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OMELIA per il GIUBILEO DEGLI SPORTIVI E DEI CIRCOLI PARROCCHIALI
Faenza - Basilica Cattedrale, 16 ottobre 2016
16-10-2016

La Parola di Dio di questa domenica XXIX del Tempo Ordinario aiuta gli sportivi a vivere il loro Giubileo in una maniera meravigliosa.

La prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo ( Es 17, 8-13), ci narra di come Mosè, tenendo alzate le braccia, in atteggiamento di preghiera, aiutò Giosuè a sconfiggere Amalèk, che l’aveva attaccato. Quando Mosè lasciava cadere le braccia, e cioè non pregava, prevaleva Amalèk. La lettura ci fa capire che per sbaragliare i nemici di tutti i tipi, non solo quelli con l’esercito, occorre pregare senza sosta. Se non si prega si fa fatica a sconfiggere il male, il peccato, l’egoismo, la violenza, la voglia di barare per vincere. Chi prega vince le tentazioni, specie la pazzia di buttare via la propria vita, volendo assumere sostanze dopanti o addirittura provando la vertigine, frequentando falsi amici che spingono a perdere la felicità rovesciandoti dentro al cuore solo spazzatura e basse morbosità.

Come Mosè, cari giovani, bisogna saper pregare senza stancarsi mai. Occorre allenarsi nello spirito come fanno i grandi campioni che per vincere si sottopongono a fatiche diuturne. Chi prega entra nel mondo di Dio e viene inondato di luce e di gioia. Chi non prega è troppo solo. Corre il rischio del vuoto interiore, di diventare schiavo delle sensazioni passeggere, di essere rassegnato di fronte alle sconfitte.

Nella seconda lettura, tratta dalla seconda Lettera di san Paolo a Timoteo (2 m 3,14-4,2) si viene a rispondere ad una domanda importante che ogni giovane prima o poi si pone. La domanda è: io che sono anche sportivo sono prima di tutto cristiano -, desidero essere un giovane o un uomo completo, ben preparato nella vita, per fare il bene? La risposta è: per esserlo devi fare due cose. La prima: conoscere, fin da piccolo, la Parola di Dio, la Sacra Scrittura, non solo leggendola, ma cercando di incontrare, mediante essa, Gesù, diventandone amico. La Sacra Scrittura va letta per arrivare a Gesù, per conoscerlo, sperimentandone l’amicizia, parlandogli, innamorandosi in certo modo di Lui, ritenendoLo la persona più importante della propria vita. La seconda è: annunciare Gesù agli amici. Ma non solo. Farlo conoscere ed amare. Come tu hai avuto il bene di incontrarLo e di diventarne amico inseparabile, così aiuta i tuoi amici a incontrarLo e a riconoscerLo come il centro della loro vita.

Il Vangelo di Luca (Lc 18, 1-8) vuole farci comprendere la stessa cosa del libro dell’Esodo e cioè che non dobbiamo stancarci mai di pregare. Se si vuole avere fede, ossia fiducia in Gesù, non dobbiamo smettere di pregare Dio. La fede, che ci fa avere l’esperienza di Gesù, ci aiuta ad essere persone complete, a compiere opere buone, a donare Gesù ai nostri amici, a non vergognarci di Lui.

Chi possiede una fede sincera in Gesù, Uomo Nuovo, persona tutta d’un pezzo, si sente sostenuto sempre da Dio, anche quando pratica lo sport o l’organizza per gli altri, come fanno i vostri animatori o allenatori. Igor Cassina, un grande ginnasta italiano, davanti a papa Francesco, il 5 ottobre scorso, giorno in cui gli sportivi riflettevano sul rapporto tra fede e sport, ha raccontato a tutti il suo modo di fare sport da credente. Egli, fra l’altro, ha detto che lo sport è una scuola di vita. La fede, da parte sua, insegna ad essere positivi, a non scoraggiarsi, a ritornare in piedi anche quando si cade. Aiuta a realizzare i propri sogni di campione, a diventare seri professionisti. Daniele Garozzo, un professionista della scherma, siciliano che ha vinto l’oro olimpico a Rio, alla conduttrice Lorena Bianchetti ha detto che lo sport e la fede vanno a braccetto e aiutano le persone a crescere armoniosi. Thomas Bach, ex schermidore tedesco e presidente del Comitato olimpico internazionale, ha sottolineato che sport e fede condividono molti valori, ma lo sport non dà risposte sul significato dell’esistenza umana, sulla morte, sull’aldilà. Solo la fede può farlo.

Cari amici, in questa santa Messa ricordiamo che per essere campioni nello sport, per essere persone complete umanamente, per conquistare Gesù, abbiamo bisogno di credere in Lui e di amarLo. Aumentiamo la nostra fede alzando le braccia, ossia pregando, annunciando e donando Gesù. Otterremo una corona incorruttibile (cf 1 Cor 9, 24-25).

A Cracovia papa Francesco ha ricordato ai molti giovani lì arrivati da tutto il mondo che essi non debbono essere giovani-divano, né rassegnati né rinunciatari rispetto ai grandi ideali che abitano nel loro cuore. Non debbono essere nemmeno disuniti, incapaci di fare «massa critica» rispetto ad una società che li snerva e li riduce a zombi, deprivandoli dei loro sogni. Per reagire a questa situazione c’è una sola strada da percorrere. Per non diventare pensionati anzitempo, rinunciatari, giovani che gettano la spugna prima di incominciare a lottare, occorre riunirsi attorno a Cristo, fare comunione con Lui, come state facendo anche voi in questo momento di Giubileo a Faenza. La risposta alla nostra debolezza morale e al nostro disorientamento è Gesù Cristo, che non è una cosa, non si compra in un negozio di articoli sportivi, ma è una persona. Gesù Cristo, che è più facile incontrare e coltivare in un circolo parrocchiale, è colui che sa dare vera passione alla vita, è colui che ci porta a non accontentarci di poco e ci sospinge a dare il meglio di noi stessi. Egli ci sollecita ad alzare lo sguardo e a sognare alto.

Lo troveremo qui, specialmente sotto le specie del pane e del vino consacrati, oltre che presente nella Parola di Dio e nei fratelli e nelle sorelle. Assumiamolo, non solo col pensiero ma anche facendo comunione con Lui, mangiando il suo Corpo. Il vero Giubileo, come per ogni credente, è riceverLo per donarLo.

OMELIA per il GIUBILEO delle FAMIGLIE
Faenza - Basilica Cattedrale, 2 ottobre 2016
02-10-2016

Cari fratelli e sorelle, care famiglie,

la celebrazione del Giubileo della misericordia per la famiglia coincide con l’invito di san Paolo a ravvivare in noi il dono di Dio (cf 2 Timoteo 1, 6-8.13-14). Di cosa si tratta? Occorre accrescere lo Spirito di forza, di carità e di prudenza che ci è stato affidato mediante il Battesimo, la Confermazione e gli altri sacramenti, compreso quello del matrimonio per gli sposi. Come possiamo farlo? Il brano del Vangelo ci fa capire che ciò è possibile aumentando la nostra fiducia in Dio. Per compiere prodigi d’amore, basta anche una piccola fede, quanto un granello di senape. L’importante è riconoscere che abbiamo bisogno di Lui, e che Lo amiamo con tutto il cuore. Una fede autentica riesce a rigenerarci nell’adesione a Gesù Cristo, a renderci discepoli pienamente disponibili a servire il Maestro e il prossimo, a volere la vita piena che Egli ci propone. La fede cresce mediante  la preghiera e il servizio. 

Il vero discepolo ama Gesù Cristo disinteressatamente. Si considera un «servo inutile» (cf Lc 17,5-10), nel senso che non si attende un tornaconto, una resa, un riconoscimento particolare. Gli basta essere colmo dell’amore di Cristo, essere come Cristo, ossia servo. Questa è la ricompensa ricercata. Chi è colmo dell’amore di Cristo gli basta il suo Spirito. Ne è pienamente appagato e non ricerca altro. Al pari di santa Teresa d’Avila che scriveva: «Chi ha Dio non manca di nulla: solo Dio basta!». La stessa santa Teresa descriveva lo stato d’animo del discepolo che ama, con queste brevi ed efficaci espressioni: «Il tuo desiderio sia vedere Dio, il tuo timore perderLo, la tua gioia sia ciò che può portarti verso di Lui e vivrai una grande pace».

In questo contesto liturgico e biblico, il giubileo della famiglia deve divenire momento in cui si cresce nell’amore disinteressato a Cristo. I genitori hanno bisogno di vivere costantemente con la passione degli innamorati. Il loro amore reciproco cresce a partire dall’incontro che si rinnova con Gesù Cristo. Chi ama Gesù ama come Lui. Se l’incontro con Gesù non porta ad una crescita del muto amore, i genitori non vengono salvati dal pensare, in definitiva, ognuno a sé, senza voler essere per l’altro. I loro singoli «io» non vengono liberati dalla voglia di attirare l’altro nella propria sfera per servirsene, per soggiogare. La maturazione affettiva degli sposi rimane acerba e non formano un «noi» adulto. Solo l’amore di Cristo spinge ad andare incontro all’altro, senza aspettare che sia l’altro a manifestare il suo bisogno. Lo sguardo dell’innamorato è sempre rivolto verso chi ama.

La vera questione, pertanto – lo sanno bene gli sposi per esperienza – non è essere innamorati. È l’essere capaci di rimanere nell’amore. E ciò è propriamente un problema di fedeltà. «Innamorarsi significa amare senza condizioni e restrizioni, nemmeno di tempo, accogliere incondizionatamente l’altro, non per un calcolo interessato, ma attratti dalla bellezza totale del tu, una bellezza che non è solo esteriore, e un’attrazione che non è solo dei sensi, ma di tutto l’essere, misteriosa, che determina la consegna totale di sé nelle mani dell’altro, e che avrà bisogno di un tempo lungo, di una vita intera per manifestarsi in tutta la sua fecondità».

I genitori cristiani sanno di appartenere ad una storia d’amore, che ha inizio nel cuore del Padre e che non è ancora terminata. Essi, come peraltro i sacerdoti, i religiosi, vivono in mezzo a questa storia d’amore che li chiama al dono, al servizio della vita, all’educazione della fede, finché Cristo non sia formato nei figli. Quale sarà la ricompensa dei genitori? Quale ricompensa immagineranno di avere? La loro ricompensa più piena e soddisfacente sarà semplicemente la gioia di aver messo interamente a disposizione la loro esistenza perché altri diventino capaci di fare altrettanto. Chi vive nell’amore di Cristo non pensa ad altro se non a tale amore, se non a generare persone gioiose nel dono di sé e nell’annuncio di Cristo.

So che avete riflettuto sul legame tra le generazioni. Solo chi si immerge nella storia dell’amore misericordioso, con cui Dio ha voluto inondare l’umanità, è capace di coltivare un legame virtuoso tra le generazioni. Chi coltiva nuove generazioni, capaci di dono, pone la premessa o, meglio, la garanzia di una storia davvero umana. Una società di figli incapaci di dono e, quindi, incapaci di onorare i genitori diventa una società senza onore, ricorda papa Francesco nell’Amoris laetitia (=AL n. 189). È destinata a riempirsi di giovani aridi ed avidi. E così anche i nonni, dei quali oggi celebriamo la festa, finiscono per essere dimenticati e messi in disparte.

I genitori che vivono in pienezza la misericordia di Dio concorrono a rinsaldare la catena di solidarietà che unisce le generazioni nel ricevere e nel dare. Gli anziani, i nonni sono uomini e donne, padri e madri che sono stati prima di noi sulla nostra stessa strada, nella nostra stessa casa, nella nostra quotidiana battaglia per una vita degna (cf AL n. 191). All’interno della continuità della vita, irrobustendo quel legame che tiene unite le generazioni, gli anziani continuano ad essere dono in molti modi, ricucendo gli strappi, iniziando spesso i piccoli a quella vita cristiana che stringe le varie generazioni in una famiglia più che umana, ove la fede fa vivere tutti dello stesso amore: l’amore di Dio Padre, del Figlio e dello Spirito santo. I nonni contribuiscono a crescere una storia collettiva di fratelli, più di quanto non pensiamo.

Cari sposi, viviamo la misericordia divina. Perdoniamo. Perdoniamoci. Solo così risplenderà nelle famiglie la gioia dell’amore. Per far risplendere questa letizia il papa ha indirizzato alle comunità cristiane del mondo l’esortazione apostolica che tutti conosciamo. Per renderla più fruibile si è pensato di istituire una serie di incontri, che saranno tenuti nei mesi di gennaio e febbraio prossimi, presso il Seminario nuovo. Si tratta di momenti offerti a tutti, specie a coloro che lavorano nella pastorale famigliare, nel consultorio, nelle varie associazioni, ma anche ai diaconi, ai catechisti che si impegneranno a far risuonare davanti alle famiglie e in mezzo ad esse il primo o il secondo annuncio. Le nostre comunità dovranno compiere una rilevante conversione pastorale, per la cui realizzazione le forze in campo non appaiono sufficienti. Ciò obbliga a costruire maggiori sinergie tra tutti coloro che si interessano al bene della famiglia cristiana. Non dimentichiamo che l’impegno a far risplendere la gioia dell’amore va di pari passo, come ha suggerito anni fa la Familiaris consortio del santo Giovanni Paolo II, ad una pastorale famigliare attenta a far maturare associazioni di famiglie capaci di elaborare progetti di politiche famigliari volte a sostenere in particolare quelle famiglie che, grazie alla stabilità e fecondità del loro patto d’amore, offrono un servizio prezioso alla società, all’economia, al welfare e al mondo. Spesso ci si lamenta che la famiglia cristiana viene distrutta. In Georgia papa Francesco ha detto che la teoria del gender è una guerra mondiale contro il matrimonio. Poco, però, si fa, da parte dei cattolici, perché non venga frantumato. Già Pio XII sollecitava: non lamento, ma azione!

Un ringraziamento particolare vada a tutti coloro che hanno lavorato intensamente alla riuscita di questa giornata del Giubileo della famiglia, in particolare ai responsabili della pastorale famigliare. Dio sia la loro ricompensa più grande ed attesa.

La partecipazione a questa Eucaristia ci rinsaldi tutti in un amore disinteressato, che è anche fondamento della spiritualità coniugale e famigliare.

OMELIA per la FESTA di SAN MICHELE
Bagnacavallo - 29 settembre 2016
29-09-2016

La liturgia oggi festeggia gli Arcangeli Raffaele, Gabriele e Michele, che è patrono di questa bella comunità. Come ebbi modo di dire già l’anno scorso, la Sacra Scrittura e la tradizione della Chiesa, ci presentano gli angeli attraverso due tratti distintivi. Da una parte, l’Angelo è una creatura che sta davanti a Dio, è orientata con tutto il suo essere verso Dio. Non a caso, tutti e tre i nomi degli Arcangeli  che oggi festeggiamo, finiscono con la parola “El”, che significa «Dio». Dio è scritto nei loro nomi e nel loro essere. La loro vera natura è l’esistenza in vista di Lui e per Lui. Il secondo tratto è collegato col primo: essi sono messaggeri di Dio. Sollecitano ad accogliere Dio e il suo progetto. Possiamo dire che essi svolgono il compito di missionari. Invitano ad accogliere Dio per diventarne annunciatori coraggiosi, capaci di sconfiggere il male e di instaurare il regno del nostro Dio.

Come ci ricorda il libro dell’Apocalisse, Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago che fu precipitato. Il diavolo, che seduce tutta la terra, fu sconfitto grazie al sangue dell’Agnello (cf Ap 12, 7-12a). Gli angeli collaborarono, dunque, con Cristo perché la salvezza si compisse.

Anche noi, al pari degli angeli, siamo chiamati a collaborare con l’opera del Redentore, divenendone annunciatori, missionari in tutto il mondo. Solo se l’umanità accoglie maggiormente Gesù Cristo può sconfiggere i mali odierni, che finiscono per colpire anche le nostre famiglie e i nostri giovani. La misura della nostra santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi. 

Detto diversamente, la festa degli Arcangeli, in particolare di san Michele, ci offre una ragione in più, all’inizio del  nuovo anno pastorale, di essere ricettori, convinti e metodici, della esortazione apostolica Evangelii gaudium che sollecita a mettere in cantiere una nuova tappa evangelizzatrice, perché Cristo sia tutto in tutti. Dio, infatti, ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo (cf Rm 8, 29). La nostra vita sarà viva, come scrisse sant’Agostino, quando sarà piena di Lui (cf Confessioni, 10,28).

Come sapete la nostra Chiesa che è in Faenza e Modigliana, come peraltro tutte le Diocesi d’Italia, hanno ricevuto da papa Francesco, il compito di leggere, meditare e tradurre in pratica il testo dell’esortazione ove Egli descrive la Chiesa che sogna e che vorrebbe si realizzasse in tutto il mondo: una Chiesa che annuncia il Vangelo con gioia, più missionaria, mediante tutte le sue componenti, nessuna esclusa. Per essere comunità cristiana più capace di evangelizzare, di fare figli, direbbe papa Francesco, dobbiamo convertirci sul piano religioso, pastorale, pedagogico, e del discernimento. In particolare, occorre amare di più Gesù, passare da un’azione di semplice conservazione dell’esistente, del «si è fatto sempre così», ad un’azione che non lascia le cose così come stanno. Ci vuole una permanente riforma di sé, delle strutture ed istituzioni ecclesiali, comprese le parrocchie (cf EG n. 28), le associazioni, le organizzazioni e i movimenti, per renderli più funzionali o, meglio, ministeriali all’evangelizzazione e alla connessa opera di umanizzazione. Noi abbiamo associazioni che portano nel loro Statuto il riferimento al Vangelo e alla Dottrina sociale della Chiesa, ma questi sembrano essere spariti dall’orizzonte dei soci. In un contesto di individualismo radicale e globalizzato, l’azione pastorale, rammenta papa Francesco, deve mostrare, meglio che in passato, che essendo noi strutturati ad immagine della Trinità, dobbiamo essere portatori di una comunione che guarisce, promuove e rafforza i legami interpersonali e sociali (cf EG n. 67). Per papa Francesco occorre formare adeguatamente gli operatori pastorali a superare una sorta di complesso di inferiorità, che li conduce a relativizzare o ad occultare la loro identità cristiana e le loro convinzioni, quasi dissociandosi dalla loro missione evangelizzatrice (cf EG n. 79); occorre formare a sconfiggere quel relativismo pratico che consiste nell’agire come se Dio non esistesse, nel decidere come se i poveri non esistessero; occorre educare a vincere la «desertificazione spirituale» delle nostre società, a vivere il realismo della dimensione sociale del Vangelo, scoprendo nel volto dell’altro il volto di Cristo (cf EG n. 88), a sperimentare la «mistica» del vivere insieme, fraternamente (cf EG n. 92), a deporre la pretesa di dominare lo spazio della Chiesa (cf EG n. 95), a non essere in guerra tra credenti (cf EG n. 98); urge formare un laicato non introverso, bensì capace di far penetrare i valori cristiani nel mondo sociale, giuridico, politico ed economico (cf EG n. 102).

Quanti impegni! Tutto dev’essere compiuto per rendere le nostre comunità parrocchiali e le nostre associazioni più capaci di evangelizzazione e di testimonianza credibile. 

In questa celebrazione patronale mi permetto di offrire solo due sollecitazioni. La prima è quella di avvalersi seriamente del Sussidio che è stato preparato per le nostre parrocchie e distribuito in cattedrale. Tuttavia, non bisogna dimenticare di prendere in mano il testo dell’Evangelii gaudium. Deve diventare un testo di meditazione, di riflessione e di confronto tra adulti, operatori pastorali, tra catechisti, tra giovani universitari. Solo così ne potremo cogliere lo spirito che lo anima e renderlo forza propulsiva della pastorale e della catechesi. La seconda è di avere cura delle nuove generazioni di credenti. Senza giovani forti nella fede, capaci di rendere ragione di essa, il futuro missionario delle nostre parrocchie sarà praticamente nullo. Abbiamo, allora, cura di accompagnare i giovani nel loro cammino di approfondimento dell’amore a Gesù Cristo. Se non avranno un amore appassionato per Lui essi non potranno essere missionari nello Spirito, tra i loro coetanei e nei vari ambienti di vita.

Preghiamo san Michele Arcangelo che combatté e combatte contro il drago che sedusse e seduce la terra perché ci aiuti ad essere comunità giovane, capace, mediante un rinnovato slancio missionario, di generare figli. Una chiesa diventa sempre più giovane solo se riesce a generare nuovi figli. L’Eucaristia ci faccia un’intimità itinerante con Gesù Cristo, l’Inviato dal Padre, per portare salvezza a tutti. Siamo missione con Lui.

OMELIA per il GIUBILEO degli INSEGNANTI
Faenza - Basilica cattedrale, 23 settembre 2016
23-09-2016

Cari fratelli e sorelle, in ogni stagione della nostra vita, dobbiamo rispondere alla domande di Gesù: «Chi sono io per l’opinione della gente?»; «Secondo voi chi sono io?». Come abbiamo sentito, per la gente è un profeta, identificato con Elia o il Battista. Per Pietro è il «Messia di Dio». Ma Gesù stesso si definisce «il Figlio dell’uomo, che deve morire e risorgere» (Lc 9, 22). Egli potrà essere chiamato Messia, solo dopo la morte e la risurrezione, quando, vincitore, sarà costituito dal Padre Signore della vita.
Chi sono, invece, i credenti, i discepoli? La risposta a questa domanda non la troviamo nel brano del Vangelo oggi proclamato. Si trova, però, subito dopo, nei versetti che seguono e nei quali leggiamo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc 9, 23-24). Detto altrimenti, chi desidera essere discepolo di Cristo sa che l’attende il cammino della croce. È la via della rinuncia a se stessi, è il decentramento da sé, è la liberazione dalle paure che bloccano la persona nella difesa ossessiva del proprio io e del proprio progetto. Contrariamente a quanto possa apparire, la proposta che ci fa Gesù Cristo, quella di seguirlo nel cammino della croce, non è annientatrice del nostro io. Non mortifica la nostra personalità. Tutt’altro. La fa fiorire. Ci chiama a superare il limite di persone che pensano di potersi realizzare e salvare ripiegandosi su di sé, contando solo sulle proprie forze. Certo, chi sceglie di condividere il cammino e la sorte di Cristo rischia di esporsi al boicottaggio sociale, al dileggio pubblico, come insegna la sua vita. Come, peraltro, è capitato a san Pio di Pietrelcina di cui oggi celebriamo la memoria. Fu santo soprattutto perché seppe percorrere il cammino della croce con dignità ed eroicità, subendo angherie anche da parte di uomini di chiesa. Essere fedele a Cristo oggi, in particolare, importa andare contro corrente, contro i luoghi comuni imperanti della cultura consumistica e materialistica, devota dell’individualismo più radicale, amante di una libertà senza limiti e responsabilità nei confronti degli altri. Risulta sempre più condiviso dal sentire comune che chi non è idolatra del proprio io assolutizzato è fuori dalla cerchia delle persone di successo,  dalla vera civiltà.
Ebbene, Gesù Cristo ci invita a percorrere un’altra strada, ad avere un’altra concezione di noi, ad avere cioè un’altra percezione, secondo la quale la nostra coscienza non deve rispecchiare un io chiuso in se stesso, che si nutre solo di sé, ed è privo di trascendenza. La coscienza dei figli di Dio non è totalmente autoreferenziale. Riflette l’apertura all’altro da sé, per cui non siamo chiamati ad essere Narciso. Nella nostra coscienza c’è l’apertura a Dio e, quindi, alla fraternità universale. Siamo chiamati a compierci attraverso la comunione con gli altri, il vero, il bene e Dio Padre.
L’invito di Cristo ai suoi discepoli di seguirlo nel cammino della croce è, allora, sollecitazione ad uscire dal proprio guscio, a realizzarsi anche nella parte più intima e profonda di se stessi, che ci mostra inclinati ad un’esistenza di dono, di trascendenza.
Come ammonisce san Luca nel suo Vangelo, i rischi che minacciano i discepoli sono due: quello di spendere la propria vita solo nell’accumulo dei beni e quello di aver paura di essere di Cristo e, quindi, di testimoniarlo. In questa maniera si tradisce la propria identità profonda di persone chiamate a coltivare il dialogo con gli altri, il colloquio con Dio, la comunione con Cristo, Figlio dell’uomo. Noi siamo persone nelle quali lo spirituale ha il primato sul corporeo e sul materiale. Siamo cristo-conformi, cioè esseri strutturati secondo l’immagine del Figlio di Dio, esseri strutturati a tu. L’attaccamento morboso ai beni della terra, la negligenza nei confronti del nostro essere di Cristo, ci portano al fallimento, alla perdita di noi stessi. Si finisce per non riconoscere il nostro essere nel suo volume totale. Si cade nella situazione evidenziata da Emmanuel Mounier già nel secolo scorso: «Non si sa più che cos’è l’uomo  e, poiché lo si vede passare attraverso trasformazioni impensate, si è convinti che non vi sia più natura umana».[1] «Il nostro compito principale – ripeteva – è di ritrovare la vera nozione dell’uomo».[2]
Questo compito concerne in modo particolare coloro che si dedicano all’insegnamento. Infatti, non si insegna per insegnare, ma per la vita, per aiutare i giovani a vivere bene, in pienezza. Coloro che si dedicano alla loro formazione non possono prescindere da una visione integrale della persona.
Ma, nel contempo, sappiamo tutti che l’emergenza più grave che attraversa i nostri Paesi, non è primariamente di tipo economico e politico. Essa è, anzitutto, pedagogica, educativa, per cui la risorsa più strategica per le società e l’umanità non è disponibile, se non in maniera ridotta. A fronte del fatto che le nuove generazioni non possono rimanere orfane di ideali, di padri e di maestri occorre pensare ad un nuovo rinascimento dell’educazione. La rinascita dell’educazione avviene ricostruendone le condizioni e i luoghi (famiglia, scuola, Chiesa); introducendo i giovani alla realtà (non solo virtuale) e al suo significato; mettendo a frutto il patrimonio della nostra tradizione culturale, preparando maestri di pensiero, oltre che, ovviamente, testimoni di vita nuova, secondo il sempre attuale insegnamento di Paolo VI. È un impegno che deve estendersi su più fronti.
Noi credenti, poi, non possiamo ignorare che una nuova educazione si rende disponibile mediante quella nuova tappa evangelizzatrice a cui chiama papa Francesco con la sua esortazione apostolica Evangelii gaudium. Partecipando a questa Eucaristia rinnoviamo, allora, il proposito di impegnarci, con le nostre comunità ed associazioni, nella sua ricezione. La nostra diocesi, assieme alle altre diocesi italiane, non a caso è già attivata in vista di ciò e recentemente, proprio qui in cattedrale, è stato distribuito un sussidio. Maria, Madre di Cristo e di una nuova umanità, san Pio da Pietrelcina ci aiutino.

 


[1] E. Mounier, Il personalismo, Milano 1952, pp. 125-126 (Oeuvres, vol. III, Seuil, Paris 1962, p. 510).
[2] E. Mounier, Lettere e diari [titolo originale Mounier et sa génération, 1954], Città Armoniosa, Reggio Emilia 1981, p. 109 (Oeuvres, vol. IV, Seuil, Paris 1962, p. 490).

OMELIA per l’ORDINAZIONE DIACONALE di MATTIA GALLEGATI e MASSIMO GEMINIANI
17-09-2016

La nostra diocesi è oggi in festa. Cari Massimo e Mattia, oggi diventate diaconi nella Chiesa. Sarete a servizio di Cristo e della comunità cristiana. La vostra particolare conformazione a Cristo, il Servo dei servi, vi renderà più capaci di aiutare i fratelli a vivere nella comunione con Lui e, attraverso ciò, a vivere nella comunione tra di loro, praticando il servizio della carità.

Se, secondo la tradizione i diaconi si dedicavano, in particolare, al servizio delle mense, delle vedove, degli orfani e dei poveri, ciò avveniva sempre a partire dall’immedesimazione con Colui che, con la sua incarnazione, si è fatto povero con i poveri, servo dei propri discepoli, per offrire a tutti la misericordia del Padre. I diaconi nella Chiesa si dedicavano al servizio dei loro fratelli e delle loro sorelle imitando Colui che si è abbassato per arricchire tutti della sua vita. I diaconi non erano semplici operatori sociali. Erano, innanzitutto, missionari, portatori di Cristo. Non erano semplici imitatori del Figlio di Dio nel senso che vivevano in mezzo alla gente per la gente e basta. Essi erano in mezzo alla gente per servire Cristo, per portarlo alla gente! Ciò facendo si prendevano cura delle persone non in una maniera qualsiasi, ma amando in loro Cristo stesso, a partire da Lui, con una vita spirituale simile alla sua. Amavano non solo come Lui, ma Lui, in Lui, per Lui. Ne derivava una dedizione senza eguali, non assimilabile ad altre opere meramente umane.

Voglia Dio che voi, a breve diaconi della Chiesa di Dio, come i nostri presbiteri e i fedeli laici, i religiosi tutti, amiate e serviate facendo vostri i sentimenti di Cristo, vivendo il suo comandamento nuovo. Nei fratelli, trovate il prolungamento dell’Incarnazione del Figlio di Dio, sicché tutto quello che farete al diseredato, all’affamato, al carcerato, al profugo, all’emigrato lo farete a Lui stesso (cf Mt 25, 40). Vigilate perché la carità ecclesiale non sia scambiata con un qualsiasi servizio sociale. Impegnatevi a far capire che la Chiesa non ha propriamente il compito di supplire le istituzioni assistenziali della società civile, se non in casi straordinari e a mo’ di segno profetico. La carità cristiana è nel suo genere un qualcosa di diverso rispetto alla filantropia. È e vuole essere anzitutto esercizio dell’amore di Cristo, opera sua. Proprio perché le opere di carità offrono non solo un aiuto materiale, ma soprattutto ristoro e cura dell’anima, un aiuto spesso più necessario del primo, non possono essere cancellate dallo Stato, che ha invece il dovere di riconoscere, sulla base del principio della sussidiarietà, la loro peculiarità specie dal punto di vista religioso, rispetto al quale non ha competenza (cf Deus caritas est, n. 28).

Non dobbiamo mai dimenticare, allora, che «anche il servizio della carità è una dimensione costitutiva della missione della Chiesa» (Evangelii gaudium, n. 179). Come la Chiesa è missionaria per natura, così la carità e la compassione che comprende, assiste e promuove il prossimo, zampillano abbondantissime dall’essere ministeriale di Cristo, che è venuto per redimere e salvare. Compiendo il servizio d’amore di Cristo noi prestiamo le nostre mani e il nostro cuore a Lui.

Cari Mattia e Massimo, chiamati a fermentare la comunità cristiana, sin d’ora incominciate anche quell’importante tirocinio della comunione e della comunicazione ecclesiali che vi renderà, grazie al Redentore, costruttori di esse. Come nella società civile si vive il serio rischio della babele delle lingue e della frammentarietà, dello smantellamento della solidarietà, così nelle parrocchie, nelle associazioni si soggiace alla forte e sottile tentazione della divisione, del rinchiudersi in gruppi ristretti, dell’incomunicabilità, separandosi dal resto del corpo ecclesiale. Purtroppo, per diverse ragioni, non esclusa la rarefazione della presenza dei presbiteri, sta crescendo nelle nostre comunità la convinzione che si possa essere di Cristo senza mantenere l’unità e la collaborazione con le altre componenti ecclesiali. La diversità e la pluralità sono ricchezza. Ma, qualora non siano vissute in un contesto di comunione con Cristo e i suoi ministri, diventano occasione di dispersione, disarticolazioni dannose.

Pertanto, la vostra diaconia spendetela con gioia specie nel tenere uniti i credenti e le diverse componenti ecclesiali. Siate portatori di quella nuova relazionalità che deriva dalla Trinità. Insegnate che uscire dal proprio guscio per unirsi agli altri fa bene, rende più luminosi ed efficaci. Non abbiate paura a ribadire che i credenti sono chiamati a collaborare con tutti per promuovere il bene comune, ma che sono anche necessitati a collaborare tra di loro per promuovere quei beni-valori su cui con gli altri non vi è convergenza. Siate generativi di un nuovo sociale, di una nuova vita comunitaria, grazie a Cristo, che redime anche le relazioni sociali (cf EG n. 178). Mettetevi, pertanto, alla scuola della comunità trinitaria, dello Spirito d’amore che l’anima. Diventerete maestri di una nuova evangelizzazione del sociale, generatrice di un’antropologia relazionale e di uno stile di vita di condivisione. In definitiva, disponetevi a pascere il gregge di Dio […], sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri […], non per vergognoso interesse, ma con animo generoso, non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge (cf 1Pt 5, 2-3). Mettete da parte ogni forma di supponenza per chinarvi su coloro che il Signore vi farà incontrare. La gente percorre faticosamente la pianura del quotidiano, e ha bisogno di essere accompagnata e guidata da chi è capace di vedere le cose da un punto di vista superiore. Perciò non dimenticate di salire sul «monte» per pregare e rimanere con Cristo, dimorando in Lui. Con la Chiesa fatevi testimoni della risurrezione di Cristo, apportatrice di nuove primavere nello spirito e nell’azione pastorale, nonché nella formazione di nuove generazioni di presbiteri, di laici e di religiosi. L’identità della Chiesa, ci ha ricordato papa Francesco, è questa: evangelizzare, cioè fare figli. La Chiesa invecchia quando non genera più figli. Diventa più giovane quando è capace di generare più figli (cf Discorso ai partecipanti al Convegno diocesano di Roma, 16 giugno 2014).

L’Eucaristia che ci apprestiamo a continuare sia il vostro luogo formativo per eccellenza: sia dell’andare incontro agli altri, sia del prendervi cura di ogni persona, di tutta la persona. Il cibo eucaristico vi renderà più forti, audaci, più in sintonia con lo Spirito d’amore, fonte della diaconia e della comunione che trasfigura ogni relazione. Maria, Serva del Signore e Madre della Chiesa, vi accompagni nel vostro cammino diaconale.

OMELIA alla liturgia della Parola per l’APERTURA DELL’ANNO PASTORALE
Faenza - Basilica cattedrale, 15 settembre 2016
15-09-2016

All’inizio del nuovo anno pastorale viene consegnato alle comunità della Diocesi un Sussidio per la ricezione dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium.

In sostanza, stiamo obbedendo a quanto ci ha proposto papa Francesco al Convegno di Firenze. Il pontefice ci ha sollecitati ad essere tutti impegnati in una NUOVA TAPPA EVANGELIZZATRICE, che deve coinvolgere le nostre comunità (conventi, associazioni, organizzazioni, movimenti, ecc.) in una profonda TRASFORMAZIONE MISSIONARIA: tutti siamo chiamati ad essere «Chiesa in uscita», per individuare quale sia il cammino che il Signore desidera da noi oggi.

Perché dobbiamo essere una COMUNIONE MISSIONARIA? Non solo perché ci attendono molte sfide pastorali e sociali (si veda in proposito il Capitolo II), ma soprattutto perché viviamo in un’INTIMITÀ ITINERANTE: siamo, cioè, uniti a Colui che è, per antonomasia, l’Inviato del Padre a tutti gli uomini e i popoli.

Ciascuno e tutti siamo una MISSIONE: siamo e dobbiamo essere missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano.

Nell’Evangelii gaudium sono indicate la modalità di fondo che deve caratterizzare la nuova tappa evangelizzatrice: quella della gioia di portare e di comunicare Gesù Cristo; e, inoltre, alcune vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare. Tutte le vie vanno percorse con uno stile di sinodalità, ossia nella comunione, nella collaborazione.

Al lato pratico, occorre che nei vari territori ci costituiamo in uno stato di PERMANENTE MISSIONE. Il che importa una permanente conversione di quattro tipi:

anzitutto, di tipo religioso: mediante l’incontro o il reincontro con l’amore di Dio in Gesù Cristo, che si tramuta in felice amicizia e in una permanenza reciproca. La coscienza è riscattata dall’isolamento e dall’autoreferenzialità. Si giunge ad essere pienamente umani perché l’incontro con Dio in Gesù Cristo, e l’intima comunione con Lui, ci rende più umani, conducendo al di là di se stessi. Dall’esperienza dell’accoglienza dell’amore trasfigurante di Dio Trinità sgorga una più intensa e convinta azione evangelizzatrice ed umanizzatrice;

  1. in secondo luogo, di tipo pastorale: passando da un’azione di semplice conservazione dell’esistente ad un’azione più decisamente missionaria, che porta a raggiungere tutte le periferie bisognose della luce del vangelo – oggi il mondo del lavoro è divenuto maggiormente periferia -, a cercare i lontani, ad arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi, per toccare la carne sofferente di Cristo nella gente, accompagnando l’umanità in tutti i suoi processi. La conversione pastorale e missionaria non lascia le cose così come stanno. Comanda un deciso processo di discernimento, una permanente riforma di sé, delle strutture ed istituzioni ecclesiali, comprese le parrocchie (cf EG n. 28), le associazioni, le organizzazioni e i movimenti, per renderli più funzionali o, meglio, ministeriali all’evangelizzazione e alla connessa opera di umanizzazione. Una pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del «si è fatto sempre così», per essere audaci e creativi, per ripensare gli obiettivi e i metodi. In un contesto di individualismo post-moderno e globalizzato, l’azione pastorale, rammenta papa Francesco, deve mostrare, meglio che in passato, che il nostro Padre esige ed incoraggia una comunione che guarisce, promuove e rafforza i legami interpersonali e ad essere costruttori del progresso sociale e culturale di tutti (cf EG n. 67). Un’azione pastorale, conscia del secolarismo odierno, che tende a confinare la fede e la Chiesa nell’ambito privato, deve impegnarsi a superare la negazione della trascendenza che produce una crescente deformazione etica ed assolutizza i diritti degli individui (cf EG n. 64);

  2. in terzo luogo, di tipo pedagogico: occorre formare gli operatori a superare una sorta di complesso di inferiorità, che li conduce a relativizzare o ad occultare la loro identità cristiana e le loro convinzioni, quasi dissociandosi dalla loro missione evangelizzatrice (cf EG n. 79); occorre formare a sconfiggere quel relativismo pratico che consiste nell’agire come se Dio non esistesse, nel decidere come se i poveri non esistessero, nel lavorare come se quanti non hanno ricevuto l’annuncio non esistessero (cf EG n. 80); occorre educare a vincere il pessimismo sterile ed anche un ottimismo ingenuo che non tiene conto delle difficoltà, nonché la «desertificazione spirituale» delle nostre società, a vivere il realismo della dimensione sociale del Vangelo, scoprendo nel volto dell’altro il volto di Cristo (cf EG n. 88), a sperimentare la «mistica» del vivere insieme, fraternamente (cf EG n. 92), a deporre la pretesa di dominare lo spazio della Chiesa (cf EG n. 95), a non essere in guerra tra credenti (cf EG n. 98); urge formare un laicato non introverso, bensì capace di far penetrare i valori cristiani nel mondo sociale, giuridico, politico ed economico (cf EG n. 102). Al lato pratico, tutto ciò comporta che, dal punto di vista pastorale, si renda più strutturata e corposa la catechesi sociale;1 si proceda ad un’adeguata formazione dei sacerdoti e degli stessi formatori dei formatori con riferimento sia all’imprescindibile dimensione sociale della fede e dell’evangelizzazione sia all’accompagnamento spirituale, affinché studino, conoscano la Dottrina o insegnamento o magistero sociale della Chiesa e sollecitino alla sua sperimentazione e al suo aggiornamento;

  3. in quarto luogo, sul piano del discernimento. Esso dev’essere, anzitutto, evangelico (cf EG n. 50), oltre che comunitario. Il che significa che non ci si può limitare, sulla realtà contemporanea, a compiere il pur necessario discernimento sociologico, economico, politico, giuridico. Su di essa è necessario porre uno sguardo più profondo, teologico, che si ispira al Vangelo di Cristo e si nutre della luce e della forza dello Spirito Santo, per cogliere l’esigenza della sua più autentica umanizzazione. Detto altrimenti, il discernimento cristiano mira ad un’analisi, ad una giudicazione, oltre che ad una trasformazione della realtà sociale, primariamente sul piano antropologico ed etico, grazie alla considerazione della sua intrinseca dimensione di trascendenza sia in senso orizzontale sia in senso verticale.

Al termine di questo mio intervento ritorno a parlare sulle modalità e sulle motivazioni della missione, leggendo alcuni passi del capitolo V, intitolato Evangelizzatori con Spirito. Il tema delle motivazioni, in particolare, è fondamentale, perché se queste non sono chiare non ci si mobilita nella missione. Al n. 262 si precisa la figura degli evangelizzatori. Vi si legge, a proposito delle modalità: «Evangelizzatori con Spirito significa evangelizzatori che pregano e lavorano. Dal punto di vista dell’evangelizzazione, non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore. Tali proposte parziali e disgreganti raggiungono solo piccoli gruppi e non hanno una forza di ampia penetrazione, perché mutilano il Vangelo. Occorre sempre coltivare uno spazio interiore che conferisca senso cristiano all’impegno e all’attività. Senza momenti prolungati di adorazione, di incontro orante con la Parola, di dialogo sincero con il Signore, facilmente i compiti si svuotano di significato, ci indeboliamo per la stanchezza e le difficoltà, e il fervore si spegne. La Chiesa non può fare a meno del polmone della preghiera».

Per quanto concerne le motivazioni troviamo questo: «La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più. Però, che amore è quello che non sente la necessità di parlare della persona amata, di presentarla, di farla conoscere? Se non proviamo l’intenso desiderio di comunicarlo, abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera per chiedere a Lui che torni ad affascinarci. […]La migliore motivazione per decidersi a comunicare il Vangelo è contemplarlo con amore, è sostare sulle sue pagine e leggerlo con il cuore. Se lo accostiamo in questo modo, la sua bellezza ci stupisce, torna ogni volta ad affascinarci. Perciò è urgente ricuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è niente di meglio da trasmettere agli altri» (n. 264).

Altra motivazione: «Il missionario è convinto che esiste già nei singoli e nei popoli, per l’azione dello Spirito, un’attesa anche se inconscia di conoscere la verità su Dio, sull’uomo, sulla via che porta alla liberazione dal peccato e dalla morte. L’entusiasmo nell’annunziare il Cristo deriva dalla convinzione di rispondere a tale attesa» (n. 265). Un’ulteriore motivazione è: «Abbiamo a disposizione un tesoro di vita e di amore che non può ingannare, il messaggio che non può manipolare né illudere. È una risposta che scende nel più profondo dell’essere umano e che può sostenerlo ed elevarlo. È la verità che non passa di moda perché è in grado di penetrare là dove nient’altro può arrivare. La nostra tristezza infinita si cura soltanto con un infinito amore» (Ib.).

Dopo questi passi si possono trovare nel testo altre motivazioni, che ognuno potrà leggere personalmente.

Al termine di questo incontro mi preme di suggerire alcune modalità di utilizzo del Sussidio. Questo va considerato per quello che è, ossia uno strumento che non può sostituire il testo della Evangelii gaudium. Pertanto, bisognerà utilizzarlo come traccia o indicazione di alcune vie di accesso ai contenuti. La presentazione del Sussidio, sia da parte dei parroci che dei vari operatori pastorali, dovrà incoraggiare la lettura personale dell’esortazione, a partire dall’esperienza della propria fede e del proprio impegno! Dovrà avviare alla sua sperimentazione.

L’esortazione va, dunque, presa in mano, letta, meditata, da soli o in gruppo. Quanto sarebbe bello se gli adulti incoraggiassero gruppi di giovani catechisti o giovani universitari a fare delle ricerche o dei dialoghi su alcuni temi, come quello delle condizioni socio-culturali in cui deve operare oggi la propria comunità, delle relazioni tra parroci e fedeli laici, dell’abbandono di non pochi cresimati, dei difetti dei cristiani, delle doti che dovrebbero avere per vivere significativamente nella Chiesa e nella società, della dimensione sociale del Vangelo, delle «periferie», degli «ultimi». In questo contesto, sarà davvero importante porre o far porre delle domande: qual’è la Chiesa che conosco io? Qual’è il tipo di Chiesa che propone papa Francesco? Quali sono le «periferie» o le persone «scartate» presenti nel mio Vicariato o nel mio territorio? Che faccio?

Con i giovani che sono piuttosto digiuni dell’esperienza della fede si dovranno trovare altre modalità più accessibili a loro, meno dirette.

Con tutti sarà opportuno suscitare domande come queste: Cosa penso? Mi interessa la proposta di papa Francesco? Cosa posso fare io? Cosa possiamo fare come giovani per i giovani, come comunità, come insieme di componenti ecclesiali che talora appaiono distanti tra di loro, frammentate?

Ecco alcuni semplici suggerimenti che non pretendono di offrire orientamenti tassativi. Chi ha esperienza di pastorale, di educazione alla fede, come anche di animazione e di accompagnamento, saprà trovare le vie più consone, a seconda dell’uditorio a cui si rivolgerà.

A conclusione di questo incontro non dimentichiamo la preghiera, perché il Signore e il suo Spirito ci accompagnino nel lavoro di ricezione della esortazione apostolica. Chiediamo umilmente perdono dei nostri sbagli pastorali, pedagogici, delle omissioni, dei ritardi.

La Beata Vergine delle Grazie, stella della nuova evangelizzazione, ci aiuti a sognare una Chiesa rinnovata, ci aiuti nella testimonianza della comunione, del servizio, della fede ardente e generosa, della giustizia e dell’amore verso i poveri, perché la gioia del Vangelo giunga sino ai confini della terra.

1 Da questo punto di vista, vanno senz’altro integrati gli Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia: Incontriamo Gesù della Conferenza Episcopale Italiana, editi dopo la pubblicazione dell’Evangelii gaudium (San Paolo, Milano 2014). Il quarto capitolo dell’Esortazione apostolica che parla della dimensione sociale dell’evangelizzazione non dev’essere ignorato.

OMELIA per la celebrazione della NATIVITA’ di MARIA
Alfonsine - Chiesa di Santa Maria, 8 settembre 2016
08-09-2016

Maria, Madre di Dio, è qui venerata come Madonna delle Grazie, come anche a Faenza, perché protegge il popolo di Dio dalle calamità, dalle guerre, dalla peste, dalla fame, dai terremoti, dai mali fisici e spirituali. Ma la grazia più grande a noi elargita è certamente suo Figlio generato per l’umanità come Salvatore.

Riuniti attorno a Lei dobbiamo esserle riconoscenti soprattutto per questo. Grazie al suo sì il Verbo si è fatto carne, Dio ha assunto la nostra condizione umana. È divenuto uno di noi, siamo suoi. Non siamo terra abbandonata, bensì sposata, persone abitate da Lui. Egli è con noi, cammina, soffre con noi, ci aiuta a portare le nostre croci, e ad essere offerta gradita al Padre.

Domenica scorsa il Vangelo di Luca ci ha presentato tre condizioni per essere veri discepoli del Cristo. Si può dire che esse si riassumono in una sola: è autentico discepolo colui che sa amare Gesù più di ogni cosa, dei propri parenti, degli amici, di tutti i beni, e questo sino all’ultimo, non a metà.

Maria è fonte di grazia per noi anche perché con la sua vita ci ha insegnato ad amare Dio sopra ogni cosa. Lei è la discepola per eccellenza. Ricordiamo le parole di Gesù a proposito di sua Madre. Alla donna che gli diceva: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato», Gesù rispose: «Beati, piuttosto, coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc 11, 27-28). Con simili parole Gesù non intendeva sminuire sua Madre. Al contrario, la onorava e la poneva sul gradino più alto. Infatti, secondo Lui, è beato e può portare in sé Dio non chi ha nobili natali o possiede beni su questa terra, bensì chi ascolta la sua Parola e la mette in pratica. Gesù, in altri termini, spiegava alla donna che più che lodare il grembo e il seno di sua Madre bisognava, piuttosto, benedirla perché era stata docile alla Parola sino a darle un corpo, a generarla in sé. Maria di Nazareth, infatti, come ebbe a scrivere sant’Agostino, prima di concepire il Figlio di Dio nel suo grembo l’accolse nella sua mente. La Madonna generò Gesù Cristo nel mondo, per il mondo, perché seppe prima dire di sì, amandolo con tutto se stessa, offrendo se stessa come casa.

I veri discepoli amano Dio con tutto il cuore, sopra ogni cosa. In questa maniera diventano capaci di generarlo negli altri, vivendolo prima in sé, mostrandolo con la loro vita, imprestandogli le mani, come seppe fare anche santa Teresa di Calcutta, recentemente canonizzata. Questo è il compito dei credenti, sull’esempio della Madre di Gesù: essere evangelizzatori, ossia missionari che generano figli di Dio; sentire questa vocazione come propria. La festa di Maria, Madre delle grazie, ci ricorda, dunque, la nostra vocazione, che è quella, proprio come Chiesa, di generare figli per Dio. La Chiesa che diventa incapace di generare alla fede nuovi figli mostra sterilità, vecchiaia spirituale. Domandiamo a Maria la grazia di essere credenti capaci di ascoltare la Parola di Dio e di essere, quindi, generativi nella comunità cristiana. La Chiesa diventa più giovane quando è capace di generare più figli. Diventa più giovane quanto più diventa madre.

Nella sua Esortazione apostolica Evangelii gaudium (=EG) papa Francesco ha indicato la strada per diventare comunità giovane non tanto anagraficamente quanto, piuttosto, spiritualmente, apostolicamente. Proprio per questo la nostra Chiesa di Faenza-Modigliana, in questo nuovo anno pastorale, come le altre diocesi d’Italia, sarà impegnata, con tutte le sue componenti, ad approfondire e a recepire l’EG. In vista di ciò è stato predisposto, anche perché richiesto dal consiglio pastorale diocesano, un sussidio, composto da schede, che verranno presentate a breve e fatte pervenire a tutti gli animatori e catechisti. Al fine di diventare Chiesa sempre più capace di evangelizzare, in un contesto secolarizzato e ove cresce l’analfabetismo religioso specie tra i giovani, papa Francesco ci domanda una quadruplice conversione: sul piano religioso, pastorale, pedagogico e del discernimento. E, cioè, un cambio nei rapporti con Gesù Cristo, facendogli più spazio nella nostra vita, dimorando in Lui, sentendoci suoi, non riponendolo in un angolo; un cambio nell’evangelizzazione, che da semplice azione di conservazione dell’esistente deve divenire più decisamente missionaria, di modo che non si abbia paura di essere e di dirsi cristiani, ma sia moltiplicato l’impegno nel cercare i lontani, nel portare Cristo a tutti, nel riformare le strutture, le associazioni, i movimenti, affinché tornino all’ispirazione originaria; un cambio nell’educazione alla fede, formando gli operatori a superare una sorta di complesso di inferiorità, che conduce a relativizzare o a occultare la loro identità cristiana, ad agire come se non ci si dovesse relazionare, all’interno della comunità, con le altre componenti, ad impadronirsi di settori nella Chiesa. Urge formare, dice papa Francesco, un laicato non introverso, bensì capace di far penetrare i valori cristiani nel mondo sociale, giuridico, economico, politico e culturale; un cambio nel leggere la storia, le leggi, la politica e l’economia alla luce del Vangelo, ossia non dimenticando che il punto di riferimento per noi imprescindibile è Gesù e il suo insegnamento.

Ecco le conversioni che siamo chiamati a compiere tutti insieme, per essere creativi e propositivi. Portando Maria, Madre delle grazie, in processione per le vie della nostra città, preghiamola per essere, come Lei, vitali, costruttori di una nuova umanità, perché docili alla Parola di Dio.

OMELIA per la COMMEMORAZIONE dell’ECCIDIO di FELISIO
Solarolo - Chiesa di Felisio, 4 settembre 2016
04-09-2016

 Sig. Sindaco, Signor Parroco,
Autorità civili e militari, Associazioni,
Cari fratelli e sorelle,
con il suo Vangelo Gesù ci presenta le condizioni per seguirlo. La prima: se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle, e perfino la propria vita, non è un vero discepolo (cf Lc 14, 25-33). Gesù non chiede di non amare i propri cari ma di amarlo di più rispetto a loro. E il risultato è anche un potenziamento dell’amore per i propri familiari. La seconda condizione per essere autentico discepolo è quella di portare la propria croce e di seguirLo. In sostanza, il discepolo è tale quando vive, come Gesù, un amore senza misure, che non si arrende, non tradisce, ma è fedele sino all’ultimo. Gesù desidera dai suoi discepoli che siano persone che non fanno le cose a metà, ma sono capaci di risposte libere e mature, sanno decidersi con determinazione e di prendere posizione, senza compromessi con ciò che è contrario a Lui. La terza condizione: la rinuncia a tutti gli averi per essere più liberi dall’ansia di possedere, dall’illusione di poter valere perché si è proprietari di tanti beni. Un uomo non vale per quanto possiede, o per il colore della sua pelle, ma per la qualità dei suoi sentimenti. La vita non dipende ultimamente dai beni che si hanno, seppure necessari, bensì dall’amore. L’essere prevale sull’avere. Oggi la Chiesa canonizza Madre Teresa di Calcutta. Una donna che ha mostrato di amare Cristo sopra tutto. Soleva ripetere: «Per me Gesù è il mio Dio, il mio Sposo, è il mio unico Amore, il mio Tutto». Seppe  riconoscerlo nei poveri più poveri, per i quali abbandonò il proprio Paese, la sua professione di insegnante. Dio ha provato gioia nell’amare i diseredati, gli «scarti» della società mediante proprio la disponibilità e l’impegno di Madre Teresa. Ella ha, in certo modo, prestato il suo cuore e le sue mani a Dio, desideroso di raggiungere tutti, specie i più abbandonati. Il segreto dell’efficacia dell’opera di Madre Teresa era semplice: lasciare che Gesù prendesse pieno possesso della sua vita, così che Lui  agisse in lei e attraverso di lei. Lei riteneva di essere una semplice matita nelle mani di Dio. Preghiamo santa Teresa di Calcutta perché ci aiuti ad essere discepoli autentici di Cristo.
Ricordiamo, poi, in questa S. Messa quella che è tristemente passata negli annali della storia come la strage del ponte Felisio (Solarolo, RA), perpetrata dai nazisti nei confronti di nove giovani contadini per rappresaglia. Nei mesi di agosto e settembre 1944 nella pianura ravennate era in atto una  lotta clandestina, con numerosi attacchi e sabotaggi alla truppe d’occupazione.
Nella notte del 1 settembre a Solarolo, nei pressi del ponte sul Senio, qui vicino, si ebbe uno scontro fra partigiani e tedeschi in seguito al quale tre di questi ultimi rimasero uccisi. Il giorno successivo fu ordinato dai nazisti un grande rastrellamento nelle campagne circostanti con l’intento di arrivare ad una esecuzione esemplare.
Furono catturati i nove giovani contadini che, sommariamente interrogati tra minacce e torture, il pomeriggio stesso furono impiccati lungo la via Felisio e tenuti a lungo in macabra esposizione. 
Quattro fascisti in divisa, che si tenevano a braccetto, narra una testimone, passeggiavano cantando canzoni oscene. Più in là, all’ombra di un albero, una tavolata imbandita con avanzi di cibo e bottiglie di vino.
La guerra, come è stato giustamente detto e ripetuto dai pontefici, è un’inutile strage. L’esecuzione sommaria e il modo barbaro dell’eccidio perpetrato qui a Felisio stanno a testimoniarci che essa può partorire abomini, fa dimenticare la fraternità – i fascisti non erano nazisti… ma italiani -, incattivire il cuore delle persone, rendendole disumane, senza pietà, crudeli all’inverosimile.
Perché ricordare tutto questo – ovvero l’insensatezza della guerra e l’abisso della malvagità umana – durante la celebrazione di una santa Messa? Sicuramente, per pregare per i defunti e i loro familiari, ossia per essere solidali nei confronti di chi è stato ingiustamente trucidato e di chi porta nel cuore il dolore di una somma ingiuria inflitta ai propri cari. Viene da chiederci: perché tanto odio e tanta brutalità verso inermi e innocenti? Che cosa può riparare una simile tragedia? Che cosa può rendere più lieve una così insopportabile offesa?  Possono bastare le parole? Non di certo. Ancora una volta, dobbiamo riconoscere che solo il perdono  – non certo perché pareggia i conti sul piano della riparazione, ma perché produce qualcosa di nuovo nelle relazioni e va al di là dell’umano – può porre le condizioni di una rinascita, di una ripartenza per le società dilaniate e devastate dai conflitti.  Nel nostro caso si tratterebbe di offrire il perdono a spietati carnefici, che con ogni probabilità, hanno già sperimentato l’inesorabilità della  morte «livellatrice» e si sono presentati di fronte a Dio.
Questo è quanto spesso ci rimane da fare: domandare perdono anche per coloro che non sono più in grado di chiederlo, nella speranza che quella giustizia che non è negata, anzi è presupposta dallo stesso perdono, si possa in qualche modo realizzare. Perdonare non significa assolutamente approvare l’assassinio, la guerra, i soprusi. È porre soprattutto un atto che affida i carnefici alla misericordia del Padre e che pone le condizioni di una nuova relazione tra le persone e i popoli. Cristo dall’alto della croce proferì: «Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). Nonostante subisse ingiuria e morte, Egli ebbe la forza di pregare per i suoi uccisori e desidera per loro il meglio, e cioè che capiscano il loro errore e si ravvedano. In quell’atto di perdono deve inserirsi il nostro. Perdonare non è essere deboli. Non è rinunciare alla giustizia, all’impegno per la costruzione della pace. È affidarsi ad una logica superiore, ad una visione più ampia della semplice legalità. È continuare a credere nella possibilità che l’uomo ha di rialzarsi e di riabilitarsi nonostante la sua fragilità.
Quale giustizia possiamo, dunque, pretendere e volere per questi nostri giorni che appaiono insanguinati da una terza guerra mondiale a pezzetti? Quella semplicemente umana? Ma può essa rigenerare interiormente le persone che uccidono i propri fratelli? L’esperienza ci dice che solo la misericordia di Dio, ricevuta e vissuta, fa rinascere e rivivere le persone, le rende capaci di amore e di giustizia. È mediante il perdono, ossia mediante il dono di un di più della semplice vita umana, che le persone rientrano in se stesse, riconoscono la loro colpa e, in certo modo, risuscitano e vivono in fraternità e in giustizia. Perdonando – che non vuol dire dimenticare le esigenze della giustizia: l’amore per l’altro implica che ci si renda discepoli della giustizia: come si può, infatti, amare una persona se non le si riconosce ciò che le spetta? – è più facile instaurare un mondo ove tutti si riconoscano e si amino come amici, vivendo in pace, prendendosi cura gli uni degli altri. Partecipando al Sacrificio di Cristo condividiamone l’impegno di costruire un mondo nuovo senza l’uso della violenza, ma con l’amore e il perdono. Facciamo comunione con il suo Spirito d’amore. Facciamo scelte giuste e coerenti con la nostra fede che ci fa vivere in comunione con Cristo.

OMELIA per le insegnanti delle Scuole Materne FISM
Fognano - istituto Emiliani,
01-09-2016

Cara Eccellenza Mons. Ghizzoni,

Cari fratelli e sorelle,

per la celebrazione eucaristica odierna faremo riferimento in modo particolare alla prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi capitolo 3, versetti 1-9, perché ci offre provvidenzialmente uno spaccato interessante sull’educazione nella comunità cristiana, che può essere quanto mai utile per comprendere e migliorare l’atto educativo che si compie, sia pure in un contesto diverso, in una scuola cattolica. Innanzitutto, da quanto dice san Paolo ricaviamo un elemento metodologico. L’atto pedagogico buono, in senso cristiano, lo si può definire nella sua struttura intellegibile e pratica a partire non da degli a priori, ma dall’analisi della sua stessa esperienza comunitaria. L’essere e il senso dell’educazione cristiana si rivelano mediante l’atto corale di questa. I soggetti sono molteplici. Non occorre arrampicarsi sugli specchi per capirne la specificità e la complessità, ma basta leggere dentro ad essa, standoci in mezzo.

In secondo luogo, dal brano proclamato si deducono alcune note caratteristiche dell’atto educativo alla fede. Dice san Paolo: «Vi ho dato da bere latte, non cibo solido, perché non eravate ancora capaci» (1 Cor 3, 2). L’azione educativa non è un plagio, un’imbottire o un plasmare a propria immagine e somiglianza. È soprattutto un accompagnamento personale, all’interno di un processo in cui l’educando cresce e cammina gradualmente, come soggetto che si autopromuove, verso un essere di più dal punto di vista spirituale e cristiano. Lo sviluppo non è un fatto automatico, per di più secondo una sola dimensione o direttrice. Richiede tempi e pazienza. Postula una crescita integrale sotto più punti di vista, considerati armonicamente.

In terzo luogo, sempre dal brano in esame, si può evincere che nell’opera educativa alla fede sono possibili alcuni equivoci o incidenti di percorso piuttosto seri. Non raramente gli educatori tendono a sopravvalutare la propria opera formatrice, quasi fosse l’unico fattore decisivo, dimenticando l’autonomia e la partecipazione dei destinatari in libertà e responsabilità, nonché la rilevanza del contesto. E così può capitare che i credenti che si formano siano ritenuti una proprietà esclusiva. Oppure può succedere che i destinatari tifino di più per il catechista di turno che non per il Signore, il Maestro per eccellenza.

In realtà, afferma l’apostolo delle genti, Paolo o Apollo non donano la fede ai credenti, bensì ne sono semplici servitori, strumenti che concorrono a creare le condizioni della sua fioritura. È un Altro che genera la fede. Essa, poi, si sviluppa in un contesto di vita comunitaria. Qui ognuno svolge un ministero differente, sinergico, ma in subordine a Dio Padre. Io, osserva Paolo, ho piantato, Apollo ha irrigato, ma solo Dio fa sorgere e fa crescere la fede. Gli evangelizzatori e gli educatori alla fede – questo in sintesi è l’insegnamento del brano paolino proclamato -, sono semplici collaboratori di Dio. È Lui che edifica i credenti. Essi non sono edificati ex nihilo dai catechisti. I credenti sono edificio di Dio. L’educazione alla fede, dunque, è atto eminentemente relazionale, dialogico, diaconale, comunitario. Ad esso concorrono più soggetti, di differente dignità, assieme ovviamente ad elementi istituzionali, culturali e religiosi.

Nell’educazione cristiana vale in particolare il principio di realtà: l’essere umano è trovato come un dato e non creato dall’educatore; la vita e la fraternità che si devono portare a compimento sono ricevute prima da Dio. Per cui l’obiettivo non è quello di amare l’educando kantianamente come fine in sé, bensì come persona che deve crescere come soggetto capace di vivere per Dio e non solo per se stesso o, tantomeno, per l’educatore.

In breve, l’opera di educazione non si esaurisce in una relazione a tu per tu, prescindendo dagli altri, da Dio. È sempre opera di umanizzazione all’interno di un «noi di persone», caratterizzate dalla dimensione della trascendenza, verso Dio e verso il prossimo. Non a caso, nella dichiarazione conciliare Gravissimum educationis leggiamo a proposito della scuola cattolica: « .. suo elemento caratteristico è di dar vita ad un ambiente comunitario scolastico permeato dallo spirito evangelico di libertà e carità, di aiutare gli adolescenti perché nello sviluppo della propria personalità crescano insieme secondo quella nuova creatura che in essi ha realizzato il battesimo, e di coordinare infine l’insieme della cultura umana con il messaggio della salvezza…» (n. 8).

L’obiettivo dell’educazione è quello di far sì che i battezzati raggiungano il loro compimento umano in Dio. Più precisamente: che raggiungano l’uomo perfetto, la statura della pienezza di Cristo (cf Ef 4, 13). E ciò mediante l’impegno pratico, la testimonianza nel mondo – nei diversi ambiti di vita -, della speranza che è in loro.

Proprio perché l’obiettivo di un’educazione cristiana è una formazione integrale, secondo un umanesimo altrettanto integrale e aperto alla trascendenza, oggi, primo settembre, in cui si celebra la Giornata mondiale di preghiera per il Creato non possiamo dimenticare il Messaggio La misericordia del Signore per ogni essere vivente, che la Chiesa italiana ha indirizzato a tutte le comunità e scuole cattoliche.

L’invito dei vescovi italiani è semplice e chiaro. Nell’anno della Misericordia dobbiamo pensare che essa non concerne solo gli uomini e le loro relazioni interpersonali ma anche il loro rapporto con il creato. Bisogna vivere e realizzare la Misericordia di Dio – oltre che nell’ambito antropologico, nel mondo del lavoro, della finanza, dell’economia, della politica, dei mass media, della sanità, della scuola, come illustrato nella Lettera pastorale alla mia Diocesi di Faenza-Modigliana -, anche in ambito ecologico!

Tra le vie indicate per farlo vi è quella della ricezione della Laudato si’, l’ultima enciclica di papa Francesco. Sebbene si siano sviluppate molteplici iniziative con cui la si è presentata, spiegata e, in parte, tradotta in pratica con gesti significativi sul piano del cambio degli stili di vita, della bonifica di porzioni del territorio, rimane sempre il compito di una ricezione più sistematica e penetrante in ambito pastorale ed educativo, di una mobilitazione corale, di piccole azioni quotidiane migliorative di quanto già si fa. Per quanto concerne le comunità cristiane, le scuole cattoliche, i movimenti, le organizzazioni di ispirazione cristiana, vanno senz’altro incrementate una catechesi, una formazione, una messa in rete delle varie iniziative. Si tratta di elaborare itinerari pastorali, progettualità culturali e sociali, esperienze educative che: muovano dal presupposto di una chiamata e di una vocazione alla custodia del creato, alle quali corrispondono un compito missionario e di testimonianza; che tengano presente il principio morale dell’ecologia integrale; che presuppongano un aggiornamento dell’educazione alla fede, della formazione ad una spiritualità ecologica, che abilita ad essere custodi e promotori del creato, a confessare i propri «peccati contro la creazione» (cf Laudato si’, n. 8), a declinare eticamente il rapporto tecnologia, lavoro ed ambiente, a coltivare una legalità e una democraticità non solo formali.

In questa Eucaristia, unendoci a Cristo che offre la propria vita al Padre, portiamo l’impegno di un’educazione cristiana, inclusiva di un’ecologia integrale. Dall’Eucaristia deriva la carità dei credenti e delle comunità. In occasione della grande tragedia provocata dal terremoto in Centro Italia preghiamo per i defunti e per i loro familiari. Sollecitiamo tutti, dai più piccoli ai più grandi, a vivere la solidarietà cristiana specie in occasione della raccolta che si farà il prossimo 18 settembre nelle parrocchie d’Italia a sostegno delle popolazioni colpite.

+ Mario Toso

Vescovo di Faenza-Modigliana

 

Alcuni punti del saluto rivolto ai partecipanti prima della S. Messa.

  1. Anzitutto un grande ringraziamento per la vostra opera educatrice, fondamentale per la persona, la Chiesa e la società. Grazie a voi per l’impegno, le fatiche e la passione che mostrate quotidianamente. Il vostro è un contributo fondamentale a che la fede si inculturi e possa permeare e strutturare la vita delle persone. Chi crede vede come estremamente urgente che la fede trovi radicamento nello spirito e nella cultura. Senza un tale radicamento l’appartenenza alla Chiesa, l’essere di Cristo non influenzano le scelte, specie in campo sociale politico. Noi, invece, abbiamo bisogno che la fede sia in grado di offrire motivazioni profonde.

  2. Oggi, più che mai è necessario promuovere e difendere la scuola cattolica e paritaria, secondo la sua specificità, quale elemento essenziale all’interno di un sistema integrato. Se si è finalmente riconosciuta la fondamentalità, per uno Stato pluralista e democratico, aconfessionale, ma sanamente laico, di un sistema scolastico integrato, occorre rendere effettivo questo impianto sotto tutti gli aspetti, compresi quelli economici, pena una doppia iniquità, quale quella che si sta verificando con l’imposizione dell’ICI da parte di varie amministrazioni comunali, in una maniera strumentale. Si tenga presente che il costo della scuola paritaria è quasi totalmente a carico della famiglia e dei gestori. Quanto offrono le amministrazioni mediante convenzioni è ancora troppo esiguo rispetto a quanto le scuole paritarie fanno risparmiare alla comunità nazionale. La legge sulla buona scuola prevede misure fiscali platonicamente favorevoli (lo school bonus non è ancora attuabile, la detraibilità delle spese sostenute dalla famiglia è godibile solo dalle famiglie che hanno reddito). Non va ignorato poi che la suddetta legge ignora sostanzialmente la scuola paritaria.

  3. In uno scenario culturale in cui ci sarebbe maggiormente bisogno della scuola cattolica per preparare persone in grado di servire la società con onestà e competenza, con un orientamento culturale non individualistico e utilitaristico, permeato dallo spirito del Vangelo, capace di fronteggiare la fluidità e lo sfarinamento del sociale sotto i colpi di una mentalità prevalentemente mercantile, va rilevato che in quest’ultimo quinquennio la popolazione delle scuole paritarie è calata del 10 per cento a causa della crisi economica, del calo demografico, della crisi delle vocazioni che ha fatto chiudere molte scuole. Se aumenterà l’imposizione fiscale la chiusura sarà accelerata mediante un grave vulnus alla libertà religiosa e di educazione, a quella pluralità delle scuole che è una risorsa per tutto il sistema scolastico. A fronte della penalizzazione della scuola paritaria cattolica occorre rafforzare le reti di coordinamento dei gestori e delle famiglie, nonché le reti di rappresentanza presso le istituzioni pubbliche. Una falla sul fronte dei gestori, perché si procede in ordine sparso, rispetto ad esempio al ricorso contro l’imposizione dell’ICI, rende l’azione più debole e ininfluente. Per renderla più incisiva occorre mantenere fermezza nelle decisioni e non arretrare rispetto a quanto convenuto. Occorre creare dei consorzi di scuole per razionalizzare la gestione delle risorse, per condividere ed universalizzare pratiche positive, per costruire una massa critica. Occorre, inoltre, mobilitare la società civile a favore del diritto della libertà di educazione strettamente connessa alla libertà religiosa, cuore delle altre libertà.

Al termine di questo breve saluto ribadisco il senso di riconoscenza da parte delle nostre diocesi. Sono sicuro di interpretare qui anche il pensiero di sua Ecc. Mons. Lorenzo Ghizzoni, arcivescovo di Ravenna e di Cervia. Ringrazio gli organizzatori di questa importante giornata augurando pieno successo alle vostre comunità educative.

OMELIA per l’APERTURA del CAPITOLO ELETTIVO delle CLARISSE
Faenza, Monastero S. Chiara - 29 agosto 2016
29-08-2016

All’inizio del Capitolo elettivo è prevista la celebrazione della Messa votiva dello Spirito Santo. In vista di ciò si è scelta la Messa del giorno di Pentecoste. A suo modo anche un Capitolo elettivo è momento di Pentecoste, di rinnovamento della missione, mediante il dono dello Spirito Santo che unifica (cf At 2, 1-11) e colma le persone della presenza di Dio.

La Chiesa universale ha bisogno di una rinnovata Pentecoste, ma anche ogni monastero ed ogni comunità. Questa comunità, a partire dalla propria specifica identità, prega perché lo Spirito Santo aiuti: ad essere, innanzitutto, conformi all’immagine del Figlio di Dio, via, verità e vita, per vivere totalmente consacrate a Lui; in secondo luogo, a seguire il Maestro nella via che è stata indicata a Chiara da Francesco, modello sublime di amante e di imitatore di Gesù Cristo.

La venuta dello Spirito è invocata per una nuova primavera spirituale nella propria vita e in quella comunitaria!

L’elezione di una nuova Abbadessa è, infatti, per la comunità momento di speciale unità nella carità, come è scritto nelle vostre Costituzioni (Roma 1986, p. 140). Non è un mero atto di routine o di mero adempimento delle norme statutarie. È occasione di sentirsi e di farsi comunione più intima con Dio e tra sorelle, per guardare al futuro, ancora una volta, reinterpretando il proprio carisma religioso e spenderlo a favore della Chiesa e dell’umanità. Non va dimenticato che la precondizione di un’unità più intensa ed efficace è rappresentata dalla fedeltà alla Parola di Dio e all’amore fraterno. Solo così il Padre e il Figlio prendono dimora in noi. Assieme ad essi prende pure dimora quello Spirito d’amore che li unisce in un abbraccio di affetto e di tenerezza eterni (cf Gv 14,15-16). Noi, voi, siamo avvolti dal loro abbraccio che riscalda il cuore e sollecita a riprendere sempre il largo in questo momento storico che è unico rispetto ad altri scenari.

Quando noi abitiamo in Dio Trinità, e siamo pervasi dal suo Spirito d’Amore, ne veniamo trasfigurati e potenziati nelle nostre capacità di conoscere il vero e di scegliere il bene e Dio. Siamo anche posti in grado di compiere meglio il discernimento nella nostra vita e nel lavoro della vigna: sia che si debba eleggere una nuova Abbadessa; sia che si debba pensare ad una tale elezione anche in funzione del rilancio del proprio carisma e della propria missione nel mondo e in questa città.

Lo Spirito manda a noi i raggi della sua luce; dà forza d’animo allorché siamo tiepidi; sana ciò che sanguina nel nostro spirito e nelle relazioni interpersonali. Piega ciò che è rigido e fossilizzato nella comunicazione reciproca. Scalda ciò che è gelido nella comunione fraterna e nell’amore a Dio, lo Sposo. Offre i suoi santi doni: di sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timor di Dio, perché portiamo frutti abbondanti di dono generoso a Cristo nel territorio e nella Chiesa, a servizio del Regno di Dio.

Nel tempo, la vostra comunità di Clarisse che professano la Regola di Urbano IV, ha visto dapprima un forte ridimensionamento dell’attività educativa mediante la scuola, e poi il suo definitivo spegnersi. E, tuttavia, non è mai cessata un’altra opera educativa importante ed alta – per cui tutti ve ne siamo profondamente grati -, mediante: la preghiera, lo studio, la riflessione, il confronto, l’accoglienza di gruppi giovanili e persone desiderosi di silenzio, ascolto della Parola di Dio, partecipazione a momenti liturgici e di formazione, con una particolare dedizione alla preghiera per l’unità dei cristiani e il dialogo religioso.

La ricerca comunitaria di prospettive, anche nuove, per il futuro del vostro monastero è d’obbligo. Ma è imprescindibile e prioritaria la vostra esistenza come figlie di Dio, a Lui consacrate per una vita contemplativa, stabilmente e fortemente radicate nella Trinità. Solo così sarete, saremo, eredi di Dio e della sua gloria (cf Rom 8, 8-17). Il nostro essere pellegrini dell’Assoluto in questo mondo contingente, ci insegna e ci abitua a riconoscere ciò che è caduco, passeggero e secondario rispetto alla nostra vocazione di credenti, chiamati alla gioia della vita con Dio. Proprio il nostro essere di Cristo non può essere indebolito. Da esso, coltivato quotidianamente, deriveranno nuovi semi di futuro e nuovi germogli di vita. Non dimenticate di portare nel vostro cuore la Chiesa della Romagna in cui siete inserite: una Chiesa fortemente impoverita di vocazioni sacerdotali e di vita consacrata, bisognosa di una pastorale vocazionale più incisiva e più sistematica, più supportata dalla preghiera al padrone della messe. Tutta la comunità cristiana che è in Faenza-Modigliana vi accompagna e vi ricorda a Maria, Madre della Chiesa. Santa Chiara e san Francesco vi proteggano e vi aiutino a diffondere sempre il profumo della buona fama, perseverando nella via della santa semplicità, dell’umiltà e della povertà (cf Costituzioni, p. 79).