Faenza, Cimitero dell’Osservanza 2 novembre 2020.
«Il mio Redentore è vivo. Ultimo si ergerà sulla polvere. Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso» (Gb 19,1.23-27a). Con queste parole Giobbe professa la sua fede nel Dio dei vivi ed è modello di speranza per noi. Dopo aver passato mille disgrazie Giobbe, anziché perdere la fiducia in Dio, cresce nella convinzione che Dio non lo abbandona e che lo vedrà faccia a faccia. Nulla lo potrà separare dal suo Dio, dall’amore per Lui, Padre della vita. Le molteplici prove e disgrazie, che hanno colpito la sua famiglia, le sue proprietà, i suoi affetti, non riescono a separare Giobbe da Dio che ne saggia il cuore e la fedeltà. Ne forgiano e purificano, piuttosto, la certezza che il Padre non può abbandonare i suoi figli nell’oblio, in preda al male e alla morte.
Cari fratelli e sorelle, le sofferenze, compresa la morte dei nostri cari, possono essere l’occasione in cui affiniamo il nostro amore per Dio. Tramite esse, comprendiamo maggiormente quanto siamo stati amati nella sventura, nei momenti difficili della vita. È l’amore di Dio che ci sostiene nei pericoli di morte, nelle nostre fragilità. Dio è fedele nell’amore per i suoi figli e le sue figlie. Non si scorda mai di loro. È vicino sempre. Porta con loro le croci della vita. Chi sperimenta l’amore di Dio e dei propri genitori non può mai dire di essere perduto, anzi può giungere a dire, per una illuminazione interiore dello Spirito, che ha trovato la vita per sempre. L’esperienza di immersione nell’amore di Dio, che ci avvolge e ci sostiene, se non siamo ripiegati su noi stessi, può aiutarci a comprendere meglio quello che sarà la nostra morte, ossia il passaggio da questa esistenza alla vita con Dio. La vita non è tolta ma trasformata, recita, non a caso, uno dei Prefazi. Chi ha ricevuto tanto amore in seno alla Chiesa e nella famiglia ha la possibilità di rendersi conto che la propria vita è un cammino non tanto verso una fine tragica e definitiva, verso il baratro che precipita, bensì è un aprirsi spontaneo alla vita, ad un più di amore, nonostante la drammaticità della morte stessa e la durezza della separazione da questo mondo.
Chi trova nella propria vita l’amore di Dio, della Chiesa, della comunione dei santi e dei propri famigliari può arrivare a dire, benché provato, malato, benché morente: «ho trovato la vita, la vivo, continuo a viverla». Sorretto dall’amore del Padre e dei suoi, il credente può sperimentare che, sebbene la sua vita terrena progredisce inesorabilmente verso i segni della decadenza e la morte corporale, in realtà si «apre» all’amore eterno di Dio, alla sua pienezza di vita, ad un mondo che continua e dura per sempre. Chi ama Dio ama la sua vita trascendente, che supera l’inevitabile contingenza, la caducità umana. La propria morte non può che apparire come un giungere là ove sempre si è dimorati: nell’Amore di Dio. Morire, dunque, non è perdersi o un finire per sempre, bensì uno sfociare nell’oceano della vita divina. È uno stabilizzarsi nell’Amore di Dio, che è principio e fine della vita di chi è pellegrino sulla terra. Per questo il mondo di quaggiù non può essere considerato il luogo di un’esistenza permanente e definitiva. Noi stessi, dopo la morte terrena, superandola, perché afferrati da Cristo che ci salva dalla voracità della morte, vedremo, sempre vivi, come affermava Giobbe, Dio. E abiteremo eternamente e gioiosamente con Lui.
La nostra morte non sarà, pertanto, un cadere nel nulla. Sarà, invece, un continuare a vivere, sarà il transitare ad un’altra dimensione, ove si vive con un più di libertà e di amore, la capacità di amare e di dono di Dio e di Cristo. Sarà l’incontro con Chi è l’Amore, quell’Amore che ci genera e ci chiama a rispondervi. Sarà, allora, tenerezza, nell’abbraccio di Dio, che ama eternamente come Padre, Figlio e Spirito santo. Sarà piena gioia per i figli che, in certa maniera, tornano a casa, ove la propria dignità sarà compiuta. Sarà consolazione e pace profonde, infinite. La nostra morte ci apparirà, in definitiva, una liberazione dalla caducità, dai limiti che condizionano negativamente la nostra capacità di amare. Così, finalmente, potremo sperimentare di amare di più, vedendo Dio faccia a faccia. Vedremo la sua luce.
In questa Eucaristia, celebrata in questa Chiesa, situata proprio a ridosso del luogo ove i nostri cari dormono in pace in attesa della risurrezione, viviamo sempre l’amore per Dio, la sua tenerezza. Un tale atto non può che essere anche un atto di fede in Colui che ci tiene in vita e che risuscita i suoi figli, non lasciandoli nella inconsistenza della polvere. Il Padre che chiama sin dall’inizio i suoi figli all’amore eterno e li educa a viverlo su questa terra, non li può lasciare abbandonati in una tomba. Li accoglie nella sua casa, per vivere e celebrare l’amore della famiglia dei figli di Dio col Padre.
Come Chiesa pellegrinante, che vive una fraternità universale, viviamo oggi anche un mondo di tenerezza sconfinata nei confronti dei nostri cari defunti, che attendono di entrare nell’abbraccio pieno di Dio. Il nostro cuore si commuove e si scioglie al solo pensiero di quanto ci hanno amati, dandoci la vita ma soprattutto la fede nell’Amore che non tramonta mai e vince ogni male. Preghiamo per loro che ci hanno voluto e continuano a volerci bene. Attraverso Gesù Cristo, al quale ci uniamo in questa Eucaristia, viviamo più intensamente il nostro amore per i nostri cari, perché abbiano la pienezza della vita e della gioia. Preghiamo anche per tutti i defunti a causa del Covid. Gesù Cristo ci rincuori e ci fortifichi nell’amore a Lui, che ha vinto il peccato e la morte.
+ Mario Toso