OMELIA per la MESSA in COENA DOMINI

Faenza, Basilica Cattedrale - 24 marzo 2016
24-03-2016

Gesù prima di morire ha compiuto un gesto che non solo si è scolpito nella memoria dei suoi discepoli ma di tutta la Chiesa, tant’è che ogni giovedì santo viene ripetuto. Anche questa sera ripeteremo la lavanda dei piedi. Un gesto inatteso da parte di un Dio. Il vescovo Tonino Bello, già vescovo di Molfetta, ha scritto parole memorabili sulla Chiesa del e col grembiule: ovvero su una Chiesa che si abbassa e si rende serva, mostrando nei fatti quanto ha compiuto Cristo stesso. Egli non ha considerato un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso e ha assunto la condizione di un servo. L’unico paramento che Gesù Cristo ha indossato nell’ultima cena è stato proprio un grembiule per lavare i piedi ai discepoli.

La Chiesa che si cinge i fianchi col grembiule e si inginocchia di fronte agli uomini per lavare i loro piedi mostra la sua essenza più propria: essere comunità di persone al servizio dell’umanità non solo con opere di assistenza caritativa, ma soprattutto per offrire la salvezza di Cristo, la vita di Dio. La Chiesa del grembiule è Chiesa della prossimità e dell’accoglienza, è Chiesa che divinizza e trasfigura, che costruisce nella storia un popolo nuovo.

Nel Compendio della Dottrina sociale troviamo spiegato bene la complessità del servizio che la comunità cristiana rende al mondo: «La Chiesa, partecipe delle gioie e delle speranze, delle angosce e delle tristezze degli uomini, è solidale con ogni uomo ed ogni donna, d’ogni luogo e d’ogni tempo, e porta loro la lieta notizia del Regno di Dio, che con Gesù Cristo è venuto e viene in mezzo a loro. Essa è, nell’umanità e nel mondo, il sacramento dell’amore di Dio e perciò della speranza più grande, che attiva e sostiene ogni autentico progetto e impegno di liberazione e promozione umana. La Chiesa è tra gli uomini la tenda della compagnia di Dio — “la dimora di Dio con gli uomini” (Ap 21,3) — cosicché l’uomo non è solo, smarrito o sgomento nel suo impegno di umanizzare il mondo, ma trova sostegno nell’amore redentore di Cristo. Essa è ministra di salvezza non astrattamente o in senso meramente spirituale, ma nel contesto della storia e del mondo in cui l’uomo vive, dove è raggiunto dall’amore di Dio e dalla vocazione a corrispondere al progetto divino» (n. 60).

In breve, il servizio della Chiesa al mondo non si riduce all’opzione preferenziale dei poveri, pur importante. Implica un’azione di liberazione e di umanizzazione su più piani, nei confronti di povertà molteplici: materiali, spirituali, morali, culturali, istituzionali. La diakonia di Cristo, e per conseguenza dei cristiani, nei confronti del mondo, non è uniforme, riducibile all’attività assistenziale, caritativa. Si tratta di un servizio più ampio, in termini di redenzione globale, che si articola in diversi ambiti dell’esistenza.

Nello scorso Convegno della Chiesa italiana a Firenze, il servizio della Chiesa al mondo è stato espresso mediante cinque verbi o cinque vie da percorrere: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare. I cinque verbi indicano le diverse fasi o momenti del servizio che la Chiesa è chiamata a rendere all’umanità per renderla nuova, trasfigurata dall’amore di Cristo. Come ho spiegato nella Lettera pastorale di quest’anno, il servizio della Chiesa, che è riassumibile nell’annuncio e nella testimonianza della misericordia di Dio, va compiuto con riferimento a tutti gli ambiti esistenziali: la famiglia, l’educazione, il lavoro, la finanza, l’economia, la politica, i mezzi di comunicazione sociale, la cultura, la salute, la comunità internazionale. La misericordia, vita di Dio comunicata a noi, va accolta e testimoniata in tutte le attività della nostra esistenza. Accogliendo la vita divina diventiamo capaci di trasfigurare l’umano e di generare nuovi umanesimi nella famiglia, nel lavoro, nell’economia, nella politica.

La lavanda dei piedi dobbiamo, dunque, comprenderla bene. Si tratta di un gesto che implica molto di più di ciò che effettivamente mostra. Non dimentichiamo la risposta di Gesù all’obiezione di Pietro che non voleva che il Cristo – solitamente erano i servi a farlo – gli lavasse i piedi: «Se non ti laverò, non avrai parte con me» (Gv 13, 1-15). Come a dire che se non si fosse lasciato lavare i piedi non sarebbe stato redento, non avrebbe fatto comunione con Lui, non sarebbe stato purificato come persona intera. Gesù assume la condizione di un servo perché i suoi discepoli imparino ad essere umili, apprendano la sua logica di amore, di dono e di servizio. Con la lavanda dei piedi intende dire che essi debbono prodigarsi a servire gli altri non solo con semplici gesti domestici, di cortesia, ma soprattutto offrendo Colui che salva, lo stesso Gesù, che redime amando, lavando sì i piedi, ma soprattutto purificando tutta la persona.

La lavanda dei piedi, pertanto, dev’essere considerato più che un gesto di abluzione rituale o di igiene. È gesto che, stando anche alle parole di Gesù che fanno riferimento ad un «bagno che rende mondi», vuole indicare lo stesso battesimo, che realizza una purificazione integrale, il passaggio dalla morte alla vita nuova del credente.

Ma come abbiamo sentito nell’ultima parte del Vangelo proclamato, Gesù attribuisce al gesto della lavanda ai piedi anche un altro significato che non dobbiamo dimenticare. Dopo aver compiuto quel gesto sconvolgente, sedutosi a tavola, così si rivolge ai discepoli: «Capite quello che ho fatto per voi? […] Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (13,12.14). In questo modo Gesù indica ai suoi discepoli un servizio reciproco, tra fratelli. Lavando i piedi dei discepoli e chiedendo loro di fare altrettanto, Gesù invita anche a confessare a vicenda le nostre mancanze e a pregare gli uni per gli altri per saperci perdonare di cuore. In questo senso, merita ricordare le parole del santo vescovo Agostino che scriveva: «Non disdegni il cristiano di fare quanto fece Cristo. Perché quando il corpo si piega fino ai piedi del fratello, anche nel cuore si accende, o se già c’era si alimenta, il sentimento di umiltà […] Perdoniamoci a vicenda i nostri torti e preghiamo a vicenda per le nostre colpe e così in qualche modo ci laveremo i piedi a vicenda» (In Joh 58,4-5).

Abbiamo bisogno tutti di chiedere a Dio perdono, di perdonarci tra fratelli, vescovo e sacerdoti; tra vescovo, sacerdoti, fedeli laici, insieme. Chiediamo perdono per le mancanze contro la comunione, per le omissioni nell’evangelizzazione, per l’indolenza nel riformare le strutture, per la tiepidezza nell’amare i più poveri, per non aver riconosciuto in loro Cristo stesso. Partecipando a questa eucaristia nella «cena del Signore», in cui è stato istituito anche il ministero sacerdotale, domandiamo perdono per il poco impegno nel discernimento vocazionale. Uniamoci a Cristo, il Sommo sacerdote che dà la sua vita per i suoi. Preghiamolo perché invii operai nella sua messe, e conservi quelli che già lavorano nella vigna: sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, laici e laiche, laici consacrati.