Archivi della categoria: Omelia

OMELIA per la festa di SAN SEVERO
San Severo di Cotignola, 1 febbraio 2017
01-02-2017

Cari fratelli e sorelle,
è la seconda volta che vengo qui per la festa patronale che onora san Severo. Sappiamo che fu il 12° vescovo di Ravenna, dopo Marcellino e prima di Liberio. Il suo nome compare tra i partecipanti al Concilio di Sardica (antico nome di Sofia in Bulgaria), tenutosi nel 342-343, nel quale si confermarono le decisioni del Concilio di Nicea, e cioè che Gesù Cristo è Figlio di Dio, non semplice uomo, creatura di Dio, con inizio nel tempo, come sosteneva Ario. Riaffermare la divinità di Gesù Cristo, Dio e uomo, era fondamentale per la fede dei credenti. Se Gesù non era Dio come poteva essere considerato Salvatore? Severo, dunque, partecipò con convinzione al Concilio di Sardica e si fece portatore e difensore del credo niceno nella sua predicazione e missione di vescovo.

La Parola di Dio odierna ci aiuta ad entrare nella missione di san Severo, vescovo di Ravenna, successore degli apostoli in questo territorio, che oggi, più che mai, ha bisogno di credenti tutti d’un pezzo, capaci di essere fedeli alla loro identità di cristiani, mantenendo un forte senso di appartenenza a Cristo e alla Chiesa. Come vescovo di Ravenna si impegnò a consolidare le comunità cristiane, rendendole nuclei generatori di una evangelizzazione incisiva e creatori di una nuova cultura.

Nel brano tratto dalla Lettera agli Ebrei (Eb 12, 4-7.11-15) deriva a noi l’incoraggiamento ad essere santi, a lottare contro il peccato incessantemente, ad accogliere la correzione del Signore e a non perderci d’animo quand’Egli, con il suo insegnamento, ci ammonisce, ci sollecita a cambiare, a convertirci. In sostanza, la Lettera agli Ebrei ci sprona ad essere fedeli alla nostra chiamata, e a non dimenticarci della nostra altissima vocazione: essere figli di Dio nel Figlio Gesù Cristo. Il credente non può dimenticare Gesù, la Parola, il Vangelo, ovvero la Buona Notizia. Purtroppo oggi, più di una volta, si preferisce a Gesù, al suo insegnamento, quanto viene proposto dalla cultura dominante, dai mass media, che spingono ad assolutizzare il proprio «io», il proprio punto di vista, sino a ritenersi padroni della verità, nel senso che si pensa di esserne i creatori, gli unici interpreti. Oggi le persone reputano di essere fonte e misura esclusive della verità. E così dimenticano quanto Dio, mediante Gesù, ci insegna sulla vita, sulla felicità (basta pensare alle beatitudini), sul dono di noi stessi, sulla relazionalità (cresciamo attraverso il dono di noi stessi), sul matrimonio, sul perdono, sulla libertà religiosa, sul primato da dare allo spirito, sulla comunione con Lui, sul nostro compimento umano in Lui, sulla risurrezione. È pericoloso per la vita cristiana, ma anche per la vita umana, che si giunga ad amare noi stessi sopra ogni cosa. Quando mettiamo noi stessi al posto di Dio e della sua Parola si cade nell’idolatria, nell’adorazione di noi stessi. Mettendo al posto di Dio noi stessi, i nostri pensieri, gli ordini di scuderia di questa o quella aggregazione a cui si appartiene, le mode culturali che non distinguono più i sessi, rischiamo di diventare schiavi delle cose, dei beni materiali, di idee storte, di noi stessi, eretti a metro di misura di tutto. 

La correzione del Signore come la possiamo riconoscere? Come avviene? 

Sicuramente mediante la parola dei fratelli e delle sorelle che ci vogliono bene (l’evangelista Matteo ci parla della correzione fraterna personale e comunitaria: Mt 18, 15-18), dei sacerdoti che ci spiegano e ci propongono la Parola di Dio, ma anche mediante la lettura del Vangelo, il confronto con esso, la considerazione che quanto Gesù ci prone – Lui Verità somma, che non può proporci menzogne o falsità – non è per il nostro danno o il nostro male, bensì per il nostro bene, per la nostra crescita piena in Lui. La correzione la possiamo ricevere anche frequentando il sacramento della Riconciliazione nel quale ci mettiamo cuore a cuore con Gesù, riconosciamo il nostro sbaglio e facciamo il proposito di correggerci, per diventare sempre più degni di Lui, sempre più liberi. Noi che, in certo modo, ci riteniamo degli habitué di Gesù, che consideriamo la nostra vita cristiana un dato già acquisito (padre, io non ho peccati da confessare), non dobbiamo considerare Gesù una presenza qualunque, una persona che vale meno delle altre. La frequentazione superficiale di Lui ci può rendere abitudinari e farci dimenticare la sua realtà divina, la sua Trascendenza. C’è il pericolo di declassarlo, di considerarlo alla pari di tutti gli altri, se non di meno, sicché ci si mette nella condizione dei suoi compaesani di cui ci ha parlato il Vangelo secondo Marco (cf Mc 6, 1-6), per i quali, giacché lo vedevano come un semplice membro del loro villaggio, uno del quartiere, si direbbe in una città, e basta, non poteva compiere prodigi.

Solo se riconosciamo Gesù per quello che è, ossia il nostro Salvatore e il nostro Tutto, possiamo cambiare e convertirci. Solo con l’aiuto dello Spirito santo, il Maestro che ci aiuta a conoscerlo per intero, Egli diventa il nostro metro di misura e ci consente di pronunciarci su ogni problema dell’esistenza di oggi con chiarezza, partendo dal suo insegnamento, senza fuggire di fronte alle responsabilità. Cari fratelli e sorelle, come cristiani, ossia persone che appartengono a Cristo, ogni giorno dobbiamo esigere da noi la conversione. Detto diversamente, dobbiamo essere dediti ad un lavoro interiore, ad una crescita spirituale incessante, mediante la preghiera, la meditazione della Parola, la comunione Eucaristica, il sacramento della Riconciliazione, l’accompagnamento spirituale ricercato. San Severo, nostro patrono, ci aiuti e ottenga per noi un continuo cambiamento in meglio, affinché Gesù viva pienamente in noi, con la sua statura morale e spirituale. La nostra vita spirituale non deve spegnersi o essere ridotta ad un lumicino. Una spiritualità intensa e coltivata è garanzia di una perenne giovinezza e del futuro di questa comunità.

OMELIA per la festa di SAN GIOVANNI BOSCO
Bologna - Cattedrale, 28 gennaio 2017
28-01-2017

Cari confratelli, cara Famiglia salesiana,
don Bosco visse in maniera emblematica le beatitudini che abbiamo sentito proclamare (cf Mt 5, 1-12a). In particolare, egli ebbe sete e fame di giustizia. Desiderò che la giustizia fosse realizzata nei confronti dei giovani che egli incontrò nella sua vita, in particolare i più poveri.
A fronte di ragazzi e giovani orfani ed immigrati dalle valli Piemontesi e dalle campagne verso la città di Torino, don Bosco reagì accogliendoli, offrendo una casa, istruzione, lavoro e Dio.
Ancora oggi molti giovani sono immigrati, né studiano né lavorano, sono tenuti ai margini della società e non sono inseriti nel mondo del lavoro con gravi danni non solo per il loro futuro ma di quello del Paese e della stessa Chiesa. Le nostre diocesi dell’Emilia Romagna, in vista di una presenza incisiva del cristianesimo, hanno bisogno di nuove generazioni di fedeli laici e di sacerdoti.
Rispetto ai problemi che affliggono i nostri giovani, ma anche le nostre comunità parrocchiali, don Bosco appare ancora estremamente attuale. Nella sua festa guardiamo a lui e impariamo. Nelle sue case e nei suoi Oratori egli educava con il metodo preventivo, incentrato sul trinomio pedagogico: ragione, religione, amorevolezza, molti giovani. Nelle sue scuole e nelle sue opere sono maturate per la Chiesa migliaia di vocazioni sacerdotali e religiose. Per la società civile preparava «buoni cristiani ed onesti cittadini». Detto diversamente, il santo piemontese, definito da Pio XII una delle glorie più grandi della Chiesa e dell’Italia,  ha offerto un contributo decisivo per il rinnovamento della Chiesa e della società.
Fermiamo l’attenzione sul fatto che la Chiesa ha, specie nei nostri territori, un estremo bisogno di giovani capaci di essere protagonisti nell’annuncio gioioso di Cristo e testimoni credibili del suo amore. Lo riconoscono i nostri vescovi e le nostre diocesi che registrano una preoccupante diminuzione delle vocazioni laicali, sacerdotali e religiose, per cui non si vede come nei prossimi anni si potrà far fronte al normale avvicendamento delle guide spirituali e agli impegni di umanizzazione delle istituzioni e della cultura, caratterizzata da un neoindividualismo radicale che distrugge i legami sociali e il fondamento del diritto. Lo ha riconosciuto la Chiesa universale attraverso il pontefice che ha programmato la celebrazione di un Sinodo dei vescovi avente per tema «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale». Tutta la Chiesa ha bisogno dei giovani, per coinvolgerli nella sua missione. La nuova evangelizzazione di cui i nostri territori sentono l’urgenza, come anche un mondo più giusto e fraterno, possono essere realizzati con l’apporto originale dei giovani, grazie al loro desiderio di cambiamento e alla loro generosità. Il prossimo Sinodo dei Vescovi come sta per essere pensato ed attuato è momento di grazia. Viviamo, allora, nelle nostre comunità parrocchiali, nelle nostre famiglie, nelle nostre scuole cattoliche e nelle nostre università questa opportunità con impegno, con coinvolgimento sincero. Sia davvero un’occasione per educare i nostri giovani ad una fede che diventa vita e si traduce in attività missionaria nei confronti dei coetanei, battezzati o no. Don Bosco aiutava i suoi giovani a divenire i primi missionari dei loro compagni. Basti pensare a san Domenico Savio, al quale affidava i ragazzi più turbolenti e monelli per insegnare a loro l’impegno, il rispetto delle regole della convivenza, l’amore a Gesù. Assieme ad altri giovani, tra i quali Michele Rua, che sarà il primo successore di don Bosco, fonda una società, chiamata «Compagnia dell’Immacolata». Una tale associazione univa i giovani più volonterosi, desiderosi di essere piccoli apostoli tra gli altri. Don Bosco consigliò di darsi un regolamento, che fu steso dallo stesso Domenico Savio. Nelle nostre parrocchie, nei nostri circoli od oratori siamo in grado di suscitare gruppi di giovani che, con l’animazione, si prefiggono di collaborare con il parroco e di avviare gli altri giovani all’incontro con Gesù Cristo, all’impegno nel sociale? I giovani che abbiamo nelle nostre associazioni e nei nostri ambienti crescono con un chiaro senso di appartenenza a Cristo e alla sua Chiesa? Sono giovani messi in grado di armonizzare fede e vita? I ragazzi e i giovani che frequentavano le case di don Bosco avevano di fronte un esempio nitidissimo. Don Bosco stesso, che mostrava con la parola e l’azione che per lui la cosa più importante era amare Gesù e, in Lui, amare intensamente loro, lavorando giorno e notte, facendosi maestro anche nei mestieri, divenendo «sindacato» quando lavoravano presso i vari datori di lavoro, incoraggiandoli a far parte di «società di mutuo soccorso». È significativa la testimonianza di don Orione, exallievo dell’Oratorio di Valdocco, ora santo, che rivolgendosi ai suoi chierici nel 1934, l’anno della canonizzazione di don Bosco così si espresse: «Ora vi dirò la ragione, il motivo, la causa per cui don Bosco si è fatto santo. Don Bosco si è fatto santo perché nutrì la sua vita di Dio, perché nutri la nostra vita di Dio. Alla sua scuola imparai che quel santo non ci riempiva la testa di sciocchezze, o di altro, ma ci nutriva di Dio, e nutriva se stesso di Dio, dello Spirito di Dio. Come la madre nutre se stessa per poi nutrire il proprio figliolo, così don Bosco nutrì se stesso di Dio per nutrire di Dio anche noi».
In questi tempi tutti, giovani e adulti, siamo sommersi nel mondo della comunicazione e gli educatori e le stesse comunità cristiane constatano che è diventato più difficile comunicare coi giovani. Essi si allontanano quando non trovano risposte vere alle loro domande più profonde. Gli stessi Lineamenti del prossimo Sinodo dei Vescovi suggeriscono di colmare il divario spesso esistente tra il linguaggio ecclesiale e quello dei giovani. Anche su questo versante, così cruciale per l’incontro con Gesù, don Bosco fu geniale e può essere per noi un faro. Egli per i suoi giovani divenne scrittore, editore. Sicuramente egli avrebbe valorizzato tutti i mezzi moderni di comunicazione da internet a facebook,  a twitter, a you tube, a instagram, al web. Nel contesto culturale del suo tempo egli si impegnò ad essere «missionario di verità», a favore di una cultura popolare umanista e religiosa.
Qualcuno ha definito don Bosco un autentico intellettuale di massa. Il noto semiologo Umberto Eco, scomparso tempo fa, ha percepito l’Oratorio organizzato da don Bosco come una macchina perfetta di comunicazione che gestisce in proprio, riutilizza e discute i messaggi provenienti dall’esterno. In tal modo, il progetto educativo dell’Oratorio nasceva stando nel mondo, divenendo però alternativo, non conformista, apportatore di innovazioni, considerate all’avanguardia per la sua epoca. Ecco, dunque, come comportarci in relazione ai mass media, che ci avvolgono con i loro messaggi e ci condizionano anche senza che ce ne accorgiamo, invitandoci ad essere spettatori passivi: fare delle nostre famiglie, delle nostre scuole, delle nostre associazioni, dei laboratori di una nuova cultura. Dovremmo seguire, su un altro piano,  ciò che gli Ordini mendicanti del Medioevo, francescani e domenicani, vollero fare con le università: istituire dei centri culturali ove si confrontavano e si illuminavano i grandi problemi con la luce del Vangelo, coniugando fede e vita. Certo, per riuscire in questo intento, per ridare giovinezza ad una società e ad una cultura che invecchia intellettualmente e spiritualmente, dobbiamo essere tutti più preparati rispetto ai gravi problemi dell’oggi: dall’eutanasia alle manipolazioni genetiche, dall’ideologia del gender alle unioni civili, al testamento biologico, alle cure palliative, alla libertà religiosa.  Ma, soprattutto, siamo chiamati ad uscire allo scoperto, a pronunciarci chiaramente, ad impegnarci per inscrivere nelle istituzioni i valori del Vangelo, come hanno saputo fare i cattolici del passato. Anche oggi c’è una carità della e nella verità, una carità pastorale ed intellettuale da esercitare, per illuminare le intelligenze ed accendere i cuori di amore per la verità, per forgiare nuove personalità, nuovi protagonisti nella vita sociale e politica, che non tengano la bocca chiusa quando sono accasati in conformazioni partitiche che non rispettano i diritti umani.
Non solo la Chiesa ha bisogno dei giovani, ma anche la società, la città, la cultura, la scienza, l’economia e la politica. I giovani costituiscono un potenziale di energie spirituali, umane e morali, davvero enorme, ma purtroppo sottovalutato e inutilizzato. Senza di essi è difficile il rinnovamento, non si può sperare in un futuro sicuro. Essi non debbono essere considerati buoni solo per il consumo, e non per la crescita. Come già accennato, don Bosco mal sopportava città e quartieri popolati da giovani allo sbando, a rischio, senza un’occupazione, istruzione e senza Dio.
Nel suo incontro con il mondo del lavoro a Torino, il 21 giugno del 2015, papa Francesco ha parlato di san Giovanni Bosco come di un gigante del metodo preventivo non solo nell’ambito pedagogico, ma anche in quello sociopolitico.[1] Il santo torinese insegnava che è possibile prevenire l’inequità e la violenza della società, promovendo la giustizia, ossia aiutando i giovani ad inserirsi nella società, offrendo loro l’istruzione necessaria per poter esercitare un mestiere o una professione.
Il mondo del lavoro contemporaneo è indubbiamente molto diverso rispetto a quello dell’Ottocento, epoca in cui visse don Bosco. E tuttavia, come ha osservato papa Francesco, la situazione della gioventù non è molto cambiata da allora. Molti in Italia, il 40 % circa è inoccupato, con il rischio di rimanere per sempre ai margini della società e dello sviluppo del Paese, senza potersi fare una famiglia e dare il proprio contributo al bene comune. Nell’incontro con la Famiglia salesiana, nella basilica di Maria Ausiliatrice, papa Francesco ha, pertanto,  sollecitato Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice, cooperatori ed ex-allievi, ad andare incontro ai giovani abbandonati a se stessi, offrendo la possibilità di ricevere un’educazione e una formazione professionale sia pure di emergenza. In un momento di crisi come il nostro, può essere indispensabile indirizzare i giovani anche a mestieri d’urgenza,[2] che non richiedono anni di studio, ma si apprendono alla scuola di artigiani provetti o mediante corsi professionalizzanti di breve durata, organizzati ad hoc. Oggi si tende, lodevolmente, a realizzare le condizioni di un reddito di cittadinanza o di inclusione. Non bisogna dimenticare che ciò non deve avvenire favorendo la passività dei cittadini. È meglio, allora, investire di più sulle vie rappresentate dall’istruzione, dall’aggiornamento professionale e dalle politiche attive del lavoro.
Don Bosco ha, dunque, ancora molto da insegnare. In questa Eucaristia alimentiamo il nostro amore per Dio, per la Chiesa e per i giovani facendo comunione con Cristo, missionario d’amore tra di noi.

 


[1] Francesco, Discorso al mondo del lavoro (Torino, Piazzetta Reale, domenica, 21 giugno 2015).
[2] Francesco, Discorso a braccio ai Salesiani e alle Figlie di Maria Ausiliatrice (Basilica di Maria Ausiliatrice: domenica, 21 giugno 2015), acura di Asia News. Si veda anche FRANCESCO, Discorso a san Francisco de Quito (7 luglio 2015) in «L’Osservatore romano» (giovedì 9 luglio 2015), p. 8.

OMELIA per la CHIUSURA della SETTIMANA di preghiera per l’UNITA’ dei CRISTIANI
25-01-2017

Gli Atti degli Apostoli, scritti da Luca, ci presentano la memorabile conversione di san Paolo (At 9, 3-16), l’apostolo delle genti per eccellenza. A che cosa è dovuto il cambiamento radicale della sua vita? Dalla narrazione di Luca emerge che Paolo è stato trasformato in apostolo di Cristo non da un pensiero, da una dottrina ma da un evento, da un incontro imprevisto ed improvviso con il Risorto. Il Cristo gli appare come una luce sfolgorante che lo sbalza da cavallo, gli parla, lo cambia al punto da considerare insensato, spazzatura, tutto ciò che stava compiendo con furore contro la Chiesa e i cristiani (cf Fil 3, 7-8). Il fondamento della sua nuova vita e del suo apostolato è l’esperienza dell’incontro forte ed immediato con il Risorto, non tanto un processo psicologico, una maturazione lenta o un’evoluzione intellettuale e morale graduale del suo «io», il risultato di uno sforzo personale. La svolta data alla sua vita non è causata propriamente da Paolo stesso, bensì dall’esterno, da Cristo che lo fa cadere a terra con violenza e gli si manifesta, chiamandolo per nome e rimproverandolo: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Alla domanda di Paolo: «Chi sei, o Signore?», Cristo gli risponde: «Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti!». È Cristo Risorto che lo afferra e lo ferma sulla via di Damasco e a provocare in lui un radicale rinnovamento, a farlo vivere un’altra vita, al punto da fargli scrivere nella lettera ai Galati: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20).
È così che Paolo inizia ad essere apostolo, ministro della riconciliazione, annunciatore e testimone, «prigioniero» di Cristo. Sappiamo, però, che Paolo «impara» ad essere apostolo, a crescere come apostolo, nonostante l’immediatezza del suo rapporto con il Risorto, entrando nella comunione della Chiesa che perseguitava con ferocia. Si fa battezzare, vive in sintonia con  gli altri apostoli. Solo in questa comunione con tutti egli può essere vero apostolo, come scrive esplicitamente nella prima Lettera ai Corinzi: «Sia io che loro così predichiamo e così avete creduto» (15, 11). C’è un solo annuncio del Risorto, perché Cristo è uno solo. C’è una sola appartenenza primaria. È a Lui che si appartiene in primo luogo,  non ai vari annunciatori od apostoli. Non si può dire, come ammonisce lo stesso Paolo, «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «Io invece di Cefa», «E io di Cristo». E questo perché, spiega l’apostolo, non è Apollo, Cefa e Paolo a salvare, a battezzare, ma solo Cristo (1 Cor 1, 10-13.17). Il ministro della riconciliazione di Cristo, l’annunciatore non può vantarsi e mascherarsi come redentore, non può considerarsi un superapostolo come fanno taluni. Egli dev’essere umile e riconoscere la sua pochezza, il bisogno di essere egli stesso salvato da Cristo. Così l’apostolo si esprime a proposito di Cristo suo redentore: «Di Lui io mi vanterò! Di me stesso non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze» (2 Cor 12, 5-6).
Non sempre nelle nostre comunità si tiene presente che l’opera evangelizzatrice dev’essere frutto di un incontro reale con Cristo, un incontro rinnovato, approfondito, permanente; dell’essere affascinati da Lui; di un lavoro apostolico comunitario, non individualistico. Occorre crescere nella comunione con Cristo, vivendo Lui, il suo Amore, sino ad esserne totalmente posseduti. Tutto questo è fondamentale anche per praticare un autentico ecumenismo. Le Chiese non debbono sostituirsi a Cristo e consegnarne solo una piccola parte agli uomini, ma debbono portare a Lui tutt’intero, alla condivisione della sua pienezza. Esse sono chiamate a far convergere i credenti nell’esperienza forte della comunione con Lui e tra le comunità. Unite in Cristo, partecipano alla sua stessa missione. Le divisioni rendono meno luminosa ed efficace la testimonianza a Cristo, perché le genti sono chiamate, in Gesù Cristo, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso ed unico corpo.
Si conclude oggi la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. “L’amore di Cristo ci spinge verso la riconciliazione” è il motto biblico che ci è stato proposto. Chi condivide l’amore di Cristo, ossia quell’amore che Egli ha avuto ed ha per noi, si trova ad essere sollecitato alla riconciliazione con i propri fratelli. Entra in quel movimento di comunione che Gesù ha vissuto e realizzato per noi: la comunione degli uomini con Dio e degli uomini tra di loro. La riconciliazione è dono di Gesù e sorgente di vita nuova tra i cristiani che si sono divisi. La comunione nello stesso amore di Cristo è la base per l’ecumenismo. Non esiste un vero ecumenismo senza crescere nell’amore di Cristo. Solo l’unità nell’amore di Cristo consente di essere un solo corpo e un solo spirito, di avere un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti (cf Ef 4, 4-6).
Nella nostre preghiere in questa Eucaristia mettiamo, dunque, l’intenzione di riconciliarci con i nostri fratelli cristiani, accrescendo l’amore a Cristo, convertendoci sempre di più ad esso, che ci unifica col Padre e tra di noi. Nella misura in cui ci lasciamo colmare dall’amore di Cristo potremo non solo compiere importanti passi di riconciliazione tra le chiese divise, ma diventare testimoni della riconciliazione in un mondo che ha bisogno di «ministri» di riconciliazione, che abbattano barriere, costruiscano ponti, facciano la pace. Con quanta più stretta comunione saremo uniti col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, con tanta più intima e facile azione potremo accrescere la mutua fraternità.

OMELIA per la MESSA del POPOLI
Faenza - Basilica cattedrale, 14 gennaio 2017
14-01-2017

Cari fratelli e sorelle, celebriamo la Santa Messa dei popoli. Così è stata definita. È la S. Messa insieme a tutte le comunità cattoliche straniere che vivono nella nostra Diocesi.

Nella prima Lettura, tratta dal libro del profeta Isaia (cf Is 49, 3.5-6), si parla del compito del servo Israele, che prefigura Gesù Cristo, cioè anticipa in qualche modo quello che farà il Redentore. Cosa è chiamato a compiere il servo Israele? La sua missione non è solo quella di restaurare nell’unità le tribù disperse di Israele, ma anche di formare un nuovo popolo, il popolo di Dio, composto da tanti popoli battezzati, che portano la salvezza al mondo intero.

I popoli del mondo sono chiamati a formare, grazie a Cristo e in Lui, la famiglia di Dio. Dio vuole formarsi un popolo di santi (cf 1 Cor 1, 1-3). I santi non sono solo i singoli individui, ma tutti i popoli della terra, sicché il popolo di santi che Dio desidera è un popolo composto da popoli santi. Tutti i popoli sono destinati a essere santi, ossia sono chiamati a vivere immersi nella volontà di Dio, che li pensa e li vuole affratellati, e li rende capaci di amare come ama e perdona Dio, capaci di vincere il male col bene, di realizzare la giustizia e la pace.

Un unico Dio e Padre ed un’unica famiglia di popoli fratelli: questa è la prospettiva che attende l’umanità. Quale missione, quale stupenda realtà! Tanti linguaggi, una sola «grammatica comune», ovvero l’Amore. Tanti riti ma un solo ed identico sommo Sacerdote, Gesù Cristo. Siamo all’altezza del sogno di Dio sul mondo? Siamo in grado di essere comunità di popoli che si rispettano e si amano, accogliendosi, prendendosi cura gli uni degli altri, pensando e volendo il bene per gli altri, soprattutto pensando e volendo che tutti vivano in Cristo, umanità nuova, colui che toglie il peccato del mondo (cf Gv 1, 29-34)? Siamo consapevoli che siamo chiamati come popoli a togliere il peccato del mondo vivendo Cristo, in Lui?

Nel Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del rifugiato 2017 papa Francesco invita tutti a togliere il peccato dell’umanità nei confronti dei migranti minorenni, specialmente quelli soli. Per vivere come popoli santi, degni di essere famiglia di Dio, occorre prendersi cura dei fanciulli che sono tre volte indifesi perché minori, perché stranieri e perché inermi, quando per varie ragioni, sono forzati a vivere lontani dalla loro terra d’origine e separati dagli affetti familiari.

Come rispondere alla realtà dei fanciulli migranti, si domanda il pontefice? Innanzitutto, prendendo coscienza che i fanciulli sono persone e le persone sono più importanti delle cose. Il valore di ogni popolo e di ogni istituzione si misura sul modo in cui tratta la vita e la dignità dell’essere umano, soprattutto in condizioni di vulnerabilità, come nel caso dei minori migranti. In secondo luogo, occorre puntare sulla protezione, sull’integrazione e su soluzioni durature.

Poiché si deve adottare ogni possibile misura per garantire ai minori migranti protezione e difesa, è necessario: a) che gli immigrati, proprio per il bene dei loro bambini, collaborino sempre più strettamente con le comunità che li accolgono. «E’ importante che si attuino collaborazioni sempre più efficaci ed incisive, basate non solo sullo scambio di informazioni, ma anche sull’intensificazione di reti capaci di assicurare interventi tempestivi e capillari. Senza sottovalutare che la forza straordinaria delle comunità ecclesiali si rivela soprattutto quando vi è unità di preghiera e comunione nella fraternità»; b) lavorare per l’integrazione dei bambini e dei ragazzi migranti. Essi dipendono in tutto dalla comunità degli adulti. La condizione dei migranti minorenni è ancora più grave quando si trovano in stato di irregolarità o quando vengono assoldati dalla criminalità organizzata. Allora essi sono spesso destinati a centri di detenzione. Non è raro, infatti, che vengano arrestati e, poiché non hanno denaro per pagare la cauzione o il viaggio di ritorno, possono rimanere per lunghi periodi reclusi, esposti ad abusi e violenze di vario genere. In tali casi, il diritto degli Stati a gestire i flussi migratori e a salvaguardare il bene comune nazionale deve coniugarsi con il dovere di risolvere e di regolarizzare la posizione dei migranti minorenni, nel pieno rispetto della loro dignità e cercando di andare incontro alle loro esigenze, quando sono soli, ma anche a quelle dei loro genitori, per il bene dell’intero nucleo familiare; c) pensare a soluzioni durature. È assolutamente necessario, pertanto, affrontare nei Paesi d’origine le cause che provocano le migrazioni. Questo esige, come primo passo, l’impegno dell’intera Comunità internazionale ad estinguere i conflitti e le violenze che costringono le persone alla fuga. Inoltre, si impone una visione lungimirante, capace di prevedere programmi adeguati per le aree colpite da più gravi ingiustizie e instabilità, affinché a tutti sia garantito l’accesso allo sviluppo autentico, che promuova il bene di bambini e bambine, speranze dell’umanità.

Lavoriamo, dunque, insieme, con tutte le nostre istituzioni – parrocchie, famiglie, Caritas, associazioni di volontariato, AMI -, con tutti i nostri mezzi, con tutta la nostra intelligenza e tutto il nostro cuore, per essere popolo santo, che risplende per la vita buona e per le opere di giustizia, specie nei confronti dei più deboli. Là ove operiamo contribuiamo a realizzare una famiglia di popoli santi, ossia popoli che onorano la vita, dono di Dio, specie quella dei più deboli. Questa celebrazione eucaristica ci unifichi a Colui che è redentore, liberatore da ogni forma di male, re dell’Amore che trasfigura e affratella.

OMELIA per la solennità della EPIFANIA
Faenza - Basilica cattedrale, 6 gennaio 2017
06-01-2017

Cari fratelli e sorelle, nel brano tratto da Isaia (60, 1-6), il profeta incoraggia il popolo d’Israele ad alzarsi, a rivestirsi di luce, perché viene il Salvatore. Sollecita ad andare incontro con solerzia alla Luce. Il Salvatore è la luce di Dio che viene a noi. Quando il popolo lo accoglie diventa, a sua volta, luce che risplende ed illumina, punto di riferimento verso cui cammineranno i popoli della terra: «Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere», profetizza Isaia. Il popolo di Dio vivrà con cuore palpitante una grande missione: essere punto di convergenza e di unificazione della grande famiglia umana.

La Chiesa, ci fa capire san Paolo nella sua Lettera agli Efesini (Ef 3, 2-3.a 5-6), dispiega indomita la sua missione in maniera analoga. Essa è chiamata a far risplendere nel mondo la luce di Cristo, riflettendola in se stessa come la luna riflette la luce del sole. I discepoli di Cristo, al pari di san Paolo, dovranno attrarre, mediante la testimonianza dell’amore, tutti gli uomini a Dio. È l’amore di Cristo la luce che illumina ed avvince. Le genti, afferma l’apostolo, sono chiamate, in Gesù Cristo, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa, per mezzo del Vangelo.

L’arrivo dei Magi dall’Oriente a Betlemme per adorare il neonato Messia, guidati dalla stella, realizza in anticipo un tale disegno. Come la stella, così la Chiesa, dev’essere segno della manifestazione del Re universale ai popoli. L’Epifania, afferma san Leone Magno, suggerisce ai credenti d’imitare il servizio che la stella rese ai Magi d’Oriente guidandoli fino a Gesù (cf San Leone Magno, Disc. 3 per l’Epifania, 5: PL 54, 244).

Particolarmente istruttivi sono, peraltro, la ricerca dei Magi, il loro incontrarsi con la Luce vera, Gesù, l’essersi prostrati davanti a Lui, donandogli oro, incenso e mirra, l’averlo adorato. Il loro stesso ritorno a casa insegna qualcosa. Mentre i doni offerti appaiono un atto di appagante riconoscimento di Gesù quale Re e Dio – l’incontro con il Salvatore si traduce, infatti, nell’intimo dono di se stessi a Lui, scegliendolo come il Tutto – la modalità del loro rientro in patria indica che essi si dissociano nettamente da Erode, re bugiardo e crudele. La conseguenza che ne deriva è che prendono un’altra strada. Commenta sant’Agostino: «Anche noi, riconoscendo Cristo nostro re e sacerdote morto per noi, lo abbiamo onorato come se avessimo offerto oro, incenso e mirra; ci manca soltanto di testimoniarlo prendendo una via diversa da quella per la quale siamo venuti» (Sermo 202. In Epiphania Domini, 3,4). La testimonianza si nutre di una conversione incessante a Colui che rinnova e fa rinascere.

La vita di Paolo, dopo la sua conversione, è stata una «corsa» per portare ai popoli la luce di Cristo e, viceversa, condurre i popoli a Cristo. La grazia di Dio, trasformando il suo animo, ha fatto di Paolo una «stella» per le genti. Il suo ministero è esempio per riscoprirci essenzialmente missionari e per rinnovare l’impegno dell’evangelizzazione con slancio, senza pause, nelle nuove condizioni di vita.

In sostanza, la Parola di Dio ci sprona a vivere con entusiasmo e coraggio il nostro essere missionari. Già l’anno Giubilare della Misericordia ci ha fatto riscoprire questa dimensione fondamentale del cristiano. Ad anno pastorale già inoltrato non dimentichiamo le scelte dalla nostra Diocesi, tra le quali quella di recepire l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, in modo da convertirci ulteriormente come popolo di Dio e da presentarci al mondo come persone trasfigurate dall’esperienza profonda di Cristo, vivendo con Lui un’intimità itinerante. Ciò che ci consente di essere luce per i nostri contemporanei, in mezzo ai molteplici problemi della nostra società, è, infatti, l’esperienza di un rinnovato incontro con Gesù: un incontro che torna ad affascinarci, a fornirci le motivazioni profonde della missione, per comunicarlo a tutti, come il tesoro più prezioso che abbiamo a disposizione. Solo Lui risponde alle attese e alle speranze del cuore degli uomini e delle donne, dei giovani e dei bambini. Solo Lui salva, nessun altro. Solo Lui è principio di ogni rinnovamento spirituale e sociale.

Trasfigurati dall’incontro assiduo con Gesù, rivestiti della sua Luce, diventiamo un popolo giovane, che ha passione per Gesù e che si mobilita per portarlo a tutti, anche agli immigrati, in particolare alle nuove generazioni, affinché lo vivano nelle molteplici dimensioni della vita. Credenti e non credenti, italiani e non italiani, tutti hanno il diritto di conoscere ed amare Gesù Cristo, perché ogni persona è strutturata a sua immagine. La missione è la passione di chi si sente appartenere a Cristo e ritiene che la sua felicità più grande consista nel vivere Lui, nel generalo in se stessi e negli altri. Come seppe fare Maria di Nazareth, divenuta Madre di Dio. Essere «popolo giovane» vuol dire anche coinvolgere letteralmente i giovani nell’annuncio e nella testimonianza di Lui. Accompagniamoli nell’incontro con Gesù, aiutiamoli a sentirsi suoi, preparando con passo graduale ma costante il Sinodo diocesano dei giovani, con i giovani, per i giovani. Rivanghiamo e ridefiniamo l’orizzonte educativo dell’esperienza cristiana. Mostriamo come la fede offre risposte pregnanti agli interrogativi dei nostri giovani. Non dobbiamo correre il rischio che la nostra proposta di fede appaia lontana ed estranea al loro anelito di senso, al loro desiderio di compimento. Essi non sono solo creature, e neanche soltanto esseri superiori a tutti gli altri esseri viventi. Sono figli e figlie «capaci di Dio», creati per amore e per la salvezza, per essere protagonisti di «cieli e terra nuovi». Sono invitati ad essere figli di Dio nel Figlio, a non deludere il sogno o, meglio, la «fede di Dio» nei loro confronti.

Affascinati da Cristo, Uomo Nuovo, consideriamo la nostra missione non un peso che ci sfinisce, bensì una sorgente inesauribile di felicità e di rinnovato entusiasmo, tra le inevitabili fatiche di ogni giorno. Più siamo missionari di Cristo, più sperimentiamo una gioia che ripaga e contagia. Essa rifulge sul nostro volto di salvati. Ma anche l’abbondanza della vita divina, riversata su coloro che amiamo, moltiplica la nostra gioia, perché l’opera di Dio, incarnata nella vita delle persone, incoraggia e sorregge i nostri piccoli sforzi. Siamo chiamati nel nostro territorio e nelle nostre comunità ad un nuovo ardore, ad una nuova audacia. Non sottraiamoci. La Madre del Vangelo vivente interceda per noi, in questa stagione che richiede un’abbondante seminagione, un lavoro appassionato nella vigna del Signore, nell’attesa di nuovi germogli vocazionali e missionari.

OMELIA per la solennità di MARIA MADRE DI DIO
Faenza - Basilica Cattedrale, 1 gennaio 2017
01-01-2017

All’inizio di un Nuovo anno festeggiamo la divina maternità di Maria. Nell’espressione “Dio mandò il suo Figlio nato da donna” si trova condensata la verità fondamentale su Gesù come Persona divina che ha pienamente assunto la nostra natura umana. Egli è il Figlio di Dio, è generato da Lui, e al tempo stesso è figlio di una donna, Maria. Viene da lei. È da Dio e da Maria. Per questo la Madre di Gesù si può e si deve chiamare Madre di Dio.

Questo titolo, che in greco suona Theotókos, compare per la prima volta, probabilmente nell’area di Alessandria d’Egitto. Esso però fu definito dogmaticamente nel 431, dal Concilio di Efeso» (Benedetto XVI, Omelia del 31 dicembre 2006).

Fin dall’antichità, pertanto, la Madonna venne onorata con titolo di Madre di Dio (Theotókos). In occidente, tuttavia, non si trova per tanti secoli una specifica festa dedicata alla maternità divina di Maria. La introdusse nella Chiesa latina il Papa Pio XI nel 1931, in occasione del 15° centenario del Concilio di Efeso, e la collocò all’11 ottobre. Fu poi il beato Paolo VI, nel 1969, riprendendo un’antica tradizione, a fissare questa solennità al primo gennaio e a connetterla con la Giornata Mondiale della Pace. Festeggiare la Madre di Dio, che è Principe della pace, significa impegnarsi a costruire la pace sulle orme del Redentore.

In occasione del 1 gennaio, a partire dal beato Paolo VI, ogni pontefice è ormai abituato ad indirizzare ai popoli e alle nazioni del mondo, ai Capi di Stato e di Governo, nonché ai responsabili delle comunità religiose e delle varie espressioni della società civile, un Messaggio per la Celebrazione della Giornata mondiale della Pace. Il Messaggio di papa Francesco per la 50a Giornata porta questo titolo: La nonviolenza:stile di una politica per la pace. In sostanza, il pontefice si augura che la carità e lo spirito della nonviolenza guidino il modo in cui ci trattiamo gli uni e gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli internazionali. La nonviolenza deve diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme. I politici e i cittadini credenti hanno in Gesù Cristo il modello più alto di nonviolenza e di carità. Gesù insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cf Mt 5,44), disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cf Mt 26,52). La via della non violenza da lui tracciata fu percorsa sino alla fine, fino alla croce. Mediante essa ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cf Ef 2, 14-16). Ma perché, possiamo chiederci, la nonviolenza per papa Francesco, deve diventare lo stile delle convivenze sociali e di una politica impegnata a costruire la pace? La risposta non è difficile da trovare. Purtroppo oggi il nostro mondo, che pure contiene molteplici segni positivi di solidarietà e di unità, è spesso segnato dalla violenza e la stessa politica che dovrebbe, per propria vocazione e missione, contribuire a debellarla, può esserne una fonte. Basti pensare a quando la politica diventa rissosa, o non accede al negoziato per porre fine a rappresaglie, a conflitti infiniti che danneggiano le popolazioni inermi e recano benefici, come scrive il pontefice, solo a pochi «signori della guerra», a quando nella gestione della cosa pubblica vince l’illegalità e la corruzione, a quando per negligenza non si governa e non si affrontano con incisività i problemi sociali come la disoccupazione, che emargina specialmente le nuove generazioni, ma non solo. Accogliamo l’invito del papa che sollecita tutti, cittadini e politici, a costruire la pace mediante la non violenza attiva e creativa, mediante la carità. Combattiamo insieme quei nemici insidiosi che sono l’odio e la violenza verbale, eletti da molti a strumento di lotta politica, ai quali accennava ieri sera il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo Messaggio di fine anno. Oggi abbiamo bisogno di una società più unita, di una politica che sia animata da un cuore d’amore, specie nei confronti dei più fragili. Preghiamo con Maria, Madre del Principe della pace, anche santa Teresa di Calcutta, che papa Francesco, nonostante sia stata tacciata ingiustamente di assistenzialismo e cioè di non essersi impegnata nell’abbattere le cause dei mali sociali, indica come modello alla politica per il suo amore samaritano. Affrontiamo il male con il bene, spezziamo la catena dell’ingiustizia con le armi dell’amore, della libertà, della verità e della giustizia. Sorreggiamo la famiglia, indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono. Rileggiamo sovente il «manuale della strategia della costruzione della pace», così le definisce papa Francesco, e cioè le otto beatitudini (cf Mt 5, 3-10). Beati i miti – dice Gesù -, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia.

Riscopriamo la nostra appartenenza al Cristo totale, ossia a Cristo modello di non violenza. Impariamo da Maria a meditare sulla presenza di Gesù Cristo in noi e nella storia. Sul suo esempio impariamo Cristo nonviolento, custodiamolo (cf Lc 2, 16-21), viviamolo. Maria ha imparato Cristo non violento accompagnandolo nella sua Passione, rimanendo ai piedi della sua croce. Capiamo cosa significa perdonare, amare i nemici, morire per il bene. È a partire dall’esperienza di Lui che comprendiamo come non possiamo essere suoi veri discepoli senza accettare la sua proposta di non violenza, ossia divenendo persone capaci di sbaragliare il male con le armi dell’amore, della verità, della giustizia.

OMELIA per il TE DEUM di FINE ANNO
faenza - Basilica Cattedrale, 31 dicembre 2016
31-12-2016

Al chiudersi di quest’anno civile, siamo raccolti qui in Cattedrale per celebrare la messa prefestiva della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio. La liturgia fa coincidere questa significativa festa mariana con la fine e l’inizio dell’anno solare. Alla contemplazione del mistero della divina maternità si unisce pertanto il cantico della nostra gratitudine per il 2016 che tramonta e per il 2017 che già intravediamo. Il tempo passa e il suo scorrere ci induce a volgere lo sguardo con intima riconoscenza a Colui che è eterno, al Signore del tempo e della vita. Lo ringraziamo insieme, cari fratelli e sorelle, a nome dell’intera Comunità diocesana di Faenza-Modigliana per quanto ci ha elargito, per tutti i benefici che lungo i passati dodici mesi ci ha ampiamente concessi, in particolare per il dono del grande Giubileo della Misericordia che ha fatto germogliare tante opere di bene e un nuovo spirito missionario nelle nostre parrocchie e nelle nostre associazioni e movimenti. Ringraziamo, inoltre, il Signore perché ha fatto nascere in noi il proposito di programmare un Sinodo interamente dedicato ai giovani, sulla scia di quanto ha deciso papa Francesco per la Chiesa universale. Si è compreso che il futuro della nostra chiesa in questo territorio di Romagna dipenderà, in non piccola parte, dalla preparazione delle nuove generazioni nel vivere e nel testimoniare la fede.

Infine, ringraziamo per quanto il breve ma denso brano paolino ci fa capire e cioè che il Verbo di Dio facendosi carne, assumendo la natura umana, apre la prospettiva di un radicale mutamento nella nostra condizione di uomini. Vi si dice che «Dio mandò il suo Figlio… per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,5). Il Verbo incarnato trasforma dall’interno l’esistenza umana, partecipando a noi il suo essere Figlio del Padre. Si è fatto come noi per farci come Lui: figli nel Figlio, dunque uomini liberi dalla legge del peccato. Non è questo un motivo fondamentale per elevare a Dio il nostro ringraziamento?

Sempre nel brano della Lettera ai Galati, san Paolo afferma: «”Dio mandò il suo Figlio, nato da donna” (Gal 4,4). Origene commenta: “Osserva bene come non ha detto: nato tramite una donna, bensì: nato da una donna” (Commento alla Lettera ai Galati, PG 14, 1298). Questa acuta osservazione del grande esegeta e scrittore ecclesiastico è importante: infatti, se il Figlio di Dio fosse nato solamente “tramite” una donna, non avrebbe realmente assunto la nostra umanità, cosa che invece ha fatto prendendo carne “da” Maria. La maternità di Maria, dunque, è vera e pienamente umana. Nell’espressione “Dio mandò il suo Figlio nato da donna” si trova condensata la verità fondamentale su Gesù come Persona divina che ha pienamente assunto la nostra natura umana. Egli è il Figlio di Dio, è generato da Lui, e al tempo stesso è figlio di una donna, Maria. Viene da lei. E’ da Dio e da Maria. Per questo la Madre di Gesù si può e si deve chiamare Madre di Dio. Questo titolo, che in greco suona Theotókos, compare per la prima volta, probabilmente proprio nell’area di Alessandria d’Egitto, dove nella prima metà del terzo secolo visse, appunto, Origene. Esso però fu definito dogmaticamente solo due secoli dopo, nel 431, dal Concilio di Efeso» (Benedetto XVI, Omelia del 31 dicembre 2006).

Fin dall’antichità, pertanto, la Madonna venne onorata con titolo di Madre di Dio (Theotókos). In occidente, tuttavia, non si trova per tanti secoli una specifica festa dedicata alla maternità divina di Maria. La introdusse nella Chiesa latina il Papa Pio XI nel 1931, in occasione del 15° centenario del Concilio di Efeso, e la collocò all’11 ottobre. In tale data iniziò, nel 1962, il Concilio Ecumenico Vaticano II. Fu poi il beato Paolo VI, nel 1969, riprendendo un’antica tradizione, a fissare questa solennità al primo gennaio. E nell’Esortazione apostolica Marialis cultus del 2 febbraio 1974 spiegò il perché di questa scelta e la sua connessione con la Giornata Mondiale della Pace. «Nel ricomposto ordinamento del periodo natalizio – scrisse Paolo VI – ci sembra che la comune attenzione debba essere rivolta alla ripristinata solennità di Maria Ss. Madre di Dio: essa… è destinata a celebrare la parte avuta da Maria in questo mistero di salvezza e ad esaltare la singolare dignità che ne deriva per la Madre santa…; ed è, altresì, un’occasione propizia per innovare l’adorazione al neonato Principe della Pace, per riascoltare il lieto annuncio angelico (cfr Lc 2,14), per implorare da Dio, mediante la Regina della Pace, il dono supremo della pace» (n. 5 in: Insegnamenti di Paolo VI, XII 1974, pp. 105–106).

In occasione del 1 gennaio, a partire dal beato Paolo VI, ogni pontefice è ormai abituato ad indirizzare ai popoli e alle nazioni del mondo, ai Capi di Stato e di Governo, nonché ai responsabili delle comunità religiose e delle varie espressioni della società civile, un Messaggio per la Celebrazione della Giornata mondiale della Pace. Il Messaggio di papa Francesco per la 50a Giornata porta questo titolo: La nonviolenza:stile di una politica per la pace. In sostanza, il pontefice si augura che la carità e lo spirito della nonviolenza guidino il modo in cui ci trattiamo gli uni e gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli internazionali. La nonviolenza deve diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme. I politici e i cittadini credenti hanno in Gesù Cristo il modello più alto di nonviolenza e di carità. Gesù insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cf Mt 5,44), disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cf Mt 26,52). La via della non violenza da lui tracciata fu percorsa sino alla fine, fino alla croce. Mediante essa ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cf Ef 2, 14-16). Ma perché, possiamo chiederci, la nonviolenza per papa Francesco, deve diventare lo stile delle convivenze sociali e di una politica impegnata a costruire la pace? La risposta non è difficile da trovare. Purtroppo oggi il nostro mondo, che pure contiene molteplici segni positivi di solidarietà e di unità, è segnato dalla violenza e la stessa politica che dovrebbe, per propria vocazione e missione, contribuire a debellarla, spesso ne è una fonte. Basti pensare a quando la politica non accede al negoziato per porre fine ad un conflitto infinito, a quando vince l’illegalità e la corruzione, a quando per negligenza o per eccessiva litigiosità non si governa un Paese e non si affrontano con incisività i problemi sociali come la disoccupazione, che emargina specialmente le nuove generazioni. Accogliamo l’invito del papa che sollecita tutti, cittadini e politici, a costruire la pace mediante la non violenza attiva e creativa, mediante la carità. Oggi abbiamo bisogno di una politica che sia animata da un cuore d’amore, specie nei confronti dei più fragili. Preghiamo con Maria, Madre del Principe della pace, anche santa Teresa di Calcutta che papa Francesco, nonostante essa sia stata tacciata ingiustamente di assistenzialismo, indica come modello di un amore samaritano.

OMELIA della MESSA DELLA NOTTE di NATALE
Faenza, Basilica Cattedrale - 25 dicembre 2016
25-12-2016

Un bambino è nato per noi”, dice il profeta Isaia (Is 9,1). Ma subito aggiunge: «Ci è stato donato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace». Insomma, non si tratta di un bambino qualsiasi. Il Bambino che suscita in noi tanta tenerezza e desiderio di prenderlo in braccio è Dio salvatore. È venuto per essere con noi, ma soprattutto in noi, per renderci più capaci di bene, di dono e di perdono, per insegnarci il mestiere di uomini che sanno vivere in piena comunione con Dio.

Questo ci dice la nostra fede.

Se Gesù nasce bambino per essere accudito dall’umanità e per ricevere, potremmo dire, tante coccole come i bimbi nelle nostre famiglie, questa non è ancora tutta la verità. Non dobbiamo solo stupirci di fronte a Dio che vuole essere un bambino. L’uomo vuole salire, comandare, prendere. Dio, al contrario, desidera scendere, servire, dare.

Oltre a prendere Gesù tra le nostre braccia e colmarlo di baci, parlargli affettuosamente, come fecero sant’Antonio di Padova e san Pio da Pietrelcina, dobbiamo diventare come Lui. Il Natale non è solo momento di gioia perché non siamo più soli e Dio cammina con noi. La nostra fede, dopo avercelo fatto incontrare, deve aiutarci a vivere di Lui, in Lui, come Lui.

Qui si realizza il Natale più profondo e vero. San Paolo, colui che da persecutore dei cristiani divenne un grande apostolo di Cristo (cf At 9, 1-30), ci può essere di grande insegnamento per il cammino che ci attende. Dopo essere stato afferrato e convertito da Cristo, lo amò. Lo visse con tutte le sue forze e il suo cuore. La sua fede in Gesù si trasformò in vita, nella vita di Cristo stesso, al punto che l’apostolo soleva dire di vivere Cristo.

Cari fratelli e sorelle, il Natale non è solo contemplazione del Verbo che si fa carne. Non è solo vedere nel Bambino Dio che ci salva, ma è anche movimento, andare verso di Lui, vita con Lui, in Lui, per Lui. Attraverso la fede comprendiamo che siamo suoi, gli apparteniamo ed, inoltre, abbiamo il compito di immedesimarci a Lui. Grazie a ciò Egli, come dice san Paolo apostolo a Tito (2, 11-13), ci forma per sé quale popolo puro, pieno di zelo per le opere buone.

Detto diversamente, in questa notte, attraverso la fede, non dobbiamo limitarci a vedere Gesù bambino, commuoverci, mandargli baci, ma dobbiamo deciderci ad imparare di più Gesù per viverlo più compiutamente. Per questo bisogna che il nostro Natale non si riduca ad una festa di frastuono, senza entrare in intimità con Gesù, ossia una festa senza il Festeggiato. È necessario che troviamo momenti di silenzio per dire a Cristo che lo amiamo e che Egli è il nostro Tutto, per essere sempre più in comunione con Lui, per mettere il nostro cuore vicino al suo, e riconoscere di essere, mediante la sua incarnazione, pienamente assunti in Lui. Dobbiamo capire che, come Lui, dobbiamo essere missionari del Padre. Gesù è venuto a noi, perché dovevamo conoscere di essere strutturati come Lui e, quindi, di essere chiamati ad essere figli di Dio nel Figlio unigenito. A volte il nostro spirito missionario è rattrappito. Abbiamo paura di presentare ed offrire Gesù ai nostri giovani, agli stessi immigrati, dimenticando che essi, perché fatti a sua immagine, hanno il diritto e dovere di conoscerlo, amarlo e viverlo. Non si tratta di imporre quanto, piuttosto di proporre Gesù, per crescere in Lui, l’Uomo Nuovo.

Il credente è consapevole che la sua vita è in Gesù. Dimoriamo in Lui. Tutta la nostra esistenza è chiamata a realizzarsi vivendo i suoi stessi sentimenti. Così, le nostre sofferenze, le nostre responsabilità e fatiche nell’impegno per la giustizia, nella professione, nell’educazione alla fede, la nostra testimonianza, sono tutte esperienze in cui lo Spirito d’amore di Cristo ci sorregge, ci sollecita e ci conduce alla meta.

Anche noi, al termine della nostra vita, dovremo poter dire, come san Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2 Tm 4,7). Saremo felici, non solo per aver creduto in Gesù, ma perché nascendo nel nostro cuore ci fa vivere uniti a Lui.

I più grandi dottori e maestri di spirito della Chiesa – Origene, sant’Agostino, san Bernardo, e tanti altri ancora – pensavano a proposito del Natale in una maniera ardita. Pressappoco così: «Che giova a me che Cristo sia nato una volta a Betlemme da Maria, se egli non nasce per fede nel mio cuore». Detto altrimenti, perché il Natale porti frutto per me occorre che Cristo nasca in me, nella mia anima.

Con san Giovanni XXIII dobbiamo, allora, pregare così: «O Verbo eterno del Padre, Figlio di Dio e di Maria, rinnova anche oggi, nel segreto delle anime, il mirabile prodigio della tua nascita» (Messaggio natalizio del 1962). Cristo, che è nato «per» noi, per fede deve nascere «in» noi. Deve «formarsi» in noi (Gal 4,19), abitare nei nostri cuori (cf Ef 3,17). Il nostro compito è di raggiungere la statura morale e spirituale di Cristo.

Rientriamo in noi stessi. Facciamoci istruire dallo Spirito Santo che ci guida alla verità tutta intera di Cristo. Generiamo in noi e negli altri Cristo. Sarà il più grande servizio che potremo compiere nelle nostre comunità ecclesiali, nelle nostre famiglie e nella società. Solo così potrà crescere il senso di appartenenza a Cristo e alla sua Chiesa. Solo così l’appartenenza a Cristo avrà il primato su altre appartenenze, pur legittime, ma secondarie. Buon Natale di Gesù Cristo!

OMELIA per la IV domenica di AVVENTO
Faenza, Clinica San Pier Damiano - 18 dicembre 2016
18-12-2016

Nel nostro cammino di preparazione al Natale, dopo l’Immacolata e san Giovanni Battista, incontriamo san Giuseppe, uomo giusto che sogna ed ama, non parla e agisce. È tra i testimoni di Avvento, tra coloro che rendono testimonianza alla Luce (cf Gv 1, 7.8). Anche san Giuseppe ci insegna come accogliere il mistero di Dio che si incarna, si fa uomo, uno di noi, per camminare con noi ed iniziare una nuova storia: la storia di una umanità che vive in comunione con Dio e re-impara il mestiere di essere uomini completi.

Il Vangelo di Matteo ci dice che prima che andassero a vivere insieme, Maria si trovò incinta. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Detto altrimenti, Giuseppe non è un imbambolato, un ingenuo. Vive in sé un dramma: vive il conflitto tra la legge che vuole che si tolga di mezzo il peccatore (cf Deut 22,22) e l’amore per Maria. Entra in crisi, perché si sente tradito. Il suo cuore di innamorato è straziato, non si dà pace. Non sa come uscire dal dilemma, perché se la legge è perentoria è anche chiaro che lui ama perdutamente Maria. È proprio in questo momento che lo Spirito irrompe, illumina Giuseppe e conforta il suo cuore ferito. Ecco, narra il Vangelo, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti, il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». In breve tempo Giuseppe è sollecitato a compiere nella sua testa e nel suo cuore un capovolgimento totale: non più un suo figlio, ma il figlio di Dio da prendere tra le braccia e da custodire. Certo, Giuseppe per riuscire a capacitarsi e capire cosa stava avvenendo nella sua vita, doveva aver avuto nella sua mente, come Maria, almeno l’idea che Dio doveva venire a salvare l’umanità. Come la giovane donna che egli amava, doveva far parte di quel «resto di Israele» che ancora credeva in un Redentore dell’uomo. Dall’angelo, messaggero di Dio, venne strappato dai suoi sogni umani e messo a servizio del grande sogno di Dio, che volle abitare su questa terra ed avere una famiglia come tutti noi.

Giuseppe, mani indurite dal lavoro, ma ricco di fede in Dio, sa ascoltare ed accogliere nella sua vita il sogno di Dio e si mette completamente a disposizione: quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

Così, san Giuseppe è padre senza esercitare una paternità carnale. Non è il padre biologico di Gesù, del quale Dio solo è il Padre, e tuttavia egli esercita una paternità piena e intera. Essere padre è innanzitutto essere servitore della vita e della crescita. San Giuseppe ha dato prova, in questo senso, di una grande dedizione. Per Cristo ha conosciuto la persecuzione, l’esilio e la povertà che ne deriva. Ha dovuto stabilirsi in luogo diverso dal suo villaggio. La sua sola ricompensa fu quella di essere con Cristo.

A ben pensarci, coloro che vivono ed operano in una struttura ospedaliera come quella in cui ci troviamo hanno un compito simile a quello di Giuseppe: essere a servizio della vita e della sua crescita; dedicarsi ai propri fratelli e alle proprie sorelle avendo la certezza che mentre si assiste e si curano le loro infermità si serve Cristo stesso. Come san Giuseppe, non dobbiamo essere servitori mediocri, svogliati, senza passione e amore. Dobbiamo essere servitori «fedeli e saggi». Non basta essere fedeli. Occorre essere anche pieni di saggezza, preparati professionalmente. Così, non è sufficiente essere saggi senza fedeltà. Per vivere in pienezza la responsabilità che Dio ci affida nel servizio agli ammalati occorre essere e fedeli e saggi, insieme. Solo così si vive una paternità simile a quella di Dio, una paternità che è per tutti i giorni, non solo per due minuti o mezza giornata; una paternità che ci vede coinvolti col cuore e la vita, con tutto noi stessi. Chi cura e serve gli ammalati li riceve in consegna, come Giuseppe ha ricevuto in consegna il Figlio di Dio incarnato. Essi sono nelle nostre mani, affidati a noi, non solo biologicamente ma anche spiritualmente, psicologicamente, come degli interi.

Partecipando all’Eucaristia, facendo comunione con Cristo, riceviamo un cuore nuovo. Vivendo uniti a Cristo riusciremo ad accogliere ogni ammalato col cuore di Cristo. Riusciremo a servirlo con il suo stesso amore, superando le nostre stanchezze, i nostri limiti, le nostre visioni anguste, tentate di chiudersi alla speranza.

San Giuseppe ci aiuti ad affidarci a Dio, a coltivare i suoi sogni sull’umanità ammalata, bisognosa di cure mediche e spirituali. Lui che ha vissuto alla luce del Mistero dell’Incarnazione ci insegni una prossimità non solo fisica, ma anche con l’attenzione del cuore.

OMELIA per il LXXII anniversario della LIBERAZIONE di FAENZA
Faenza, chiesa dei Caduti - 17 dicembre 2016
17-12-2016

in questa Eucaristia ricordiamo il 72.mo anniversario della Liberazione della città di Faenza. È stato un percorso segnato da eventi tragici, bombardamenti – iniziati coi primi giorni del maggio 1944 e terminati con il mese di dicembre –, distruzioni, morti, feriti, eccidi efferati. Ai bombardamenti strategici seguirono quelli medi e dei cacciabombardieri, a supporto degli alleati che avanzavano. A dicembre entrarono  in città le truppe neozelandesi. La desolazione era grande e il bilancio delle morti salì a 370 vittime, più i tanti feriti.

A questa triste fase seguì una fervida ricostruzione con il concorso di tutti, in una Nazione che scelse la forma repubblicana al posto di quella monarchica. L’impegno della rinascita vide il convergere attorno ai grandi valori della Costituzione italiana, caratterizzata per la centralità della persona, considerata per intero, in particolare nella sua relazionalità sociale e solidale espressa nella famiglia e nei corpi intermedi, nella sua libertà responsabile, nei suoi doveri e diritti, incluso quello della libertà religiosa.

Altri, meglio del sottoscritto, potrebbero descrivere la passione civile, lo slancio democratico della città nel corso degli anni che ci separano dal periodo della seconda guerra mondiale, ove i cattolici non sono stati meno operosi degli altri. Questo anniversario dev’essere l’occasione di guardare alle tragedie del passato, alle crudeltà assassine, senza dimenticare il presente e il domani. Oggi a livello internazionale sono in atto altre guerre e altri conflitti, che però non ci lasciano del tutto indenni. Ci attendono, allora, altre liberazioni ed altre ricostruzioni. È una fortuna che la nostra Europa abbia conservato per parecchi anni la pace. Ma sappiamo che non sono stati esenti da vere e proprie guerre economiche, specie dal 2008 ad oggi ed anche da atti terroristici di varia matrice. Sappiamo, poi, che, con una «terza guerra mondiale a pezzi», stanno crescendo i nazionalismi, i fondamentalismi, come anche forme esasperate di libertà. Se, grazie a Dio, continuano ad esistere e a svilupparsi leggi e forme sociali solidali, preoccupano alcuni orientamenti neoindividualistici ed utilitaristi sia del diritto sia delle politiche internazionali, come anche quei gruppi oligarchici del denaro che influenzano fortemente le Nazioni e che fanno temere il crollo di ciò che viene costruito, giorno dopo giorno, con fatica, secondo la logica del dono e della gratuità. Le diseguaglianze e le povertà non sono sparite, anzi in alcuni casi si sono accentuate con il predominio di tecnocrazie e di una finanza performativa, entrambi deleterie per l’economia reale.

Tante altre sono le coordinate che contrassegnano il nostro tessuto sociale, civile, religioso, come l’invecchiamento della popolazione, l’immigrazione, le conseguenze non ancora finite della crisi economica, un certo degrado morale e civile, la necessità di costruire un nuovo ethos tra famiglie spirituali e religiose che sono aumentate e mescolate. Non abbiamo qui il tempo per dire gli aspetti positivi di questa bella città, per elencare le virtù dei faentini, che costituiscono il punto archimedico su cui far leva per continuare a lavorare e a innalzare una convivenza aperta all’altro, al suo bene, all’Europa, al mondo, in una rete continua di relazionalità positive.

Credo che il recente Messaggio per la giornata mondiale della pace 2017 di papa Francesco possa offrire alcuni spunti per rendere la nostra città ancor più vivibile e godibile dal punto di vista umano e culturale. Il Messaggio, firmato l’8 dicembre scorso, porta l’attenzione sulla non violenza (attiva), quale via per costruire società giuste e pacifiche. La non violenza attiva, e tutto ciò che questa comporta come impegno per la giustizia, come sforzo a vincere il male col bene, come adozione di strumenti a servizio del dialogo civile, di una lotta pacifica, deve caratterizzare la politica dei cittadini e delle autorità, il suo metodo e il suo essere. La non violenza deve diventare lo stile delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, della politica in tutte le sue forme. Il modello più alto di non violenza attiva – ossia non passiva rispetto all’ingiustizia e al male – è Gesù Cristo, che ne tracciò una via eloquente e insuperabile, percorrendola sino in fondo, sino alla croce.

Ma papa Francesco indica come modello, oltre a Gandhi e Martin Luther King Jr, anche santa Teresa di Calcutta. Come mai il papa argentino sceglie e propone Madre Teresa, che è stata tacciata da molti di assistenzialismo, ossia di non dedicarsi a combattere le cause della povertà e della emarginazione?  Egli la segnala come punto di riferimento per uno stile di politica di pace, perché questa dovrebbe prendersi cura prioritariamente di chi è scartato, emarginato nella società, considerato addirittura inutile. Madre Teresa deve costituire il paradigma di una politica samaritana, che si prodiga a favore della vita umana, quella non nata e quella abbandonata, lasciata fuori, riconoscendone la dignità, specie quando più indifesa. Bisogna intendere bene il senso di quanto vuol dire il papa argentino. Non si tratta di mettere in campo una politica meramente assistenzialista, bensì una politica dedita al bene di tutti, specie dei più deboli.

Parimenti, papa Francesco indica come radice di una politica non violenta la famiglia, luogo in cui fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono (cf n. 5). La politica non violenta, rammenta il pontefice, ha un “manuale” che è dato dalle beatitudini (cf Mt 5, 3-10).

Partecipando a questa Eucaristia, in cui ricordiamo tutti coloro che sono morti a causa della guerra, domandiamo al Signore il suo Spirito per amare sinceramente questa città, per farne il luogo di una crescita integrale e sostenibile per tutti. Non siamo soli. Il Natale ormai vicino ci ricorda l’irruzione  del divino nell’umano. Quando Dio è accolto diventa il fondamento di tutto il cammino. In Cristo,  del quale nel Vangelo (cf Mt 1, 1-17) abbiamo sentito la genealogia, a conferma della sua inserzione nella nostra esistenza, costruiamo una nuova storia e la civiltà della misericordia.