Sarna, 1° giugno 2022.
Cari fratelli e sorelle, la celebrazione delle esequie di don Romano Baldassari, è l’occasione per presentare al Signore un suo presbitero buono, servo nella sua vigna, capace di toccare il cuore delle persone, di farle ardere di amore per Cristo il buon Pastore. Come in ogni presbitero, in don Romano è vissuto il desiderio di servire il sommo Sacerdote che è venuto su questa terra per unirsi all’umanità e per elevarla al cielo, alle cose di lassù, quelle che durano eternamente. Don Romano incarnandosi nella vita quotidiana del suo popolo l’ha aiutato a trasfigurarla condividendo lo stesso amore di Gesù Cristo.
Don Romano diventa presbitero diocesano nel giugno del 1966, dopo aver compiuto gli studi teologici nel nuovo Seminario di Viale Stradone. Sono gli anni del Concilio Vaticano II, iniziato nel ’62 e concluso nel dicembre ’65. Don Romano con lo studio teologico respira quella nuova aria che arriva da Roma, dove i vescovi del mondo intero sono stati chiamati da papa Giovanni XXIII perché voleva una Chiesa dalle finestre aperte per far così entrare aria fresca.
Quando è stato ordinato, forse don Romano aveva ancora negli orecchi l’incipit della Costituzione Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, uno degli ultimi documenti conciliari in ordine di tempo: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.
La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti.
Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia».
Ascoltando queste parole, a chi ha conosciuto e frequentato don Romano verrebbe da esclamare: ma questo è stato anche il programma-manifesto di don Romano, la fotografia della sua vita pastorale! In effetti, il Concilio richiedeva un prete-pastore che sapesse trovare strade nuove, che sapesse ridisegnare la mappa del territorio parrocchiale abbattendo i muri che separano Chiesa e mondo. Prima del Concilio la Chiesa era ritenuta società perfetta, che viveva prevalentemente per sé stessa, per un fine che quasi la isolava dalla società; il mondo, invece, era visto con diffidenza, come avversario irriducibile. Esso contrastava il Regno di Dio e aveva poco da condividere con esso. Con il Vaticano II i rapporti Chiesa-Mondo non sono più stati visti come ostili o di separazione netta, ma in solidale corresponsabilità, dovendo tutti i protagonisti – ciascuno per la sua parte – operare all’edificazione di un mondo migliore. La comunità cristiana è chiamata a deporre l’atteggiamento di sola condanna e ad assumere – nell’ottica del «veniente» Regnum Dei – una linea di discernimento dei semina Verbi e delle tossine dell’anticristo, impegnandosi a sviluppare i primi e a contrastare le seconde, così da partecipare all’edificazione di una migliore città dell’uomo, prefigurazione della Gerusalemme celeste. Con il Concilio emerge una stagione nuova. Per esso, il mondo, pur ferito dal peccato, rimane sempre creatura di Dio e gode, da parte del Verbo che si incarna per redimere, i benefici di una nuova creazione. È campo aperto, che anela incessantemente al compimento in Cristo. La Chiesa, in quanto popolo di Dio in cammino nella storia, è unità dei credenti al servizio del Regno, che da una parte è già presente (lo conferma la morte/risurrezione di Gesù), ma dall’altra non è ancora completamente realizzato. Scrive la GS al n. 39: «Qui sulla terra il Regno è già presente, in mistero; ma con la venuta del Signore, giungerà a perfezione».
Compito non facile per una fascia di presbiteri che si trovavano a metà del guado: da una parte l’eredità tridentina che appesantiva la dinamica pastorale come fosse un’armatura di cavalieri antichi e dall’altra la spinta profetica verso un nuovo esodo che aveva di fronte un territorio di cui la mappa era da ridisegnare nella quotidianità. Questo passaggio c’è chi l’ha fatto in un modo più o meno rumoroso, chi lo ha fatto con una certa impazienza per essersi trovato spesso nella solitudine del deserto e c’è chi, come don Romano, lo ha fatto con uno stile, se vogliamo, silenzioso: uno stile, però, che non denotava sforzo, come di chi deve sottomettersi ad una prova; anzi, il suo modo di affrontare la vita pastorale faceva vedere che del Concilio non aveva respirato solo alcune folate, ma ne aveva ormai assimilata l’atmosfera, rendendo abituale la sua novità. La pastorale di don Romano era tutta comunitaria: un pastore più che sul territorio, un pastore del territorio, di tutto il territorio. Non c’erano più per lui strade e stradine da privilegiare come era facile, anzi inevitabile fare, con la mappa tridentina. Don Romano le sapeva percorrere tutte senza preferenze. E questo le persone, le famiglie lo percepivano subito: prima di tutto si sentivano accettate e anche cercate, se necessario, per come erano e per quel che erano nelle loro vicende liete e tristi e anche nelle loro scelte esistenziali. Ben si adattano all’azione pastorale di don Romano le parole di Pietro quando va a casa di Cornelio, un non-ebreo: «mi sto rendendo conto che Dio non fa preferenze di persone…». Tutti avvertivano che, grazie a don Romano, sul territorio potevano nascere nuovi legami, frutto di una attenzione solidale condivisa, a cui, magari, non erano abituati. In questo «ascolto» quotidiano della gente era facilitato dalla varietà delle sfaccettature della sua personalità, un po’ nascosta dalla sua bonomia intelligente e, a volte, anche sottilmente ironica.
Se a Monte Romano, ove è stato parroco dal ’68 al ’75, la raccolta dei funghi non è semplicemente un diversivo per il turista estivo, don Romano che fa? Condivide questa raccolta con gli abitanti del territorio fino a diventare un esperto fungaiolo (sempre si documentava in quello che faceva!). Tanto è vero cheha continuato a condividere questa sua riconosciuta competenza anche quando è stato trasferito in pianura. La gente avvertiva che non era semplicemente un prete con un hobby, ma era un prete che aveva fatto di questa attività un’occasione di evangelizzazione, per la crescita umana e cristiana, sia per lui che per tutti. Se c’è bisogno di una prova ulteriore di questo stile pastorale a 360° basta pensare a quando fu trasferito a Glorie di Bagnacavallo nel ’75. In poco tempo le porte delle case di Glorie fanno a gara per aprirsi a don Romano. Il suo «buon senso», che solo una ricca vita interiore può dare, lo fa diventare il pastore accettato e riconosciuto da tutti. A Glorie, però, più che a funghi si va verso il mare, in cerca di un capanno e di un padellone per pescare. E don Romano di nuovo che cosa fa? Condivide: il suo capanno preso in società con altri, diventa subito una palestra di incontro per molti. Anche diversi presbiteri suoi coetanei hanno potuto condividere intere giornate ove il tempo e la fraternità erano scanditi dalla degustazione comunitaria del pescato dei canali marini.
Un’altra caratteristica di don Romano era quella di sentirsi completamente e decisamente parte del presbiterio diocesano: gli esercizi spirituali annuali proposti dalla diocesi, compresi i ritiri mensili e i vari corsi di aggiornamento, lo vedevano sempre presente. Questa sua ricchezza umana a tutto tondo faceva sì che anche le scadenze ufficiali della vita della comunità parrocchiale (cresime, prime comunioni, battesimi, matrimoni…) non rimanessero un momento puramente liturgico, nel senso di essere solo parallele alla vita quotidiana. Erano tappe così significative per le famiglie che spesso erano le stesse famiglie, anche a distanza di anni, a richiedere di rivivere, nella comunità, i vari anniversari nel segno dell’amore di Cristo.
Dal ’94 viene trasferito a Sarna e Rivalta-Borgo Tuliero, ove questo suo stile pastorale ha avuto l’ennesima conferma: ha potuto mettere a frutto i talenti utilizzati a Monte Romano (la raccolta funghi) e quelli scoperti a Glorie (il padellone al mare). In questo modo anche per il nuovo territorio è stata l’occasione per una nuova crescita comunitaria, condivisa da tutti, sul piano umano e cristiano. Se non fosse riduttivo rinchiudere una persona in una definizione telegrafica, si potrebbe dire di don Romano che è stato un prete che stava in mezzo al suo popolo per condividere con il pane quotidiano il Pane vivo disceso dal cielo. Non ha certo aspettato papa Francesco per impregnarsi dell’odore delle sue pecore!
In questa Eucaristia preghiamo per lui, per i suoi fratelli don Antonio, Gian Luigi, Giancarlo e per le dilette sorelle Emilia, Maria Rosa, Giovanna Maria. Porti consolazione a tutti noi la parola di Gesù che ci ha detto che nulla ci separerà dal suo amore, né morte né spada (cf Rm 8, 35-39).
+ Mario Toso