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OMELIA per la DOMENICA delle PALME
Faenza - Basilica cattedrale, 9 aprile 2017
09-04-2017

La domenica delle palme, specie con il Vangelo della passione (cf Mt 26, 14-27), ci fa comprendere il dramma dell’uomo, la nostra tragedia. Gesù Cristo, che viene a salvare noi, bisognosi di redenzione – più volte ci ripetiamo che solo un Dio ci può cavare dai mali che ci colpiscono – viene rifiutato, anzi ucciso, per codardia, per scegliere una vita più libera, per possedere la vera civiltà, si dice.

Il nostro dramma – un dramma di dimensioni universali – sta proprio qui: respingere colui che dà salvezza e pienezza di vita, e che è la risurrezione; preferirgli ciò che è distruttivo, uccide la nostra coscienza, annienta la dignità, diminuisce la libertà, riduce le nostre feste alla esaltazione delle futilità se non del degrado umano.

Spesso siamo come il figliol prodigo che sceglie di andarsene di casa, in cerca di spazi più aperti e finisce in schiavitù, in povertà, a mangiare carrube, contendendole ai porci. Come lui sperperiamo le nostre ricchezze non investendole in ciò che vale di più e costruisce futuro. Codifichiamo la distruzione della vita, specie dei più piccoli, e ci ritroviamo ad essere popolo a rischio di estinzione, che non riesce a decollare economicamente. Interessa poco o niente la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, la si scimmiotta costruendo altre istituzioni innalzandole su una menzogna antropologica, e si pretende, giacché l’educazione e la cura degli anziani ha i suoi tempi, che il sistema di welfare sia sorretto da soggetti sociali stabili, capaci di durare nel tempo. Ci si ritrova, invece, con una società sempre più fragile moralmente e nei suoi legami affettivi.  Crediamo di avanzare nella civiltà e non si considera che senza ascoltare l’insegnamento di Gesù ci imbarbariamo, non c’è più entusiasmo di vivere, non ci sono più argini all’arbitrio.

Non smettiamo, allora, di essere discepoli di Cristo. Impariamo da Lui, uomo in piena comunione con Dio, ad amare, a procurarci pienezza di vita, donandoci al Padre e ai fratelli. Impariamo dal Figlio per eccellenza, la fedeltà, ad andare avanti, sino alla fine, costi quel che costi. La croce che Egli abbraccia e su cui viene crocifisso è segno di un dono totale, senza risparmio. È il prezzo della nostra crescita e della nostra speranza.

E, soprattutto, non tradiamo Gesù Cristo, e l’umanità nuova che egli ci guadagna col suo sangue, per trenta denari. Non lasciamoci occupare dal male, dalle lusinghe del subdolo tentatore, che ha conquistato il cuore di Giuda, sospingendolo al baratto. Abbiamo sentito proclamare: «Giuda andò dai capi dei sacerdoti e disse: “Quanto volete darmi perché io ve lo consegni”? E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnare Gesù». 

Non barattiamo Cristo, Dio, per avere in cambio miseria, credendo di fare un affare. Qualche volta ci vendiamo e vendiamo i fratelli per meno di trenta denari. C’è qualcuno che crede, come si diceva poco fa, di fare grandi affari vendendo Cristo, rinnegandolo, mettendosi dalla parte di chi lo combatte. Guai a noi se facciamo nostro il mestiere di Satana, che invade Giuda e fa di tutto per distruggere l’opera di Dio, desolando le coscienze, spargendo il dubbio sulla fede, facendo credere che il Vangelo è cosa superata. 

Nei prossimi giorni della Settimana santa incontriamo davvero Gesù Cristo che vive la sua passione d’amore. Per partecipare al suo impegno di rinnovamento, al suo sacrificio, fermiamoci a pregare, a meditare. Cerchiamo di giungere a faccia a faccia con Lui. Dichiariamo la nostra disponibilità ad ascendere, a seguirlo nella strada dell’amore, per costruire una chiesa più unita nella comunione con Lui e nella sua missione, per costruire un mondo più fraterno, equo e pacifico. Ieri sera, a Fusignano, di fronte ai giovani che rinnovavano la loro professione di fede, ho letto il decreto con cui la nostra Diocesi indice il Sinodo dei Giovani. Preghiamo perché sia davvero momento di crescita nella testimonianza e nella missione, a gloria di Dio e del suo Regno.

OMELIA per le ESEQUIE di SUOR AGNESE GIOVANNETTI
Faenza - Convento delle Clarisse, 5 aprile 2017
05-04-2017

Cara Suor Agnese, con la tua improvvisa partenza, quasi in punta di piedi, in questo periodo di intensa preparazione alla Pasqua, ci dai l’opportunità di pensare ulteriormente a ciò che deve e dovrebbe essere la nostra esistenza in Cristo risorto.

Come ogni persona consacrata al Signore hai vissuto in profonda intimità con lo Sposo, con la sua opera di redenzione globale, di trasfigurazione di tutte le cose.

Specie, con la tua professione di insegnante di pedagogia, filosofia e storia, – una vocazione che le tue Superiore ti hanno affidato ! -, hai scolpito nell’animo delle allieve e degli allievi una sensibilità particolare per tutto ciò che di vero, di buono e di bello l’umanità deve saper germogliare e far fiorire, vivendo Cristo.

Lo spirito di povertà, in te instillato dai tuoi santi fondatori, san Francesco d’Assisi e santa Chiara, ti ha resa più disponibile e più obbediente, più ricettiva dello Spirito, serva ancor più fedele all’opera di umanizzazione di Colui che ci rende più noi stessi divinizzandoci.

La contemplazione, estasi d’amore verso Colui che incarnandosi eleva alla dignità di figli e di figlie di Dio, ti ha forgiata religiosa fedele, meticolosa nella perfezione delle pratiche quotidiane, assidua al colloquio col Padre. Ti ha formata ad un amore esigente, oblativo, sempre aperto all’accoglienza e alla cura di chi incontravi.

La tua vita religiosa, ricca di amore per Dio, per le tue sorelle, le tue allieve, è stata dedita non solo alla formazione della mente ma anche all’educazione alla fede, e del cuore. Ti ha vista modello di donna che crede, sull’esempio di Maria, Madre di Dio, in un nuovo umanesimo, in rinascimento delle persone e delle comunità. Quale donna e madre spirituale, che tiene fisso lo sguardo verso le cose di lassù, hai sollecitato tutti ad avere una visione delle cose e della vita entro prospettive di ascesa e di un futuro di speranza.

Cara Suor Agnese, ti ho incontrata per la prima volta, allorché, come nuovo vescovo, sono venuto per celebrare l’Eucaristia in questa chiesa, e ad incontrare la vostra bella comunità. Penso di non averti mai vista completamente in volto, perché ormai tutta curva, sorretta da un bastoncino, ma ho percepito dalle tue poche parole un’essenzialità e una verità di vita che raramente si incontrano. Subito, assieme alle tue sorelle, ti sei offerta a pregare per il vescovo e la sua mamma, divenuta gravemente ed irreparabilmente inferma.

Seppur nel nascondimento, lavorando nel campo a prima vista poco redditizio dell’educazione, ed anche dell’accompagnamento vocazionale, hai contribuito ad edificare la tua comunità e questa città nelle sue fondamenta morali e civili. Il Signore ti ricompensi.

Sappiamo come comunità credente che il nostro Redentore, come ci ha detto la prima Lettura, tratta dal Libro di Giobbe, è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere. Noi tutti qui presenti lo vedremo con te. Noi stessi lo contempleremo faccia a faccia (cf Gb 19, 1.23-27a). Il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, quando fissiamo lo sguardo sulle cose invisibili che sono eterne e che ci attendono (cf Cor 4, 14-5, 1).

Gioiamo ed esultiamo insieme, noi ancora su questa sponda terrena e tu, già pervenuta alla spiaggia del giorno senza tramonto, perché tutto ciò che il Padre ha dato al Figlio non andrà perso, ma verrà risuscitato nell’ultimo giorno.

Celebrando l’Eucaristia viviamo con te, e con tutti coloro che ci hanno preceduto nel segno della fede, in Colui che, incarnato, tiene unite in sé le due sponde della vita. Viviamo la comunione d’amore che stabilizza il nostro affetto per te e la tua continua vicinanza a noi.

In Dio, il Signore dei viventi, accompagna la tua comunità religiosa e questa diocesi.

OMELIA nel XX anniversario della morte del Servo di Dio DANIELE BADIALI.
Faenza - Basilica Cattedrale, 18 marzo 2017
18-03-2017

Al termine del cammino odierno sui luoghi di padre Daniele Badiali, servo di Dio, guardiamo ancora una volta a lui, perché ci ha insegnato ad amare il Signore Gesù sino a dare la vita per Lui. Don Daniele è stato ed è uno di noi, figlio di questa regione, ricca di persone ancorate alla terra e alla fede. Figura splendida, essenziale, come sono essenziali le famiglie semplici e solide del mondo da cui proveniva. La sua fede diventa sempre più radicata nella vita, contrassegnata da una ricerca a tratti inquieta e mai appagata, come quella dei profeti.
Era divenuto chiaro per lui, irrobustito nel dono, attraverso anche il servizio civile con la Caritas, che non si può essere felici da soli, rinchiusi nel proprio io. La propria vita va spesa, gettata come un seme nei solchi della terra, morendo a se stessi per dare frutto.
Caro don Daniele, grazie per questo! Per averci insegnato che si cresce, sulle orme di Cristo, percorrendo la strada della croce, ossia la strada dell’amore: un amore che non esita a farci sempre più di Dio e a svuotarci sino all’estremo. A don Daniele capitò di farlo, in maniera vertice, quando la jeep su cui viaggiava tra le Ande, assieme a sette giovani, tra i quali alcuni volontari italiani, fu bloccata da un malvivente. Questi voleva sequestrare la volontaria Rosanna Picozzi, per ottenere un riscatto. Don Daniele si oppose e offerse se stesso, dicendo: «Vado io». Due giorni dopo fu trovato ucciso. Aveva 35 anni. Ad una fine così drammatica era giunto preparato. Non ci arrivò comunque, a caso. La sua vita diventava ogni giorno sempre più intensa. Le ore di sonno  erano pochissime. Era come divorato dalla gente. Ai suoi amici confidava che si sentiva un prete ai primi passi del cammino d’amore, quel cammino che sfocia sulla croce, e che induce a vivere il dono di sé sino in fondo. Più di una volta parlava della morte e della necessità di non perdere tempo. S. Ecc. mons. Tarcisio Bertozzi, il vescovo di Faenza- Modigliana che lo mandò in Perù come sacerdote «fidei donum», ebbe modo di dire che padre Daniele, nell’ultimo tratto della sua vita, sembrava vivesse uno sviluppo spirituale molto veloce. A don Daniele non piaceva di perdere tempo. Viveva l’ansia di condurre i giovani e la gente a Cristo. Voleva vivere in piedi… tra gli ultimi, attendendo l’incontro con il Signore.
Grazie, allora, padre Daniele perché ci hai insegnato ad ascendere, ad affrettare il passo sul cammino dell’amore a Dio.
Cari giovani, come sapete, è nelle intenzioni della nostra Diocesi di celebrare un Sinodo dei giovani, con i giovani, per i giovani. Al centro di esso si porrà la bellezza dell’incontro con Gesù e l’impegno missionario che ne scaturisce. In quell’occasione verrà  presentata ai giovani, assieme ad altri insigni santi di questa Diocesi, anche la figura di padre Daniele, proprio per il suo grande slancio missionario. In una lettera del 18 giugno 1996 indirizzata a don Elio Tinti, allora rettore del Seminario regionale di Bologna, scrive: «Oggi più che mai sento che la vita si gioca o a favore di Dio o contro di Lui. E siamo noi cristiani con la nostra vita che dobbiamo saper morire per “salvare Dio”. È un’avventura dolorosissima ma bellissima, unica, che non oserei mai cambiare per tutto l’oro del mondo».
Sempre nello stesso anno – egli era ritornato in Italia per le gravi condizioni di salute di Mons. Bertozzi -, tenendo un’omelia in Seminario a Bologna, nella quale lancia ancora una volta il suo grido allarmato sul rischio che anche nelle nostre terre si «perda Dio», afferma: «Sento necessario un cambio forte nella trasmissione della fede. Le parole per tanti giovani scivolano nel vuoto. Tu devi essere la prova di Dio con la tua vita. A te è chiesto di essere santo […]». «Più che le campagne pubblicitarie serve la testimonianza personale, la gente deve vedere che ho un gran bisogno di Dio. Senza questo, le parole suonano come un inganno».
Don Daniele aveva chiaro il problema della trasmissione della fede. Un problema che si è acuito nel nostro territorio. Ribadiva l’insegnamento del beato Paolo VI, il quale soleva ripetere che la gente crede di più ai testimoni che non ai maestri. Ciò rimane vero anche oggi ed evidenzia l’urgenza di una comunicazione più pertinente della fede. Si tratta di una comunicazione che presuppone l’esperienza di un incontro profondo con Gesù, di una preghiera che non si riduca a vedere solo il proprio io, e non  Dio. Il vero missionario, quello più efficace, è colui che vive Gesù, dimora in Lui, colloquia con Lui, vive nell’intimità con Lui, l’Inviato per eccellenza del Padre.
Ringraziamo, allora, padre Daniele perché ci ha insegnato ad essere portatori di Cristo tra la gente, sapendolo incontrare e servire tra i poveri. Ringraziamolo per la sollecitazione ad essere assetati di Dio, a tenere vivo l’anelito missionario.
Il Vangelo odierno (cf Gv 4,5-42) suggerisce che se sappiamo incontrare Gesù e se sappiamo rispondere alla sua sete di essere amato, Egli ci darà se stesso, un’«acqua» che diventa sorgente inesauribile per la nostra vita e la nostra missione. Nella Messa di questa sera accogliamo il dono di Dio, alimentiamoci di Lui, per essere vita e cibo per i nostri fratelli.

OMELIA per la I domenica di QUARESIMA
Faenza - Basilica cattedrale, 5 marzo 2017
05-03-2017

Le tentazioni vinte da Gesù (cf Mt 6, 24-34), ritiratosi nel deserto prima della sua missione, riguardano anche noi. Ci vengono presentate dalla Chiesa, quando si comincia la Quaresima, periodo di conversione per eccellenza, per mostrare la via che dobbiamo percorrere per essere  sempre di più persone di Cristo, suoi, come Lui. Cosa bisogna fare per essere persone nuove, che cambiano il mondo, le sue logiche di consumismo materialista, di dominio dell’altro, di rifiuto di Dio, di venerazione del male? Purtroppo, anche tra i credenti, rimane sempre qualche angolo di venerazione del male. Esso, infatti, non è mai del tutto estirpato in radice, come quella gramigna che una volta strappata, rispunta sempre, perché rimangono le sue ramificazioni più profonde. Cosa bisogna fare per combattere il male e vincere col bene?
Per rinascere come persone vittoriose sul male imitiamo Gesù, compiamo le sue scelte, amiamo Dio, non noi stessi sopra ogni cosa.
Le tre tentazioni subite da Gesù vengono riproposte a noi per indicare il cammino di conversione, instaurando quasi un corpo a corpo con Satana. Questi, purtroppo esiste, e lo sperimentiamo continuamente, anche in noi. È lui che induce al male. Egli non smette di lavorare contro Cristo e di aggredire la sua Chiesa e le sue istituzioni, affinché siano indebolite da scandali, affinché alligni la divisione tra gli stessi credenti.
Prima tentazione per Gesù: «Dì che queste pietre diventino pane»! Gesù digiunava da tempo ed era affamato. Dà questa risposta: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». Per la vita dell’uomo il pane è importante, fondamentale. Lo stesso Gesù, di fronte alle folle affamate, compie il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Ma per vivere da veri uomini e da cristiani vi è qualcosa di più importante ed essenziale. Occorre ricercare un altro cibo di cui le persone hanno estremamente e sommamente bisogno: il cibo che è Dio, il bene più grande. Noi siamo fatti di corpo e di anima. Siamo un tutt’uno. Dobbiamo curare e nutrire  entrambi. Tra le due cose, però, ha il primato il nutrimento del nostro spirito, senza dimenticare, ovviamente, di alimentare il corpo. Mens sana in corpore sano, dicevano gli antichi. Chi mette al primo posto la coltivazione dello spirito, Dio – questo è un compito sempre attuale, all’inizio e durante la propria missione – si impegnerà, spronato dal Padre stesso, a servizio dei propri fratelli, procurerà per loro il pane, il vestito, si adopererà per creare le condizioni sociali, economiche, politiche e culturali perché possano vivere in piena libertà e possano crescere integralmente. Chi non ama Dio al di sopra delle cose materiali, della tecnica, della stessa cultura, rischia di costruire un mondo ove tutte queste cose, perché assolutizzate, diventano dispotiche nei confronti dell’uomo. Lo rendono schiavo, strumento o cosa.
Seconda tentazione: «Buttati giù dal pinnacolo del tempio, così potremo vedere uno stormo di angeli in volo che si precipita a salvarti». Il seduttore, Satana, vuole insegnare a Cristo a fare il Messia. Come? Mediante il sensazionalismo, compiendo miracoli a ogni piè sospinto per sbarlodire, per mostrare alla gente che Dio è suo schiavetto, è a suo servizio, per la sua gloria. Il tentatore antico vorrebbe portare la divisione in Dio stesso e cioè che Cristo non lavorasse per la gloria del Padre, per l’unità dell’uomo con Dio, con la comunità d’amore che è la Trinità. Ebbene, Gesù rifiuta di compiere miracoli per la propria gloria, strumentalizzando il Padre a proprio vantaggio. Quante volte anche noi operiamo nella Chiesa per la nostra gloria e non a vantaggio di Cristo e di Dio, per farli conoscere ed amare più di ogni altra cosa. Per i credenti, come avverte papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, può esistere il pericolo di cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere personale (cf n. 93). Ci può essere, cioè, un modo sottile di cercare i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo (cf Fil 2,21) e del Regno di Dio.
Terza tentazione: «Adorami! E ti darò tutto il potere del mondo». Nella sua esistenza, come Gesù, ogni persona deve scegliere tra il bene e il male, tra Dio e il Demonio, principio del male. Quante volte siamo posti di fronte all’urgenza di essere o di Dio o del principe del male. Quante volte siamo chiamati ad optare tra la vita che si vota al male, ossia alla logica del dominio e del potere sugli altri, e il servizio alla loro libertà e alla loro crescita umana e cristiana! In più occasioni siamo sollecitati a cedere a  mode o a menzogne, ammantate dalla parvenza di civiltà. Siamo sospinti ad assecondare la voglia di rispondere alla violenza con la violenza, di giustificare superficialmente il crimine dell’uccisione del nascituro, di elevare l’arbitrio a diritto, di vendere o comprare per tre denari il più debole, di approfittare della propria posizione per fare i propri interessi, di voler togliere la pagliuzza che è nell’occhio dell’altro, senza pensare alla trave che è nel nostro. Oggi abbiamo bisogno di persone coerenti, oneste, dedite spassionatamente al servizio altrui, con un cuore che non sia covo del sospetto, della malevolenza. Abbiamo urgente bisogno di «buoni cristiani ed onesti cittadini», ripeteva sovente don Bosco, che i faentini dicono di amare.
Il brano del Vangelo delle tentazioni e delle scelte di Gesù sia per tutto il periodo della Quaresima, ma non solo, un punto di riferimento costante, almeno come lo è il nostro telefonino, sempre consultato e ricercato se ce lo scordiamo da qualche parte. Solo sulla base delle scelte di Gesù, assunte nella nostra vita, potremo costruire un nuovo umanesimo, una nuova civiltà dell’amore. Tenendo fisso lo sguardo su Cristo potremo ascendere al monte là ove la sua croce mostra a noi l’umanità in piena comunione con il Padre, umanità trasfigurata a gloria di Dio.

OMELIA per il MERCOLEDI’ delle CENERI
01-03-2017

«Ritornate a me con tutto il cuore…». «Laceratevi il cuore e non le vesti» (cf Gl 2,12-18). L’invito del Signore, mediante il profeta Gioele, è rivolto ai singoli ma, in particolare, a tutto il popolo che abitava la terra di Giuda. Lo stesso invito del profeta vale anche per noi, popolo cristiano, che inizia il cammino quaresimale. Non esitiamo a convertirci. Incontrando il Signore sperimentiamo la gioia del suo perdono.
Per l’itinerario quaresimale la Chiesa, come peraltro suggerisce il vangelo di Matteo (cf Mt 6, 1-6.16-18) ci indica gli strumenti ascetici e pratici per percorrerlo con frutto: preghiera, penitenza (il digiuno), elemosina, ovvero le opere di carità. Sono tre pratiche per compiere un rinnovamento interiore e comunitario. I gesti esteriori possono cambiarci interiormente se sono compiuti per piacere a Dio, determinandoci a servirLo, con semplicità e generosità.
Il rito delle ceneri che compiremo a breve vuole proprio indurre alla conversione del cuore a Dio. L’imposizione delle ceneri, infatti, – con la doppia formula – «Convertitevi e credete al Vangelo», oppure: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai» –  riveste un duplice significato: il primo relativo al cambiamento interiore, alla conversione e alla penitenza, mentre il secondo richiama la precarietà dell’umana condizione.
La Quaresima è per la Pasqua, per la trasfigurazione in Cristo della nostra esistenza. Non per una mortificazione e un’ascesi fine a se stesse. Siamo chiamati ad essere più intensamente di Cristo, suoi, combattendo, con  «armi» spirituali, il male, le passioni cattive, i vizi. L’uomo e il credente hanno sempre bisogno di essere purificati interiormente, di essere disintossicati dall’inquinamento del peccato e del male; di essere affrancati dalla schiavitù dell’egoismo; di essere resi più attenti e disponibili all’ascolto di Dio e al servizio dei fratelli. Tutto questo dobbiamo concretamente realizzarlo sia come membra della Chiesa sia come cittadini della polis.  In vista di ciò, Papa Francesco suggerisce una conversione spirituale, pastorale e pedagogica, mediante la sua Lettera apostolica Evangelium gaudium, che siamo impegnati a recepire come Diocesi intera.
Siamo sollecitati a vivere più intimamente uniti all’Inviato dal Padre, a Colui che si incarna nell’umanità per trasfigurarla secondo il disegno di Dio. La conversione ci è anche richiesta dall’Amoris laetitia con riferimento alla pastorale famigliare. Nella conversione stiamo cercando di mobilitare anche i giovani attraverso la preparazione del Sinodo dei giovani, con i giovani, per i giovani.
La conversione non deve essere considerata come un cambiamento astratto o solo come un mutamento di pensieri, che non ci coinvolge come costruttori di una Chiesa più missionaria e di una nuova società, più fraterna, giusta e pacifica.
All’inizio di una nuova Quaresima consentitemi si segnalare un’altra via privilegiata di conversione che abbiamo a disposizione, ma non sempre, per varie ragioni, la valorizziamo, ossia il sacramento della Riconciliazione. Mediante questo sacramento non solo riceviamo il perdono del Signore, a condizione che ci sia il pentimento e il desiderio di vivere più autenticamente come Gesù. Attraverso la riconciliazione con Gesù Cristo e i fratelli, ci è anche consentito di «imparare» di più Gesù Cristo, di viverlo più pienamente, di averne un’esperienza più profonda, quella dei suoi sentimenti, del suo essere tutto del Padre. La riconciliazione o la confessione, come eravamo abituati a dire fino a qualche tempo fa, è quel sacramento con il quale perveniamo ad essere sempre di più uomini in/di Cristo, al massimo grado della perfezione, ossia come persone in piena comunione con Dio, totalmente dediti al dono di noi stessi, alla lotta contro il male col bene, perdonando come Lui. Mediante la Riconciliazione diventiamo più compiutamente noi stessi, perché ordinati all’altro e, soprattutto, al veramente Altro, cioè a Dio-Amore in tre Persone.
Detto altrimenti, mediante il sacramento della riconciliazione, che ci assimila sempre di più a Cristo, Uomo-Dio, diveniamo gradualmente figli nel Figlio, un solo uomo (cf Gal 3,28), un solo «noi-di-persone-in-comunione» in Cristo.
Per quanto detto sin qui, la confessione deve apparirci come una via di crescita nella fede in Gesù, ma anche come una strada di auto-educazione, di maggior compenetrazione di noi con il  Missionario per eccellenza. Nel prossimo periodo quaresimale impegniamoci a convertirci, non solo guardando al volto del povero. Come ricorda papa Francesco nel suo Messaggio per la Quaresima, il volto del povero e dell’immigrato dev’essere sollecitazione a cambiare vita. Ogni Lazzaro in cui ci imbattiamo è occasione concreta, suggerisce il pontefice, per convertirsi, per essere maggiormente se stessi mediante il dono. Ma guardiamo anche direttamente al Cristo, al suo volto. Dialoghiamo con Lui. Conosciamolo di più, divenendo più suoi. È Lui, infatti, che ci salva e redime. È Lui che, ultimamente, ci consente di amarlo nel prossimo. Mediante l’Eucaristia nutriamoci di Cristo per essere come Lui dono pieno al Padre e al prossimo.

OMELIA per la FESTA di SAN PIER DAMIANI, patrono secondario della città e diocesi
Faenza - cattedrale, 21 febbraio 2017
21-02-2017

La Provvidenza ha dato a questa città e alla nostra Diocesi come patrono una grande personalità di studioso, di eremita, di uomo di Chiesa, il quale è oggi ricordato da tutti noi soprattutto perché fu innamorato di Cristo. Ne conserviamo le spoglie. Ed è avvenuto perché un’improvvisa malattia, che lo colse durante il viaggio di ritorno da Ravenna – ove si era recato per ristabilire la pace con l’Arcivescovo locale, che aveva appoggiato l’antipapa, provocando l’interdetto sulla città -, fu costretto a fermarsi a Faenza. Qui, nel monastero benedettino di Santa Maria Vecchia fuori porta, morì nella notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1072. Le sue spoglie mortali vennero in seguito traslate in questo duomo, ove le vediamo e le veneriamo in uno degli altari laterali.

Cari fratelli e sorelle, è una grande grazia che nella nostra cattedrale abbiamo costantemente sotto gli occhi l’urna che contiene le reliquie insigni di una personalità così esuberante, ricca e complessa, come quella di san Pier Damiani. Egli fu, in particolare, un riformatore della Chiesa, con la sua parola, il suo esempio, la sua autorevolezza. Con il suo ardore, e attraverso le varie missioni che gli affidarono i papi, contribuì a renderla più evangelica, più missionaria, più degna del suo Fondatore, meno schiava del potere temporale. Il santo cardinale, che mai accettò volentieri di essere un porporato, tant’è che alla fine ottenne da papa Alessandro II di ritornare ad essere eremita, può essere considerato un modello di vita cristiana e di missionario.

La poliedricità e la significatività della sua persona per la Chiesa e il nostro tempo inducono a presentarne la bella figura, assieme a quella di altri santi faentini, ai nostri giovani, specie durante il prossimo Sinodo dedicato ad essi.

Ma occorre spiegare di più e meglio perché siamo indotti a guardare a san Pier Damiani come modello di credente e di testimone luminoso del Vangelo.

Penso che dobbiamo guardare a lui anzitutto perché nella sua vita seppe realizzare una felice sintesi tra vita eremitica, contemplativa e attività pastorale. È soprattutto di questo che noi – impegnati a far nuova la nostra Chiesa, mediante una conversione pastorale, quale ci è raccomandata da papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium –, abbiamo bisogno. Si può diventare comunicatori di una fede intensa se prima si è capaci di vivere intimamente con l’Inviato dal Padre, Gesù Cristo.

Sappiamo che san Pier Damiani fu eremita, anzi l’ultimo teorizzatore della vita eremitica nella Chiesa latina. Ma perché si è fatto eremita nel bel mezzo di una vita professionale che cominciava a dargli successo e un discreto tenore di vita? In lui era prepotente il desiderio di incarnare nella sua esistenza la radicalità evangelica, di amare Cristo sopra ogni cosa, senza riserve. Una simile spiritualità era, peraltro già felicemente omologata nella Regola di san Benedetto, che egli conosceva bene: «Nulla, assolutamente nulla, anteporre all’amore di Cristo».

Per realizzare il suo sogno spirituale, il rinomato maestro di arti liberali, sollecitato da due eremiti che egli aveva ospitato, entrò nell’eremo di Fonte Avellana. Dopo pochi anni è già priore e redige una Regola in cui sottolinea fortemente il «rigore dell’eremo». Questo doveva essere organizzato in modo tale da essere luogo di silenzio, preghiera, di prolungati ed austeri digiuni, di generosa carità e di obbedienza piena al priore. La vita eremitica era chiamata a condurre, attraverso soprattutto la meditazione della Sacra Scrittura, al colloquio con Dio, all’intimità con Lui. San Damiani giunse a definire la cella dell’eremo come «parlatorio ove Dio conversa con gli uomini».

Anche il semplice credente, che non è eremita, ha lo stesso fine. Per questo, Benedetto XVI, presentando la figura di san Pier Damiani nell’Udienza generale del 9 settembre 2009, ebbe a dire agli astanti: «Questo risulta importante oggi pure per noi, anche se non siamo monaci: saper fare silenzio in noi per ascoltare la voce di Dio, cercare, per così dire un “parlatorio” dove Dio parla con noi. Apprendere la Parola di Dio nella preghiera e nella meditazione è la strada della vita».

San Pier Damiani, che sostanzialmente fu un uomo di preghiera, di meditazione, di contemplazione, fu anche un fine teologo: un teologo che, però, non si estraniava dalla realtà quotidiana. Sapeva tradurre il dialogo d’amore della Trinità, che raggiungeva nell’estasi, e approfondiva con la ragione, nella vita comunitaria dei suoi eremi. Così, la sua meditazione sulla figura di Cristo crocifisso aveva riflessi pratici significativi. L’amore per la Croce di Cristo, a cui era dedicato l’eremo di Fonte Avellana, l’affascinava, e per lui era il principio, la cartina tornasole di una vita cristiana autentica. Soleva ripetere: «Non ama Cristo, chi non ama la croce di Cristo» (Sermo XVIII, 11, p. 117). Egli si qualificava così: «Petrus crucis Christi servorum famulus – Pietro servitore dei servitori della croce di Cristo» (Ep, 9, 1).

Come ricordato all’inizio, san Pier Damiani seppe raggiungere una meravigliosa sintesi fra vita eremitica e vita pastorale. L’intima unione con Cristo, l’amore per Lui, lo rese disponibile per la riforma della Chiesa, vincendo la sua ritrosia ad uscire dal monastero, obbedendo ai papi che lo incaricavano di missioni importanti. Egli desiderava che l’immagine di una Chiesa «santa ed immacolata», si incarnasse nella realtà del suo tempo. Non esitò a denunciare lo stato di corruzione esistente nei monasteri e tra il clero, a motivo, soprattutto della prassi del conferimento, da parte delle Autorità laiche, dell’investitura degli uffici ecclesiastici: diversi vescovi ed abati si comportavano da governatori dei propri sudditi più che da pastori d’anime.

Egli, dunque, si consumò, con lucida coerenza e grande severità, per la riforma della Chiesa e della vita cristiana. Donò tutte le sue energie spirituali e fisiche a Cristo e alla Chiesa, restando però sempre, come amava definirsi Pietro, ultimo servo dei monaci.

Partecipando all’Eucaristia, non dimentichiamo che la comunione con Cristo che muore e risorge impegna non solo i monaci, i preti e i vescovi, ma tutti i battezzati nel far nuove tutte le cose, a cominciare dalla propria vita, dalla stessa Chiesa