Faenza, cattedrale 30 giugno 2024.
Davanti alla Basilica di San Pietro sono collocate due imponenti statue degli Apostoli Pietro e Paolo, facilmente riconoscibili dalle loro prerogative: le chiavi nella mano di Pietro e la spada tra le mani di Paolo. Li troviamo anche nella nostra cattedrale e precisamente nella cappella dedicata alla Beata Vergine delle Grazie. Inizialmente, si trovavano nel presbiterio ove erano stati collocati dal cardinale che li aveva commissionati, ossia il cardinale Carlo Rossetti, vescovo di Faenza e legato pontificio. Non dimentichiamo che questa cattedrale compie 550 anni ed è dedicata a san Pietro, come lo era la precedente chiesa medievale sulla cui antica fondazione si trova l’attuale basilica. La tradizione cristiana da sempre considera san Pietro e san Paolo campioni inseparabili nell’annuncio e nella testimonianza del Vangelo di Cristo. Pietro e Paolo, benché assai differenti umanamente l’uno dall’altro, e malgrado non siano mancati conflitti nel loro rapporto, hanno realizzato un modo nuovo di essere fratelli, vissuto secondo il Vangelo, un modo autentico, reso possibile proprio dalla grazia del Vangelo di Cristo operante in loro. Solo la sequela di Gesù, nel quale siamo figli nel Figlio, conduce alla nuova fraternità. Nel brano del Vangelo di san Giovanni che abbiamo ascoltato poco fa, Pietro riceve da Gesù l’incarico di pascere le sue pecore. È lo stesso Pietro che, come ci narra l’evangelista Matteo, rende la propria confessione di fede a Gesù riconoscendolo come Messia e Figlio di Dio; lo fa anche a nome degli altri Apostoli. In risposta, il Signore gli rivela la missione che intende affidargli, quella cioè di essere la «pietra», la «roccia», il fondamento visibile su cui è costruito l’intero edificio spirituale della Chiesa (cf Mt 16,16-19). Ma in che modo Pietro è la roccia? Non perdendo la sua debolezza umana. Quando Gesù preannuncia la sua passione, morte e risurrezione, Simon Pietro reagisce proprio a partire da «carne e sangue»: egli «si mise a rimproverare il Signore: … questo non ti accadrà mai» (16,22). E Gesù a sua volta replicò: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo…» (v. 23). Il discepolo che, per dono di Dio, può diventare solida roccia, si manifesta anche per quello che è, un essere fragile. In Pietro appare evidente la tensione che esiste tra il dono che proviene dal Signore e le capacità umane. In questo episodio tra Gesù e Simon Pietro vediamo in qualche modo anticipato il dramma della storia dello stesso papato, caratterizzata proprio dalla compresenza di questi due elementi: da una parte, grazie alla luce e alla forza che vengono dall’alto, il papato costituisce il fondamento della Chiesa pellegrina nel tempo; dall’altra, lungo i secoli, emerge anche la debolezza degli uomini, che solo l’apertura all’azione di Dio può trasformare.
Pietro possiede un forte temperamento, è un entusiasta per natura, ma è anche incostante. Il che lo porta, oltre a scandalizzarsi di Gesù, a tradirlo. Durante l’interrogatorio di Gesù nel sinedrio, a fronte delle domande di due serve e di alcuni astanti, egli rinnega Gesù ben tre volte (cf Mt 26, 30-74). Tuttavia, Pietro con la Pentecoste, come gli altri discepoli, avrà un notevole cambiamento. Acquisterà maggiore sicurezza. Diventerà coraggioso. Sarà guida indiscussa della primitiva comunità cristiana. Pietro rimase punto di riferimento per la comunità cristiana in molteplici circostanze sia a Gerusalemme sia in altre città, in occasione di discussioni e di controversie.
Per parte sua, Paolo era un colto fariseo che insegnava nelle sinagoghe. Inizialmente fu un avversario dichiarato dei cristiani, sino a diventarne un fiero persecutore. Ma il Risorto non lo fece solo cadere da cavallo, sulla via di Damasco. Lo scosse interiormente, demolendo la sua presunzione di uomo religioso superiore e per bene. Se i Dodici, dopo l’Ascensione, integrano il loro numero con l’elezione di Mattia al posto di Giuda (cf At 1, 15-26), il Risorto stesso chiama Paolo (cf Gal 1,1). Paolo, pur scelto dal Signore come Apostolo, confronta il suo Vangelo con il Vangelo dei Dodici (cf Gal 1,18). Si preoccupa di trasmettere ciò che ha ricevuto e non si è inventato lui. Gli apostoli – e questa è una cosa che dovremo coltivare anche noi, impegnati nel cammino sinodale – sono missionari come comunità unita, tutt’intera, che si confronta alla luce di Cristo.
Quando andarono in missione, Pietro si rivolse ai giudei, Paolo ai pagani. E quando le loro strade si incrociavano discutevano animatamente, come lo stesso Paolo testimonia nella lettera ai Galati (cf Gal 2, 11). Erano entrambi impulsivi e piuttosto decisi. Ma sebbene fossero persone alquanto diverse per cultura e sensibilità si sentivano fratelli, come in una famiglia unita, ove spesso si discute ma sempre ci si ama. La famigliarità e la fraternità che li legavano non venivano tanto da inclinazioni naturali, da volontà umana, quanto piuttosto dall’amore per il Signore, da quell’unico e identico amore totalizzante che li legava al Cristo e per il quale vivevano. Lui li teneva in comunione tra di loro, senza uniformarli. Li univa nelle differenze, facendo di queste una ricchezza per tutta la comunità cristiana.
Mentre ricordiamo Pietro e Paolo siamo sollecitati a diventare come loro, a costruire la Chiesa operando nell’unità e nella pluralità dei carismi, dei punti di vista. Essi non si sono mai stancati di annunciare Cristo, di vivere come missionari, sempre in cammino, dalla terra di Gesù fino a Roma. Ciò che li rese veri fondatori delle prime comunità cristiane, è stata certamente la loro predicazione, ma soprattutto la loro testimonianza, sino a dare la vita per Lui. Che alla fine dei nostri giorni possiamo dire con san Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2 Tim 4,7).
+Mario Toso