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OMELIA nella Solennità della ASSUNZIONE di MARIA (Messa vespertina della vigilia)
14-08-2016

Celebriamo oggi la solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria in cielo, dogma definito nell’anno del Giubileo 1950 da Pio XII, il primo novembre.

Colei che fu Madre di Dio, come fu preservata dal peccato originale, così lo fu dalla corruzione del corpo. Al pari del corpo del Figlio che risuscitò e salì al cielo trasfigurato anche il corpo di Colei che lo portò in grembo e lo generò è assunto in cielo integro, senza subire dissoluzione, ed è glorificato. Il Figlio e la Madre subirono la morte, ma non il disfacimento del loro corpo, a differenza del nostro, che sarà sottoposto alla corruzione del sepolcro.

Colei che ha generato il Signore della vita non poteva non essere rivestita dell’immortalità, oltre che nella sua anima, anche nel corpo. Maria, dunque, non subì la corruzione del sepolcro, né dovette attendere la redenzione del suo corpo alla fine del mondo.

A ben riflettere, nel periodo estivo, quello delle ferie agostane, la Chiesa ci sospinge a celebrare con gioia gli effetti della redenzione di Cristo, morto e risorto, sull’umanità, a cominciare da sua Madre. In questa «Pasqua dell’estate», san Paolo ci istruisce così: Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Se per mezzo di un Uomo, Adamo, venne la morte, per mezzo del Nuovo Adamo, Cristo, viene la resurrezione dei morti. E, così, dopo Cristo che è risorto, risorgeranno tutti coloro che sono suoi. Maria, assunta in cielo in anima e corpo, è la prima dopo la primizia che è Cristo, a condividere il destino di gloria del Figlio.

Guardando a Maria vediamo già realizzato il nostro futuro. La nostra esistenza, pur subendo il disfacimento nel corpo, non finirà definitivamente in un pugno di cenere, nella tomba. I cimiteri dei cristiani, non a caso, nel loro stesso nome indicano di essere dei «dormitori»: i corpi dei fedeli defunti dormono il sonno della pace in attesa del ricongiungimento, nell’ultimo giorno, con la propria anima gloriosa. Dopo la corruzione del corpo nel sepolcro saremo redenti e glorificati anche noi nel corpo. Se veniamo sepolti corruttibili, risorgiamo incorruttibili.

Il nostro destino, dunque, è quello di una vita non indebolita o depotenziata. Camminiamo verso un futuro di pienezza, uniti a Cristo, primizia di coloro che sono morti e risorgeranno. Durante il nostro pellegrinaggio terreno, al termine del quale condivideremo il destino di Maria, madre dei credenti, siamo chiamati a cantare anche noi il suo Magnificat, che abbiamo sentito oggi proclamare. Maria che lo canta e dona al mondo il Redentore, è misericordia vivente del Padre. È misericordia accolta, condivisa, testimoniata. Come Lei diventiamo protagonisti e testimoni di una misericordia globale, ossia di una misericordia per tutti gli ambiti della vita. Consentiamo l’incarnazione di Dio nella nostra storia e nelle nostre vite, nelle istituzioni. Ma dobbiamo essere attenti alle precondizioni di tutto questo. Detto altrimenti, non dobbiamo solo operare per una «rivoluzione» sociale. Come insegna il Magnificat, che è risuonato nella casa di Elisabetta e continua a echeggiare nelle nostre comunità, occorre prima credere, avere fede in Dio, nella sua misericordia, che è di generazione in generazione e, quindi, operare primariamente per una rivoluzione spirituale ed etica.

Per essere capaci di realizzare la rivoluzione di Dio, la sua «pazzia» d’amore, non possiamo trascurare il nostro incontro con Lui, mediante preghiera, comunione, richiesta di perdono e, in particolare, non possiamo rinunciare a vivere la misericordia suprema. La misericordia più grande che Maria di Nazaret ha vissuto nei confronti del suo popolo e dell’umanità è l’aver accettato di diventare Madre di Dio e di averLo donato. Come Lei dobbiamo imparare a generare Gesù Cristo nel mondo, nelle nostre famiglie, negli ambienti di vita. Solo donando il Figlio di Dio possiamo diventare generativi di un nuovo umano, di un nuovo mondo sociale, capaci di abbattere le cause strutturali della povertà, l’ingiustizia, l’illegalità.

Come la giovane donna di Nazaret abbiamo fiducia in Dio, ma anche nelle persone, nella loro capacità nativa di essere persone comunitarie, generatrici di dono e di servizio, ma soprattutto di Cristo. Allora, sarà tempo di messi abbondanti, di pace.

Preghiamo Maria, assunta in cielo, perché ci ottenga dal Signore operai per la sua messe. Preghiamola perché diventiamo capaci di educare le nuove generazioni al desiderio di Dio, all’incontro con Cristo, perché ne divengano annunciatori e testimoni credibili, collaborando a costruire le comunità cristiane e a renderle sempre più missionarie in tutto il nostro territorio.

OMELIA nella SOLENNITA’ di SAN CASSIANO, patrono di IMOLA
Imola - Basilica Cattedrale, 13 agosto 2016
13-08-2016

Eccellenza, Illustri delegazioni delle città di Bressanone e Comacchio, Autorità militari e civili, Cari fratelli e sorelle, la solennità del Patrono san Cassiano ci vede comunità in festa attorno a colui che con il suo martirio è stato seme di cristiani (cf Tertulliano, Apologeticus, 50), punto di riferimento dei suoi contemporanei – basti pensare a san Pietro Crisologo, vescovo di Ravenna, che volle essere sepolto vicino alle sue spoglie – ed è per noi, oggi, protettore e modello di vita cristiana.

La festa patronale per una diocesi è l’occasione per ri-offrirsi al Signore, nell’impegno di un rinnovato slancio missionario, rivissuto nell’attuale contesto socio-culturale, chiaramente secolaristico. Il martire Cassiano ha trasfigurato la propria esistenza con un atto supremo di amore a Cristo, rifiutando di adorare gli dei pagani, venendo ucciso proprio perché cristiano, ritenuto pericoloso per l’ordine costituito. San Cassiano è divenuto seme di cristiani rivivendo in sé il sacrificio di Cristo, il suo impegno di redimere il mondo, divinizzandolo ed umanizzandolo. Ha così rivendicato per ogni persona la prima libertà, quella religiosa, quella oggi più ferita, radice di ogni altra libertà. Nello stesso tempo si è offerto totalmente a Colui che è principio dell’Amore e della Vita, rispondendo all’amore donato con la propria esistenza. Per il credente non vi sono altri dei all’infuori di Dio, uno e trino. Se si muore con Cristo, con Lui anche si vive (2Tim 2, 11).

Proprio così, come ci attestano varie fonti, ma soprattutto il culto ininterrotto sino a noi, san Cassiano è stato costruttore della comunità cristiana e della città imolesi, annunciatore di speranza e di fratellanza, pilastri di una nuova civiltà, aperta alla Trascendenza. I cristiani che visitavano la sua tomba e che l’hanno venerato come patrono lungo i secoli, hanno inteso incontrare e amare, attraverso di lui, Cristo stesso, il Martire per eccellenza: un discepolo non è più grande del maestro (cf Mt 10, 24). San Cassiano venne cercato dalla gente comune e dalle persone colte, come quel Prudenzio che nel quinto secolo si fermò a rendere omaggio alle sue spoglie, e venerò in lui una persona libera, capace di resistere ad un’autorità che voleva obbligare a tacitare la propria coscienza. Fu eletto patrono di altre Chiese, proprio perché con la sua vita e il dono eroico di sé insegnò l’adesione incondizionata a Cristo e la necessità di testimoniarlo coraggiosamente. Di questo c’è bisogno oggi, in un mondo in cui Dio è ancora antropomorfizzato, fatto a propria immagine, scambiato con falsi dei. Solo mediante la fede in Cristo e l’educazione ad essa – non dimentichiamo che san Cassiano utilizzava la sua professione di insegnante per evangelizzare – i popoli acquisiscono la coscienza della loro altissima dignità, della fraternità e della loro fondamentale uguaglianza. Solo mediante esse fiorisce una libertà responsabile, si rafforzano il diritto e la giustizia, si ordinano quelle scale di beni-valori ove i mezzi non sono scambiati coi fini.

Cari fratelli e sorelle, i santi, come san Cassiano per questo territorio e per le Chiese che l’hanno eletto a patrono, sono fonte di rivoluzioni morali e spirituali, nonché sociali, davvero radicali. Lo possono essere anche nella cultura contemporanea, preda di nuove idolatrie, quali il consumismo materialistico, il profitto a breve termine assolutizzato, la tecnocrazia, l’individualismo radicale. Imitiamo i nostri santi e guardiamo a Cristo. Egli ci dà forza ed intelletto per abbattere le strutture di peccato e riformare quelle leggi che sono erroneamente ritenute conquiste di civiltà ma che, invece, devastano l’essere umano o, addirittura, come nel caso dell’uccisione dei nascituri, ne calpestano brutalmente il diritto alla vita. È vera libertà quella che è intesa come la potestà di fare tutto ciò che si crede senza limiti di sorta?

Si ha l’impressione che molti della nostra gente, specie le nuove generazioni, pur vivendo in un contesto in cui il cristianesimo ha imbevuto di sé istituzioni e costumi, a partire da persecuzioni e prove dure, non attribuiscano più un’alta considerazione alla loro fede. Il cristianesimo non è più ritenuto fonte di liberazione e di umanizzazione. È spesso pensato come un freno alla propria libertà e alla crescita umana. Sebbene abbiamo molte testimonianze della fede sparse ovunque – si pensi alle chiese, alle opere d’arte, agli ospedali e alle università, ai vari segni religiosi che contraddistinguono le nostre città e le nostre campagne – l’essere di Cristo non è più sentito come proprio, un tratto distintivo della propria condotta. È spesso vissuto come un’appartenenza superficiale, incapace di mettere radici profonde nelle persone e nel tessuto sociale e politico. E così l’essere cristiano si svuota della sua verità e dei suoi contenuti più propri, rischia di diventare un orizzonte che solo superficialmente abbraccia la vita. L’esperienza di fede in Gesù crocifisso e risorto non illumina il cammino della vita, non la trasforma.

In vista di una conversione pastorale e pedagogica è necessario che ci immergiamo, come ci sollecita a fare l’anno del Giubileo, nella misericordia del Padre. Sarà proprio un rinnovato re-incontro con Gesù Cristo, incarnazione vivente della misericordia di Dio, che rivitalizzerà le nostre comunità e riscalderà i nostri cuori nella missio ad gentes. Vivendo Cristo, il suo dono totale a Dio, potremo essere capaci di trasfigurare la nostra esistenza e le istituzioni, fondandole sui pilastri della fraternità e della giustizia. Cristo ci aiuterà a seminare nei solchi della storia un nuovo umanesimo, per il quale la libertà si lega alla verità e al bene, l’economia e la politica sono al servizio del bene comune, ossia bene di tutti e non di pochi. Oggi abbiamo un estremo bisogno di una fede capace di inculturarsi e di plasmare le coscienze e le civiltà. Possiamo – è lecito domandarsi – permetterci il lusso di trascurare quelle istituzioni che, come la famiglia e la scuola cattolica, sono piuttosto bistrattate dall’attuale politica, anzi sono sfavorite con legislazioni che ne penalizzano l’esistenza, rispettivamente mediante o una subdola decostruzione giuridica o il carico di ingiusti gravami fiscali? La dimensione sociale della fede, di cui ci ha parlato più volte papa Francesco, non deve, forse, renderci più attivi e responsabili a servizio dei bisognosi, non solo con piani assistenziali ma soprattutto sradicando le cause strutturali della povertà, affinché tutti siano inclusi nella società e vedano accresciute le loro capacità di partecipazione alla gestione della res publica? La misericordia ricevuta va vissuta e testimoniata globalmente. Detto diversamente, l’esperienza della misericordia che ci dona la vita di Dio, la sua capacità di amare e di perdonare, va portata in ogni ambito dell’attività umana: nel lavoro, nella famiglia, nell’economia, nella finanza, nella politica, nel mondo dei mass media, nella cultura e nella scuola, nelle relazioni internazionali. Grazie al dono della vita di Dio vinciamo il male col bene, l’offesa e la violenza con il perdono e con la lotta per la giustizia, la paura e la chiusura con il servizio all’altro. Come ha detto papa Francesco ai giovani a Cracovia, durante la scorsa Giornata Mondiale, la misericordia ci sollecita ad andare per le strade seguendo la «pazzia» del nostro Dio che ci insegna ad incontrarlo nell’affamato, nell’assetato, nel nudo, nel malato, nell’amico che è finito male, nel detenuto, nel profugo e nel migrante, nel vicino che è solo (cf Francesco, Discorso durante la Veglia di preghiera, 30 luglio 2016). Ma ci sollecita anche a divenire «attori politici», persone che pensano, animatori sociali. Soprattutto ci sospinge a portare la Buona Notizia. Non dimentichiamolo, allora: vivere la misericordia di Dio importa una particolare dedizione nel donare Cristo agli altri, specie mediante il perdono. Così, non scordiamo quanto ci ha insegnato Benedetto XVI: l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore dello sviluppo integrale (cf Caritas in veritate, n. 8).

Come cattolici, pertanto, perché non impegnarci a compattare almeno un nuovo movimento culturale e sociale che aiuti ad essere in rete, ad elaborare nuovi progetti sociali, a preparare nuove rappresentanze secondo l’ispirazione cristiana? 

La solennità di san Cassiano ci induca ad investire convintamente in una rinnovata pastorale vocazionale, aperta alla formazione di nuove generazioni di sacerdoti e di fedeli laici. Ne deriveranno necessariamente conseguenze di redenzione per tutti i vincoli sociali, per la legislazione e per la cultura..

Il cibo dei forti alimenti il nostro spirito e il coraggio di una nuova evangelizzazione. San Cassiano ci ispiri e ci protegga.

OMELIA per la festa di SANTA CHIARA
Faenza - Convento Santa Chiara, 11 agosto 2016
11-08-2016

Chiara dal carattere forte, deciso ed indipendente scappa di casa per consacrarsi interamente al Signore, rapita dalla sublime conoscenza di Lui (cf Fil. 3, 8-14). Nobile, ricca, sognata da molti giovani, rinuncia al matrimonio, ad una posizione sociale agiata.  Per guadagnare Cristo lascia perdere tutte le cose che dagli uomini sono ritenute importanti e le considera una spazzatura. Cosa aveva in mente? Perché una scelta così radicale, che la poneva dalla parte di coloro che contavano di meno nella società?  Che cosa, ultimamente, le interessava, lei diciottenne, che aveva più di un’opportunità spalancata dinnanzi a sé? Mentre indossava un rude saio, segno di rottura col mondo e col passato, desiderava star dentro la storia, ma in un modo diverso da quello abituale. E tutto questo per amore, per servire Cristo, per indicarlo come punto di riferimento indispensabile, per cambiare le cose nella Chiesa e nel mondo.

Anche noi, oggi, in un contesto in cui viviamo di corsa, indaffarati e indifferenti, al punto spesso da dimenticare gli altri e il senso della nostra vita, abbiamo bisogno di persone che con le loro scelte coraggiose ci sappiano indirizzare a Colui che ci può salvare e colmare con la sua Vita.

Chiara capì che per essere di aiuto ai suoi contemporanei doveva spogliarsi di tutto ed essere, invece, rivestita di Cristo. Poteva regalarlo, se prima era totalmente sua. E questo non da sola. Assieme a Chiara, altre giovani si consacrarono a Dio e trovarono rifugio presso la Chiesa di san Damiano, ad Assisi. Qui la comunità crebbe, aiutata da quella dei frati che si era formata attorno a Francesco. Accolse anche le sorelle di Chiara, Agnese e Beatrice, nonché la loro stessa madre. Erano donne che non intendevano fuggire dal mondo, sebbene vivessero ritirate. Non volevano evadere dalle difficoltà quotidiane della gente. Immerse nella preghiera, si sostenevano col loro lavoro, senza peraltro rifiutare l’aiuto di coloro che le accompagnavano con simpatia.

Per loro, però, era prioritario essere al servizio della Chiesa, vivendo davanti a Dio con la preoccupazione della salvezza di tutti. Un esempio non solo per i tempi passati, ma anche per i nostri giorni!

Lo sappiamo bene: Francesco prima, Chiara poi, con altri fratelli e sorelle, abbracciarono «madonna» povertà e con la loro vita di innamorati di Dio resero più giovane e più bella la Chiesa, ricostruendola là ove era cadente. Francesco e i suoi frati minori; Chiara e le sue sorelle minori, non solo ricostruirono le chiese fatte di pietre materiali, ma specialmente la chiesa costruita con pietre spirituali. Fu una primavera per il popolo di Dio

Venendo a noi, in un momento storico in cui la Chiesa sembra perdere terreno sia per scarsa incisività culturale sia perché cresce l’analfabetismo religioso, domandiamoci: troviamo o prepariamo giovani generazioni che siano interessate alla causa del Vangelo e perciò trovino l’ardire di consegnare la vita a Dio  per rinnovare la propria comunità, donandosi interamente a Lui? Crediamo ancora che una comunità di religiose, come lo sono le nostre sorelle Clarisse, possano, pur trascorrendo una vita visibilmente separata a motivo della clausura, essere fermento di quella conversione pastorale e pedagogica a cui ci ha invitato papa Francesco con la sua esortazione apostolica Evangelii gaudium?

Se ben riflettiamo la loro presenza, benché silenziosa, è quanto mai efficace. Il loro servizio di preghiera, di accoglienza, di aiuto ai poveri, di accompagnamento spirituale, le rende luce in mezzo alla nostra città e per la nostra Diocesi. Il loro amore indiviso a Cristo, che le fa più forti nella testimonianza, le mostra a noi quali persone più soavi, vere sorelle e madri, che ci accompagnano nel nostro pellegrinaggio di fede, fra le vicende della storia, verso Dio Trinità.

«Chiara si nascondeva, ma la sua vita era rivelata a tutti. Taceva, ma la sua fama gridava», è scritto nella bolla di canonizzazione, avvenuta nel 1255, ad opera di papa Alessandro IV. Care sorelle Clarisse, la vostra esistenza qui tra noi sia sempre più simile a quella della vostra santa Fondatrice, ossia luce e consolazione per il popolo di Dio. Aiutateci con la vostra preghiera e il vostro servizio apostolico a fare di tanti giovani, che passano momenti preziosi di incontro col Signore nella vostra casa, delle persone audaci, ispirate dal profondo desiderio di seguire il Maestro, Francesco e Chiara. 

Profitto di questa festa per ringraziarvi – senza, peraltro, dimenticare gli altri conventi della nostra Diocesi che pure l’hanno fatto – per quanto avete offerto al Signore a favore dei nostri giovani partecipanti alla Giornata Mondiale della Gioventù a Cracovia. Essi hanno avuto la fortuna di vivere alcune settimane completamente immersi nell’esperienza della Misericordia, mediante la cordiale e fraterna ospitalità della gente polacca, mediante incontri, catechesi, momenti di preghiera, visite a santuari, a luoghi di drammatica ed inaudita crudeltà come Auschwitz, che ha indotto tutti a interrogarsi sul nesso tra perdono e giustizia. Sono stati giorni ricchi di emozioni ma soprattutto di fede. Sicuramente hanno lasciato tracce profonde nel cuore dei partecipanti, irrobustendo le motivazioni del loro dono e della loro missione. Grazie, dunque, care sorelle, perché tutto è andato bene, anche con il vostro sostegno. Il Signore vi benedica e vi ricompensi. Vi accompagni nella preparazione all’ormai prossimo Capitolo. Celebriamo con fede l’Eucaristia, e come Chiara affidiamoci a quel Gesù che protesse lei e le sue suore dall’aggressione dei Saraceni. Sono consolanti  le parole con cui il Signore la rassicurò: «Io ti difenderò sempre».

OMELIA nell’anniversario della nascita della venerabile BENEDETTA BIANCHI PORRO
Dovadola, 7 agosto 2016
07-08-2016

Cari fratelli e sorelle, nel giorno in cui ricordiamo Benedetta Bianchi Porro, il brano del Vangelo di Luca (12, 32-48) ci sollecita a vivere la nostra esistenza nella vigilanza. A noi è stato dato il Regno di Dio. Non solo. A noi è stato dato il compito di amministrare le cose, il mondo, ma soprattutto la nostra vita. Ce ne sarà reso conto. Non sappiamo quando. Proprio per questo occorre essere sempre pronti e agire responsabilmente. Il tempo dell’attesa deve essere contrassegnato dal segno della fedeltà alla missione data. Non bisogna lasciarsi andare all’ignavia e alla pigrizia. Occorre perseverare nella propria vocazione. Il principale compito affidato al cristiano è certamente quello di crescere in maniera simile a Cristo, lasciandosi trasfigurare dal suo amore, divenendone annunciatori e testimoni coraggiosi, costi quel che costi, nella buona e nella cattiva sorte. Chi appartiene a Cristo sa che il talento più prezioso che gli è stato affidato e che deve essere amministrato con scrupolosa accortezza è la vita di unione a Colui che redime e salva.

Possiamo definire Benedetta Bianchi Porro un’esistenza o, meglio, un corpo ed uno spirito afferrati e trasfigurati dall’amore di Cristo, in un sacrificio gradito al Padre. E tutto questo mediante e durante un calvario incredibile di sofferenze fisiche e spirituali ininterrotte. Morta a ventisette anni, colpita da un morbo rarissimo e inesorabile fu costretta ad interrompere gli studi. Le mancava un solo esame per conseguire la laurea in Medicina. La malattia, una sorta di tumore ai centri nervosi la rese prima sorda, poi cieca. Perse, inoltre, l’uso degli altri sensi: l’odorato, il gusto, il tatto. Mentre nelle varie parti del corpo diventava progressivamente immobile, eccetto la mano destra, mediante la quale comunicava, la sua intelligenza rimaneva accesa. Alla fine, Benedetta si esprimeva con un filo di voce. Pur nel buio e nel silenzio, che la isolava da tutto, vedeva e percepiva Dio con gli occhi interiori del suo spirito. Se ne sentiva invasa. La Sua presenza la faceva, incredibilmente, ridere e cantare di gioia. Stupiva come in un corpo così martoriato dalla malattia e straziato dalla sofferenza ci fosse tanta riconoscenza. La percezione intensa di Dio che si dona tutto all’uomo rendeva la sua esistenza bella e degna di essere vissuta, nonostante il dolore che la opprimeva. L’animo era una sorgente zampillante gratitudine. «Grazie» è l’ultima parola pronunciata dalle sue labbra. Riassumeva ed esprimeva tutta la sua esperienza di credente, abitata da Cristo, nella sua passione. Assimilata al suo Redentore e Signore  sente gioia nell’essere conforme a Lui col dono totale di sé. Tutto diventa bello, compreso quel mondo da cui Benedetta, sempre più, è isolata. Sente nell’aria l’odore della primavera. Con gli occhi di una mistica vedeva la natura coinvolta nella nuova creazione operata da Colui che muore ma risorge, trascinando tutto in una nuova condizione d’essere, quella delle creature che posseggono una stessa origine e uno stesso fine.

Cari fratelli e sorelle poniamoci una domanda? Perché sentiamo il bisogno di guardare a Benedetta?

Benedetta è grande non tanto per la sua capacità di vivere il dramma di un progressivo disfacimento fisico, ma soprattutto perché ci insegna l’importanza della spiritualità, del suo primato per la nostra vita. Senza un’intensa vita interiore Benedetta non avrebbe trovato la straordinaria capacità di rispondere ai drammatici interrogativi del suo animo. Non sarebbe stata in grado di vivere un’ascesi continua, con conversioni incessanti, quali erano richieste, anno dopo anno, giorno dopo giorno, dal suo calvario. Era necessario rinnovare l’incontro con il suo Dio, ricominciare sempre da capo, ogni momento. A fronte di un innato desiderio di vita, nonostante il suo progressivo spegnersi, doveva offrirsi come vittima che completava in sé le sofferenze di Cristo, la sua missione di crocifisso per amore.

In un mondo, contrassegnato da tragedie e da crudeltà che rubano la speranza alle persone, in cui crescono i calvari, i percorsi di esistenze drammaticamente sole, abbiamo bisogno di imparare da Benedetta. Pur sommersi da tante comunicazioni ed interconnessioni rimaniamo isolati nella sofferenza, portando sulle spalle fardelli troppo pesanti. Spesso non ci sorregge il senso della vita. Cresce l’angoscia e, talvolta, la disperazione. Tutto diventa insopportabile ed appare ingiusto. Non si è lieti e in pace col mondo. E così, non esiste estasi, uscita da sé, e nemmeno l’incanto di una natura che esprime la bellezza e la bontà del Creatore. Gli altri appaiono estranei, esseri ostili, anziché fratelli. La sofferenza è un fardello troppo pesante e non c’è modo di metabolizzarlo, di trasformarlo in atto d’amore e di offerta per i fratelli e per Dio. Non vi sono traguardi trascendenti, purificazioni interiori, svolte importanti. C’è la percezione solo di se stessi, di pesi insopportabili. Cari fratelli e sorelle, quando tutto sembra perduto, solo la fede in Gesù, dà la forza per proseguire e camminare eroicamente. Uniti a Gesù che redime e salva si può ancora sognare un mondo nuovo, meno violento, più fraterno e giusto. Si può sognare anche una Chiesa meno chiusa in se stessa, meno impegnata solo nella conservazione dell’esistente. Da un rinnovato incontro con Colui che vive nella storia e nella comunità dei credenti, può derivare l’impulso ad una fede adulta, più esplicita, che consente di cogliere e di coltivare un progetto, unificato ed unificante, interamente centrato sul Figlio di Dio che è venuto a ricapitolare tutto in sé.

Nell’incontro con Lui, anche in questa Eucaristia che stiamo celebrando, cresce la consolante certezza che della nostra vita e della città architetto e costruttore è Dio stesso, come peraltro ci ha detto la Lettera agli Ebrei oggi proclamata (cf Eb 11, 1-2.8-12). Viviamo tenendoci pronti ad accogliere in ogni istante il Signore che viene. Saremo beati, felici, come ci dice il Vangelo di Luca (12,32-48), quando il Signore, venendo, ci troverà vigilanti, ossia pronti ad accoglierlo nella nostra vita. Chi rimane fedele alla propria vocazione e missione, quella di annunciatore e portatore di Cristo, riceverà una ricompensa oltre ogni previsione. Mangerà e berrà in eterno alla sua mensa. Troveremo Lui che ci farà mettere a tavola, e passerà a servirci, con le mani colme di doni.

OMELIA per l’anniversario dell’ECCIDIO di CRESPINO
Cresipino sul Lamone, 17 luglio 2016
17-07-2016

Eccellenza Reverendissima Mons. Gastone Simoni, vescovo emerito di Prato, Signori Sindaci, Autorità civili e militari, cari fratelli e sorelle, celebriamo l’Eucaristia ricordando l’Eccidio di Crespino del Lamone e Fantino nel 72° anniversario. Nel Sacello-Ossario riposano tra gli altri don Fortunato Trioschi, parroco di Crespino del Lamone e un gruppo nutrito dei suoi parrocchiani.

Il pastore ha condiviso la sorte delle sue pecore e qui sepolti attendono la risurrezione della carne.

In questo Monumento troviamo un segno importante: il segno di una comunità che, a fronte di un’immane tragedia che la semidistrugge, custodisce le salme dei defunti in uno stesso luogo, per dire a tutti i visitatori il desiderio di restare sempre uniti, in vita e in morte, come popolo di Dio che crede nella libertà. Il popolo di Crespino non ha innalzato semplicemente un Monumento. Ha costruito anche una chiesa, ove far rivivere non una memoria qualunque, bensì un evento cristiano che si protrae nel tempo e costruisce la storia; ossia, l’unione al Sacrificio di Cristo – vittima innocente -, di altre vite innocenti, barbaramente falciate a colpi di mitra. Vittima che non muore inutilmente, ma è, invece, il seme che cade in terra e fa germogliare un’esistenza nuova. Tutto questo ammaestra e sollecita a camminare per le strade del mondo, quale popolo che, unito a Cristo risorto – i nostri caduti vivono in Lui -, diventa principio di una nuova creazione. Il Risorto consola i suoi e dà forza nell’impegno di costruire una società più libera, giusta e pacifica. Celebrando l’Eucaristia in questo luogo, che parla di brutale violenza e di fede, guardando al Crocifisso, che ha perdonato i suoi uccisori, riscopriamo cosa ci aiuta a respingere l’odio e a spezzare la catena della violenza: è la forza dell’amore di Cristo, che ama sino alla morte; è la forza dell’amore che abbraccia anche il nemico.

Cari fratelli e sorelle non basta, però, pronunciare o ascoltare un’omelia per cambiare noi stessi e il mondo. Non basta scendere in piazza per realizzare il bene della pace. Noi che viviamo in un contesto di «terza guerra mondiale a pezzi», per cambiare le cose non dobbiamo solo condannare ogni follia omicida e ogni attacco contro la fede e la libertà. Non è sufficiente disapprovare l’ennesimo eccidio, come quello avvenuto il 14 luglio scorso, a Nizza. Occorre che disarmiamo i nostri spiriti, che abbandoniamo l’odio, la discriminazione e l’indifferenza nei confronti dell’altro, singolo o popolo. Dobbiamo guardare all’altro con occhi diversi, vedendo in lui un simile, un fratello, uguale nella dignità umana. Dobbiamo dire no al male e alle sue seduzioni. Dobbiamo scegliere il bene, pronti a pagare di persona. In breve, dobbiamo essere discepoli di Cristo. Questo, tra l’altro, comporta dire di no all’odio fratricida e alle menzogne di cui si serve, alla violenza in tutte le sue forme, a cominciare dalla soppressione dei nascituri nel grembo materno. Anche questo è usare violenza: una violenza vile nei confronti di chi vive ed è inerme e non può difendersi. Il nostro no deve estendersi alla guerra – no alla guerra ! -, alla proliferazione delle armi e al loro commercio illegale. Ci troviamo davanti ad uno strano e paradossale fenomeno: mentre gli aiuti e i piani di sviluppo sono ostacolati da intricate e incomprensibili decisioni politiche, da fuorvianti visioni ideologiche o da insormontabili barriere doganali, le armi no; non importa la loro provenienza, esse circolano con una spavalda e quasi assoluta libertà in tante parti del mondo. E in questo modo, a nutrirsi sono le guerre e non le persone [cf Francesco, Discorso alla Sessione annuale della Giunta Esecutiva del Programma Alimentare mondiale (PAM), 13 giugno 2016]. Non dobbiamo essere conniventi con simile commercio, con i mercanti di morte, con i governi che danno un tacito consenso ottenuto con la corruzione. Non dobbiamo solidarizzare mediante tante azioni, compresi gli investimenti presso le cosiddette «banche armate», che finiscono per rendere superpotenti le lobby che sono solo interessate al divampare dei conflitti e alla loro continuazione nel tempo. Non dobbiamo favorire quel fondamentalismo religioso che viene usato per giustificare la diffusione dell’odio, della discriminazione e della violenza. La giustificazione di tali crimini sulla base di idee religiose è inaccettabile. «Dio non è un Dio di disordine, ma di pace» (1 Cor 14, 33).

Purtroppo oggi il secolarismo investe ampi settori della società. Le nostre vite sono, come le ha definite Zygmunt Bauman, «vite di corsa», spesso dominate dall’indifferenza nei confronti dell’altro e di Dio. L’individualismo radicale assolutizza il libero arbitrio, rinchiudendo le persone in se stesse, privandole di un orizzonte di trascendenza, rendendole mendicanti di una falsa sicurezza. Questa viene spesso individuata negli idoli del denaro, della performatività e della tecnocrazia. Il risultato è la schiavitù, la deprivazione della libertà, la diminuzione della responsabilità sociale. L’uomo che ignora o si fa Dio perde se stesso, la sua libertà. Come abbiamo sentito dal Vangelo di Luca 10, 38-42, il Signore rimprovera affettuosamente Marta dicendole: «tu ti affanni e ti agiti per molte cose». Gesù non contraddice il suo servizio, bensì il suo affanno. Non disapprova il suo cuore generoso. Tutt’altro. Non condivide la sua agitazione. Lasciandoci sopraffare dall’ansia del molto da fare c’è il serio pericolo di mettere al posto delle persone le cose, di affogare nei troppi impegni, perdendo di vista le ragioni per cui operiamo. Si perdono di vista le scale dei beni-valori, perdiamo soprattutto Dio, che ci consente di ordinare il rapporto tra mezzi e fini, senza capovolgerlo. Senza Dio al primo posto, senza riconoscere in Lui il Padre di tutti si dimentica la fraternità, non ci si sente più custodi gli uni degli altri. Non si vede più la sofferenza di tanti fratelli, ma solo se stessi e i propri problemi. È facile alzare la mano contro il prossimo. Il fratello da custodire e da amare diventa l’avversario da combattere, da sopprimere. Rinasce Caino. In quest’Eucaristia, in cui facciamo memoria di Cristo il nuovo Abele, il nuovo Adamo, come Lui diamo il primato a Dio. Solo così saremo autentici costruttori di una società più giusta e pacifica. Preghiamo per la comunità di Crespino, il suo parroco, il prof. Don Bruno Malavolti, per i defunti qui sepolti e per tutti coloro che li portano nel loro cuore e li pensano viventi in Cristo.

OMELIA per la XIV domenica del Tempo Ordinario C
Faenza, Basilica cattedrale - 3 luglio 2016
03-07-2016

  1. La gioia di appartenere al popolo di Dio (Is 66, 10-14c).

Nel primo brano ci viene descritta Gerusalemme, non solo quale città ma soprattutto come popolo di Dio. L’invito è quello di rallegrarsi di appartenere ad un simile popolo. Questo è costruito da Dio, è ricomposto da Lui, dopo la schiavitù. Non ci dev’essere più lutto. La città-popolo di Dio è il luogo della consolazione. Appartenendo ad esso si è saziati. Isaia sollecita: esultate, sfavillate; come esulta e sfavilla di gioia il bimbo che è allattato, portato in braccio e accarezzato sulle ginocchia dalla madre, così voi. Immagini stupende, familiari, che intendono suscitare in chi appartiene alla Chiesa, prefigurata da Gerusalemme, giusto orgoglio, gioia di vivere in essa. Viene subito spontanea la domanda. Noi, credenti di oggi, sentiamo gioia nell’appartenenza al popolo di Dio, siamo sfavillanti di gioia. Ci sentiamo orgogliosi di essere Chiesa? Oppure siamo tristi, incupiti, scoraggiati? Le preoccupazioni della comunità parrocchiale sono anche le nostre, oppure viviamo come estranei, come persone che lasciamo agli altri le responsabilità dell’evangelizzazione? La Chiesa deve essere nel mondo contemporaneo principio di vita nuova, lievito che fa fermentare la pasta. Come cristiani viviamo rassegnati, nel sottobosco della storia?

  1. La seconda Lettura (Gal 6, 14-18), tramite le parole dell’apostolo Paolo ci spiega perché bisogna essere orgogliosi di essere di Cristo, di appartenere al suo Corpo, che è la Chiesa. Grazie alla conformazione a Lui, all’assunzione della sua croce, facendola nostra, godiamo di una vita piena. La croce di Cristo prima che lotta al male, opposizione strenua al peccato, è dono totale di sé, è amore fedele, è impegno a far nuove tutte le cose. Chi è battezzato e appartiene a Cristo condivide il suo Spirito di amore e la sua croce, come stile di vita. Per mezzo della croce, dono totale di sé al Padre, sino a morire, il mondo, tutte le attività umane sono vissute con Gesù, in Lui, per Lui. Portare le stigmate di Gesù sul nostro corpo, come dice san Paolo, vuol dire che tutta la nostra esistenza è dedicata all’amore, all’apposizione al male, alla trasfigurazione delle relazioni interpersonali, delle nostre famiglie, delle città. Il frutto di una vita spesa così è la pace, che regna nei nostri cuori. Il discepolo è colmo della vita di Cristo. Dobbiamo domandarci: la nostra vita di credenti porta in sé i segni dell’amore e dell’impegno di Cristo? È provocazione alla conversione, a schierarsi dalla sua parte? Siamo cioè sale che dà sapore o sale insipido, che merita solo di essere gettato via, perché non serve a nulla?

  1. Il Vangelo di Luca presenta Gesù che invia settantadue discepoli nei villaggi dove sta per recarsi, affinché predispongano l’ambiente. È questa una particolarità dell’evangelista Luca, il quale sottolinea che la missione non è riservata ai dodici Apostoli, ma estesa anche ad altri discepoli. Infatti – dice Gesù – «la messe è molta, ma gli operai sono pochi» (Lc 10, 2). C’è lavoro per tutti nel campo di Dio. Ma Cristo non si limita ad inviare: Egli dà anche ai missionari chiare e precise regole di comportamento. Anzitutto li invia «a due a due», perché si aiutino a vicenda e diano testimonianza di amore fraterno. Li avverte che saranno «come agnelli in mezzo a lupi»: dovranno cioè essere pacifici nonostante tutto e recare in ogni situazione un messaggio di pace. Detto altrimenti, i discepoli di Cristo subiranno prove e persecuzioni. E non potranno contare sul potere che usa la violenza. I loro mezzi saranno quelli spirituali. Inoltre, non porteranno con sé né vestiti né denaro. Vivranno di ciò che la Provvidenza offrirà loro. Per il sostentamento e l’ospitalità il missionario dipende completamente dall’accoglienza o meno del suo annuncio. Se non è ospitato e rifocillato abbandoni i suoi ospiti e scuota la povere dai calzari per restituirla. Cerchi altri che, condividendo il suo annuncio, sono disposti a nutrirlo, a dividere i beni che hanno. Dove saranno rifiutati mettano, però, in guardia circa la responsabilità di respingere il Regno di Dio. I discepoli si prenderanno cura dei malati, rimetteranno i peccati come segno della misericordia di Dio. San Luca mette in risalto l’entusiasmo dei discepoli per i buoni frutti della missione, e registra l’espressione di Gesù: «Non rallegratevi perché i demòni si sottomettono a voi: rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10, 20). Detto altrimenti, non rallegratevi perché siete capaci di scacciare il diavolo, ma perché siete associati all’iniziativa di Dio che redime il mondo e costruisce una nuova cittadinanza sulla terra. Il Vangelo di oggi risvegli in tutti i battezzati la consapevolezza di essere missionari di Cristo, chiamati a preparargli la strada con le parole e con la testimonianza della vita. Non viviamo solo per noi stessi, ma per Cristo!

OMELIA per la XIII domenica del Tempo Ordinario C – Le esigenze del discepolato
Pieve di Bagnacavallo - 26 giugno 2016
26-06-2016

Nella XIII Domenica del tempo ordinario le letture ci presentano i tratti della vita di coloro che desiderano diventare discepoli di Gesù Cristo. È in particolare il Vangelo di Luca (cf Lc 9, 51-62) che si ferma a presentarli. I discepoli di Cristo devono, innanzitutto, essere liberi dai pregiudizi, da visioni antiquate o troppo terrene del Messia. Egli non viene ad instaurare un regno umano con la violenza. Porta una nuova visione delle cose e del Regno di Dio. Questo non si fonda sulla forza, sulla costrizione, bensì sulla libertà. A fronte dei suoi discepoli che vorrebbero annientare i Samaritani che rifiutano Gesù Cristo risponde rimproverandoli, difendendo la libertà di chi non la pensa come Lui. La logica umana dice: i nemici si combattono e si eliminano. Gesù, invece, vuole eliminare il concetto stesso di nemico. Il nemico non va distrutto, bensì si deve rispettarlo. Gesù non cova risentimenti.

Dopo il rimprovero di Gesù rivolto ai suoi discepoli, l’evangelista presenta altre condizioni per seguire Gesù riferendosi a tre episodi di tre nuovi discepoli. Per cogliere, però, lo spessore delle esigenze del discepolato, occorre tener presente il parametro che è Gesù: incamminato verso Gerusalemme, rifiutato da tutti, deciso ad affrontare la prova suprema della morte confidando nel Padre. Chi vuol seguire Cristo deve essere cosciente del fatto che il Maestro crea un mondo più libero e più ricco di amore mediante l’accettazione della morte. Come afferma la Lettera di san Paolo apostolo ai Galati, i discepoli di Cristo sono chiamati a libertà lasciandosi guidare dallo Spirito (cf Gal 5, 1.13-18), che aiuta a vincere le divisioni, ad amarsi, a non «sbranarsi» e a non «divorarsi».

Con la metafora delle volpi che hanno tane e gli uccelli hanno nidi, mentre il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo, Gesù intende sottolineare che il suo stile di vita è quello del profugo e del ramingo, uno stile peggiore di quello degli animali selvatici. È rifiutato dai suoi paesani, dai samaritani. Non che Egli non abbia la casa di amici ove fermarsi e riposare. Gesù vive nell’insicurezza, in una situazione precaria, senza alleanze e protezioni che contano, minacciato dal potere religioso e politico che lo vuole eliminare.

Chi vuol essere discepolo di Cristo deve sapere che condividerà il suo destino. Non vivrà al sicuro e in pace nel proprio «nido». La sua vita sarà caratterizzata dalla «fatica» tipica di chi apre strade nuove. Vivrà la beatitudine degli oppositori che smontano il perbenismo e i luoghi comuni, per seminarvi una vita nuova, il futuro.

Nella seconda scena di discepolato, a chi si trincera dietro l’obbligo di assistere il padre vecchio e di provvedere alla sua sepoltura – secondo la legge ebraica, il figlio primogenito ha l’obbligo di provvedere alla sepoltura del padre -, Gesù risponde in maniera apparentemente dura: lascia che i morti seppelliscano i loro morti; la risposta non è per contestare gli affetti umani, ma per chiarire un impegno primario: tu va e annuncia il Regno di Dio. Tu fa cose nuove. Annuncia che la morte è vinta e che i morti risorgono (cf Lc 7,22).

Nell’ultima scena, come nella prima, Gesù risponde a un’altra domanda di sequela. Propone, ancora una volta, dedizione incondizionata al compito di annunciare il Regno di Dio senza ripensamenti nostalgici e remore. Occorre rompere con gli errori del passato, non voltarsi indietro ma guardare avanti, impegnarsi a costruire decisamente il futuro, con coraggio. Il discepolo è persona positiva che guarda al bene presente nel mondo e con l’aiuto del Signore lo porta a compimento.

Il discepolo cura, in definitiva, la fedeltà a Gesù, cerca di superare le tentazioni della defezione, vive nella coerenza.

OMELIA per l’INAUGURAZIONE della nuova CASA DEL CLERO
25-06-2016

Autorità religiose, civili e militari,

Cari fratelli e sorelle,

inauguriamo oggi la Nuova casa del clero della Diocesi di Faenza-Modigliana. Finalmente giunge a termine un progetto elaborato più di dieci anni fa. E così i sacerdoti anziani possono trovare una casa ove essere accolti e continuare, in altro modo, la loro presenza nel presbiterio e nella comunità cristiana. Mettere a disposizione questa casa è uno dei segni di misericordia che la nostra Diocesi di Faenza-Modigliana ha desiderato porre in quest’anno giubilare.

La sequela di Cristo, mentre si è pellegrini verso la nuova Gerusalemme, suscita il desiderio ardente della sua casa, per dimorare sempre con Lui. Come ci ha detto il brano del Vangelo secondo Giovanni è proprio dei discepoli cercare di abitare con il Maestro (cf Gv 1, 35-42).

Per i nostri fratelli vescovi e presbiteri, ma non solo, che entreranno in questa casa, continuerà l’ascolto della Parola, l’invocazione nella preghiera, l’anelito alla piena comunione con il Sommo Sacerdote, la missione apostolica.

Diffonderanno il profumo di Cristo, pregustando la felicità promessa dal Padre agli operai che lavorano nella sua messe.

Questa nuova casa del clero sarà famiglia, esperienza di fraternità, dimora della carità, luogo di incontro, di formazione permanente, di riposo un po’ in disparte, di contemplazione del Cristo presente nelle nostre fragili esistenze, degne della più grande tenerezza, bisognose di essere accarezzate con le mani di Dio, attraverso quelle dei fratelli e delle sorelle. Visitandoli, condividendo momenti di cammino dei nostri sacerdoti anziani impareremo l’umiltà, la pazienza nella malattia (senectus ipsa est morbus, dicevano gli antichi), l’affidamento al Signore e ai nostri simili, per essere accolti e curati. Quanto abbiamo bisogno di Dio in ogni stagione della nostra esistenza! Quanto abbiamo bisogno dei nostri fratelli e delle nostre sorelle per ricevere il loro aiuto. È un mistero profondo. Avanzando in età, gradualmente, siamo indotti a consegnarci, «svestiti» della nostra autosufficienza e del nostro orgoglio, all’affetto e alle braccia di una umanità fraterna, al servizio altrui, sino ad essere accolti in quelle di Dio. Attraverso la presenza nella casa del clero sperimenteremo l’essere condotti da altri, portati per mano. Veniamo da Dio e dall’umanità. Ritorniamo verso di loro per la grande trasfigurazione.

Ringraziamo Dio perché ci ha aiutati sin qui, rendendoci capaci di innalzare istituzioni come questa, segno della sua Misericordia, un prodigio per certi aspetti, frutto dell’attenzione d’amore da parte di tanti: benefattori, maestranze, direttori dei lavori, ingegneri, consulenti, responsabili della comunità cristiana e della società civile. Il bene compiuto non andrà perduto. Ci accompagnerà sempre, anche se non sbandierato e reclamizzato, quale testimonianza dell’amore a Dio e al prossimo. Grazie a tutti.

OMELIA per la ORDINAZIONE PRESBITERALE di don CLAUDIO PLATANI
25-06-2016

Caro don Claudio, riceverai la dignità del presbiterato. Sarai Sacerdote per sempre. Gioisci, perché il Signore ti ha scelto per impersonarlo, per essere strumento della sua redenzione.

  1. Il tuo atteggiamento sia, anzitutto, questo: gioisci nel Signore.

La tua gioia sia un sentimento profondo, non un fatto meramente emotivo, passeggero. Diventi uno stato d’animo costante del tuo spirito. Come la Madre di Gesù, anche tu canta il tuo Magnificat: il Signore ha guardato all’umiltà del suo servo. Si faccia di me secondo la sua parola. Non sarai mai solo! Il sacerdote novello gode di una condizione particolare di grazia: quella di colui che il Signore chiama maggiormente a conformarsi a Lui, Maestro per eccellenza (munus docendi); quella di colui che è vocato a rendere sacra e gradita al Signore la vita dei propri fratelli e delle proprie sorelle (munus santificandi); quella del pastore che accompagna e mantiene compatto il popolo di Dio nella comunione e nella missione, perché tutti crescano secondo la pienezza di umanità che è in Cristo (munus regendi).

Annunciare il Verbo fattosi carne importa proclamare Gesù Cristo nella sua interezza. Egli è il Dio che abita in ogni persona, strutturandola a immagine del Suo essere e del Suo spirito. Ne deriva, per ogni sacerdote, un ministero a servizio della cristo-conformazione e della umanizzazione. Non potrai che essere un predicatore esigente, che sprona i suoi fratelli a superare la mediocrità. Gesù incarnato non può essere occultato o sminuito, come anche non può essere tenuta nascosta o sminuita la conseguente altissima dignità di ogni figlio di Dio. Poiché Cristo è nel contempo Verità e Misericordia del Padre, la franchezza e la dolcezza saranno tue compagne, daranno sapore alle tue omelie, al tuo insegnamento.

Dalla Verità discende la piena libertà delle persone. Dalla Misericordia del Padre è comunicato il suo Spirito d’amore.

Ma annunciare il Verbo di Dio che si fa carne, implica, in secondo luogo, far comprendere che in ogni fratello e sorella incontriamo la sua reale presenza. Le relazioni sociali sono chiamate a cambiare nel segno della fraternità e della giustizia. Significa, per conseguenza, educare alla dimensione sociale della fede e dell’evangelizzazione, alla quale ci ha richiamato papa Francesco specie con la Evangelii gaudium (cf Cap. IV), [=EG].

Sii, allora, sacerdote votato ad una nuova evangelizzazione del sociale, in cui la vita dei poveri è centrale, non tanto come dato sociologico, bensì come segno dell’attenzione d’amore di Dio per l’umanità, del suo svuotamento per salvarci. Infatti, Gesù Cristo da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (2 Cor 8,9). Senza l’opzione preferenziale per i poveri, l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in un mare di parole e di problemi (cf EG n. 199). Accompagna, pertanto, i christifideles laici verso l’impegno della carità, della catechesi, della celebrazione della fede. E tuttavia, abbi cura, affinché non si limitino a compiti intraecclesiali, senza una reale dedizione all’attuazione del Vangelo nella trasformazione della società.

Tu, caro don Claudio, tra l’altro, riceverai a breve, secondo le modalità previste, l’incarico di Consulente ecclesiastico del Centro Sportivo Italiano (=CSI) della Diocesi di Faenza-Modigliana. Potrai vivere in mezzo a tanti giovani. Come insegna don Bosco, il mio Santo Fondatore, essi hanno bisogno di essere compresi ed amati. Ma non solo. Essi debbono avere la chiara percezione che si vuole loro bene, personalmente. Pertanto, il tuo impegno pastorale, oltre ad essere dedito all’accompagnamento vocazionale, sarà votato in modo particolare alla pastorale giovanile. Sappi essere vicino ai giovani come un padre e un fratello maggiore. Ascoltali con pazienza. Comprendi le loro inquietudini e le loro richieste. Parla con loro nel linguaggio che essi possono capire. Falli innamorare di Gesù. Educali alla letizia dell’amore (Amoris laetitia). Non esitare ad additare a loro la vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata. Con il tuo aiuto, diventino apostoli dei loro coetanei.

  1. Gioisci ad occhi aperti, con uno sguardo disincantato.

Caro don Claudio, divieni sacerdote in un momento storico in cui la nostra Diocesi di Faenza-Modigliana, oltre che di religiosi, ha un gran bisogno di presbiteri e di laici adulti nella fede. Nel caso in cui, in mancanza di un forte impegno dei credenti coadiuvato dalla grazia di Dio, le cose non cambino, ci troveremo sempre più nella situazione in cui i sacerdoti esistenti sul territorio dovranno prendersi cura di più comunità parrocchiali, come peraltro già avviene in alcuni casi. I presbiteri non avranno tanto tempo libero da dedicare alla propria cura spirituale ed intellettuale. Saranno assillati e assorbiti da molteplici incombenze. E, allora, abbi cura della tua salute, soprattutto mediante una vita ordinata nei ritmi e negli impegni. La tua giornata sia ricca di preghiera, non dimenticando di trasformare il tuo stesso lavoro pastorale in offerta gioiosa al Padre. Medita assiduamente la Parola. La tua esistenza di sacerdote sia resa più lieve e sapida dalla condivisione delle fatiche apostoliche con la comunità a cui sarai destinato tra non molto. Ricava forze dalla comunione pastorale tra le varie componenti ecclesiali che dovrai armonizzare e unificare. La fraternità sacerdotale del presbiterio ti faccia sperimentare quel balsamo spirituale e quella consolazione che sono la giusta ricompensa di colui che lavora nella vigna del Signore.

Non dimenticare che la tua vicinanza particolare al Signore, in forza del tuo ministero sacerdotale, non ti esimerà dai limiti umani e nemmeno, talvolta, dal giudizio severo della tua gente. Non scoraggiarti. In tempi, come si suole dire, di accelerate transizioni, di necessaria conversione pastorale, religiosa e pedagogica, dovrai assumerti le tue responsabilità e fare scelte coraggiose. Affidati alla Madre, al suo Figlio potente e glorioso, ma nell’Eucaristia così fragile tra le tue mani consacrate. Sarà Lui la tua guida, il tuo vero consolatore, Colui che ti ricompenserà. Lui vedrà nel profondo del tuo spirito le tue intenzioni e i tuoi pensieri. Sii come Lui, sacerdote del Padre, pastore misericordioso.

OMELIA per la MEMORIA di S. JOSEMARIA ESCRVA’ DE BALAGUER
Faenza, S.Agostino - 22 giugno 2016
22-06-2016

«Dai loro frutti li riconoscerete» (cf Mt 7, 15-20). Il brano del Vangelo proclamato in questa sera in cui ricordiamo san Josemaría Escrivá ci porta a pensare che una persona, ma anche un credente, rivela il proprio essere morale mediante le opere. L’Opus Dei fondata da Mons. Escrivá ci consente di comprendere la sua mens, il suo progetto, la sua visione di Chiesa. In un contesto ecclesiale e sociale in cui spesso si invita la comunità cristiana ad essere accogliente e povera, a spogliarsi di ciò che può essere di ostacolo all’annuncio del Vangelo, alcuni laicisti, ma non solo, pensano che tutto questo lo si debba realizzare trascurando le proprie istituzioni culturali, lasciando che le scuole paritarie siano tassate perché rappresenterebbero un privilegio, non coltivando i movimenti sociali di ispirazione cristiana perché sarebbero realtà arcaiche e superate, quasi che sia sufficiente suscitare nelle persone la fede in Gesù Cristo o accendere le candele in chiesa per educare cristianamente. Che dire? Sicuramente è prioritario e prima opera della carità annunciare il Vangelo, far coltivare la fiducia in Gesù Cristo, innamorare di Lui. Ma, poi, occorre che la fede sia approfondita, pensata, incarnata nella vita quotidiana ed anche nelle istituzioni pubbliche. In una società fluida, ove tutto è frammentato e disarticolato, e la vita è chiamata a salvarsi dalla tirannia dell’effimero, servono, invece, punti di riferimento chiari, nuove istituzioni capaci di elaborare una nuova cultura, capaci di irradiare nuovi umanesimi. Senza una società civile vitale ed eticamente strutturata è inutile sperare in una politica a servizio del bene comune.

Non si può pensare di incidere nell’ethos sociale odierno senza disporre di un tessuto relazionale rigenerato, di istituzioni culturali all’altezza delle sfide, capaci di smantellare i «miti» della modernità, gli idoli del denaro, del consumismo materialistico e della tecnocrazia, per proporre un nuovo modello di sviluppo integrale, inclusivo.

San Josemaría Escrivá conosceva molto bene il suo tempo, l’indebolimento della cultura cristiana e l’avanzare dello scetticismo, nonché dell’individualismo libertario. Proprio per questo non esitò a suscitare, con l’Opus Dei già menzionata, anche la Società sacerdotale della Santa Croce. Il suo obiettivo era quello di offrire una solida formazione dottrinale, ascetica e apostolica ai laici e ai sacerdoti. Detto altrimenti, egli è pervenuto per tempo alle conclusioni a cui stiamo giungendo nei nostri territori, divenuti inequivocabilmente terra di missione, ove è cresciuto un certo analfabetismo religioso e ove stanno diminuendo vistosamente i sacerdoti.

Una nuova rinascita del cristianesimo appare possibile solo investendo nuove energie sul piano dell’impegno vocazionale, rispetto a nuove generazioni di laici e di sacerdoti e, inoltre, sul piano di una solida formazione intellettuale e spirituale. Ecco alcune «opere» essenziali che dobbiamo mettere in cantiere, senza indugio, sostenendo la cultura cattolica e le istituzioni che la promuovono, pensando di collaborare all’organizzazione di nuovi movimenti rigeneratori della civiltà e della politica. Ecco i «frutti» dai quali saremo riconosciuti e grazie ai quali potremo ripensare quell’evangelizzazione di cui il nostro territorio ha un estremo bisogno. Preghiamo in questa Eucaristia san Josemaría Escrivá perché ci aiuti a capire le urgenze del nostro tempo e della nostra Chiesa e a mobilitarci senza ritardi, per costruire nel nostro territorio una nuova storia, inabitata dalla trascendenza. Percorriamo cammini d’azione e d’Amore. Viviamo, giorno dopo giorno, in unione filiale con Dio, facendoci cibo per i nostri fratelli, mostrando vitalità nella comunione ecclesiale.