò l’arcivescovo, che si pentì e si confessò dal Santo. Fu ancora più veemente a Verona nei riguardi di Ezzelino da Romano, che sì convertì, pur non giungendo a liberare il conte di san Bonifacio suo prigioniero.
Antonio, che, come predicatore non si peritava di denunciare pubblicamente i mali del suo tempo, deve esserci di esempio. Nel contesto odierno, come credenti e come guide spirituali siamo spesso piuttosto afatici o timorosi nel condannare i mali che rovinano la nostra società e il nostro habitat. Talvolta consideriamo conquiste di civiltà proprio ciò che distrugge il tessuto valoriale della convivenza e, in particolare, la struttura antropologica della famiglia. Si preferisce non disturbare il quieto vivere, per timore di creare scontento o di ferire l’amor proprio delle persone. Si teme di dire pane al pane e vino al vino, perché diminuirebbe il consenso. Si confonde il male con il bene, sino ad ammirare il successo di coloro che coltivano esclusivamente i propri interessi, senza badare alle conseguenze negative per le persone e per l’ambiente.
Antonio è per noi un modello anche come evangelizzatore infaticabile. La sua agenda era fittissima di impegni che lo obbligavano a lunghi e faticosi viaggi con gli incerti mezzi di trasporto dell’epoca. Non si dava tregua, nonostante la precarietà della sua salute.  Fu un evangelizzatore «scalzo», concetto amato da papa Francesco, ossia non attaccato al denaro, capace di vivere la povertà in maniera integrale. E, tuttavia, non intendeva la sua vita come quella di una persona che non dà peso alle risorse necessarie per le opere, all’impegno di rendere la fede più pensata ed incarnata nelle istituzioni, nella cultura e negli stili di vita.
Nominato ministro provinciale del Nord Italia oltre all’animazione spirituale, aveva anche la responsabilità del governo e della fondazione di nuove comunità stanziali. Ciò avveniva in un momento di transizione da una forma primitiva e profetica di «frati delle strade» ad una meno itinerante, più strutturata e funzionale ad una pastorale organica e capillare, necessaria ad integrare quella del clero diocesano, allora percepito come assenteista e non aggiornato.
Oltre alla predicazione, si dedicò all’insegnamento della scienza sacra o teologia, che egli definiva unico «canto nuovo». A Padova, fondò lo Studio Francescano, al fine di preparare nuove leve di evangelizzatori, che desiderava formati con una cultura più impregnata di Vangelo. Riteneva necessario che le comunità cristiane e religiose disponessero di istituzioni in grado di approfondire scientificamente i contenuti della fede e i carismi delle varie famiglie religiose.
In questo anno del Giubileo della Misericordia, sant’Antonio ci è particolarmente caro, perché la sua assidua attività di predicatore e di formatore di coscienze non era disgiunta  dal ministero della riconciliazione, che esercitava ovunque. Le sue parole suscitavano negli ascoltatori un autentico desiderio di conversione, per cui Antonio, dopo le prediche, si dedicava sempre all’ascolto delle confessioni fino al tramonto del sole, restando spesso a digiuno. Proprio perché comunicatore e oratore eloquente, riusciva a raccogliere attorno al pulpito folle attentissime. Antonio ascoltava le confessioni a tu per tu, divenendo un rivoluzionario della pastorale, che allora non prevedeva tale modalità.
Qual’è il segreto della sua efficacia evangelizzatrice? L’essere uomo di preghiera, con un amore profondamente affettivo nei confronti di Gesù Bambino, la cui predilezione per Antonio può essere attribuita, fra l’altro, alla castità eroicamente vissuta.  Non a caso, si rappresenta spesso il Santo con il Bambinello tra le braccia.

OMELIA per il GIUBILEO del BENE COMUNE
Faenza - Basilica Cattedrale, 29 maggio 2016
30-05-2016

Celebriamo oggi il Giubileo della misericordia da parte di tutti coloro che, secondo diverse responsabilità, si dedicano alla costruzione del bene comune. Ci ritroviamo qui, pertanto, provenienti dal mondo della politica, del lavoro, dell’economia, della finanza e, in particolare, della cooperazione, per compiere un atto religioso, per rispondere all’amore di Cristo che ci sollecita al cambiamento. Celebrare il Giubileo, infatti, significa re-incontrarsi con Cristo: ricevere anzitutto il suo perdono tramite il pentimento, spalancare le porte alla vita di Dio, dimorare in Lui, ri-orientare, con più decisione, la nostra esistenza verso il bene; accogliere lo Spirito d’amore del Padre e del Figlio, per esserne trasfigurati e animati. Oggi, giornata del Giubileo per i politici, gli imprenditori, per tutti coloro che lavorano nella cooperazione, non dimentichiamo che tutti abbiamo bisogno di redenzione, soprattutto coloro che hanno maggiori responsabilità nella realizzazione del bene comune.

La parola di Dio di questa domenica, Solennità del Corpo e del Sangue di Cristo, ci ricorda la moltiplicazione dei pani da parte di Cristo. Riflettendo su questo, che è uno dei miracoli più noti, possiamo trovare le ragioni più profonde della nostra conversione e del nostro miglioramento di vita. È importante, anzitutto, considerare l’invito che Gesù ha rivolto ai suoi discepoli: «Voi stessi date loro da mangiare». Ecco, indicato per noi,  un compito primario: dobbiamo preoccuparci di dare da mangiare alla gente che ha fame. A questo proposito, non possiamo dimenticare la permanenza del problema della fame nel mondo. Abbiamo dati che sollecitano ad organizzarci per una migliore destinazione universale dei beni della terra. Attualmente, infatti, vi sono generi alimentari sufficienti per tutti: col cibo prodotto si potrebbero nutrire 12 miliardi di persone. Ma, nonostante ciò, un terzo degli alimenti prodotti è sprecato e vi sono centinaia di milioni di persone sottoalimentate (805 milioni). Vi sono, inoltre, carenze di vitamine e minerali nelle diete di oltre due miliardi di persone. Non tutti, dunque, possono accedere ad un cibo sufficiente, sano e sicuro per la pochezza del reddito, per scarsità locali, ma anche per la carenza di istituzioni economiche e politiche in grado sia di garantire un accesso al cibo e all’acqua regolare e adeguato dal punto di vista nutrizionale, sia che regolamentino il commercio internazionale di prodotti agricoli, i mercati dei futures, così da evitare speculazioni e le impennate dei prezzi del cibo. Anche nei nostri Paesi, ove scarseggia abbondantemente il lavoro, e taluni redditi sono insufficienti per arrivare alla fine del mese, appaiono fenomeni di scarsità e di deterioramento della qualità dell’alimentazione.

Peraltro, è triste constatare che l’umanità riesce a farsi la guerra, ma non a nutrire se stessa.

Il «Voi stessi date loro da mangiare», nel nostro territorio, può voler dire impegnarsi tutti nel coltivare la solidarietà e la giustizia in maniera più autentica, nel far rete per integrare nel mondo del lavoro coloro che non ce l’hanno, per investire nella ricerca, nell’innovazione, nel nuovo welfare, nella formazione, in una cultura umanistica. La stessa Chiesa locale si sta impegnando su questo versante con un Protocollo d’Intesa tra Ufficio Scolastico Regionale per l’Emilia-Romagna e Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna per la realizzazione di attività di Alternanza Scuola-Lavoro.

Ma a noi, che siamo o diciamo di essere credenti, non deve sfuggire un aspetto molto importante della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Gesù lo compie usando espressioni che rimandano all’istituzione dell’Eucaristia: «Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla». Che cosa voleva insegnare Gesù ai suoi discepoli? Dal testo si evince che Egli desiderava sollecitarli a distribuire non solo il cibo materiale ma Lui stesso, che nel Sacramento dell’Eucaristia si fa pane spezzato per tutti.

Detto altrimenti, Gesù voleva che i discepoli non fossero attenti unicamente al bisogno materiale della gente, dando loro il cibo per sfamarsi, ma dessero qualcosa di più. L’uomo è sempre bisognoso di qualcosa di più dei beni materiali. Ha sete di Dio. Anela a Lui. Ha bisogno di nutrirsi di Cristo, «pane vivo, pane del cielo». In ultima analisi,  con la moltiplicazione dei pani, compiuta secondo le modalità dell’istituzione dell’Eucaristia, Gesù istruisce e prepara i suoi discepoli alla futura missione: donare agli altri, oltre al pane quotidiano, Cristo stesso, cibo celeste. In conclusione, anche noi dobbiamo essere, innanzitutto, missionari di Cristo, per portarLo ai fratelli, perché è Lui la salvezza, non noi. Chi redime l’uomo è Gesù, non l’evangelizzatore o il testimone. Per essere veri discepoli di Cristo non basta interessarsi dei bisogni materiali dei nostri fratelli e sorelle. Bisogna preoccuparsi anche dei bisogni spirituali: «Non di solo pane vive l’uomo» (cf Lc 4,4)! Cristo è il primo e più importante cibo che dobbiamo procacciare. Dare Cristo è la prima carità. Ciò non significa omettere la carità del pane materiale, del vestito, del lavoro. Compiamo, allora, la carità o, meglio, la misericordia più grande. Non ignoriamo che alla persona spetta, col cibo quotidiano, Cristo stesso. Partecipiamo a questa Eucaristia, con la convinzione di non perdere tempo o di essere qui per una mera formalità. Siamo qui per unirci a Colui che si fa cibo per tutti, per riuscire, immedesimandoci al Cristo, a «spezzarci» e darci generosamente agli altri. Solo così ottempereremo all’invito di Gesù: «Fate questo in memoria di me». Solo così, cibandoci di Lui, non mangeremo la nostra condanna (cf 1 Cor 11, 27.29). L’Eucaristia, infatti, non è per un consumo egoistico, bensì per essere dono per gli altri, riconoscendo in tutti, specie i più bisognosi, la «carne» di Cristo da amare e servire. Solo facendo la comunione con Cristo e vivendo il suo dono riusciremo a realizzare il bene comune, ossia quell’insieme di condizioni sociali, giuridiche, economiche e culturali che consentono ad ogni persona di raggiungere il proprio compimento umano in Dio.

OMELIA in ricordo di Don Stefano Casadio
Cotignola, Chiesa del Suffragio - 27 maggio 2016
27-05-2016

La prima lettera di san Pietro ci sollecita, fra l’altro, a mettere il dono ricevuto a servizio degli altri; a esercitare il nostro ufficio con l’energia ricevuta da Dio (cf 1 Pt 4, 7-13).

Credo che don Stefano Casadio, che ricordiamo nel 15° anniversario della sua scomparsa, abbia dato tutto se stesso al Signore e abbia operato con la forza dello Spirito Santo. Lo zelo per il Padre e per la sua causa, dimostrati da Gesù che caccia i venditori di animali e i cambiamonete (cf Mc 11, 11-25) dal tempio, l’hanno consumato.

Proprio per questo, la vita di don Stefano, nato a Cotignola nel 1913, è per tutti noi un esempio e un punto di riferimento anche per l’oggi.

Non raramente la stampa, prendendo spunto dalle stesse parole di papa Francesco, ma travisandone il significato, tratteggia i sacerdoti come coloro che devono vivere «scalzi» e che devono lavorare per una Chiesa senza beni ed istituzioni. In realtà, l’esistenza di don Stefano Casadio, romagnolo, se ci offre l’immagine di un sacerdote che non lavora per sé, per arricchirsi, ed è disponibile per tutti, ossia non ha un’agenda da difendere, al contempo ci mostra una personalità tutta d’un pezzo. Egli sapeva coniugare povertà ed uso saggio dei beni terreni. A Reda, negli anni ’50, come cappellano ha allestito un cantiere per la costruzione di un asilo d’infanzia, con annesso laboratorio tessile, con l’aiuto della manodopera dei suoi parrocchiani. Divenuto parroco, ha avviato la costruzione della chiesa e della canonica, completata in soli sette mesi. Annesso alla chiesa ha realizzato un impianto sportivo organizzando sia una squadra di calcio sia una squadra di pallavolo femminile, continuando peraltro le colonie estive. Gestiva anche una sala cinematografica. Terminato il mandato di parroco ed andato in pensione dall’insegnamento di religione è partito come missionario in Brasile, arrivando a Macaè. Qui ha realizzato un gran numero di cappelle anche in località selvaggie. La sua opera più significativa è stata la costruzione di un grande Oratorio con una struttura d’accoglienza e campi sportivi. E, inoltre, in quel contesto e in quella società tanto disagiate ha fatto arrivare dalla sua Romagna un container con l’attrezzatura per l’allestimento di una scuola di ceramica. Ogni sua opera era sempre realizzata col contributo generoso dei suoi compaesani.

Ebbene, cari fratelli e sorelle, cosa ci può insegnare don Stefano, rimasto famoso anche per l’operazione «bandiera bianca», che salvò Cotignola dal fuoco amico degli anglo-americani? Chi è vero evangelizzatore ed ama la sua Chiesa, si preoccupa non solo di far incontrare le persone con Gesù Cristo, il Salvatore. Si dedica, anima e corpo, ad innalzare chiese, istituzioni culturali, strutture e luoghi educativi. La fede va pensata, approfondita, altrimenti è nulla. Per questo, non possono mancare al popolo di Dio scuole, oratori, ambienti di vita ove, mentre ci si forma intellettualmente, si insegna a vivere cristianamente.

Don Stefano sapeva bene che la Chiesa non deve essere senza risorse ed istituzioni. Sollecitava la gente a mettere mano al portafoglio, a collaborare fattivamente. Così, la sua agenda era fitta di impegni, non per indisponibilità nei confronti dei suoi, ma perché era bruciato dall’amore per loro. Come è stato giustamente scritto, è stato eroe come cappellano militare volontario per l’Africa, al tempo della seconda guerra mondiale, ma soprattutto nella quotidianità, in tempo di pace: nelle difficoltà di ogni giorno, nei dolori della gente, negli affanni dei parrocchiani, nei tormenti degli adolescenti, nelle gioie dei successi giovanili, nei traguardi raggiunti e superati: come parroco audace, infaticabile e moderno; come padre spirituale; come maestro di roccia; come amico vicino ai giovani; come sportivo e grande comunicatore; come missionario e costruttore di pace.

L’odierna Eucaristia ci veda pronti a pregare per la città di Cotignola, per gli abitanti di Reda e di Macaè che don Stefano ha beneficato come sacerdote, padre e maestro di vita. Ringraziamo il Signore per avercelo dato. In tempi di scarse vocazioni chiediamo al Signore perché mandi operai nella sua messe, preti come don Zini e don Stefano, che si sono dedicati alla cura delle vocazioni. Viviamo la nostra fede e la carità pastorale non secondo i cliché di chi capisce poco della Chiesa e la contrasta. Viviamole con i piedi per terra, nella concretezza storica e in momenti in cui la libertà della Chiesa non cessa di essere  penalizzata, anche con riferimento alle sue scuole. Abbiamo intelligenza e forza per rinnovare le strutture e le istituzioni: esse sono indispensabili alla diffusione e alla inculturazione della fede, alla realizzazione dell’amore di Cristo per l’umanità. La forza dello Spirito ci accompagni e ci faccia uno con Cristo e tra noi.

OMELIA nella Solennita’ del CORPUS DOMINI
Faenza- Chiesa di San Marco, 26 maggio 2016
26-05-2016

In occasione della Solennità del SS. Corpo e Sangue di Cristo la liturgia della Parola ci offre alla meditazione il Vangelo di Luca (9, 11-17) che narra l’episodio della moltiplicazione dei pani. Sul far della sera i discepoli suggeriscono a Gesù di congedare la folla che l’aveva seguito, perché possa andare a rifocillarsi. Ci si trovava, infatti, in una zona desertica, lontana dai villaggi dei dintorni. Ma Gesù ha in mente qualcosa d’altro. Invita i discepoli a dare da mangiare ai presenti: «Voi stessi date loro da mangiare». Essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci». Bisognava proprio andar a comprare i viveri. Gesù, però, diede loro ordine di far sedere la gente a gruppi e compì il miracolo che tutti conosciamo.

Gesù lo compie usando espressioni che fanno pensare al sacramento dell’Eucaristia: «Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla». Il miracolo consiste nella condivisione fraterna di pochi pani e pesci che, affidati alla potenza di Dio, non solo bastano per tutti, ma addirittura avanzano fino a riempire dodici ceste. Quali sono gli insegnamenti che possiamo trarre? Oltre che a condividere, Gesù sollecita i discepoli a distribuire il cibo per la moltitudine. In questo modo li istruisce e li prepara alla futura missione apostolica: dovranno, infatti, portare a tutti il nutrimento della Parola di vita e del Sacramento, che è l’Eucaristia. Detto diversamente, siamo di fronte ad un testo che ci parla dell’impegno missionario dei discepoli. Come devono svolgerlo? Alla maniera di Gesù. Egli, è sì attento al bisogno materiale, ma desidera dare di più del pane. L’uomo è sempre affamato di qualcosa di più, ha bisogno di qualcosa di più dei beni terreni. Ha sete del Dio vivente. Ha bisogno di nutrirsi di Cristo «pane del cielo».

In ultima analisi, il brano di Luca ci conduce a riflettere sull’Eucaristia sia come fonte della missione, ossia del dono di Gesù, mediante evangelizzazione e testimonianza; sia come sorgente dell’impegno della condivisione e della carità, non solo come un dare qualcosa di materiale, bensì come un dare noi stessi, sull’esempio di Gesù, in tutte le attività umane, nella vita sociale, economica e politica.

Fermiamo l’attenzione su questi aspetti. Anzitutto, sull’Eucaristia come fonte di un’evangelizzazione che dona Gesù. Nell’Eucaristia siamo invitati a fare memoria di Cristo, che si dona sino a morire. Quando l’assemblea si scioglie si è invitati ad andare alla quotidianità, ove fare della nostra esistenza un dono e ove annunciare, con la parola e la buona condotta, Gesù Cristo. Non si tratta tanto di moltiplicare le attività, di essere cioè una comunità ingolfata in troppe iniziative, quasi pensando che tutto dipenda da noi, dalle molte strutture, pur necessarie. È l’Eucaristia la vera sorgente della missione e dell’evangelizzazione, della loro efficacia. Tutto deriva dal dono della vita di Gesù e dal suo comando: «Fate questo in memoria di me».

La missione non è anzitutto un’attività nostra, la cui moltiplicazione a dismisura produce automaticamente salvezza. Con la nostra attività missionaria siamo chiamati a portare le persone a Gesù, all’Eucaristia, «luogo» ove Dio viene incontro ad ogni uomo in Cristo e nello Spirito Santo. È nell’Eucaristia, più che nell’evangelizzatore e nel testimone, che si trova la salvezza, Gesù Cristo, redentore e ricapitolatore di tutte le cose. Il nostro impegno di evangelizzatori e di testimoni deriva dall’Eucaristia, rimanda ad essa. La nostra missione non è «altra» da quella di Gesù e neppure semplicemente «succede» o viene «dopo» la sua. Noi siamo testimoni quando, mediante le nostre azioni, parole e modi di essere, appare e si comunica un «Altro», ovvero Cristo stesso. La nostra missione e testimonianza non stanno in piedi da se stesse, per se stesse. Riconducono al mistero eucaristico. Noi e le nostre comunità troviamo il nostro punto di partenza e il centro, nonché il nostro stile apostolico, le energie della liberazione e dell’umanizzazione nell’Eucaristia, celebrata e vissuta.

Un altro aspetto, come già accennato, ci è insegnato dall’Eucaristia: la condivisione. La frazione del pane è compiuta da Gesù come gesto di condivisione, richiama Lui stesso che si fa pane per noi, «spezzando» o, meglio, donando la sua vita sino alla morte. L’Eucaristia dev’essere partecipata e vissuta da noi e dalle nostre comunità come fonte della condivisione dei beni materiali e spirituali, di Cristo stesso. Ne deve derivare uno stile di vita e una condotta che bandiscono l’individualismo, le chiusure, l’allergia alla condivisione di noi stessi. Vale, a questo proposito, l’ammonimento di san Paolo, il quale nella prima Lettera ai Corinzi (cf 1 Cor 11, 20-21) condannava la non coerenza esistenziale dei primi cristiani con la stessa celebrazione dell’Eucaristia: «Quando vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno, infatti, quando siede a tavola, comincia a prendere il proprio pasto». È un mangiare individualistico, senza condivisione, sicché uno ha fame e l’altro è sazio; uno ha sete e l’altro è ubriaco. Cosa succedeva? Tra i cristiani di Corinto alcuni non aspettavano i fratelli e le sorelle.  Cominciavano a mangiare e a bere, senza tener conto degli altri, senza condividere con i poveri, con chi non poteva portar nulla, perché senza risorse. La cena del Signore diventava una cena di individui. Di fatto la cena del Signore diventava una non-eucaristia. Ciò che doveva essere fonte di condivisione e di comunione diventava occasione di umiliazione di chi non possedeva nulla, era momento in cui permanevano diseguaglianze. Dalla celebrazione del sacramento non scaturiva una conversione, un cambio dei comportamenti di indifferenza nei confronti dell’altro, del più misero. Mangiare il pane o bere al calice del Signore non era principio di vita nuova. Diventava, piuttosto, come afferma sempre san Paolo, un motivo di condanna: «Chi mangia e beve senza discernere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (cf 1 Cor 11, 27.29). Ma in che senso il non discernere il corpo del Signore è motivo della propria condanna? Paolo non denuncia i cristiani di Corinto perché non riconoscono la presenza sacramentale di Cristo nella cena che fanno in memoria di Lui, ma perché non sanno discernere il corpo ecclesiale come corpo di Cristo, non riconoscono il corpo di Cristo nei poveri, che pure sono convocati come gli altri alla cena del Signore. È per questo che l’Eucaristia che i cristiani di Corinto celebravano diventava un giudizio su di loro e sulla loro comunità. L’amore per l’Eucaristia doveva andare insieme con l’amore per i poveri. E, invece, l’Eucaristia non era fonte di fraternità, non era per la fraternità e la condivisione. Non insegnava a vedere nel fratello, ricco o povero, Cristo stesso, la sua «carne». In una delle sue omelie più celebri san Crisostomo ammoniva i credenti così: «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Ebbene, non tollerare che egli sia nudo; dopo averlo onorato qui in Chiesa con stoffe di seta, non permettere che fuori egli muoia per il freddo e la nudità. Colui che ha detto «Questo è il mio corpo» (Mt 26, 26), ha anche detto: «Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare» (Mt 25, 42) e: «Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli non l’avete fatto a me» (Mt 25, 45) [Omelie sul vangelo di Matteo 50, 3-4].

Dare di più del pane materiale: ecco un altro insegnamento proveniente dalla celebrazione dell’Eucaristia. Spesso di fronte alle parole «Voi stessi date loro da mangiare» reagiamo riducendole al pur nobile e meritorio impegno della carità assistenziale. Ma il comando di Gesù ha un significato più vasto. Occorre donare agli altri, oltre al pane materiale, Cristo stesso. Occorre essere suoi missionari, portarLo al mondo. Non possiamo qui attardarci sulla questione se bisogna prima dare il cibo e poi Cristo, o viceversa. L’importante è che ci ricordiamo che per l’uomo sono necessari entrambi, sia il pane quotidiano sia il cibo celeste. E, tuttavia, fra i due va riconosciuto un primato al secondo. Senza Cristo si perde la scala dei valori, non si assegna il giusto significato ai beni materiali, fondamentali per l’esistenza umana, ma non ultimi. Cristo, come ci ha insegnato papa Benedetto, è il primo e il principale fattore di uno sviluppo integrale (cf Caritas in veritate n. 8). Grazie al Signore Gesù, alla comunione con Lui, troviamo più forza per offrire ad ogni persona il cibo che gli spetta, sia per il corpo sia per lo spirito.

L’Eucaristia che stiamo celebrando imprima alle nostre comunità un maggior slancio missionario. Correggiamo ogni individualismo. Viviamo la condivisione, riconosciamo la carne di Cristo nei nostri fratelli. Non dimentichiamo che la richiesta di Gesù «Voi stessi date loro da mangiare» implica sia la collaborazione per risolvere la cause strutturali della povertà e per promuovere lo sviluppo integrale dei poveri, sia i gesti più semplici e quotidiani di solidarietà. Senza l’opzione preferenziale per i poveri, l’annuncio del Vangelo che, pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in un mare di parole senza fatti (cf Evangelii gaudium n. 199).

OMELIA per le esquie di padre GIULIANO GORINI
Faenza, Basilica cattedrale - 11 maggio 2016
11-05-2016

Accogliamo oggi le spoglie mortali di p. Giuliano Gorini, missionario della Consolata, che ritorna a Faenza per rimanervi in attesa della Risurrezione.

Nato nella nostra Città entrò nel Seminario minore di Faenza e a 15 anni passò nelle Missioni della Consolata. Divenuto sacerdote andò in America a studiare, dove raggiunse i titoli per essere Direttore di scuola. In seguito fu inviato in Kenya per insegnare e poi per dirigere una scuola della Consolata.

Nel 1991 istituì a Rumuruti, nel Nord del Kenya, una Scuola superiore per i ragazzi delle tribù nomadi di quei territori. La cosa fu possibile con il determinante aiuto di don Gino, che P. Gorini era venuto a cercare per dirgli: “Devo fare una scuola, ma non ho un soldo”. Don Gino gli disse di andare avanti e in tre mesi trovò a Faenza i mezzi per comprare il terreno e costruire la scuola, che anche in seguito fu sostenuta con l’aiuto determinante dei faentini. Questa collaborazione ha raggiunto lo scopo che P. Gorini si prefiggeva come missionario: mettere insieme i figli di diverse tribù che tra loro avevano continui scontri, per insegnare a vivere in pace, e nello stesso tempo formare dei leaders per il loro paese.

Lo spirito missionario di P. Gorini si è rivelato anche nelle vocazioni al ministero sacerdotale e missionario uscite da quella scuola (una trentina in 25 anni) e una decina di battesimi ogni anno. La Scuola superiore, che fu dedicata a Maria Madre delle Grazie, diventò subito una eccellenza qualificandosi tra le prime scuole del Kenya, tanto che più del 90% dei suoi allievi superava la prova di ammissione all’università. E tra gli ex allievi, oltre a vari ruoli dirigenziali e professionali può già vantare un ministro nel governo nazionale.

Ho voluto ricordare l’opera missionaria di P. Gorini, perché questa è un tutt’uno con la sua vita, spesa con fede e amore per il bene dei suoi ragazzi e con tanta generosità. Per questo si può comprendere la fatica che all’inizio del 2015 egli ha fatto a rientrare in Italia, per motivi di età e di salute.

La Parola di Dio ci ha invitato a considerare nella fede la testimonianza di questo nostro fratello, che ha fatto onore al nome di Faenza dovunque è andato. Il messaggio delle Beatitudini che abbiamo ascoltato nel Vangelo è la trama della vita di P. Giuliano, seguita con convinzione e senza paura, a cominciare da una povertà di vita impressionante, come possono attestare coloro che hanno visto il suo alloggio nella missione. Guidato dall’educazione ricevuta in famiglia, soprattutto dalla mamma Rosa, incoraggiato dalla parola e dall’esempio dell’amico don Gino Montanari, che gli diceva: “t’è bota!”, P. Giuliano è andato avanti con determinazione, forte della promessa di Cristo per i miti, i misericordiosi e gli operatori di pace.

Beati voi quando vi insulteranno e vi perseguiteranno”. Si può immaginare che non tutto è stato facile nemmeno per P. Giuliano. Non sono mancate le gelosie di fronte al successo della sua scuola, i furti e le aggressioni. Eppure oggi è migliorata la convivenza pacifica tra quelle tribù, tanto che gli ex allievi, che sono di tribù diverse, hanno fatto un’associazione per aiutare la scuola, perché altri giovani possano formarsi e far crescere il proprio paese.

Il coraggio di P. Giuliano non aveva altro scopo che amare il prossimo, perché Cristo ha amato noi fino a dare la vita. Ce lo ha ricordato San Giovanni: “In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1Gv 3,16). Perché l’amore è contagioso, e P. Giuliano ha coinvolto tanti faentini che in vari modi hanno condiviso la sua missione. Sentiamo anche noi oggi qualcuno dire: “Bisogna aiutare gli africani in Africa”. P. Gorini non solo lo ha fatto, ma ha fatto vedere che è possibile. Mi auguro che i faentini vogliano continuare a sostenere la scuola di Maria Madre delle grazie a Rumuruti in Kenya, non solo perché è la scuola di P. Gorini, anche se ora è diretta da un Padre della Consolata suo ex alunno, ma anche perché è questo un modo concreto di dare un aiuto vero a quei popoli.

Maria Madre delle Grazie, accogli accanto a te P. Giuliano, che la morte ha ghermito nel giorno in cui qui a Faenza si concludeva la tua festa, e mostragli dopo questo esilio Gesù, il frutto benedetto del tuo seno, o clemente, o pia, o dolce vergine Maria.

OMELIA per la SOLENNITA’ della ASCENSIONE
Faenza, Basilica cattedrale - 8 maggio 2016
08-05-2016

Con l’ Ascensione di Gesù Cristo al cielo celebriamo la nostra immissione definitiva nella vita di Dio-Amore. Tramite Cristo, che porta con sé la nostra umanità co-risorta con la sua, e precedentemente assunta mediante l’incarnazione, siamo collocati nella comunità di Dio. L’ascensione, che non è un viaggio di Cristo verso gli spazi stellari, bensì un situarsi in una dimensione d’esistenza, che è al di là dello spazio e del tempo, consolida la nostra appartenenza a Dio, alla sua famiglia.

Con il Natale, il Figlio di Dio diventa uno di noi, il «cielo» diventa «terra», umanità, affinché noi, attraverso la morte, la risurrezione e l’ascensione di Cristo, diventiamo «cielo», Dio, siamo cioè divinizzati.

Con l’Ascensione di Gesù Cristo ci stabilizziamo in Dio, non oltre le nubi, bensì oltre le forme degli scenari di questo mondo. E, così, mentre svolgiamo le nostre attività, e compiamo la nostra missione di evangelizzatori e di testimoni credibili, contemporaneamente siamo, ci muoviamo ed esistiamo in Lui. La nostra vita quotidiana porta in sé una dimensione di trascendenza, è immersa in quella divina. Non siamo solo esseri umani, ma siamo realmente figli e figlie di Dio, nei limiti della creaturalità e del contingente.

L’Ascensione, come Gesù ripete ai suoi discepoli, è in vista del dono dello Spirito Santo. È per la Pentecoste, per l’effusione dello Spirito sul mondo. L’Ascensione dà inizio a un nuovo tempo per il gruppo degli apostoli, che vivono rinchiusi ed intimoriti. È un nuovo modo di essere presente di Gesù tra i suoi. D’ora in avanti sarà con loro soprattutto con il dono del suo Spirito d’Amore, che compatta, rinfranca, rende testimoni coraggiosi; che aiuta a ricordare quanto Cristo ha insegnato; che sprona ad approfondire la consapevolezza di essere cristoconformi, partecipi e protagonisti di una salvezza integrale, per tutti gli uomini e, quindi, anche per i più poveri e per il cosmo.

Oggi celebriamo tutto questo. Ne facciamo memoria per consentirci di vivere i nostri giorni non come persone smemorate rispetto al nostro essere più profondo, non come esseri sempre di corsa, senza percepire la nostra identità intera. Spesso, con il nostro modo di comportarci, diamo l’impressione di investire le nostre migliori energie e speranze su ciò che è passeggero e parvenza superficiale, senza essere coinvolti nella parte più intima di noi stessi. Dobbiamo, invece, renderci coscienti che un conto è scegliere ed operare solo come esseri umani, troppo umani, come se Dio non ci fosse. Altro sarebbe condurre un’esistenza ed elaborare progettualità ed approntare piani pastorali o civili stando in Dio, dimorando in Lui, assumendo come punto di prospettiva la sua visione sulle persone e sul mondo. Operare come persone attive nella contemplazione, ossia persone che pregano mentre si impegnano a trasformare gli ambienti di vita, è tutt’altra cosa rispetto ad esistenze vissute nella routine, nel grigiore e nell’assieparsi di mille problemi che schiacciano.

Il significato delle nostre giornate cambierebbe notevolmente. Chi vive senza la certezza di dimorare in Dio è oppresso dalla fragilità, dalla ferialità più piatta, senza nemmeno usufruire della consolazione di camminare con altre persone che, come noi, posseggono un’inalienabile e un’insopprimibile capacità di vero, di bene e di Dio. Chi vive in Dio, con Lui, supera visuali ristrette sulla vita e sulle relazioni interpersonali, non pensa che tutto si riduca ad affanno e pena, a questioni economiche e tecniche, a calcoli matematici, a drammi, conflitti, guerre fratricide. Sa che nella vita c’è molto di più, e cioè che c’è un’immensa forza positiva nel cuore della gente, che si può contare su patrimoni di tradizioni e di cultura da cui può derivare un fiume inesauribile di energie per il rinnovamento. Confida in ciò che sovrasta l’umano e tutto lo pervade, nella dimensione di trascendenza che permea e corrobora con la forza di Dio, con la potenza del suo Spirito. Il credente ha la consapevolezza che la storia, in fin dei conti, è incamminata verso traguardi che sono stati già guadagnati da Cristo risorto. Non siamo orientati verso il nulla, bensì verso approdi di pienezza. Il nostro destino non è la decadenza inesorabile, bensì un futuro in cui il nostro amare sarà valorizzato, sarà raccolto goccia a goccia e vissuto per sempre; in cui il nostro lottare non sarà stato vano e non andrà perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa pazienza.

La fede, che ci fa vivere in Cristo, Colui che ricapitola e rinnova tutto in sé, pone in noi il vivo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere a tutti il bene, di lasciare qualcosa di migliore dopo di noi, non tanto per mezzo nostro, ma mediante Colui che conduce la storia verso un porto sicuro, in mezzo a tempeste, insuccessi, tragedie.

Maria, la Beata Vergine delle Grazie, patrona della città di Faenza e della Diocesi, è colei che ha creduto in un’umanità abitata da Dio, in comunione con Lui. Si è messa a disposizione come donna e soprattutto come Madre, con tutto il significato di questa consolante parola: per consentire a ciascuna persona di essere capace di sognare un mondo nuovo; per essere apportatrice non tanto del suo contributo individuale alla causa di una storia aperta al trascendente, ma per donare Dio stesso a ogni persona. Maria di Nazareth è liberatrice, ausiliatrice, non da se stessa, ma in quanto dona Colui che redime e salva da ogni male, fisico e morale, perché conduce a Lui. Grazie a Lei, Gesù entra nel profondo di tutte le vite, dentro la storia di tutti i popoli, si pone al centro del cosmo, quale energia ascensionale, verso un mondo trasfigurato, stabilizzato nell’amore.

Maria, Beata Vergine delle Grazie, la cui immagine veglia sul portale di tante nostre case, è madre di una Chiesa che si mette al servizio del cammino ascensionale del mondo, della diocesi e della città. Ci aiuti ad essere coscienza critica in una società assonnata, narcotizzata dalle nuove ideologie dell’individualismo radicale e della tecnocrazia, distratta rispetto alla dimensione della trascendenza. Ci sostenga nel coltivare la vera libertà, nell’investire in una nuova pastorale famigliare, più propositiva della gioia dell’amore cristiano.

La Madre di Dio, che è nostra maestra e guida spirituale, ci faccia crescere verso più coscienza, più libertà e più amore. Ringraziamo Dio per avercela donata. Ringraziamola perché, a Lei affidati, siamo protetti ed aiutati a cogliere in noi, negli altri, nella Chiesa e nella società le forze più belle, per farle emergere, a vantaggio di tutti.

OMELIA per la Messa della DONAZIONE DEI CERI da parte dei Rioni di Faenza
Faenza, Basilica cattedrale - 7 maggio 2016
07-05-2016

Gesù Cristo, dopo la morte e la risurrezione, appare agli apostoli. Si trattiene e parla con loro, continuando ad istruirli, consolandoli. Riscalda i loro cuori, come aveva fatto con i discepoli di Emmaus. Li compatta e li rende più coraggiosi. Ma il tempo delle apparizioni si avvia alla conclusione. Incomincia il tempo della missione sino agli estremi confini della terra. Contemporaneamente inizia un nuovo modo di presenza di Gesù tra i suoi. Ciò avviene mediante l’evento dell’Ascensione che celebriamo oggi e di cui gli Atti degli Apostoli ci informano (cf At 1, 1-11).

La dipartita di Gesù è preceduta da un colloquio con i suoi discepoli, ancora rinchiusi nelle loro vecchie idee. Quelli che erano con lui – riferiscono gli Atti – gli domandavano: Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele? All’idea di un rinnovato regno davidico Gesù contrappone una promessa ed un incarico che andavano in un senso opposto. La promessa è che essi saranno colmati della forza dello Spirito Santo. L’incarico consiste nel fatto che dovranno essere i suoi testimoni fino ai confini del mondo. I discepoli non devono essere né studiosi della storia né indovini del futuro. Come i discepoli, il cristiano è chiamato alla presenza nel mondo riconoscendo il dono ricevuto e la missione affidata. Il credente deve sentirsi gratificato dalla vicinanza interiore di Dio e – in base a ciò – essere attivo nella testimonianza a favore di Gesù Cristo.

L’evento dell’Ascensione introduce i credenti in una più intima comunione con Dio. Infatti cos’è l’Ascensione di Cristo? Non è un viaggio di Gesù nello spazio verso gli astri più remoti. L’Ascensione di Cristo significa che Egli non appartiene più al mondo della corruzione e della morte che condiziona la nostra vita. Significa che Egli si situa in un ordine diverso rispetto a quello spaziale e cosmico, ossia si pone in un’altra dimensione dell’essere. Egli rientra completamente nella dimensione d’esistenza di Dio, un’esistenza sovraspaziale e sovratemporale. Ritorna nel mistero di Dio, in Dio, con un’umanità trasfigurata, sedendo alla destra del Padre. Cosa vuol dire questo per noi? Che l’Ascensione non riguarda solo il Figlio Eterno, ma il Figlio di Dio fattosi carne, uomo; e, quindi, riguarda – in quanto la nostra umanità è stata assunta da Lui – ciascun uomo. Il Figlio di Dio, mediante l’Ascensione, porta con sé la carne e il sangue in una forma risuscitata. L’uomo trova spazio in Dio, in una comunione di vita e di potere con il Dio vivente. Attraverso Cristo, l’essere umano è portato fin dentro la vita stessa di Dio. E, così, noi viviamo in Dio. Mentre scegliamo, operiamo, soffriamo, gioiamo, non siamo separati da Dio.

Occorre esserne coscienti. Occorre esserne conseguenti. Siamo e viviamo in Dio. Tutto ciò che compiamo ha una dimensione diversa, sovrumana. Amiamo Dio e il prossimo non con le sole nostre forze. Non siamo mai, nonostante il senso dell’indifferenza altrui, da soli. Con l’Ascensione del Signore non siamo abbandonati ma siamo resi maggiormente del Figlio e del Padre. Portandoci con sé in Dio ci rende più vicini a Lui, per sempre. Ognuno di noi può sentirsi tenuto in braccio da loro. Il loro volto può essere toccato ed accarezzato con le nostre mani.

Cari fratelli e sorelle, vivendo il mistero dell’Ascensione comprendiamo l’amore di Dio per noi che, vedendoci fragili e incostanti, ha deciso di mandarci il Figlio, affinché grazie a Lui, fossimo sollevati, resi più intimi al suo Amore di Padre.

Oggi veneriamo la nostra Madre Maria, Beata Vergine delle Grazie, come patrona di questa Diocesi e di questa città. Ebbene, la più grande grazia che Ella ci ha concessa è l’aver consentito, con il suo Sì, alla nostra umanità di diventare dimora del Figlio e del Padre, di tenere, come ha fatto Lei, tra le nostre braccia Gesù, come hanno anche fatto sant’Antonio di Padova e san Padre Pio, che sono rappresentati con il Bimbo Gesù in braccio.

Se Gesù Cristo con l’Ascensione introduce ciascuno di noi in Dio, Maria è Colei che consente a Dio di entrare e di abitare in ciascuno di noi. La Beata Vergine delle Grazie, quale Madre premurosa, libera i propri figli dai mali fisici e morali, donando a loro soprattutto Cristo, il Redentore.

I Rioni che portano i loro ceri alla Madre non solo domandano la sua protezione celeste ma anche promettono di essere esistenze che si muovono e sperano, minuto dopo minuto, in Dio.

OMELIA per il XXV di episcopato di Mons. STAGNI
07-05-2016

La festa liturgica della B.V. delle Grazie è impreziosita quest’anno dalla presenza di un gruppo di persone anziane o ammalate che celebrano il Giubileo della Misericordia e dal 25° anniversario dell’Ordinazione presbiterale di don Massimo Goni e dell’Ordinazione episcopale del sottoscritto. Tutte circostanze che danno una particolare intonazione a questa celebrazione eucaristica, concelebrata dal Vescovo Mario e da molti presbiteri della Diocesi, che ringrazio.

Saluto gli anziani e gli ammalati presenti e ringrazio l’Unitalsi diocesana per l’organizzazione del pellegrinaggio. Avete passato la Porta santa, segno del vostro ingresso all’incontro con il Signore nell’Eucaristia per ricevere il dono della misericordia di Dio, e poter uscire perdonati e confortati nel vivere quotidiano. Nell’Eucaristia offrite al Padre della misericordia il ringraziamento per il dono della vita e chiedete l’aiuto per viverla con le sue gioie e i suoi dolori.

Il pellegrinaggio degli anziani e ammalati insieme alla ricorrenza venticinquennale di una ordinazione presbiterale e di una episcopale, mi suggerisce l’attenzione al dono del sacerdozio dei fedeli e del sacerdozio ministeriale, e di considerare il rapporto dell’uno con l’altro.

È una relazione dove ognuno ha bisogno dell’altro, e dove insieme ci troviamo davanti al Padre del Cielo per presentargli il Sacrificio di suo Figlio. Possiamo dire tutti insieme con le parole della seconda Preghiera eucaristica: “Ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale”. Ci ricorda infatti il Concilio che il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale, quantunque differiscano essenzialmente, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo (LG, n. 10). 

Carissimi fedeli laici, soprattutto voi che portate nelle membra i segni della croce, con la vostra partecipazione all’Eucaristia esercitate la grazia del sacerdozio comune dei fedeli e adempite quello che ci ricorda ancora il Concilio: “Tutte infatti le loro attività, preghiere e iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e anche le sofferenze della vita, se sono sopportate con pazienza, diventano offerte spirituali gradite a Dio attraverso Gesù Cristo; nella celebrazione dell’eucaristia sono in tutta pietà presentate al Padre insieme all’oblazione del Corpo del Signore” (LG, 34).

Oggi siamo insieme in questa Cattedrale fedeli laici e presbiteri, per una Eucaristia che ci unisce oltre che nella celebrazione del sacramento, nella venerazione della Vergine delle Grazie.

Il Vangelo ci ha raccontato di Gesù, invitato con i suoi apostoli ad una festa di nozze dove era già presente sua Madre. Durante questa festa Gesù compie il primo dei segni del Regno e manifesta la sua gloria. La presenza di Gesù è sempre positiva ed efficace, perché lascia il segno; a noi resta il compito di riconoscerlo nella fede.

È bello pensare che a Cana di Galilea sia stata la Madre di Gesù a farsi tramite per estendere l’invito alla festa anche a Gesù e ai suoi discepoli. Maria porta sempre a Gesù, e anche oggi nella nostra Cattedrale si fa Madre di misericordia e ci chiama attorno a Gesù nell’Eucaristia.

Maria c’è non solo alla festa di nozze, quando cerca di coinvolgere suo Figlio per risolvere un problema, ma c’è anche quando, dopo l’Ascensione gli apostoli e gli amici rimasti si ritrovano nel Cenacolo in attesa dello Spirito santo. Si tratta di un momento molto delicato: Gesù è asceso al Cielo e non c’è ancora la presenza dello Spirito santo; i seguaci di Gesù sono ridotti al minimo. L’aspetto positivo è che sono rimasti fedeli al luogo dove tutto ha avuto inizio, il Cenacolo, e si trovano qui insieme nella sala al piano superiore e aspettano nella speranza.

È una piccola comunità nella sofferenza; gli apostoli vengono ricordati per nome, ma ne manca uno; vi erano alcune donne e la Madre di Gesù e i fratelli di Lui. Da questo piccolo resto si può ripartire. Sono pochi e poveri, uniti con la Madre nella preghiera; e così li troverà lo Spirito santo nella Pentecoste per mettere la Chiesa di Cristo in cammino nel mondo e nella storia.

È Maria che unisce la vicenda di Cana con quella del Cenacolo e ci invita ad avere fede nella potenza messianica del Figlio.

A ben guardare a Cana di Galilea Gesù non poteva sottrarsi dall’intervenire, perché aveva davanti una situazione di sofferenza che a noi può sembrare piccola, ma per gli interessati poteva essere grave. E Gesù, che era venuto per la gioia dei suoi fratelli, non dice che questo non lo riguarda, ma che non è ancora giunta la sua ora, quell’ora nella quale avrebbe redento ogni male. Il suo intervento miracoloso infatti diventa un segno che rimanda in qualche modo a quell’ora.

Noi oggi ci troviamo nella situazione in cui Gesù ha già vissuto la sua ora nella morte e risurrezione. Nell’Eucaristia noi la stiamo vivendo ancora una volta come sacramento per il ministero del sacerdozio ordinato. E la comunione tra fedeli laici e presbiteri che viviamo nel mistero, chiama tutti alla stessa santità, pur camminando ognuno per la via della propria vocazione.

Celebriamo quindi la ricorrenza giubilare dell’ordinazione presbiterale e di quella episcopale con animo grato al Signore, chiedendo che non faccia mai mancare alla nostra Chiesa i ministri necessari per la vita del popolo cristiano chiamato a testimoniare Cristo e il suo Vangelo.

Quando Cristo è venuto nel mistero dell’Incarnazione, ci ha detto S. Paolo, ha riempito il tempo con la sua eternità, santificando ogni ora e ogni stagione.

Da sempre la Chiesa prega a tutte le ore, perché il tempo è di Dio. Anche nella scansione degli anniversari e delle scadenze più significative è bello ricordarsi del Signore, Principio e Fine, Alfa e Omega, perché a Lui appartengono il tempo e i secoli.

A lui la gloria e il potere per tutti i secoli in eterno Amen.

OMELIA al temine della PROCESSIONE CITTADINA con l’immagine della MADONNA DELLE GRAZIE
Faenza, Basilica cattedrale - 6 maggio 2016
06-05-2016

Siamo qui per l’Atto di affidamento alla Beata Vergine delle Grazie, patrona della nostra diocesi e della nostra città. Sappiamo che le frecce spezzate in mano alla Vergine stanno a ricordare il suo costante intervento a proteggere i suoi figli dai mali fisici, spirituali e sociali.

Anche oggi le nostre città sono colpite da molteplici mali, alcuni più visibili, altri meno evidenti ma non meno pericolosi e distruttivi. Sono da mettere in conto i mali che non sono per sé mortali ma che denotano malesseri profondi ed interiori. È il caso di una certa incuria, del degrado di alcuni luoghi, dei muri imbrattati di non pochi edifici, che rendono la nostra bella città meno accogliente, meno piacevolmente fruibile e godibile. Non è in questo coinvolta in primo luogo la responsabilità degli amministratori quanto il senso di non appartenenza alla propria città e, inoltre, una certa irresponsabilità nei confronti dei beni collettivi. I graffiti che deturpano i quartieri non sono tanto segno della ricerca di una libera espressione quanto, piuttosto, testimonianza di disagi interiori, di implicita protesta nei confronti di un mondo che non sempre è ospitale, di voglia di reazione, di assenza di senso civico. Nonostante siamo immersi in una fitta rete di comunicazioni e di connessioni, non si riesce a cogliere quei rapporti di fraternità e di comunione che ci legano e che dovrebbero farci sentire tutti a casa nostra e, quindi, più responsabili della casa comune che è la nostra città.

Cresce il senso della solitudine, la percezione di una indifferenza generalizzata nei confronti dell’altro. Aumenta l’estraneazione rispetto alle istituzioni, ai rappresentanti, alle famiglie e, addirittura, a noi stessi. È come se fossimo alienati e non ci riconoscessimo per quello che siamo e dobbiamo essere. Manca o è troppo debole l’unione morale, la comunione delle persone, dei gruppi, della famiglie spirituali. E, così, le relazioni tendono ad essere sempre più conflittuali, perché intaccate dalla carenza di una fiducia reciproca.

Nel nostro Atto di affidamento alla Beata Vergine delle Grazie domandiamo, allora, di aiutarci a riconoscerci come persone amate da Dio, figli e figlie di uno stesso Padre. Domandiamole di essere sempre più disponibili a dare il nostro apporto gratuito anziché essere sempre lì a pretendere dagli altri. Impegniamoci a vedere il bene che esiste nel mondo e nella nostra città. Chiediamo a Maria di avere occhi per scorgerlo, per non guardare solo la punta dei nostri piedi, senza alzare lo sguardo verso gli altri e il futuro. Senza un sentire e un impegno comuni non esiste la città. Senza percepire che tutti ci apparteniamo è impossibile camminare insieme concordi. Alla Madre di Dio offriamo l’impegno e le fatiche dell’accoglienza e dell’integrazione che in questi momenti storici ci obbligano ad allargare i paletti della tenda in cui vivere tutti insieme. La città in cui viviamo è un grande patrimonio di fedi e di culture che debbono sempre più armonizzarsi, sulla base del dialogo sincero, della liberazione dai pregiudizi.

La nostra città è un grande agglomerato di edifici, contrade, rioni, spazi pubblici, mercati, negozi e chiese. Ma essa è anzitutto un insieme di famiglie. Dalla loro solidità e compattezza dipende il senso di appartenenza alla famiglia più grande che è la società civile. Cicerone scriveva che la famiglia è il semenzaio della res publica. Così, lo è della città. Se le nostre famiglie sono fragili, soggette a divisioni, il tessuto sociale, come l’ethos, ne soffre. Su di esse influiscono negativamente un’esasperata cultura individualistica del possesso e del godimento, e la mentalità consumistica e materialistica che l’anima. Il ritmo di una vita sempre di corsa, lo stress, talora la stessa triste situazione dell’inoccupazione, rendono la vita della famiglie più complicata. L’ideale matrimoniale, in un contesto in cui la libertà viene intesa e vissuta senza responsabilità, finisce per essere distrutto dalle convenienze contingenti o dai capricci della sensibilità. Ciò che, però, preoccupa maggiormente è che numerosi cristiani appaiono nei fatti non solo poco convinti della bontà della proposta di Cristo sulla famiglia, ma anche piuttosto incapaci di difenderne i valori di base nelle istituzioni. Peraltro, simili valori sono già omologati nella costituzione della Repubblica italiana, che però non sembra più godere di un comune sentire che la supporti. L’esortazione apostolica Amoris laetitia di papa Francesco, a fronte dei numerosi fallimenti della famiglia, del vincolo coniugale, e dei problemi educativi, invita le comunità parrocchiali a dispiegare una pastorale positiva, accogliente, che rende possibile un accompagnamento costante. Il pontefice riconosce che molte volte abbiamo agito con atteggiamento difensivo e abbiamo sprecato energie pastorali moltiplicando gli attacchi al mondo decadente, con scarsa capacità propositiva per indicare strade di felicità. Occorre, invece, investire un numero maggiore di energie nel proporre la bellezza della famiglia cristiana che non nello stigmatizzare le visioni distorte e riduttive. Abbiamo bisogno di trovare le parole, le motivazioni e le testimonianze che ci aiutino a toccare le fibre più intime dei giovani, là dove sono più capaci di generosità, di impegno, di amore e anche di eroismo, per invitarli ad accettare con entusiasmo e coraggio la sfida del matrimonio (cf n. 40). Bisogna essere più vicini alle famiglie nei momenti lieti e in quelli più difficili, per aiutare i coniugi ad affrontare le inevitabili crisi non in modo sbrigativo, senza il coraggio della pazienza e della riconciliazione. Occorre, per quanto possibile, prevenire i fallimenti che creano situazioni famigliari complesse e problematiche per la scelta cristiana. Così, vanno accompagnate con amore e con rispetto le famiglie in cui un figlio è tossicodipendente o manifesta tendenze omosessuali (cf n. 250).

L’atteggiamento della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia dev’essere un chiaro riflesso della predicazione e del comportamento di Gesù, il quale nel contempo proponeva un ideale esigente e non perdeva mai la vicinanza compassionevole alle persone fragili come la Samaritana e la donna adultera.

Nel nostro Atto di affidamento alla Beata Vergine delle Grazie domandiamo protezione per tutte le nostre famiglie. Supplichiamo la Madonna di aiutarci a sviluppare nelle nostre comunità parrocchiali, anche con l’ausilio del Centro per la pastorale famigliare, un’attività molteplice e costante in ordine all’accompagnare, al discernere e all’integrare nel cammino della vita e del Vangelo, evitando ogni occasione di scandalo.

In particolare, preghiamo perché crescano itinerari di discernimento che non rimuovono i problemi ma aiutano i fedeli alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Per papa Francesco occorre che cresca il senso di responsabilità per evitare il grave rischio di messaggi sbagliati, come l’idea che qualche sacerdote possa concedere rapidamente eccezioni o che esistano persone che possono ottenere privilegi sacramentali. Ci debbono essere fedeli laici discreti che non pretendono di mettere i propri desideri al di sopra del bene comune della Chiesa che deve rimanere fedele all’insegnamento di Cristo. Così, dobbiamo avere pastori che riconoscendo la serietà delle questioni che sono chiamati a trattare, evitano che un determinato discernimento pastorale porti a pensare che la Chiesa sostenga una doppia morale.

Quanta attenzione alle esigenze del Vangelo e quanta prudenza! Maria Beata Vergine delle Grazie accetti il nostro impegno di Chiesa a predisporci alla ricezione della Amoris Laetitia mobilitandoci tutti insieme, parrocchie, associazioni, aggregazioni, movimenti, comunità religiose, nei dovuti modi, secondo i tempi che saranno programmati.

Beata Maria Vergine delle Grazie, prega per noi!

OMELIA per la SANTA MESSA per la COOPERAZIONE
01-05-2016

La promessa di Cristo dell’invio dello Spirito Santo da parte del Padre ai discepoli (cf Gv 14, 23-29) giunge a noi in questo primo giorno di maggio. Lo Spirito Santo, fonte della sapienza, ci insegna ogni cosa, ricordando tutto ciò che ci ha detto Gesù. È grazie allo Spirito che ci è consentito di osservare la Parola del Figlio e di amarlo. E così permettiamo al Padre e al Figlio di prendere dimora presso di noi. Noi non ragioniamo più soltanto con la nostra mente, ma vediamo e amiamo con la loro intelligenza e il loro cuore. Questa è la stupefacente condizione in cui siamo posti, grazie al dono dello Spirito d’amore del Padre e del Figlio. Non siamo più soli. Lo Spirito Santo ci è dato per esserne coscienti e capacitarci delle nostre potenzialità, smarcandoci dai luoghi comuni della nostra cultura, da abitudini troppo umane e nemiche del bene. Oggi, primo giorno di maggio, siamo chiamati a farlo rispetto al tema del lavoro. Viene in nostro aiuto la Commissione per i problemi sociali e il lavoro della C.E.I. consegnandoci un Messaggio dal titolo: Il lavoro: libertà e dignità dell’uomo in tempo di crisi economica e sociale.

Il lavoro, pur essendo un bene e un diritto fondamentale, scarseggia, mettendo a repentaglio la dignità e la libertà degli uomini e delle donne. Quando manca, diminuiscono le opportunità di crescere secondo dignità e di vivere liberamente e responsabilmente. In questo momento storico, in cui si soggiace ad un capitalismo finanziario ad alta speculazione e ad una strisciante tecnocrazia, viene svalutato e diminuito il lavoro manuale, artigianale, sia esso agricolo, industriale o sociale. È proprio in questo contesto che la C. E. I., in sintonia con il pensiero di papa Francesco, sollecita innanzitutto a potenziare l’educazione al lavoro, concepito come luogo di evangelizzazione e di umanizzazione. Al riguardo, incoraggia a sfruttare al massimo l’alternanza scuola-lavoro, così come è stata recentemente riformata. In secondo luogo, propone poi di creare spazi di sperimentazione di nuove forme di operosità che lasciano libera espressione alla creatività e all’intraprendenza.

Credo che, da parte nostra, le indicazioni offerte dalla Chiesa italiana potranno essere concretizzate seguendo almeno due strade. La prima, riprendendo e rilanciando la pastorale d’ambiente, ossia tutte quelle attività di evangelizzazione e di formazione umanistica relative al mondo del lavoro, che dovrebbero essere attuate anzitutto dagli stessi lavoratori cristiani, nei luoghi ove operano. Ogni lavoratore, ogni imprenditore ha una missione di evangelizzazione e di umanizzazione. Occorre, pertanto, che sacerdoti e laici, ben formati e consapevoli di essere chiesa ad gentes, animino e accompagnino a ciò lavoratori e imprenditori. La seconda strada è rappresentata dall’incentivazione di una rete tra associazioni, organizzazioni, movimenti cristiani o di ispirazione cristiana in modo da essere presenti nel territorio con maggior capacità di incidere rispetto alla disoccupazione e alla creazione di nuove opportunità lavorative, collaborando con altre reti di diversa ispirazione. Nella «Due Giorni» dei primi di aprile, organizzata dalle due diocesi di Faenza-Modigliana e di Imola, assieme al loro associazionismo cattolico, è stata realizzata una Fiera intitolata “Giovani e lavoro”, con l’intento di mostrare strade di formazione al lavoro, di accompagnamento, di orientamento, di inserimento. Si è potuto constatare che lavorare insieme, per il bene di tutti, per offrire chance di libertà è possibile, è bello. Là dove il lavoro è carente non può fiorire la libertà. Dove, invece, esistono opportunità di occupazione dignitosa, la libertà responsabile cresce.

In questo contesto, il mondo della cooperazione, aprendo realmente le porte all’azione dello Spirito Santo, potrà svolgere un ruolo importante, specie riscoprendo le proprie origini di mutualità e di reciprocità, sbaragliando quelle strane forme di omertà interna che ledono i processi democratici di partecipazione, incentivando la trasparenza circa i bilanci e gli onorari degli alti dirigenti, diminuendo le disparità tra la base dei soci e i vertici della governance.

Uno degli obiettivi per il territorio nazionale segnalati dal Messaggio è quello di crescere nella consapevolezza che il Paese non può guardare con serenità al futuro, finché permangono gli attuali squilibri economici e sociali tra Nord e Sud. L’interdipendenza ci lega tutti nello stesso destino comune in cui ci si salva o si sprofonda insieme. Pertanto, occorre pensare a forme di collaborazione che spezzano innanzitutto le catene della corruzione e che istituiscono scambi e condivisione di esperienze positive come è nel caso di Policoro, che dal Sud è stato trapiantato nel nostro territorio.

Il panorama degli aspetti negativi, che incontriamo sul nostro cammino, può scoraggiare. Ma contemporaneamente può venire a noi un incoraggiamento dalle cose nuove e promettenti che stanno nascendo. La strada, ci ricorda il Messaggio, è ancora lunga, perché l’Italia è stata per troppo tempo immobile. È giunto il tempo di ricominciare a camminare speditamente tutti insieme.

Non dimentichiamo che una nuova cultura del lavoro sorge soprattutto grazie ad una spiritualità profonda, che trova nutrimento nella partecipazione ai sacramenti e nella assimilazione dell’insegnamento sociale della Chiesa. Solo uniti a Cristo, Colui che fa nuove tutte le cose, diventeremo capaci di rompere i vecchi schemi, di aprire varchi alla creatività a vantaggio di tutti, specie i più deboli e coloro che vedono ogni giorno aumentare le spese e diminuire le entrate. La comunione con Cristo, l’accoglienza del suo Spirito non possono che inquietarci di fronte a diseguaglianze ingiuste e renderci più assetati di equità. Viviamo, allora, la celebrazione di ogni santa Messa senza doverci rammaricare di aver perso un’opportunità di rinascita spirituale e morale, di impegno coerente e coraggioso. Che lo Spirito del Signore risorto ci aiuti e ci rinnovi sempre!