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OMELIA per la Solennità della IMMACOLATA CONCEZIONE
Faenza - San Francesco, 8 dicembre 2016
08-12-2016

Autorità civili e militari,
Cari Fedeli e Frati minori Conventuali,
la plurisecolare devozione della città di Faenza e del suo territorio all’Immacolata trova radici nel XV secolo. Una tale devozione, ancor prima della definizione del dogma, avvenuta nel 1854, crebbe coinvolgendo tutto il popolo faentino e, in particolare, il mondo rurale. Nacque una specifica devozione per la protezione e i bisogni della campagna, per l’abbondanza dei raccolti e dei frutti, per impetrare, a seconda delle necessità, la pioggia e il sereno. L’Immacolata si consolidò come la principale protettrice del territorio faentino e dell’area rurale dei dintorni. Lo stesso Innocenzo XII, già vescovo di Faenza dall’anno 1682, volle farla pregare per i bisogni dei campi romani, colpiti da una forte siccità.
Celebrando la solennità dell’Immacolata concezione, nel terzo Centenario dell’edificazione della Cappella nella Chiesa di san Francesco, chiediamoci: l’Immacolata è oggi da noi, città e campagna, amata e venerata, come in passato, quando questa Chiesa straripava di popolazione, di gruppi provenienti dalle più remote parti della Diocesi, notte e giorno? Forse, si potrebbe pensare che la devozione è diminuita per il calo demografico, perché il fenomeno dell’urbanizzazione ha spopolato le zone agricole. Noi sappiamo benissimo che, nonostante l’avvento della rivoluzione industriale – siamo, fra l’altro, giunti alla quarta, definita rivoluzione industria 4.0, che riduce le tradizionali divisioni fra settore primario, secondario e terziario – in questa regione, il prezioso ed indispensabile lavoro dei campi, grazie a Dio, non è venuto meno, seppure esiste in forme mutate. Bisogna riconoscere che, con l’aiuto della rete della cooperazione, si è mantenuto e ha fatto importanti passi avanti. In questi luoghi possiamo ammirare che cosa significa non solo la custodia ma anche la coltivazione e lo sviluppo del creato di cui ci parla l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco. Il nostro territorio, nelle diverse stagioni, sfodera paesaggi da sogno, che i migliori pittori non riescono a ritrarre e a ricreare in tutto il loro splendore. Il lavoro dell’uomo che ara, semina ed irriga la ferace terra della campagna e delle colline, la rende ricca di frutti belli e saporiti. Nonostante le fatiche e i guadagni talvolta magri, vi sono mille motivi per ringraziare Dio e sua Madre, l’Immacolata.
Il migliore ringraziamento, peraltro, è imitarla. Tutti coloro che vivono in città e nelle zone rurali debbono sentirsi chiamati, come Lei, e come sollecita la Lettera di san Paolo Apostolo agli Efesini, a darsi totalmente a Dio, a presentarsi al Signore santi ed immacolati, unendosi a Cristo, amore pieno (cf Ef 1, 3-6. 11-12). Per raggiungere simili alti traguardi, forse, occorre  ravvivare la pastorale urbana e rurale, coordinandosi come sacerdoti della città e sacerdoti dell’agro faentino. Anche le nuove generazioni debbono poter guardare a Maria come un punto di riferimento imprescindibile, per essere persone coraggiose al pari di Lei, giovane donna di Nazaret; persone, che non temono di porsi al servizio di Dio, che divengono costruttrici di una nuova umanità, della civiltà della misericordia. Perché non immaginare e programmare, con l’aiuto della pastorale vocazionale e giovanile, nell’abituale e folto programma delle Celebrazioni, anche un momento in cui i giovani delle nostre parrocchie si ritrovano attorno alla Vergine Madre per amarla, venerarla, pregarla, anche in vista del prossimo Sinodo dei giovani?
L’Immacolata, che sta di fronte a noi come Colei che vive in piena comunione con Dio e accoglie la sua proposta,  ci sollecita a generare Cristo nella nostra vita e in quella dei nostri fratelli. Ci invita a essere donatori di Cristo, suoi missionari. La condizione per esserlo è questa: imparare Cristo e viverlo! San Paolo, il grande apostolo delle genti, soleva ripetere: per me vivere è Cristo!
Detto diversamente, cari fratelli e sorelle, la nostra fede deve diventare vita, deve produrre opere concrete di rinascita, di rinnovamento delle menti e dei cuori, in una società in cui spesso siamo plagiati e ridotti a zombie. Come in Maria, la fede in Dio si è tradotta in accoglienza di Lui, in servizio degli altri, in generazione del Figlio di Dio, di una nuova umanità, così noi non teniamo la fede disgiunta dall’impegno concreto, sino a farla morire.
Impariamo, dunque, Cristo! Il cristiano non è nient’altro se non colui che impara da Cristo, impara Lui. Non è fondamentale agitarsi, compiere tanti atti religiosi senz’anima, partecipare a mille iniziative, correndo da una parte e dall’altra, con una fede da semplici turisti, che contempla tanti luoghi ma senza vivere in essi. È essenziale, invece, che ci lasciamo istruire dal Maestro interiore, ossia lo Spirito santo, che guida la nostra mente e il nostro cuore verso la verità tutta intera (Gv 16, 13), perché rimaniamo in essa. Solo dimorando in Cristo, in tutto quello che faremo, ci sarà un senso compiuto e felicità. Lo Spirito santo ci pone in sintonia con Gesù Cristo, colloca il nostro cuore vicino a quello dell’Inviato del Padre. Lasciamoci, allora, istruire dal Maestro interiore. Si apprende Gesù non solo tramite un’omelia o una catechesi ben fatta, un pellegrinaggio, bensì facendo silenzio in noi, ascoltando la nostra coscienza, mettendoci a disposizione dello Spirito d’amore del Padre e del Figlio.
Maria, donna dell’ascolto, è divenuta la vivente casa di Dio. Si può dire che Ella è sempre stata la casa di Dio: prima, durante e dopo il suo parto. È rimasta sempre in comunione con Lui. Solo così diventeremo persone vive dentro, capaci di generarlo nel mondo, nelle istituzioni, nelle società. Ecco cosa dobbiamo imprimerci bene in testa nella solennità dell’Immacolata: l’uomo che si abbandona totalmente nelle mani di Dio non perde se stesso, ma diventa veramente se stesso, grazie a Dio che lo colma di ogni bene e verità, di vita. Mediante l’essere e il sentire insieme con Dio si allarga il nostro cuore, viviamo come comunità d’amore, come popolo di Dio, seminato nei solchi della storia, che fa germogliare un nuovo umanesimo. Dio non deve fallire in tutti noi: giovani o anziani, ammalati o sani, poveri o ricchi. Maria Immacolata preghi per noi!

OMELIA al Festival della Dottrina Sociale della Chiesa
Verona, 26 novembre 2016
26-11-2016

Carissimi,
la liturgia odierna, alle porte della prima domenica di Avvento, ci presenta un brano tratto dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 22, 1-7). Giovanni vide un fiume d’acqua viva, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello e scorreva nel mezzo della città. Nel centro della piazza si trova un albero di vita che dà frutti, nutre e guarisce: le foglie dell’albero servono anche a guarire le Nazioni. Il linguaggio è immaginifico, evocativo, incalzante. Quello che viene detto è difficile da organizzare visivamente, spazialmente.
Ma il messaggio appare piuttosto chiaro.
Il fiume di vita che scende da Dio e dall’Agnello irrora la città del popolo di Dio. In mezzo ad esso vive Cristo quale albero che nutre e guarisce.
La visione di Giovanni sembra non applicarsi direttamente – indirettamente sì –  alla città dell’uomo, alla città secolare, diremmo noi oggi: città di cui ci hanno parlato tanti pensatori cristiani, non ultimi Jacques Maritain, Giorgio la Pira, Giuseppe Lazzati.
Ma il popolo di Dio, alimentato e guarito da Cristo, vive seminato nella famiglia umana. Così, la città di Dio costituisce il lievito morale, spirituale e culturale della polis umana, nella quale pulsa il cuore di un popolo che si percepisce e si fa incessantemente tale. Contribuisce a consolidare l’ethos civile. Oggi per noi è questo il problema capitale. Non si tratta solo di accogliere ed integrare gli immigrati e i profughi. Occorre che i molti, che sono caratterizzati da etnie, costumi, culture e religioni diverse, possano amalgamarsi, senza perdere la propria identità, trovando una piattaforma comune di beni-valori condivisi, coltivati e promossi collaborando insieme. Ci vorrà una grande opera educativa.
Il popolo, composto da cittadini chiamati al bene comune, cresce più compatto quando gli stessi cittadini, riconoscendosi figli dello stesso Padre, si accolgono come fratelli. Noi cristiani, discepoli di Cristo, ovvero coloro che imparano da Cristo, imparano Cristo, possiamo essere lievito e sale rafforzando l’unione morale e spirituale delle Nazioni, permeando attività e istituzioni con lo spirito evangelico. Ma non solo. Possiamo anche crearne di nuove. Infatti, come ci hanno insegnato grandi cristiani e intellettuali del secolo scorso, dall’esperienza di Cristo e della sua salvezza integrale, dal cristianesimo che modella antropologie ed umanesimi, derivano culture nuove, stili di vita ispirati dal Vangelo, humus civili, che gradualmente si sedimentano e giungono ad essere i pilastri valoriali e giuridici della città dell’uomo, della democrazia, dell’Europa. Basti rammentare qui il saggio maritainiano sul cristianesimo e sulla democrazia.
Il popolo di Dio è incamminato, lo sappiamo, verso la Gerusalemme celeste, la città dai basamenti solidi ed eterni. Cresce e vive pellegrino su questa terra, nella storia.
Tra il popolo di Dio e il popolo o, meglio, i popoli della famiglia umana, c’è distinzione ed unità. Le persone sono cittadini di entrambe le città. Mentre si vive uniti a Cristo si esiste, come diceva sant’Agostino, nel sobborgo della città di Dio, ovvero nella città dell’uomo.
Cristo è vita, è luce che illumina e vince la notte della morte, della menzogna, dell’incomunicabilità, delle separazioni. Per essere suoi veri discepoli dobbiamo vigilare. Il nostro cuore, come suggerisce il Vangelo di Luca (cf Lc 21, 34-36), non deve appesantirsi in dissipazioni, in affanni della vita, in appartenenze totalitarie, ossia in appartenenze che escludono Dio, o lo rendono subalterno a finalità meramente strumentali.
In questa celebrazione eucaristica facciamo, allora, il proposito di vegliare e pregare perché Cristo inondi sempre di più la nostra vita e, mediante essa, fornisca alimento e guarigione alla vita politica, alla città dell’uomo, alle sue istituzioni, al suo linguaggio, alla comunicazione sociale. Mentre viviamo il mistero della morte e risurrezione di Cristo pensiamo a poche cose, che debbono essere poi messe in pratica:

  1. Per essere lievito, luce, sale del mondo, dobbiamo coltivare l’unione a Cristo, dobbiamo vivere Lui e essere in comunione tra noi;
  2. Per essere portatori di vita nuova, che fa vivere in pienezza secondo la statura di Cristo, una vita che contribuisce a guarire la città dell’uomo, la politica, l’ethos, viviamo da fratelli che si incontrano, dialogano, si accolgono, anzitutto nel nome di Cristo. Non si può essere popolo di Dio, non si può sentirsi, essere e farsi incessantemente popolo politico se non si vive la fraternità, precondizione di una relazionalità generativa;
  3. Le nostre appartenenze sociali, pur importanti, non possono essere superiori e più cogenti rispetto alla nostra appartenenza a Cristo.

Durante l’Eucaristia ci accompagni l’invocazione: vieni, Signore Gesù!

OMELIA per la solennità di CRISTO RE e GIORNATA del RINGRAZIAMENTO
Faenza - Basilica Cattedrale, 20 novembre 2016
20-11-2016

Celebriamo oggi la Solennità di Cristo re dell’universo. Essa è conclusione dell’anno liturgico corrente e apre al nuovo, che inizia con la prima domenica di Avvento, per preparare l’accoglienza di Cristo che si fa uomo, uno di noi, per vivere con noi, in noi.

Fermiamo l’attenzione su Gesù Cristo re universale, Signore del cosmo e della storia. In che senso è re? In che cosa consiste il suo potere regale? In una forza di dominio e di coercizione? Il suo potere non è quello dei re e dei grandi di questo mondo! Non è un potere politico. È il potere di Dio, che dà a tutti la sua stessa vita, una vita eterna, che vince il male, il dominio della morte, il peccato, compreso quello contro il creato e l’umanità (cf Laudato si’, n. 8). Gesù Cristo è Signore dell’universo in quanto è principio e fine del creato, dell’umanità, della storia. Egli è venuto su questa terra per mettere nella nostra la sua vita, per farci come Lui, più capaci di vero, di bene e di Dio; capaci di sconfiggere il peccato, di donarci totalmente, di perdonare e di amare come Lui, con fedeltà piena, sino alla fine. È venuto per porsi al centro delle nostre attività, per mettere in esse un nuovo spirito, il suo Spirito d’amore, affinché quanto viene compiuto sia vissuto in Lui, con Lui, per Lui, ponendo le nostre attività al servizio della persona e del bene comune.

Entro questa visione di cose, i coltivatori diretti e l’Associazione che li unisce, sono chiamati a compiere tutto stando dentro la vita di Cristo, rimanendo in essa, nel suo Amore. Anche per loro deve realizzarsi quanto pensava san Paolo: per me vivere è Cristo. In maniera analoga, ogni agricoltore e ogni associazione che li tutela e li promuove deve poter dire: per noi vivere è operare e lottare, è impegnarsi per un’agricoltura ecologia, per la custodia del creato e la coltivazione della terra, stando in comunione con Gesù Cristo il Nuovo Adamo, come il tralcio vive unito alla vite.

L’attività agricola pensata, vissuta in Cristo, con Lui, in vista di Lui, è chiamata a configurarsi naturalmente come sostenibile e diversificata, ossia in modo da essere a servizio di una maggior qualità di vita e del bene di tutti. Chi lavora la terra secondo il disegno di Dio, la coltiva custodendola, ossia salvaguardandola, valorizzando la ricchezza delle sue specie e risorse, senza considerarle illimitate.

La Giornata del Ringraziamento di quest’anno è abbinata all’Anno internazionale dei legumi, proclamato dalla assemblea delle Nazioni Unite con lo slogan: «Semi nutrienti per un futuro sostenibile». Con l’indizione di un simile anno si vuole sottolineare contemporaneamente l’importanza del mondo agricolo per la famiglia umana, sempre più bisognosa di cibo sano e sufficiente e, nello stesso tempo, l’importanza del ruolo dei legumi. Essi sono ricchi di proteine vegetali e di fibre, non solo per la nutrizione delle persone, ma anche per quella degli animali cui possono essere destinati come foraggi e mangimi; ed, inoltre, sono utili per il suolo, in quanto la loro coltivazione rilascia dei nutrienti, in particolare l’azoto che diminuisce la dipendenza dai fertilizzanti sintetici e l’impatto ambientale. Per quanto detto, il contributo dei legumi è decisivo per la sostenibilità dell’agricoltura e per la sua diversificazione. I cibi che vengono dai legumi, possono apparire modesti e nell’immaginario possono essere associati alla povertà. Ma la varietà di specie che appartengono a questa famiglia vegetale consentono di apprezzare la splendida biodiversità del nostro pianeta che permette di contrastare le monocolture che lo impoveriscono. Uno sguardo credente sa riconoscere in questo la grandezza e la ricchezza dell’opera di Dio, la sua bontà e provvidenza.

La promozione di un’agricoltura sostenibile e diversificata, lo sappiamo, consente, fra l’altro, la valorizzazione dei mercati locali e dei prodotti tipici di un territorio (cf Messaggio della CEI per la 66.a Giornata del ringraziamento Coltivare la terra, responsabilità di tutti). L’impegno di un’agricoltura sostenibile e diversificata non nasce dalla considerazione del solo guadagno dei contadini. Spesso il loro reddito, specie dei più piccoli, è scarso. Nasce, invece, dall’amore per la terra, considerata nel suo insostituibile contributo alla vita dell’umanità. È perseguito con tenacia per il bene delle generazioni future, per onorare Dio che vuole che il creato serva a tutti. Oggi, per fortuna, in Italia, diversi giovani optano per il lavoro della terra, supportati da nuove tecnologie, innamorati di un mondo in cui fa scuola la gratuità di Dio, che sollecita alla generosità, alla logica del dono, incarnata peraltro nella stessa terra e dimostrata dai suoi frutti.

In questa Eucaristia preghiamo Dio per i doni della terra e del lavoro dell’uomo, perché la diversità delle specie e la bellezza del creato non siano danneggiate bensì potenziate. Ringraziamo per la misericordia di Colui che mai si stanca di perdonare i suoi figli che depredano la natura ed inquinano i territori, sollecitandoli alla conversione. Preghiamo perché si abbia la forza di togliere le disparità tra i soci e i dirigenti delle imprese cooperative, perché il lavoro agricolo sia riconosciuto e non sia sottopagato; perché i lavoratori della terra crescano nella capacità di mettersi in rete ed essere più forti lungo la filiera; perché abbiamo l’intelligenza di formare movimenti di agricoltori che li aiutino a tutelare il loro reddito a fronte di fenomeni di speculazione globale e di svalutazione dei loro prodotti, di politiche deboli.

Per essere collaboratori di Dio, a servizio della vita, occorre una forte spiritualità, che solo il colloquio con Dio, lo stare in compagnia con Lui anche nel tempio del creato, può alimentare. Cari agricoltori e Coldiretti, difendete decisamente il made in Italy contro le contraffazioni e le concorrenze sleali, i reati agroalimentari, ma promovete anche la specificità dell’impegno cristiano e delle aziende famigliari, l’onestà, la legalità. Aiutate la vostra Chiesa ad essere attenta alle varie forme di povertà che toccano anche il mondo agricolo, compreso il lavoro in nero. Sollecitate una pastorale relativa ad esso, stando vicini alle vostre comunità ecclesiali, ai vostri sacerdoti. Così, potrete essere difensori non solo delle tipicità italiane in Europa, ma anche della tipicità di un lavoro quale è stato compiuto dai nostri genitori e nonni con sacrificio, nello spirito cristiano, all’insegna della fraternità e della solidarietà.

OMELIA per le esequie di suor Maria Paola Borgo priora delle domenicane di Marradi
Marradi, 19 novembre 2016
19-11-2016

la Parola di Dio ci ha ricordato che la nostra vita terrena di persone battezzate è inserita nella morte e risurrezione di Cristo (cf Rm 6, 3-4, 8-9). Noi siamo, viviamo, moriamo e risorgiamo in Colui che incarnandosi assume la nostra condizione umana e la arricchisce della vita di Dio, vita immortale. Per cui il nostro destino non è la tomba, il nulla, bensì la vita con Dio, in Lui, risorti con il Figlio di Dio, glorificati e divenuti incorruttibili. La vita non è tolta, ma trasformata. È un passaggio verso la felicità. Non siamo figli del Dio dei morti, bensì del Dio dei viventi. La nostra esistenza di pellegrini sulla terra è chiamata a maturare la forma di uomo perfetto nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (cf Ef 4, 13), vincitore della morte, Amore pieno di verità. Siamo chiamati a stabilizzarci in Colui che è principio e fine della storia.

Di questa grande epopea, che progressivamente divinizza l’umanità, è stata ed è partecipe Suor Maria Paola Borgo della quale celebriamo le esequie nel segno della fede. È entrata da giovane nel Monastero delle Domenicane Matris Domini di Bergamo ove celebra la Professione solenne il 28 ottobre 1962. Tre anni dopo giunge qui a Marradi nel Monastero delle Monache della SS.ma Annunziata. È priora a più riprese, sino al momento della sua nascita al cielo, a testimonianza della stima che godeva presso le sue consorelle. Donna di intelligenza non comune aveva un carattere forte ma nel contempo affabile e materno. Due tratti hanno caratterizzato la sua vita di consacrata: una vita dedita alla contemplazione e l’impegno della ricerca di nuove vocazioni. Si può dire che abbia incarnato in sé quanto la nostra Diocesi di Faenza-Modigliana ha riscoperto come responsabilità primarie per il suo cammino di speranza, a conclusione del Giubileo della misericordia.

Ciascun credente non può essere missionario dell’Amore di Dio se non prega, se non sa rimanere in colloquio col Padre. È lo stare con Cristo, in intimità profonda con Lui, che ci fa riscoprire di essere una missione. La passione d’amore che ci unisce all’inviato del Padre, Sposo dell’anima, ci sollecita a donarlo a chi non l’ha ancora incontrato o anche a chi, pur avendolo già conosciuto, l’ha disgraziatamente perduto. Ma, soprattutto, sospinge a pregare il padrone della messe a mandare operai, a ricercare nuove vocazioni per la Chiesa, per la vita consacrata.

Ognuno di noi sa quanto oggi sia necessario coltivare la fede presso la gente e le nuove generazioni: una fede che si radichi nella vita e i cui contenuti vengano incarnati nelle istituzioni, nelle leggi e nei comportamenti. Senza che le nuove generazioni siano coinvolte nell’annuncio convinto ed appassionato di Gesù Cristo non possiamo sperare un futuro migliore per le nostre comunità cristiane e nemmeno per gli Istituti di vita consacrata maschili e femminili.

La morte di Suor Maria Paola Borgo ci ricorda il ministero delle persone consacrate nella Chiesa e nel mondo, e anche qui a Marradi. Esse sono testimoni di una vita che si dona totalmente a Cristo per vivere di Lui, perché tutti i propri fratelli e sorelle possano vivere in Lui, per Lui. Le persone consacrate sono luce perché ardono d’amore come lampade accese. Esse non consumano la loro fiamma in quanto attingono vita da Colui che è Luce del mondo (cf Mt 25, 1-13), ed è tale perché dono totale di sé.

Cari fratelli e sorelle di Marradi, ringraziate Dio per avere in mezzo alle vostre case il Monastero della SS.ma Annunziata, faro e punto di riferimento nell’amore a Cristo, nell’impegno di annunciarLo e di testimoniarLo. Non dimenticate che le nostre sorelle consacrate vi accompagnano nel cammino di tutti i giorni con la preghiera e l’offerta di sé al Signore. Esse si alzano di buon mattino per preparare le vostre giornate, affinché possiate vivere di Lui, Sole del mattino, e a sua gloria.

Suor Maria Paola è stata a capo per lunghi anni della sua comunità di domenicane, per spronare ed incoraggiare le sue sorelle nell’essere come Mosé orante sul monte per la vittoria del suo popolo. Ha fatto tante cose per la sua comunità religiosa e per la comunità civile di Marradi, ma ricordiamola specialmente per il suo ministero di guida spirituale e vocazionale. Abbiamo un estremo bisogno di persone come lei. La sua partenza da questa terra non sia ritenuta e vissuta come un vuoto incolmabile. Vivendo nella comunione dei santi potrà ancora aiutare la sua famiglia religiosa, intercedere per il paese di Marradi e la Diocesi di Faenza-Modigliana. Sicuramente continuerà ad assediare il cuore del Padre, il Padrone della messe, perché mandi nuovi operai, nuovi consacrati e consacrate. Dobbiamo sperare che tra i giovani e le giovani di Marradi, ma non solo, vi siano ancora persone che come Sr. Maria Paola Borgo e, molto prima ancora, come san Domenico, sappiano innamorasi di Dio e dire: «Ecco, manda me». E, allora, sarà primavera.

OMELIA per la CHIUSURA del GIUBILEO DELLA MISERICORDIA in DIOCESI
Faenza - Basilica cattedrale, 13 novembre 2016
13-11-2016

Il brano del Vangelo di Luca (21, 5-19) ridimensiona la prospettiva di quanti attendono con impazienza la fine del mondo ma anche il modo di pensare dei rassegnati e di quelli che non attendono più nulla di nuovo sulla faccia della terra. Richiama sia i catastrofisti o pessimisti, come anche coloro che hanno gettato la spugna e non lottano più, all’impegno nel presente, nel mondo ove vive e cresce la Chiesa, il popolo di Dio, una nuova umanità. Il nostro è il tempo della testimonianza in mezzo alle persecuzioni, facendo leva sulla fiducia e sulla perseveranza, in attesa della liberazione con la venuta gloriosa del Figlio dell’uomo. I discepoli di Gesù sono chiamati a seguire le orme del Maestro, a seminare con Lui, nei solchi della storia, una nuova umanità senza perdere speranza, facendo leva sulla potenza rinnovatrice dello Spirito del Risorto. Essi sono chiamati a decifrare i segni delle guerre, delle violenze e delle ingiustizie come luogo ove, grazie a Gesù Cristo vincitore del male e del peccato, si delinea, nonostante tutto, una nuova stagione che segue il tempo cattivo.

Il Vangelo odierno di san Luca è quanto mai intonato con la celebrazione della chiusura dell’anno santo. Questa è momento di ringraziamento per i benefici ricevuti e motivo di ripartenza. È momento di alzare il capo e di risollevarsi. La chiusura della Porta Santa non significa concludere il percorso della conversione, semmai continuarlo per far sorgere una nuova primavera nella Chiesa e nel mondo. Il nostro dev’essere, allora, un grande Grazie a Dio in Gesù, principio e fine della storia, ricapitolatore di tutte le cose. Viene spontaneo pensare che dobbiamo riconoscenza a Dio per i traguardi raggiunti entro l’esperienza della Misericordia ricevuta, celebrata e confessata. Ne elenco solo alcuni: l’inaugurazione della sede del nuovo Centro d’ascolto, la Casa di accoglienza e il Centro Caritas a Fognano, l’inaugurazione della nuova Casa del Clero, il rilancio dell’iniziativa «Solidarietà di vicinato» a favore specialmente delle famiglie bisognose con più figli, l’impegno di ricezione comunitaria dell’Evangelii gaudium, l’inaugurazione di un corso di approfondimento sull’Amoris laetitia, i giubilei celebrati dalle diverse categorie, associazioni, organizzazioni e movimenti, senza dimenticare le parrocchie, le comunità religiose. Ma possiamo considerare segni di una Misericordia accolta e sperimentata anche la GMG a Cracovia, con la partecipazione di più di duecento giovani, l’incontro a Gamogna di molti di loro, il pellegrinaggio dei cresimati a Roma che ha registrato circa settecento presenze, la celebrazione della Giornata missionaria con le annesse esperienze di una «Chiesa in uscita». Tutta la Chiesa di Faenza-Modigliana si è mobilitata per passare attraverso la Porta Santa, che è Cristo. Sono convinto che, senza frastuono e senza eccessiva presenza in quei mass media che fanno fatica a leggere la realtà, è cresciuto un popolo nuovo, più cosciente della sua vocazione missionaria e di comunione, a partire da una rinnovata intimità con il Missionario per eccellenza, Gesù, l’inviato dal Padre. Abbiamo imparato che la misericordia di Dio, sperimentata come vita nuova, ossia trasfigurata dall’amore di Dio, va vissuta e testimoniata non solo come intensificazione della carità assistenziale, ma soprattutto e simultaneamente come annuncio rinnovato di Gesù Cristo, che offre a tutti la sua vita. Il confronto con la Misericordia di Dio, donata a tutti, ci ha resi più sensibili rispetto al nostro essere missionari, in un territorio che mostra forti segni di secolarismo e di rarefazione delle vocazioni sacerdotali e religiose. Detto altrimenti, l’anno giubilare ci ha colmati di passione missionaria in un contesto pluralistico e multireligioso. Ci ha aiutati a capire che siamo una missione, perché siamo strutturati come missionari e, pertanto, non possiamo non evangelizzare, ovunque viviamo. Ha contribuito, peraltro, a mettere a nudo le nostre paure di essere e di dirci cristiani, come anche una nostra certa incapacità a comunicare l’esperienza della fede alle nuove generazioni, ma anche ai non credenti. Riusciremo a vincere le nostre timidezze e inadeguatezze? Ciò potrà avvenire accrescendo non solo l’acquisizione di nuove metodologie o strategie pastorali e pedagogiche, ma soprattutto lo spirito contemplativo, la preghiera, il dialogo e lo stare con Lui. Il nostro destino non è quello di essere nella storia un popolo timido o rassegnato, in fuga di fronte alle sfide più impegnative, ritirato nelle catacombe o nel sottobosco della storia, oppure semplicemente rintanato in famiglie spirituali lontane dall’ispirazione cristiana, senza neppure esercitare il diritto di una sana critica, uniformandosi passivamente agli ordini di scuderia. Ciò che caratterizza il popolo cristiano è di essere sempre in cammino, verso l’oltre che è il compimento umano in Cristo, per proporre ed incarnare nella storia una nuova libertà, una giustizia più grande di quella semplicemente umana. Il credente non opera stancamente, con poca convinzione, bensì con passione e slancio, divenendo sale della terra, luce del mondo. Non è un profeta di sventura, ma portatore di un ottimismo contagioso, seppur tragico ed eroico, come soleva sottolineare un grande pensatore del secolo scorso, Jacques Maritain. Non bisogna mai dimenticare che essere cristiani implica un’esistenza per Cristo, che è Amore nella verità; comporta una vita per la giustizia. Per chi è persona di fede, la croce rappresenta una via obbligata per giungere alla risurrezione. Non c’è vittoria sul male, su ogni forma di peccato senza croce, senza cioè un amore totale e fedele. Chi non osa proporre Cristo, figura di uomo completo, sottrae ai propri fratelli la speranza dell’emancipazione e del riscatto, la pienezza umana. Chi non propone e difende i valori della vita dal grembo materno alla morte, della famiglia cristiana, della libertà religiosa, compresa quella della scuola cattolica (affermando così il pluralismo del sistema scolastico, non negandolo, come pensano erroneamente alcuni); chi non professa la risurrezione dei corpi e la trascendenza, e non sostiene la prospettiva del lavoro per tutti come antidoto alla povertà e titolo di partecipazione; chi non è determinato a vivere Cristo nell’economia, nella finanza, nei mass media, nella scuola, finisce per tradire la propria identità più profonda e per non essere più sale che dà sapore. Non dobbiamo aver paura. Neppure un capello del nostro capo andrà perduto. Con la perseveranza salveremo la nostra vita, afferma il già citato Vangelo di Luca.

L’esperienza della nostra Chiesa nella celebrazione del Giubileo ha visto riconfermato l’urgenza di un duplice impegno: la formazione di un laicato sia ad intra che ad extra della vita ecclesiale – per quest’ultimo aspetto restano sempre attuali le linee offerte dalla Lettera pastorale del vescovo Misericordiosi come il Padre – sia l’impegno vocazionale e l’educazione alla fede delle nuove generazioni. Anche nella nostra comunità è maturato il desiderio che sta al centro del prossimo Sinodo ecclesiale del 2018, indetto da papa Francesco, e cioè la riflessione sui giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Già come comunità e Centri pastorali diocesani interessati ci si sta muovendo verso un Sinodo diocesano coi giovani, dei giovani, per i giovani. La Chiesa non può intraprendere una nuova tappa nell’evangelizzazione senza l’apporto e il coinvolgimento delle nuove generazioni.

In questa celebrazione eucaristica preghiamo anche per l’impegno di rinnovamento delle strutture diocesane, come le unità pastorali, la Caritas e il settore amministrativo. La Madonna, beata Vergine delle Grazie, ci accompagni nella riformulazione degli itinerari catechetici, fulcro di una fede radicata nella vita. E così sia.

OMELIA per la COMMEMORAZIONE dei FEDELI DEFUNTI
Faenza - Chiesa dell'Osservanza, 2 novembre 2016
02-11-2016

Cari fratelli e sorelle, ieri celebrando la Solennità di tutti i santi abbiamo avuto modo di ricordare quello che siamo: una grande e sconfinata comunione. Formiamo la comunione dei santi del cielo e della terra. È la comunione di coloro che sono pellegrini sulla terra, dei defunti che compiono la loro purificazione e dei beati del cielo. La formiamo grazie a Colui che si è fatto uomo, ed è morto e risorto. Incarnandosi si è unito a ciascuno di noi. Risorgendo ci porta con sé e ci fa sedere accanto al Padre, vittoriosi sulla morte. Con Cristo siamo sepolti e con Lui risorgiamo. Il Battesimo, lo sappiamo, ci immerge nella sua morte e nella sua risurrezione. Uniti a Lui, partecipiamo già realmente alla vita del Risorto. Grazie alla nostra unione a Lui, il Pastore dai grandi occhi, che passa attraverso il tunnel buio della morte vincendola, il nostro morire riceve un significato positivo: «Ai tuoi fedeli, Signore – così preghiamo – la vita non è tolta, ma trasformata, e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo» (Messale Romano, Prefazio dei defunti, I). Con Cristo, dunque, veniamo sepolti corruttibili, con Lui rinasciamo a vita nuova, incorruttibili.

Cristo è il pontefice massimo, ossia il ponte che unisce, noi che viviamo ancora sulla sponda della mortalità e i nostri cari, che sono già approdati sulla sponda dell’immortalità. Le nostre preghiere, specie mediante la celebrazione eucaristica e la Comunione, passano sul ponte che è Cristo e possono aiutare coloro che hanno bisogno di purificazione. Sempre attraverso Cristo, coloro che si sono già stabilizzati nella vita eterna, ci aiutano con la loro intercessione e la loro solidarietà.

Cari fratelli e sorelle, in questa occasione, senza turbare la vostra intimità coi vostri defunti, sento il dovere di informarvi, in ordine al culto dei nostri morti, su una recente Istruzione Ad resurgendum cum Christo, emanata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, circa la sepoltura e la conservazione delle ceneri in caso di cremazione. In essa ci viene comunicato che per la Chiesa, già da tempo, esiste la convinzione che la cremazione non sia «di per sé contraria alla religione cristiana» e che non debbano essere negati i sacramenti e le esequie a coloro che abbiano chiesto di farsi cremare, a condizione che tale scelta non sia voluta come negazione dei dogmi cristiani o con animo settario o per odio contro la religione cattolica e la Chiesa.

Tuttavia, per la Chiesa rimane chiaro che l’inumazione è la forma più idonea per esprimere la fede e la speranza nella risurrezione corporale. Andando nel cimitero, visitando le tombe riflettiamo anche su questo, rafforziamo il nostro credo nella resurrezione dei morti. Seppellendo i corpi dei fedeli defunti, la Chiesa conferma la fede nella risurrezione della carne e intende mettere in rilievo la dignità del corpo umano come parte integrante della persona della quale il corpo condivide la sorte. La sepoltura nei cimiteri o in altri luoghi sacri risponde adeguatamente alla pietà e al rispetto dovuto ai corpi dei fedeli defunti, che mediante al Battesimo sono divenuti tempio dello Spirito Santo. La sepoltura dei corpi nei cimiteri, nelle chiese e nelle aree ad esse adibite favorisce il ricordo e la preghiera per i defunti da parte dei famigliari e della comunità cristiana. I defunti non sono solo della famiglia di appartenenza ma sono anche di Cristo e del suo Corpo che è la Chiesa.

Laddove ragioni di tipo igienico, economico e sociale portino a scegliere la cremazione, la Chiesa accompagna la scelta con apposite indicazioni liturgiche e pastorali. Ritiene di non dover permettere atteggiamenti e riti che coinvolgono concezioni errate della morte, ritenuta sia come l’annullamento definitivo della persona, sia come il momento della sua fusione con la Madre natura o con l’universo, sia come una tappa nel processo della re-incarnazione, sia come la liberazione definitiva dalla «prigione» del corpo.

Le ceneri del defunto – ecco ciò che ci viene ricordato con l’Istruzione che vi ho citato – devono essere, allora, conservate di regola in un luogo sacro, cioè nel cimitero o, se è il caso, in una chiesa o in un’area appositamente dedicata a tale scopo dalla competente autorità ecclesiastica. Solo in casi eccezionali e gravi, col permesso dell’Ordinario locale, in accordo con la Conferenza episcopale o il Sinodo dei vescovi delle Chiese Orientali, è consentita la conservazione domestica. Le ceneri, tuttavia, non possono essere divise tra i vari nuclei familiari e vanno sempre assicurati il rispetto e le adeguate condizioni di conservazione. Per evitare ogni tipo di equivoco panteista, naturalista o nichilista, non è permessa la dispersione delle ceneri nell’aria, in terra o in acqua o in altro modo oppure la conservazione delle ceneri in ricordi commemorativi, in pezzi di gioielleria o in altri oggetti. Nel caso che il defunto avesse notoriamente disposto la cremazione e la dispersione in natura delle proprie ceneri per ragioni contrarie alla fede cristiana, si devono negare le esequie, a norma del diritto.

Le motivazioni di fondo sono che: i defunti devono essere oggetto delle preghiere e del ricordo continuo della comunità cristiana: non devono essere sottratti alla preghiera e al ricordo di questa; essi, infatti, fanno parte della comunione dei santi, di quella comunione che è la Chiesa. Per questo è anche significativo che il vescovo o chi per lui venga a celebrare la santa Messa qui al cimitero che vede incorporata la Chiesa dell’Osservanza.

Quanto detto, ripeto, non deve disturbare il nostro intimo colloquio con i nostri cari defunti. Semmai deve aiutarci a vivere momenti di un più intenso affetto nei loro confronti, a comprendere con maggior profondità il nostro credo e, per conseguenza, che non possiamo disonorare i corpi o trascurarli giacché sono destinati a riunirsi all’anima. Dio tornerà a dare la vita incorruttibile ai corpi trasformati.

Anche ai nostri giorni, noi come Chiesa, siamo chiamati ad annunciare la fede nella risurrezione: «La risurrezione dei morti è la fede dei cristiani: credendo in essa siamo tali» (Tertulliano, De resurrezione carnis, 1,1: CCL 2, 921).

OMELIA per la Solennità di TUTTI I SANTI
Faenza - Basilica Cattedrale, 1 novembre 2016
01-11-2016

Oggi la Chiesa onora e ricorda tutti i suoi figli, quelli passati e presenti. Nella prima lettura, l’autore del libro dell’Apocalisse li descrive come «una moltitudine immensa» che nessuno può contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua (cf Ap 7,9). Tra di essi sono compresi i santi dell’Antico Testamento, a partire dal giusto Abele e dal fedele Patriarca Abramo, quelli del Nuovo Testamento, i numerosi martiri dell’inizio del cristianesimo e i beati e i santi dei secoli successivi, sino ai martiri e ai testimoni di Cristo del nostro tempo. Nel mondo oggi vi sono 150 milioni di cristiani perseguitati. Anch’essi entrano nel novero dei figli di Dio che oggi festeggiamo. Tutti sono accomunati dalla volontà di essere di Cristo, di incarnare nelle loro esistenze i suoi sentimenti, di lottare come Lui contro il male col bene, di perdonare, secondo il suo insegnamento, settanta volte sette, cioè sempre.

Nella moltitudine dei santi non vi sono solo quelli canonizzati, ufficialmente riconosciuti e posti sugli altari, ma i battezzati di ogni epoca e nazione. Della gran parte di essi non conosciamo i volti, ma con gli occhi della fede li vediamo risplendere, come astri pieni di gloria, nel firmamento di Dio. Oggi non festeggiamo solo coloro che sono in paradiso ma anche coloro che camminano su questa terra, verso l’approdo definitivo. Sant’Agostino raffigura la Chiesa come un popolo immenso che si muove, quale corteo sterminato di persone, verso la Gerusalemme celeste. Di questo popolo una parte è ancora quaggiù, pellegrino sulla terra. Un’altra parte è giunto in prossimità di quel tempio di luce ove coloro che vedono il volto di Dio faccia a faccia esultano e gioiscono godendo la sua piena comunione. Si tratta di coloro che debbono ancora purificarsi e perciò si trovano nel pronao, all’entrata del tempio, in attesa di fare il loro ingresso definitivo.

La liturgia di oggi desidera che ci vediamo per quello che siamo: una grande e sconfinata comunione. Formiamo la comunione dei santi del cielo e della terra. La formiamo grazie a Colui che si è fatto uomo, ed è morto e risorto. Incarnandosi si è unito a ciascuno di noi. Risorgendo ci porta con sé e ci fa sedere accanto al Padre vittoriosi sulla morte.

Cristo è il pontefice massimo, ossia il ponte che unisce, noi che viviamo sulla sponda della mortalità e i nostri cari, che sono approdati sulla sponda dell’immortalità. Le nostre preghiere passano sul ponte che è Cristo e possono aiutare coloro che hanno bisogno di purificazione. Sempre attraverso Cristo, coloro che si sono già stabilizzati nella vita eterna, ci aiutano con la loro intercessione e la loro solidarietà. Nella santa Messa di oggi è attivo il Pontefice Massimo, Gesù Cristo, che unisce tutti i credenti, quelli passati e presenti.

Le beatitudini che abbiamo sentito proclamare secondo il Vangelo di san Matteo indicano il programma di vita dei credenti. È il manifesto della vita cristiana. Nel contesto odierno della Solennità di tutti i santi, le beatitudini indicano la strada da percorrere per vivere santi ed immacolati al cospetto di Dio. Grazie alle opere buone, ad una condotta bella si è sale che dà sapore, luce che illumina il mondo, si ha un cuore in sintonia con Dio e con la sua volontà.

Tra le beatitudini (cf Mt 5, 1-12a) troviamo una parola che riveste un’importanza particolare per la nostra vita: «giustizia». «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati». E ancora: «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli». Si tratta non tanto e solo della giustizia umana, quella sociale, ma in particolare della giustizia cristiana che comprende quella umana.

La giustizia di cui parla la Bibbia e con essa Matteo, implica tutti i doveri che si hanno verso il prossimo, ma specialmente quelli che abbiamo verso Dio. Abbiamo dei doveri verso Dio. La giustizia è il rispetto e la fedeltà ai diritti di Dio, quali sono stati precisati con l’Alleanza e sono stati confermati ed approfonditi con l’Incarnazione di Cristo, la nuova alleanza tra cielo e terra. I diritti di Dio obbligano a determinati doveri verso di Lui e verso il prossimo. Dio ha dei diritti su di noi. Ma, domandiamoci, quali sono i diritti di Dio? Li abbiamo dimenticati? La misericordia di Dio nei nostri confronti non ci esime dal conoscerli, non li abolisce. Per capire quali possano essere i diritti di Dio richiamiamo alcuni Comandamenti: «Io sono il Signore tuo Dio. Non avrai altro Dio fuori di me». «Non nominare il nome di Dio invano. Ricordati di santificare le feste». Il primo Comandamento chiama l’uomo a credere in Dio, a sperare in lui, ad amarlo al di sopra di tutto, con tutto il cuore e la mente. Esso ci richiama alla virtù della religione, ad adorarlo, a pregarlo, a rendergli il culto dovuto, a mantenere le promesse (non escluse quelle battesimali), fatte sia come singoli sia come comunità. Basta questo cenno per capire cosa sono i diritti di Dio.

In una società in cui domina l’idolatria del proprio «io» è difficile pensare ai diritti di Dio, come anche a quelli del nostro prossimo. Per riconoscerli occorre essere poveri in spirito, vuoti di sé, privi dell’orgoglio che ci gonfia. Occorre essere «puri di cuore», «piccoli» dentro. Solo così si può riconoscere Dio come Padre, Sommo Amore e, perché tale, nostro Redentore. Proprio la sua paternità importa che i figli gli riconoscano dei diritti. Solo così possiamo riconoscere negli altri i nostri fratelli e incominciare a capire e a vivere la fraternità in tutte le sue sfaccettature. Chi toglie dal proprio cuore l’inclinazione cattiva che ripiega su se stessi riesce a vedere Dio per quello che è: Amore eterno e Verità assoluta, Agápe e Lógos, principio e fine di tutto.

Chi è mite ed umile di cuore, chi ha un cuore puro conosce Dio e gli altri per connaturalità, per empatia. Solo chi vive la santità morale nella propria vita, e vede il proprio peccato, è in grado di avvicinarsi a Dio e di riconoscergli i diritti di Padre misericordioso. Chi è chiuso in se stesso e ha un cuore di pietra è insensibile alla Bontà e alla sua Misericordia, pur avendo la capacità di conoscerle. Solo Dio, con la sua vicinanza, con il suo calore amoroso può sciogliere il ghiaccio del nostro spirito e costituirci in popolo santo, popolo di figli e fratelli. A questo proposito, sono illuminanti le parole del profeta Geremia: «Darò loro un cuore perché conoscano che io sono il Signore. Saranno il mio popolo ed io sarò il loro Dio e ritorneranno a me con tutto il cuore» (Ger 24,7; 31, 31-34). Abbiamo bisogno di ricevere un cuore nuovo. Non ci facciamo e non diventiamo santi da soli.

L’unica condizione è che, come ha fatto Zaccheo, di cui ci ha parlato il Vangelo di domenica scorsa, accogliamo a casa nostra Gesù Cristo, che desidera entrarvi. Nella celebrazione eucaristica odierna accogliamo Gesù che si fa pane. Nutriamoci di Lui, del suo amore, per viverlo. Preghiamo per i nostri fratelli defunti, siamo popolo di Dio degno di Lui, tre volte Santo.

OMELIA per il X anniversario della morte del cardinale DINO MONDUZZI
Brisighella, 30 ottobre 2016
30-10-2016

Nella vita di una persona l’incontro con Gesù Cristo è importante perché trasforma la vita. Oggi il Vangelo di Luca ci presenta Gesù che si autoinvita a casa di Zaccheo. Egli ci cerca, come noi lo cerchiamo, e desidera fermarsi a casa nostra. A Zaccheo che cerca di vederlo salendo su un sicomoro, perché era piccolo di statura, Gesù dice: «… scendi, oggi devo fermarmi a casa tua». La narrazione dell’evangelista Luca è davvero istruttiva non solo dal punto di vista delle relazioni umane, ma anche da un punto di vista catechetico e pedagogico. Gesù ci cerca come persone, desidera incontrarci per quello che siamo, nella nostra parte più intima, bypassando, in certo senso, i nostri peccati, i nostri titoli, andando oltre. Zaccheo era un esattore delle tasse, disprezzato dalla gente, capo dei pubblicani, ricco. Gesù non si rivolge a lui per incontrare il personaggio, l’uomo di spicco, il funzionario o il peccatore, bensì Zaccheo, nient’altro che Zaccheo, come persona, con la quale instaurare un dialogo, diventare amico, entrando in casa, sedendo a tavola, condividendo il pane. La tavola, lo sappiamo, è il luogo dell’amicizia, dove si fa e si rifà la vita. Da Gesù non viene, prima di tutto, la richiesta di confessare il peccato o di espiare. Gesù dichiara il suo bisogno di stare con lui, di conoscerlo, di capire il suo mondo, ma non al modo di un missionario spiccio, impaziente, che vuole portare l’interlocutore subito dalla sua parte, forzando la sua libertà, dicendo: basta, lascia quello che stai facendo, convertiti, cambia vita, andiamo a pregare. Gesù non pone nessuna condizione all’incontro con Zaccheo se non di lasciarlo entrare in casa: «Devo venire a casa tua»! E Zaccheo ben felice lo accoglie, perché cercava di incontrarlo. L’evangelista Luca è sbrigativo, non la fa lunga nel suo racconto. Non sta a descrivere il pranzo o la cena, il dialogo avvenuto in casa. Non presenta le tappe psicologiche della conversione di Zaccheo. Quello che è chiaro è che il facoltoso capo dei pubblicani spalanca le porte di casa sua e accoglie cordialmente Gesù. Dall’incontro con il Maestro, che aveva solidarizzato con lui, senza mezze misure, sfidando le critiche dei benpensanti, deriva il cambiamento radicale dell’uomo Zaccheo. Egli, a tu per tu con il Signore misericordioso, si sente coinvolto nel mondo di Gesù e si converte. Cambia segno alla sua vita, facendo quello che non gli era stato nemmeno chiesto. Fa più di quello che la Legge imponeva: ecco qui, Signore, la metà dei miei beni per i poveri; e se ho rubato, restituisco quattro volte tanto. Qual’è la causa di un simile cambiamento? È lo sbalordimento e lo stupore per la bontà del Signore, per la sua amicizia e la sua attenzione benevola nei suoi confronti. L’incontro di Gesù con Zaccheo fa capire che il peccatore si scopre amato senza meriti. E proprio perché si sente solo amato e basta, rinasce moralmente e sceglie di vivere rettamente, rispondendo all’amore di Cristo. Lo sguardo intenso e profondo del Redentore provoca nel suo animo una risposta di dono e lo slancio nel servizio agli altri.

La comunità cristiana di Brisighella è composta da tante persone che hanno incontrato Gesù. Come Zaccheo, che ha accolto a casa sua il Redentore e si è convertito, tutti i credenti, decidendo di cambiare la loro vita e di vivere Cristo stesso, portano frutti di ogni bene. Le comunità cristiane, fondate e radicate in Cristo, accolto, incontrato e celebrato, diventano nel loro territorio un popolo di credenti completi e ben preparati per ogni opera buona. Sono una benedizione per tutti. Come i primi cristiani, sono lodati e amati. È veramente così anche per la comunità di Brisighella? È un popolo formato da persone trasformate, che trasfigurano le relazioni, le istituzioni, le famiglie, le imprese, i giovani?

Oggi siamo qui anche per ricordare, nel decimo anniversario della morte, la bella figura del Cardinale Dino Monduzzi, persona integra, preparata e nello stesso tempo discreta. In una sua lettera dell’11 febbraio 1987, rispondendo all’invito dell’Arciprete e dei Brisighellesi, che lo volevano nel paese natio per festeggiare la sua recente nomina a vescovo, scrive: «vorrei che l’onore fosse reso in primo luogo al Sacerdozio di Cristo in quanto tale e alla sua missione di salvezza». Chi nella sua vita ha davvero incontrato Gesù Cristo e conosce cosa provoca la presenza di Cristo nella propria esistenza, e cioè una salvezza che è soprattutto ricevuta dal Signore, si riconosce poca cosa, anche se scelto come successore degli apostoli. Nella sua lettera, don Dino – così è ancora oggi ricordato in Vaticano, ove è stato al servizio di ben quattro papi – mostra l’atteggiamento del vero credente, di colui che svolge con umiltà il proprio servizio per la realizzazione del Regno di Dio. Egli ha la chiara consapevolezza che ciò che conta, dopo tutto, è il nostro amore per Cristo, che deve essere amato sopra ogni cosa, per partecipare nel miglior modo possibile alla Sua missione. Sappiamo che don Monduzzi durante i primi passi del suo ministero sacerdotale fu dedito all’apostolato delle Missioni sociali dell’Azione Cattolica in Calabria e in Sardegna; poi si trovò immerso nella difficile, travagliata, ma esaltante realtà socio-politica-religiosa della Marsica in Abruzzo. Solo dopo è passato in Vaticano ove terminò la corsa della vita divenendo prima Cardinale.

Come comunità, possiamo vivere nostalgicamente di ricordi, giustamente orgogliosi di aver dato alla Chiesa numerosi sacerdoti, suore e diversi Cardinali, l’ultimo dei quali, tanto amato, e che ricordiamo da qui, perché a Roma, è S. Eminenza Achille Silvestrini. Ma il modo più consono e vero di fare memoria è quello di rivivere i tempi trascorsi per trarne ispirazione e slancio in vista di un nuovo impegno missionario. Brisighella e dintorni è stata una fucina di robuste vocazioni laicali e sacerdotali, religiose, perché costituita da famiglie solide, capaci di trasmettere la fede ai giovani; perché ricca di associazioni e movimenti cattolici e di ispirazione cristiana in grado di educare ad una fede adulta, ad una testimonianza coraggiosa e credibile nella società civile e politica. Sollecitati anche dalla bella figura del Cardinale Monduzzi, che ha maturato la sua vocazione in un contesto comunitario pullulante di fanciulli cattolici e di adulti tutti dediti ad insegnare l’ideale missionario anche in mezzo ai compagni, poniamoci la domanda: le nostre famiglie sono ancora in grado di far amare Gesù come il Bene più grande, per il quale dare se stessi ed essere missionari come Lui, a partire da quell’intimità itinerante che formiamo in Lui grazie al dono del suo Spirito? Esistono ancora organizzazioni, movimenti cattolici in grado di educare ad una fede matura che assegna il primato a Dio e non all’appartenenza partitica, pur importante? Alberga ancora nei cuori il convincimento che la nostra fede, intesa come comunione con Gesù Cristo, è il dono più grande per noi e per coloro che incontriamo o accogliamo perché profughi? Siamo timorosi o introversi, nel senso che non pensiamo più di dover essere missionari e curiamo solo il nostro orticello ecclesiale?

Nell’Eucaristia che ora proseguiamo, preghiamo i nostri defunti, ma in modo particolare il Cardinale Dino Monduzzi, perché ci ottengano da Dio una fede viva ed operosa, uno spirito autenticamente missionario, nuovi pastori per la nostra Diocesi.

OMELIA per la VEGLIA MISSIONARIA
Faenza - Chiesa di San Giuseppe artigiano, 21 ottobre 2016
21-10-2016

In questa Veglia missionaria, che cade nel nuovo anno pastorale impegnato nella ricezione della Evangelii gaudium (=EG), sembra opportuno riflettere sulle ragioni profonde del nostro essere Chiesa missionaria, a partire proprio dall’esortazione apostolica. Per farlo, prendiamo lo spunto anche dal Messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2016, in cui papa Francesco invita a pensare l’impegno missionario come un atto di misericordia nei confronti dei popoli che ancora non conoscono il Signore Gesù. La Chiesa, nel suo essere strutturalmente missionario, è chiamata a compiere un servizio di maternità: generare la fede, aiutare ad incontrare ed amare il Signore. Se la fede è fondamentalmente e germinalmente dono di Dio, essa cresce non tanto attraverso un proselitismo che forzi la libertà altrui, bensì mediante la stessa fede e carità degli evangelizzatori. Essa viene comunicata per contagio. Detto altrimenti, viene diffusa da una vita credente, da una testimonianza autentica, dall’amore per Gesù e per i propri fratelli che ancora non Lo conoscono.

Il credente, vero innamorato di Gesù, sente dentro di sé l’esigenza e il dovere di comunicarlo e condividerlo. E questo, non solo sulla base della gioiosa esperienza di essere unito a Lui, ma anche perché «ogni popolo e cultura ha diritto di ricevere il messaggio di salvezza che è dono di Dio per tutti».

E così, potrà esserci un sano proselitismo senza costrizioni o pressioni, e l’annuncio del Vangelo non sarà mai un’attività da cui ricavare un utile, un tornaconto personale. Esso risponderà ad un bisogno profondo delle persone, perché, come afferma papa Francesco, «tutti siamo stati creati per quello che il Vangelo ci propone: l’amicizia con Gesù e l’amore fraterno». «Il missionario – spiega sempre papa Francesco – è convinto che esiste già nei singoli e nei popoli, per l’azione dello Spirito, un’attesa anche se inconscia di conoscere la verità su Dio, sull’uomo, sulla via che porta alla liberazione dal peccato e dalla morte. L’entusiasmo nell’annunziare il Cristo deriva dalla convinzione di rispondere a tale attesa» (EG n. 265).

In breve, l’attività missionaria è motivata da ragioni di amore per gli altri, da un dovere di giustizia nei loro confronti.

Più volte, durante quest’anno giubilare, ho avuto modo di ripetere che viviamo la misericordia non solo mediante le opere caritative e di assistenza, ma soprattutto annunciando il Vangelo e vivendo la nostra missionarietà. Gesù Cristo è un tesoro di vita e di amore, che non si può trattenere solo per sé. La misericordia più grande è proprio donare Gesù agli altri. Noi cristiani siamo una missione, perché formiamo con Gesù, il missionario per eccellenza, un’intimità itinerante.

Il brano del Vangelo di Luca, appena proclamato, ci ricorda che l’attività del missionario è un invito a partecipare alla gioia e alla comunione del banchetto, che Dio prepara per tutti i popoli indistintamente. Il padrone di casa, che ha fatto preparare la cena per molti invitati, vuole riempire a tutti i costi la sala del banchetto. Chi, con una scusa o con un’altra, lo boicotta, rischia di rimanerne escluso per sempre o, meglio, si autoesclude dal regno e famiglia di Dio. Nella situazione storica, in cui si trovava la Chiesa di Luca, ove la perseveranza di non pochi convertiti era in crisi, la parabola di Gesù era, allora come oggi, un serio avvertimento. Chi rifiuta l’invito ricevuto, dando la priorità agli affari, alla cura delle proprietà, agli impegni mondani, non sa di perdere il bene più grande, che è la comunione con Gesù Cristo, infinito Amore che salva e redime.

OMELIA per il PELLEGRINAGGIO DEI CRESIMATI e CONSEGNA DEL SIMBOLO DELLA FEDE
Basilica di San Pietro, 18 ottobre 2016
18-10-2016

Cari cresimati della Diocesi di Faenza-Modigliana, la seconda Lettera di san Paolo apostolo a Timoteo ci offre uno spaccato della Chiesa delle origini. Che cosa viene presentato? Il coraggio missionario di Paolo, ma anche il viaggio di Crescente in Galazia e di Tito in Dalmazia a testimonianza dell’irradiazione del cristianesimo, la fatica dell’annuncio del Vangelo, i danni che subisce l’apostolo delle genti a causa di Alessandro, il fabbro, che si rivela un accanito oppositore della sua predicazione. Nella sua Lettera a Timoteo, Paolo lamenta, inoltre, di essere stato abbandonato da tutti allorché fu trascinato in tribunale. E, tuttavia, rimane con lui un missionario della prima ora: l’evangelista Luca, che oggi festeggiamo: «Solo Luca è con me». Nel brano su cui stiamo riflettendo troviamo un’annotazione importante. L’apostolo Paolo riconosce che il Signore, durante gli interrogatori in tribunale gli è stato vicino e gli ha dato forza, perché potesse «portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero». San Paolo considera la sua stessa cattura e l’interrogatorio a cui è stato sottoposto occasioni di annuncio di Gesù Cristo. Anche i momenti più duri della vita possono essere il luogo in cui parlare di Lui, per testimoniargli il nostro amore.

Voi cari cresimati, vi chiederete: ma cosa centra tutto questo con la nostra vita? Qual è il senso per noi di tutto quanto abbiamo udito, e cioè delle difficoltà incontrate da Paolo e dai primi cristiani durante il loro impegno missionario?

Il brano che avete sentito proclamare riguarda proprio voi, anzi tutti noi, in quanto battezzati e cresimati. Chi nella Cresima riconosce di essere di Cristo e di aver ricevuto il suo Spirito è anche consapevole di essere un inviato, un mandato in missione. Tutti i battezzati e i cresimati ricevono da Gesù il compito di andarlo a portare a chi non lo conosce ancora e non l’ha incontrato, perché l’accolgano nella loro vita, a casa propria.

Come narra il brano del Vangelo di Luca (cf Lc 10, 1-9), oltre agli apostoli che conosciamo, Gesù designò altri settantadue e li inviò due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. In altre parole, Gesù sceglie dei collaboratori perché vadano a preparare il terreno e a predisporre le persone a riceverlo. Il battezzato e il cresimato, che dimora in Gesù e vive in Lui, come dice san Paolo, porta dentro di sé una missione, il compito di parlare di Gesù, di farne capire l’importanza per la vita: Gesù è colui che salva l’uomo dal male, dal fallimento che è il peccato, e lo aiuta a fare il bene, a crescere come persona completa. Proprio per questo, Gesù deve essere considerato dal cresimato il più grande dono che può fare ai suoi amici, a coloro che non lo conoscono ancora o, pur conoscendolo, l’hanno abbandonato.

Ma come avverte Gesù, che dice «vi mando come agnelli in mezzo ai lupi», il compito del missionario non è così semplice. Non è, come pensano ingenuamente molti, un’avventura meravigliosa, un safari o un viaggio turistico in una terra sconosciuta ed incontaminata. Il cresimato che prende sul serio la sua missione trova sul suo cammino, come san Paolo, successi, ma anche opposizioni e risposte negative.

Gesù non intende scoraggiare i suoi discepoli, ma semplicemente metterli in guardia ed invitarli ad essere spiritualmente e psicologicamente preparati. Tantomeno desidera togliere a loro la gioia di portarLo a chi non ce l’ha. Il cresimato, pur consapevole che tutto non andrà liscio, non dimentica la gioia incontenibile che l’accompagna nel suo slancio di andare e di comunicare, di essere una missione. Gesù è una persona così grande, così bella, così arricchente da appagare le attese più profonde del cuore umano e da indurre a condividerlo. Sofferenze, privazioni, solitudini, persecuzioni subite a causa sua non sono sufficienti a spegnere l’entusiasmo per Lui, che allieta l’esistenza, rendendola luminosa, piena di forza e di sapienza, di festa interiore, perché Egli è per noi, figli di Dio, il massimo, il prototipo, il Figlio che redime e salva.

Dobbiamo, allora, non vivere nel mondo delle illusioni, ma essere ben piantati in Gesù, il missionario per eccellenza e servo sofferente. Quanto disse Gesù ai settantadue non è lontano dalla realtà odierna, che registra circa duecento milioni di cristiani torturati, imprigionati. Ogni anno ne sono uccisi circa centomila. Cinque al minuto, ben più di quanti non ne morirono qui a Roma durante le persecuzioni scatenate dagli imperatori. L’uccisione di cristiani quasi non fa più notizia. E non risparmia, purtroppo, bambini e ragazzi, giovani che in alcune regioni del mondo sono venduti come schiavi oppure imprigionati, uccisi con la crocifissione o sepolti vivi.

Cari amici, chi è di Cristo, può incontrare sulla sua strada, anche la morte, come capitò al nostro Maestro, a santo Stefano, a san Pietro e a san Paolo, a san Tarcisio, nei primi tempi del cristianesimo, a san José Sanchez del Rio (1913-1928), giovane messicano, martirizzato a 15 anni e canonizzato domenica scorsa, il 16 ottobre in piazza san Pietro. Chi vive in Europa non si trova in un luogo del tutto indenne. Vi sono persecuzioni più sottili, ma non meno pericolose per la fede e per la propria libertà religiosa. Ce la si prende con il crocifisso, con il presepe, con i segni religiosi. Chi insegna religione può trovare disprezzo nei colleghi di altre discipline. La propria scuola perché cattolica può essere ingiustamente tassata. Chi difende la vita e la famiglia, intesa come società naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, può essere considerato dell’era giurassica.

Il vostro vescovo non vuole spaventarvi, ma semplicemente fare come Gesù con i settantadue discepoli inviati ad annunciarlo. Gesù indica, come avete sentito, una specie di «manuale del missionario»: si è inviati in un mondo in cui si è disarmati e in cui la messe è molta ma gli operai sono pochi, per cui mentre si lavora per il Regno non si deve smettere di pregare perché Dio mandi altri apostoli; si deve andare liberi da ogni cosa ingombrante, puntando dritti alla meta, senza perdersi nella ricerca di comodità: questo è il senso del «non portate né borsa, né bisaccia, né calzari». E se si riesce a convertire, a sconfiggere il Maligno, che sempre si aggira per rubare persone a Cristo, bisogna ringraziare Dio, perché è grazie a Lui che tutto questo può avvenire. Non siamo noi che riusciamo a convertire le persone, a guarirle interiormente e fisicamente, a sconfiggere il male che c’è nel mondo, ma solo Dio.

Ci troviamo nella basilica di san Pietro, anch’egli morto martire, come morì martire anche san Paolo, come già accennavo. Siamo venuti appositamente qui non per fare una scampagnata, ma per pregare sulla tomba di colui al quale Gesù ha detto: «Tu sei Pietro e su questa pietra io costruirò la mia Chiesa e le forze della morte non potranno prevalere su di essa» Mt 16, 18). Pregate, preghiamo, dunque, per tutti i cresimati, perché possano essere Chiesa, annunciatori decisi di Gesù, senza arrossire di Lui, senza nascondere la propria identità cristiana. Questo è anche il senso della consegna del credo che faremo a breve.

Come tutti i cresimati dovete essere fieri della vostra fede e non dovete avere complessi di inferiorità. Affrontate i vostri impegni ad occhi aperti, avendo la consapevolezza che non siete soli, ma che siete sempre sorretti dallo Spirito di Dio e del Figlio, uno Spirito d’amore potente e tenero allo stesso tempo.

Durante la nostra celebrazione Eucaristica preghiamo per le nostre famiglie, i genitori, i nonni, gli amici, gli insegnanti, per la nostra Diocesi e le nostre parrocchie, per i religiosi e i diaconi. Offriamo al Signore il progetto di realizzare un Sinodo dei giovani, affinché nella nostra Regione ci possano essere operai del Vangelo, come sant’Apollinare e san Pier Damiani.