Faenza, cattedrale 29 novembre 2020.
Cari fratelli e sorelle, è questo un Avvento contrassegnato dalla presenza del Covid-19. La pandemia mette a nudo la fragilità della nostra esistenza. Sia pure tra molte incertezze e tanti atti d’amore da parte di chi cerca di aiutare i propri fratelli a «mani nude» – non è ancora disponibile un vaccino, anche se si intravvede una luce in fondo al tunnel -, stiamo apprendendo che dobbiamo unire le forze, prenderci cura gli uni degli altri. C’è bisogno di un più di fraternità, di amicizia sociale, di crescere in un amore aperto a tutti, specie ai più deboli, come ci sprona a fare papa Francesco con la sua nuova enciclica Fratelli tutti.
Ci rendiamo conto che, nonostante la nostra vulnerabilità, c’è del positivo nella nostra vita: c’è in noi luce, nutriamo un anelito di bene, siamo frammento di Dio. Ma non siamo la luce, il bene, Dio. E, tuttavia, la loro presenza in noi, proprio perché incompiuta, alimenta il vivo desiderio di possederli pienamente. Santa Teresa del Bambino Gesù si struggeva nell’anima perché non vedeva Dio e non poteva amarlo faccia a faccia. Diceva: «muoio perché non muoio». Più lo amava e più ne percepiva la carenza nella sua vita. Provava una nostalgia profonda di Assoluto. Viveva un’attesa continua della sua venuta.
In questo periodo di pandemia, nei momenti di sconcerto e di sofferenza, ma anche di solitudine e di accresciuta precarietà, il nostro spirito palpita d’amore per Dio, cerca luce, è come un fiore con la corolla rivolta al cielo. Siamo inquieti perché non possiamo compiere tutto il bene che vorremmo, impediti come siamo dalle limitazioni nel riunirci, nell’incontrarci. Sperimentiamo soprattutto l’incapacità di salvarci da soli. Mai come in questo periodo si sente l’urgenza che Dio, che è nostro Padre e redentore – ce lo ha rammentato il profeta Isaia -, ci dia una mano. Esseri noninfiniti, bensì creature finite, incomplete, fragili, siamo in attesa della pienezza. Mai come in questo momento storico capiamo cosa significa attesa, Avvento. Rispetto ai nostri mali, sembra che Dio sia in ritardo. Il grande profeta ci presta, allora, le parole per la nostra preghiera, per mettere urgenza al Signore e sollecitarlo a rimettersi in cammino verso di noi. Capovolge, in certo modo, la nostra idea di conversione, che è il girarsi delle creature verso il Creatore. Ha la «sfrontatezza» di invocare la conversione di Dio, gli chiede di voltarsi verso di noi, di camminare con noi e di darci la sua forza: o Dio ritorna per amore dei tuoi figli… «Se tu squarciassi i cieli e scendessi» (Is 63, 19b).
Il punto archimedico della nostra preghiera in questo inizio travagliato di Avvento è la fede, una fede filiale. È l’esperienza di un amore paterno già ricevuto e sempre disponibile. La paternità di Dio, ci ricorda sempre Isaia, non è mai finita. L’amore di Dio non è condizionato dalla nostra lontananza, dal peccato che ci nega al suo abbraccio. Se noi ci sentiamo smarriti e dispersi, Dio ci cerca e viene incontro, ci riunisce. Se, a causa dei mali e delle prove, come la pandemia e la morte dei nostri cari o la loro malattia, siamo diventati inerti e freddi nell’animo come l’argilla del ceramista, il Signore, con il calore delle sue mani può ancora darci forma e bellezza, può completare in noi la sua opera d’arte. Se siamo come foglie avvizzite, se sembriamo un popolo disperso, provato e rassegnato, sconfitto e senza forza, con il cuore in frantumi e indurito, la discesa di Dio in mezzo a noi ci aiuta a ricominciare a vivere uniti nell’amore e nella speranza, con fraternità. Sia, allora, questo Avvento, nonostante le sconfitte e i mali che si abbattono sulla nostra umanità, sulle nostre comunità e famiglie, un’occasione di rinascita, grazie a Colui che è sempre veniente: per noi, per la nostra salvezza, per alimentare la nostra speranza, perché Egli è il principio di una nuova creazione. Come ci invita Gesù nel Vangelo secondo Marco (Mc 13, 33-37), siamo attenti e vegliamo, ossia non smettiamo di tendere a Colui che viene. Non distraiamoci da Colui che è principio e fine della nostra vita. Non cessiamo di sperare, proprio ora che iniziamo a vedere la luce in fondo al tunnel di questa pandemia. La luce dell’alba che si affaccia e annuncia un giorno radioso non deve trovarci assonnati, ma deve destarci. Deve renderci solleciti nell’accelerare i nostri passi nella costruzione di un mondo nuovo, più fraterno, aperto a tutti. In questa Eucaristia facciamo comunione con Colui che si incarna, muore e risorge per noi. Riceviamo il suo Spirito d’amore per vivere d’amore per Dio e i fratelli, per far nuove tutte le cose, le relazioni e le istituzioni. Con l’aiuto della nuova edizione in italiano del Messale Romano, il libro dell’assemblea liturgica, che incominciamo ad utilizzare con questa prima domenica di Avvento, – che è libro non solo del presbitero bensì di tutta la comunità -, preghiamo il Padre di non abbandonarci alla tentazione, ma di liberarci dal male, dalla paralisi interiore, per vivere meglio come popolo di Dio, coeso e dinamico nell’amore. E diciamo: «Vieni, Signore Gesù»! E così sia.
+ Mario Toso