LIBERTÀ E POTERE.
LA QUESTIONE DELLA DEMOCRAZIA
Premessa
In un contesto di terza guerra mondiale, in cui viene a prospettarsi una nuova configurazione dell’Occidente europeo rispetto alle grandi potenze mondiali emergenti, sembra essere messa in crisi la «promessa» fondamentale che la modernità aveva immesso nel genoma della democrazia: l’emancipazione della soggettività e la liberazione dalle catene del dominio eteronomo per essere realmente autonomi e, per questo stesso, più liberi. Ma se alla fine del secolo scorso la democrazia sembrava poter affermarsi in tutto il mondo, all’inizio di questo secolo appare ovunque in crisi. La sua promessa di libertà per tutti i popoli viene indebolita sia sul piano del funzionamento delle istituzioni democratiche (istituzioni di governo ai diversi livelli – da quello locale a quello internazionale –, parlamenti, partiti), sia sul piano del coinvolgimento popolare nei processi decisionali ed elettorali (si pensi all’astensionismo e alla disaffezione), sia sul piano della sua anima etico-culturale. Nonostante l’accrescimento della comunicazione, prevalgono la frammentazione sociale, l’individualismo utilitarista, che lasciano poco spazio per pensarne il futuro. Con cittadini e rappresentanti intrappolati in forme populiste ed illiberali di democrazia, diventa sempre più difficile realizzare la democrazia sostanziale, partecipativa, solidale, deliberativa, inclusiva. Contrariamente a quanto si pensa comunemente, non giova rispetto al suddetto ideale di democrazia il concetto di un’autorità politica intesa prevalentemente come potere, ossia come capacità di imporre e di farsi valere sui popoli, anziché come capacità di far crescere e di far fiorire i cittadini secondo la loro dignità umana, in tutta la sua pienezza.
CAPITOLO I- ELEMENTI DI CRISI DELLA DEMOCRAZIA
- La crisi della democrazia contemporanea
L’attuale crisi della politica, dei partiti e della democrazia, ormai ampiamente svuotata dei suoi ideali, specie quello della libertà, è sotto gli occhi di tutti.[1] Tale crisi – intesa, per un primo verso, come deficit di rendimento dei sistemi democratici e, per un secondo verso, come sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e delle élite politiche democratiche – è un fenomeno rilevante, ampiamente studiato e discusso anche in ambito politologico. Non a caso si può constatare che, a proposito della democrazia, si parli, fra l’altro, di malessere, di autoritarismo, di «pazzo-democrazia», di democrazia senza democratici, di democrazia insoddisfatta,[2] recitativa.[3] Alla fine del ventesimo secolo, scrive Emilio Gentile, «la peggiore forma di governo, eccetto tutte le altre» sembrava destinata a trionfare nel mondo. Nel 1991 Norberto Bobbio riteneva che non fosse «troppo temerario chiamare il nostro tempo l’era delle democrazie». Ma nel primo ventennio del ventunesimo secolo, la democrazia rappresentativa e partecipativa appare ovunque in crisi. Appare in crisi soprattutto la sua anima etico-culturale, senza dimenticarne la crisi strutturale. Oggi, inoltre, appare chiaro che solo una visione sovranazionale può salvare le democrazie, al di là di sovranismi asfittici.
- La crisi della promessa fondamentale della democrazia viene da lontano
Con la decostruzione dell’essenza etica della democrazia, come detto sopra, è messa in crisi l’emancipazione della soggettività e la libertà.
La crisi etica dell’attuale democrazia non è una questione solo del nostro oggi,[4] legata alla temperie culturale neoindividualista e mercatista contemporanea.
Essa, a onore del vero, viene da lontano, dalle premesse antropologiche individualiste ereditate dalla cultura moderna, grembo in cui ha preso forma. In particolare, discende dall’aporia principale della filosofia moderna, secondo la quale il soggetto è un essere radicalmente libero ed utilitario.[5] Ritenendosi alieno da ogni morale, non può, per sé, convivere con altri soggetti. Eppure, per un altro verso, non può sopravvivere senza associarsi e, quindi, senza osservare una morale, una legge. Ecco, allora, la legge morale e positiva, da osservare come un obbligo, come qualcosa sostanzialmente estranea, un espediente per sopravvivere, ma, comunque sia, con riserva. Nella collaborazione sociale, rispetto all’osservanza dei diritti, l’uomo si ritrova praticamente sprovvisto di ragioni superiori, indipendenti dai suoi interessi. Tra le conseguenze, che giungono sino a noi, vi è il fatto che l’atmosfera simbolica, caratterizzante le attuali culture, appare gravitare verso una comunicazione pervasiva e rigidamente controllata da modelli consumistici, pragmatici e tecnocratici. E così, in quest’epoca della post-modernità, segnata dal demone della paura e da una cultura «fluida»,[6] che inizia mille processi di cambiamento, ma non ne porta a termine nessuno, ricominciando sempre da capo con altri mutamenti, prevale un individualismo libertario ed utilitarista, che mette a repentaglio il cuore etico della democrazia e la libertà stessa.
Basta, in proposito e con riferimento soltanto all’Italia e all’Europa, dare un rapido sguardo sulla realtà.
- Fenomenologia della crisi della libertà
Oggi non viviamo tanto un’epoca di cambiamenti, quanto un cambiamento d’epoca. Nel mondo si stanno attestando nuovi equilibri economici e politici che si strutturano attorno ad altri centri, che non sono più l’Europa e gli Stati Uniti. Si tratta di un mondo più interconnesso e sempre meno «eurocentrico». Lo stanno dimostrando le ultime guerre in corso. La globalizzazione, pur dotata di aspetti positivi, ma non adeguatamente regolata, ha instaurato nuove comunicazioni ed interconnessioni, che hanno favorito la concentrazione del potere finanziario e tecnologico nelle mani di pochi. Alle élite tecno-finanziarie, sempre più autoreferenziali, corrispondono élite economiche governate dalla logica del profitto a breve termine, che finisce per emarginare il lavoro manuale, artigianale, agricolo, sociale. E, pertanto, la stessa libertà di lavorare diventa un privilegio di pochi.
Non si può, infatti, dimenticare che la rivoluzione tecnologica non orientata in maniera umanistica porta a forti squilibri occupazionali e distributivi, al capitalismo dei robot, a diseguaglianze crescenti.
Il mondo che si sta costruendo si manifesta come una trappola senza vie di scampo per i più deboli e i più poveri, un mondo ove sovrastano implacabili dinamismi che stringono le maglie della libertà.
Di fronte a tutto questo, occorre ridare un’anima etica alla vita economica e politica, oltre che alla cultura. Urge rimodellare in senso umanistico lo sviluppo tecnologico. E questo, in ultima analisi, significa rispondere all’insopprimibile desiderio di vero, di bene e di Dio e alla indisgiungibile vocazione alla libertà, da cui è inabitato ogni essere umano. È con il retto esercizio della libertà che ogni persona si autopossiede, decide di sé, dell’orientamento da dare al proprio compimento. L’anelito al Bene trascendente dona quella speciale tensione ed apertura, che sollecita ad oltrepassare ogni condizionamento imprigionante e mortificante la nostra libertà di scelta e di autonomia. L’esperienza attesta che, nella persona umana, la libertà è intimamente connessa alla ricerca della verità e del Bene supremo. Non è solo per un’esistenza fine a sé stessa. Essa fiorisce attraverso un’esistenza in relazione, che si realizza mediante il dono di sé, prendendosi cura dell’altro, del bene comune. La libertà non è soltanto spezzare le proprie catene, ma anche vivere in modo da rispettare e accrescere la libertà degli altri.[7] Purtroppo, anche oggi non mancano gesti di una violenza efferata, cieca e vile. La libertà viene conculcata brutalmente. Essa viene spesso tolta anche in maniera più soft, e tuttavia pericolosa, perché subdola. L’abbondante fenomenologia ci mostra come essa ci è scippata in più modi, senza che ce ne accorgiamo. Non a caso i negoziatori del Parlamento europeo e degli Stati membri dell’UE si sono prontamente mossi per concordare un progetto di legge in materia di intelligenza artificiale. Si tratterebbe della prima legge al mondo. Secondo il suddetto progetto i sistemi di IA vanno classificati in diversi gruppi di rischio. La sfida è colossale, non dilazionabile. Il settore dell’editoria, del mondo del lavoro, della stessa democrazia sono messi in gioco per quanto concerne il primato delle persone e la loro libertà.[8]
Ma la libertà è sottratta, anche ai disperati di quegli ingenti flussi migratori che segnano il nostro pianeta con esodi biblici inseguendo il sogno di una “terra promessa”, di un mondo più giusto e pacifico. Ne sono defraudati tutti coloro che periscono quali vittime di tratte umane e di conflitti sanguinosi – come ha detto papa Francesco, siamo nel contesto di una «terza guerra mondiale a pezzi» – e coloro ai quali non è concesso di venire al mondo o di rimanerci. Talvolta è pericoloso anche esprimere liberamente le proprie opinioni, perché, persino nelle Giunte amministrative delle nostre città, si può finire in liste di proscrizione. Non sono da trascurare gli incomprensibili «moniti», ricevuti dalla Corte Europea, a proposito dell’obiezione di coscienza dei medici cattolici in tema di aborto. I fatti ci confermano che spesso il medico, fedele alla propria coscienza, viene praticamente ostracizzato e penalizzato nella carriera.
La libertà, quindi, è posta in crisi sia sul piano sociale sia su quello culturale. Analogamente si osserva che la libertà è sovente messa in discussione sul piano religioso, proprio per l’uso di segni, quali il crocifisso o il presepe, che si vorrebbero eliminare dai luoghi pubblici, e anche con riferimento alle scuole paritarie, discriminandole con una tassazione ingiusta. Non va trascurato il fatto che l’Ordine del Giorno dei nostri Parlamenti non poche volte è condizionato da lobby finanziarie internazionali, a scapito della sovranità nazionale. Parimenti, la libertà è compressa nei mercati finanziari, dominati da oligopoli ed oligarchie tecnocratici. Ciò che appare più preoccupante, in tutto questo scenario, è che tale situazione concorre a distruggere il tessuto civile dei nostri Paesi. La rivendicazione dei diritti personali, quando motivata a partire da quell’individualismo libertario e radicale, si rivela come il peggior nemico dello Stato di diritto e del bene comune.
- Come uscire dalla crisi? Sciogliere il nodo cruciale tra democrazia e libertà
La crisi della democrazia va affrontata seriamente, prendendo – per così dire – il toro per le corna. E soprattutto, intervenendo su quel punto nodale che è il rapporto tra democrazia e libertà, perché è impossibile che la prima possa sussistere senza la presenza di persone libere. Se non si riconnette la democrazia alla persona concreta, alla libertà, come suo punto di partenza e di arrivo, permane il rischio di implosione. Si protrae nel tempo una sensazione di spaesamento, di abitare in un edificio ancora in piedi – non si sa fino a quando – ma sempre sul punto di crollare, senza vedere all’opera energie in grado di restaurarlo o di ricostruirlo. Non a caso, la cultura cristiana e, in particolare, la Dottrina sociale della Chiesa (=DSC) si è attivata per tempo, per dare ad essa, come fondamento stabile, coscienze capaci di ricercare il vero, il bene e Dio.
Vale la spesa fermarsi per considerare, sia pure in maniera sintetica, come la DSC è venuta incontro alla fragilità antropologica ed etica congenita della democrazia, quale è emersa dalla cultura moderna e si protrae, in varie forme, nel nostro oggi.
In proposito, non è da dimenticare che la Chiesa, allorché si cominciò a parlare di libertà e di democrazia, si mostrò contraria, perché la prima veniva fondata su una coscienza delirante e la seconda, su un giusnaturalismo immanentista, su una sovranità popolare assoluta, come unica fonte dei diritti e dei doveri dei cittadini. Già, però, con Leone XIII, se il nuovo diritto non poteva essere approvato e avvallato in toto, a causa della sua base razionalistica e naturalistica, si riconosce ciò che di sano esso conteneva. Il pontefice, nell’enciclica Libertas praestantissimum (=LI) del 20 giugno 1888,[9] a fronte di uno Stato liberale, che intendeva strutturarsi come Stato di diritto, fondato unicamente sulla volontà generale e su una concezione egalitaria della libertà, assolutizzata ed intesa individualisticamente, propone un concetto di libertà connesso intrinsecamente con la verità, con il bene e con Dio. È così che Leone XIII si porta al cuore del problema che attanagliava la cultura del suo tempo. Egli riprende il discorso partendo da dove erano stati recisi dal razionalismo naturalista e individualista, i legami fra pensiero e retta ragione, fra coscienza e bene, fra libertà e verità morale, fra etica e politica. Dal riannodare le libertà delle persone con la verità e con il bene, dall’informare le legislazioni umane, gli atti di comando da una parte e gli atti di obbedienza dall’altra ‒ per quanto possibile ‒, con i contenuti della legge morale naturale, per il pontefice dipendeva il futuro dell’uomo, della società civile e degli Stati. La concezione di una libertà disancorata dal riferimento a Dio e ai valori assoluti ha la consistenza delle sabbie mobili, su cui non si può fondare alcuna salda morale né si può costruire una prospera e pacifica convivenza civile. L’esagerata esaltazione della libertà, patrocinata dall’agnosticismo liberale, apre le porte in campo personale al soggettivismo e all’individualismo etico e, in campo sociale, all’assolutismo del potere e all’anarchismo. Nel denunciare i pericoli di una libertà sradicata dalla verità sull’uomo e su Dio, Leone XIII si mostrò profeta. Egli intuì e predisse i mali delle rivoluzioni, e i regimi autoritari e totalitari, che non molti anni dopo si abbatteranno sull’Europa. Gli eventi della storia successiva a Leone XIII confermeranno la validità del suo insegnamento, non solo in ordine all’ascesa della civiltà, ma anche in ordine ad una corretta antropologia della libertà da porre a fondamento di ogni democrazia.
Non a caso Giovanni Paolo II, più di cento anni dopo, affrontando la questione sociale, movendo da una prospettiva culturale più personalista, richiama il valore perenne delle affermazioni centrali della Libertas praestantissimum[10]. Per rifondare le democrazie contemporanee e per superare la cultura consumistica, occorre disporre di una libertà capace di legarsi alla verità su Dio e sull’uomo.
Radicando la democrazia in un impianto di antropologia personalista e comunitaria, la DSC supera così la tradizione liberale, che molto aveva insistito sui temi dello Stato a servizio dei singoli, dell’uguaglianza e della libertà individuale, quest’ultima intesa soprattutto come libertà da, ossia libertà negativa. Questo concetto venne superato, rifiutando sia la concezione anarchica sia la concezione individualistica di libertà, che all’atto pratico fu la concezione preferita ed enfatizzata dalla maggioranza delle correnti appartenenti alla stessa tradizione liberale. Il popolo e la democrazia, di cui parla la DSC, sono entità che sprigionano da libertà responsabili, solidali: libertà nell’ordine morale e, pertanto, libertà che non contraddicono l’uguaglianza di dignità e di opportunità, la fraternità, il bene comune, la giustizia sociale. Anzi, perseguono questi valori e sono ad essi ministeriali.
Oggi, per varie ragioni, la democrazia sembra svincolarsi dall’idea di una libertà positiva. Tutti i valori sono messi in discussione, tranne uno: la libertà di scelta, idolatrata e assolutizzata, sino a renderla libertà di potenza e di dominio, che crea la verità e il bene; che dispone incondizionatamente della propria e dell’altrui esistenza; che dissocia la sessualità dall’identità delle persone.[11]
Ma le democrazie in cui i cittadini vivono la loro libertà di scelta come altrettanti dèi – senz’altra restrizione che quella di non importunare il vicino –, si trasformano inevitabilmente in regimi illiberali, ipocriti e ingiusti, in cui il primato del bene comune e della giustizia si dissolve.
La stessa esperienza mostra che la catastrofe antropologica contemporanea, che investe anche le democrazie, le rende incapaci di tutelare la vita dei cittadini, specie dei più deboli.
Poiché l’ideale della democrazia – non tanto (o solo) come forma di governo – è strettamente connesso con la parte migliore della persona, ed è quasi una sfida dell’uomo a sé stesso, rinunciarvi sarebbe come abbandonare la vocazione al compimento umano. È una conquista dei secoli scorsi il convincimento che la promozione della persona umana è inscindibile dallo sviluppo della democrazia, intesa soprattutto come incessante costruzione di senso e di forma di vita sociale e politica, mediante il concorso di tutti. Proprio per questo, non si può rinunciare a riproporre qui la questione democratica, che, in relazione alle sue derive oligarchiche, alla delegittimazione della rappresentanza, allo scollamento fra istituzioni e popolo, al dominio dei poteri economici, si presenta come compito di necessaria ri-costruzione del popolo e della sua «soggettività», in termini di libertà e di unione morale; e, inoltre, di ri-politicizzazione della democrazia, mediante la rigenerazione del «politico» su basi di libertà e di solidarietà.
CAPITOLO II – GIOVANNI PAOLO II E BENEDETTO XVI
- Giovanni Paolo II: un’autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona e della sua libertà
San Giovanni Paolo II va menzionato nel contesto del nostro discorso anzitutto perché afferma con franchezza che «la Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno».[12] Sulla base di una simile descrizione della democrazia, il papa polacco, oggi santo, si augura, di conseguenza, che il sistema democratico non favorisca la formazione di gruppi dirigenti ristretti, i quali per interessi particolari o per fini ideologici usurpano il potere dello Stato. Detto altrimenti, la democrazia non è un sistema immutabile ed intangibile. La sua esistenza più autentica è condizionata dalla simultanea sussistenza di uno Stato di diritto e da una retta concezione della persona.
L’apporto della CA alla riforma della vita democratica e dello Stato del benessere è vasto e non può essere esaurito in poche battute.[13] Per questo ci fermiamo solo su alcuni nuclei della progettualità tratteggiata dalla CA, che propone il rinnovamento della politica, della vita democratica e dello Stato del benessere assistenzialistico, sulla base di un ritrovato dialogo fra verità e democrazia,[14] fra etica e democrazia, fra cultura politica e cristianesimo.
La nuova cultura politica, delineata sinteticamente dalla CA – prosecuzione e aggiornamento del precedente magistero sociale della Chiesa -, ha i suoi punti decisivi, oltre che in una nuova cultura dello sviluppo plenario e planetario, non consumistico ed alienante:
– in una democrazia fondata sulla comunione dei valori,
– in un ordinamento giuridico e in un’attività legislativa personalisti,
– nella riforma e non nello smantellamento dello Stato sociale,
– nella crescita della soggettività della società,
– in una nuova orientazione globale dell’economia ovvero in un’economia di sviluppo e sociale,
– in una cultura della Nazione,
– in un nuovo ordine mondiale,
– in un fecondo dialogo, come già rilevato, con tutta l’area del cristianesimo.
Oggi, come già accennato, è ampiamente riconosciuto che la crisi della democrazia, oltre che strutturale, è soprattutto crisi morale, crisi di valori. È necessario, allora, il recupero dei valori morali, ai due livelli, personale e sociale. Alla stagione dei diritti deve affiancarsi la stagione dei doveri.
Ma, se i più convengono sull’urgenza della riforma morale della democrazia, ritrovando una nuova unità attorno a beni-valori comuni, pochi sembrano disposti a riconoscere loro un qualche fondamento oggettivo. Così, se molti parlano dell’urgenza della riforma delle regole del gioco della democrazia, pochi credono in una società politica basata anzitutto sulla comunione: come comunicazione e condivisione di conoscenze nella luce del vero; come impulso e richiamo al bene morale; come nobile comune godimento del bello, in tutte le sue legittime espressioni; come permanente disposizione a effondere gli uni negli altri il meglio di se stessi; come anelito ad una mutua e sempre più ricca assimilazione ai valori spirituali.
Oggi, come ha rilevato A. MacIntyre nel suo ormai famoso volume After virtue, anche l’etica politica è dominata dall’etica di terza persona, ossia da un’etica che, avendo perso come punto di riferimento il télos dell’uomo, riduce la vita morale ad un insieme di norme e di precetti da osservare e nulla più.[15] L’etica di terza persona mira a creare un assetto sociale ove l’uomo come soggetto di desideri o l’uomo come soggetto autonomo possa fare ciò che vuole senza danneggiare altri, o danneggiandoli solo per un migliore risultato. Dei modi e dei mezzi finalizzati alla soddisfazione dei desideri o dell’uso degli spazi di libertà da parte di ciascuno, l’etica di terza persona si rifiuta di parlare. Sarebbe una questione puramente privata e soggettiva. Ognuno dovrebbe poter gestire a piacere la propria vita. In questo modo però, il sistema dei principi e delle norme è messo tacitamente a servizio del libero arbitrio dei singoli, a cui si vuol garantire la possibilità di soddisfazione di interessi e desideri.[16]
In sostanza, l’etica politica contemporanea sembra staccare l’etica del singolo da quella pubblica, per cui il cittadino, nell’ambito della convivenza sociale, agisce sulla base di regole universali, che non possono mai mancare, ma che vanno osservate solo per un dovere categorico e che esauriscono tutta la loro moralità nella legalità, codificata in un determinato periodo storico. In una società complessa e pluralista come quella odierna, non è possibile fare altrimenti. La convivenza si salva solo con regole che impongono l’altruismo. In essa è richiesta, in definitiva, un’unica virtù: la disposizione a frenare l’egoismo per comportarsi secondo le regole stabilite dalla comunità. Nelle leggi della convivenza contemporanea e nel concetto di virtù che essa richiede non c’è un vero riferimento ultimo a valori, a beni umani oggettivi, ricercati per realizzare una vita buona in tutti gli atti liberi della persona. Le leggi della convivenza curano solo le azioni di giustizia e le azioni verso gli altri, le azioni concernenti la vita esteriore. E questo, non dal punto di vista della condotta personale, ma da quello di un osservatore esterno, imparziale, quale il giudice o il legislatore.
E tuttavia, quando anche nella vita sociale e politica si perde il riferimento al télos della natura umana, l’esito non può essere che il relativismo o addirittura il nihilismo morale, che al più lasciano spazio a un emotivismo morale altrettanto relativistico. Difatti, quando il fondamento ultimo dell’azione morale è costituito da norme e precetti a partire dal punto di vista di un osservatore esterno alla persona, questa non sperimenterà mai il senso di una cogenza vera, proprio perché tali norme e precetti sono imposti dall’imperativo categorico: «Devi agire così», che non risponde alla domanda: «Perché devo agire così?».
La CA vede la luce in questo contesto di fase costituente della politica, che mostra una chiara tendenza a legare il destino della democrazia al relativismo etico.
Orbene, ad animare e a sostanziare la comunione della società politica democratica contemporanea, Giovanni Paolo II propone la presenza di una cultura ricca di valori, non escludente quella sana contestazione che rende più vivi, attuali e personali i valori ereditati dalla tradizione;[17] e, perciò, cultura che rifiuta l’agnosticismo e il relativismo scettico.[18]
Sembra, qui, trovare una chiara allusione a quelle dottrine giuridiche e politiche contemporanee, come quella di H. Kelsen, di K. Popper, di B. Ackerman,[19] per i quali la verità e il bene oggettivi sono inconoscibili (su di essi sono possibili solo opinioni) e, comunque, sono nemici dichiarati della democrazia, la quale può vivere solo in simbiosi con il relativismo etico e lo scetticismo.
In breve, secondo Giovanni Paolo II, il relativismo scettico e l’agnosticismo non possono generare quella coscienza di appartenenza ad una comunità e quell’unità di convergenza verso mete comuni, di cui una nazione democratica ha bisogno per vivere. Se nella vita di un popolo prevalgono agnosticismo e relativismo scettico, si apre la strada alla lotta di tutti contro tutti e, ultimamente, alla corruzione e al dispotismo di pochi, cose peraltro già previste da Platone e da Aristotele.
Ma Giovanni Paolo II, mentre afferma che una democrazia senza valori cade preda del totalitarismo, contemporaneamente prende le distanze dal fanatismo e dal fondamentalismo di quanti pretenderebbero di imporre la loro verità e la loro concezione del bene agli altri. Rischi, che nel passato non lasciarono immune la stessa Chiesa: si pensi alla dottrina secondo la quale, non avendo l’errore alcun diritto, anche l’uomo nell’errore non poteva avere diritti propri.
Inoltre, sulla scorta della tradizione cristiana più autentica e dell’insegnamento del Concilio vaticano II, il pontefice dichiara che la verità cristiana e la fede cattolica non sono ideologiche. Esse riconoscono sia l’autonomia dell’ordine sociopolitico sia la dimensione storica dell’esistenza e della libertà umane. Il rispetto della libertà è il metodo della Chiesa, la quale, mentre evangelizza, partecipa secondo la propria competenza alla liberazione integrale dell’uomo. La libertà che può avvantaggiare l’ordine democratico, però, è solo quella che si svolge nell’ordine morale, in collegamento con la verità ontologica ed etica: «In un mondo senza verità la libertà perde la sua consistenza, e l’uomo è esposto alla violenza delle passioni ed a condizionamenti aperti od occulti».[20]
Nell’ordine democratico, il cristiano vive la propria libertà e responsabilità, proponendo – non imponendo – la verità che ha conosciuto, in dialogo con gli altri, valorizzando ogni frammento di verità che incontra nell’esperienza di vita e nella cultura dei singoli e delle Nazioni e non rinunciando ad affermare tutto ciò che gli hanno fatto conoscere la sua fede ed il corretto esercizio della ragione.[21]
In sintesi, secondo Giovanni Paolo II, un’autentica democrazia è possibile solo sul fondamento di una cultura popolata da beni-valori, grazie a un sano pluralismo ideologico ed etico e – si potrebbe aggiungere, ricavandolo da quanto sin qui detto -, al metodo del rispetto della libertà, usata rettamente.
Giovanni Paolo II, ai fini di un’autentica democrazia, propone anche una cultura della Nazione. Inoltre, una cultura della pace, della solidarietà e della responsabilità reciproca, poiché «nessun uomo può affermare di non essere responsabile della sorte del proprio fratello». Solidarietà e responsabilità, quindi, non limitate ai confini della propria Nazione o Stato, ma estese a tutta l’umanità.[22] E, infine, una cultura della trascendenza.
Quest’ultima è necessaria, da un lato, per vincere il consumismo e l’alienazione soprattutto morale; dall’altro, per l’affermazione della piena dignità della persona umana. La democrazia, per la sua stessa essenza richiedente libertà piena nel dono di sé, esige una cultura della trascendenza come anima della sua vita più profonda.
In particolare, per la CA la vera democrazia non può fare a meno di una cultura:
- a) che non solo ritiene giusto che tutti dispongano di una sufficiente quantità di beni, ma anche sollecita a rispondere adeguatamente alla legittima domanda di un’esistenza qualitativamente più soddisfacente e più ricca;[23]
- b) che aiuta a vincere abitudini di consumo e stili di vita, oggettivamente illeciti e spesso dannosi per la salute fisica e spirituale;[24]
- c) che – non consentendo il sistema economico in quanto tale di distinguere correttamente le forme nuove e più elevate di soddisfacimento dei bisogni umani dai nuovi bisogni indotti, ostacolanti la formazione di una personalità matura -, favorisce e promuove l’educazione dei consumatori a un uso responsabile del loro potere di scelta; e dei produttori e dei professionisti delle comunicazioni di massa a un alto senso di responsabilità;[25]
- d) che ispira la società a strutturarsi nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, in modo da consentire all’uomo di trascendere sé stesso e di vivere l’esperienza del dono di sé e della solidarietà interumana;[26]ovvero, suscitando «stili di vita nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti».[27]
Evidentemente, se si proseguisse in una lettura trasversale e globale della CA, si potrebbe ancora scoprire che, per Giovanni Paolo II, l’autentica democrazia non potrebbe fare a meno di una cultura dell’imprenditorialità e della responsabilità; inoltre, di una cultura che attua l’opzione preferenziale per i poveri; di una cultura che rimane aperta ed interagisce positivamente col Vangelo.[28]
Tutto ciò conferma il lettore nella convinzione che oggi, per Giovanni Paolo II, la democrazia potrà essere salvata e sviluppata qualificandola sempre più, nella sua vita e nelle sue strutture, dal punto di vista etico e spirituale, ritrovando la giusta gerarchia dei valori e della finalità che la debbono animare, realizzandola soprattutto come ambiente morale.
- Benedetto XVI e gli antidoti allo sfaldamento dello Stato di diritto
Oggi, come accennato, si assiste allo sfaldamento della figura dello Stato di diritto, il quale in epoca moderna era sorto sulla base di un patrimonio di elementi normativi che furono gradualmente sottratti all’arbitrio degli Stati assoluti, confluendo nelle Carte costituzionali degli Stati democratici. Nell’attuale contesto culturale, caratterizzato da un relativismo etico assolutizzato e dal summenzionato neoindividualismo libertario, che non fanno altro che alimentare la separazione tra culture e struttura permanente – ontologico ed etica ‒ dell’essere umano,[29] si pone proprio il problema della controvertibilità dei presupposti normativi dello Stato liberale di diritto, e della conseguente necessità di ricercare da dove essi possono trarre stabilità, dal momento che il principio di maggioranza non è atto a garantirli. Pur essendo nati come codificazione del diritto naturale nel diritto positivo, tali presupposti sono stati progressivamente divelti dalle loro radici primigenie, al punto che oggi il diritto positivo non è più ritenuto un riflesso dell’ordine naturale. La conseguenza di tutto ciò è che ‒ come è stato rilevato da vari studiosi, tra i quali possiamo citare Ernst-Wolfgang Böckenförde ‒, dopo la completa positivizzazione del diritto, lo Stato liberale non appare in grado di tutelarsi e di conservare le sue strutture giuridiche, perché non possiede in proprio e definitivamente quei valori da cui è stato generato e di cui necessita per sussistere.[30] Come documenta l’esperienza legislativa contemporanea, infatti, è proprio il principio di maggioranza che, permettendo in certa maniera una fondazione «autonoma» dei principi costituzionali dello Stato liberale di diritto, giunge a cambiarli e, a volte, addirittura a sostituirli con principi contrari.
Nell’attuale frangente storico, si stanno così moltiplicando i tentativi di stravolgimento nei confronti di ciò che può essere definito l’ultimo «resto» del diritto naturale. Basti pensare alle varie proposte di includere l’aborto e l’eutanasia nel catalogo dei diritti umani fondamentali. Ciò è riuscito, ad esempio, alla Francia, nella quale c’è stata l’approvazione del parlamento francese di una risoluzione che eleva l’aborto a diritto fondamentale.[31]
Molte di queste proposte non equivalgono ad un aggiornamento dei diritti umani. Documentano, piuttosto, come i diritti non siano più pensati quali espressioni della dignità dell’uomo in quanto creatura di Dio, aventi un fondamento nella legge morale naturale. Si tratta, spesso, di pretese arbitrarie, prive di un fondamento obiettivo. Nascono da schemi culturali di natura meramente sociologica, sempre soggetti ai mutamenti della sensibilità dominante nei vari momenti storici e senza riscontro nella struttura antropologica ed etica degli esseri umani. E così, non di rado avviene che gli stessi aiuti economici ai Paesi in via di sviluppo, da parte di istituzioni internazionali ‒ anch’esse sfigurate da visioni libertarie ed utilitariste del diritto ‒, vengono condizionati all’adozione di legislazioni che contrastano non solo la dignità dell’uomo e i suoi diritti naturali, ma anche le sensibilità etiche e religiose dei vari popoli.
La devastazione antropologica contemporanea diviene palese soprattutto quando ci si riferisce alle odierne problematiche della bioetica e del senso della vita, attinenti alla manipolazione genetica. Sono questioni che appaiono sottoposte alla discrezione e ai diktat delle maggioranze parlamentari, che dovrebbero invece attenersi a quella legge morale, i cui germi sono insiti nella coscienza di ogni uomo.[32] Va riconosciuto che lo Stato non può farsi paladino di concezioni e ideologie che mirano a «snaturare» l’identità dell’uomo e della famiglia, né tantomeno promuovere attività che sottomettono indiscriminatamente la vita umana agli sviluppi della tecnica. Le questioni che attengono alla vita ed alla dignità della persona, quali la clonazione umana o il sacrificio di embrioni per fini di ricerca, non possono essere affrontate avendo a mente solo le statistiche e ciò che è tecnicamente possibile, ma valutando attentamente ciò che è moralmente lecito.
In definitiva, lo Stato democratico di diritto, sorto come istituzione che tutela e promuove i diritti delle persone e delle comunità sulla base di una Carta costituzionale, appare sempre più in difficoltà. Non raramente entra in conflitto con sé stesso, ossia con il proprio ordinamento giuridico, mostrandosi incapace di mantenere integri, con le proprie risorse e regole procedurali, i presupposti normativi che stanno alla sua base. Lo comprova il fatto che sovente, nel novero dei diritti omologati, entrano presunti diritti di carattere arbitrario e voluttuario,[33] che si vorrebbero promossi dalle stesse strutture pubbliche, violando o disconoscendo diritti elementari e fondamentali.[34]
Cosa bisogna fare?
Secondo Benedetto XVI, i principi costituzionali dello Stato liberale, nonché i diritti e i doveri omologati nei suoi ordinamenti giuridici, ricavano solidità e cogenza da fonti esterne allo Stato, indisponibili rispetto alla regola procedurale della maggioranza. Quando, invece, trovano il loro fondamento ultimo soltanto nelle deliberazioni di un’assemblea di cittadini, «possono essere cambiati in ogni momento e, quindi, il dovere di rispettarli e perseguirli si allenta nella coscienza comune».[35] I Governi e gli Organismi internazionali possono allora dimenticare l’oggettività e l’«indisponibilità» dei diritti. Quando ciò avviene, il vero sviluppo dei popoli è messo in pericolo. Questo perché non è detto che quanto è approvato dalla maggioranza sia sempre giusto dal punto di vista morale. Un’autentica democrazia non è solo il risultato di un rispetto formale di regole, ma è anzitutto frutto della convinta accettazione dei valori che ispirano le procedure democratiche: la dignità delle persone umane, il rispetto dei diritti dell’uomo, l’assunzione del bene comune come fine e criterio regolativo della vita politica. Se non vi è un consenso generale su tali valori, si smarrisce il significato profondo della democrazia e si compromette la sua stabilità.
In altre parole, per la Caritas in veritate lo Stato liberale di diritto può sussistere quando non è autarchico, ossia quando – nella convergenza verso il bene comune –, trova il vincolo sociale e politico che lo compatta a partire dalle famiglie culturali e religiose che lo compongono, e dall’esperienza e dalla condivisione di una legge morale universale.
Una democrazia, in cui i cittadini non riconoscono una legge morale universale, individuabile da tutti e quindi passibile di imporsi a tutti, si trasforma in una convivenza politica incapace di giustificare, come validi per ogni persona, i valori che emergono dalla sua storia. Parimenti, non è in grado di difenderli quando sono aggrediti da chi è portatore di altri valori, opposti ed incompatibili. Una democrazia diviene garante di uno Stato di diritto, solo se riconosce con chiarezza l’esistenza di una misura condivisa di verità e di bene, maturante entro preesistenti esperienze sociali e religiose, e che non sia controvertibile e manipolabile.
Ma che cosa rende disponibile una simile misura? Che cosa favorisce la crescita di un solido consenso morale intorno ai valori fondamentali e alla necessità di viverli con rinunce coraggiose, che spesso vanno anche contro l’interesse personale?
Secondo Benedetto XVI, una misura condivisibile di verità e di bene, come anche un robusto consenso morale da parte dei cittadini, sono disponibili in una comunità politica, quando essa promuova il diritto alla libertà religiosa,[36] quando apra alle religioni uno spazio pubblico, ove esse possono offrire la loro proposta di «vita buona», in un libero e disciplinato confronto plurale. La laicità dello Stato non è mera neutralità nei confronti delle diverse confessioni. Significa invece accoglienza e, insieme, imparzialità, riconoscimento, senza ingiusti privilegi per nessuna di esse. Quando lo Stato promuove, insegna o addirittura impone l’indifferenza religiosa o l’ateismo pratico, si impoverisce, perché si priva di una essenziale forza morale e spirituale,[37] decisiva per gli ethos delle società civili e delle democrazie.
La figura dello Stato di diritto può avere maggior vigore e non essere devastata dall’affermazione soggettivistica ed individualistica dei diritti umani, quando la coscienza di un popolo affonda costantemente le sue radici in quella ricerca comune della verità,[38] del bene e di Dio che, come ha pure sottolineato papa Benedetto, solo la libertà religiosa alimenta. È la verità che è la linfa vitale di ogni società che voglia essere davvero libera, umana e solidale. Senza «la ricerca della verità, ciascuno diventa misura di sé e del proprio agire, aprendo la strada dell’affermazione soggettivistica dei diritti, così che al concetto di diritto umano, che ha di per sé valenza universale, si sostituisce l’idea di diritto individualista. Ciò porta ad essere sostanzialmente incuranti degli altri e a favorire quella globalizzazione dell’indifferenza che nasce dall’egoismo, frutto di una concezione dell’uomo incapace di accogliere la verità e di vivere un’autentica dimensione sociale».[39]
Per quanto sin qui detto, è facile comprendere come l’Europa debba impegnarsi nella salvaguardia del diritto alla libertà religiosa. Grazie alla garanzia della libertà religiosa per tutti, i popoli europei possono attingere a quelle radici profonde – radici religiose –[40] che costituiscono le fondamenta sulle quali poggia lo Stato di diritto. L’oblio di Dio mette a repentaglio la coscienza sociale dei popoli, privandola di quella tensione morale che è imprescindibile per il rafforzamento etico dello Stato di diritto.
Lo Stato di diritto e la libertà religiosa sono pregiudicati non solo dal relativismo etico assolutizzato e da un neoindividualismo arbitrario, ma anche dal laicismo, dal fanatismo e dal fondamentalismo, fenomeni quanto mai attuali. Si pensi, ad esempio, alla recente tragedia umanitaria in Iraq, che colpisce le popolazioni cristiane, yazide, shabak, turcomanne, curde, sciite e sunnite, provocata dal cosiddetto Stato islamico (Is), che ha attivato una guerra di religione, di conquista e di annientamento.
Nel suo Messaggio per la giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2011, – Libertà religiosa, via per la pace ‒,[41] Benedetto XVI stigmatizza questi fenomeni, perché ignorano l’essenza di una libertà che è ricerca comunitaria della Verità trascendente. Sono forme speculari ed estreme di rifiuto del principio di pluralità e di laicità (cf n. 8). Il fanatismo e il fondamentalismo pretendono di imporre la verità e Dio,[42] il laicismo, invece, li nega.[43] Con questo accostamento, il pontefice non intese sminuire la gravità delle persecuzioni che subirono e subiscono i cristiani ed altri credenti, che pagano con la vita la loro professione di fede. Non mette sullo stesso piano l’assassinio di fedeli – come quello perpetrato nel 2008 a Bagdad nella cattedrale siro-cattolica «Nostra Signora del Perpetuo Soccorso» – e la rimozione dei simboli religiosi, che è accaduta e sta accadendo in alcune Nazioni europee.
Il punto cruciale che il suo Messaggio intende sottolineare è questo: in ogni caso, per vie e gradi diversi, il laicismo, il fanatismo e il fondamentalismo mettono a repentaglio la dignità della persona e delle comunità, la loro stessa esistenza. Proprio dentro questa logica, per papa Benedetto, non è da sottovalutare il progredire del laicismo strisciante e subdolo che si manifesta in Occidente. Anch’esso può portare, in modo graduale e quasi impercettibile ai più, a violenze contro la vita dei credenti di ogni fede. In molti casi, sta già sfociando nell’«uccisione» invisibile delle coscienze, favorendo il loro ottundimento morale. È questo un fatto non meno esiziale per la dignità e la libertà delle persone, che può facilmente porre le premesse di persecuzioni e uccisioni. Ciò avviene, ad esempio, quando uno Stato, come quello spagnolo, qualche anno fa, pensava di imporre a tutte le scuole, comprese quelle cattoliche, l’obbligo di insegnare che l’aborto e l’indifferenziazione dei sessi sarebbero un fatto normale ed innocuo; oppure quando un vescovo è denunciato per aver difeso l’istituto del matrimonio durante un’omelia, come è capitato nel Regno Unito, e come potrebbe anche avvenire anche altrove, quando siano approvate leggi che, in un modo o nell’altro, giungono a coartare la libertà di opinione e di espressione circa figure di famiglia non contemplate dalle loro stesse Carte costituzionali.
Si tenga presente, inoltre, che la marginalizzazione del Dio cristiano o delle «radici cristiane» contrariamente a come può sembrare a prima vista, non è indice di una tolleranza rispettosa verso tutte le religioni per non privilegiarne alcuna. Spesso, è espressione dell’assolutizzazione di posizioni che si contrappongono a ogni credo e cultura religiosi, in taluni casi con molto cinismo.
In Europa, l’opposizione ai segni religiosi o, meglio, al cristianesimo ‒ e, in ultima analisi, opposizione a Gesù Cristo ‒, che spesso prende a pretesto il rispetto per i mussulmani, è in realtà frutto di un laicismo negativo, per nulla neutrale, basato sulla menzogna. Infatti, gli stessi mussulmani più che essere feriti nei loro sentimenti religiosi per un’eventuale inserzione delle «radici cristiane» nella Costituzione europea, restano scandalizzati da una cultura secolarizzata che nega le proprie fondamenta.[44]
CAPITOLO III – PAPA FRANCESCO. CARITÀ, FRATERNITÀ E DEMOCRAZIA
- Democrazia, carità e fraternità
Nel contesto della terza guerra mondiale a pezzetti, le democrazie del mondo stanno vivendo una crisi profonda, interrelata con altre crisi come quella economica, climatica, alimentare, migratoria. La crisi afghana di tempo fa ha mostrato che la democrazia non può essere esportata, ossia impiantata dall’esterno, in un conteso socioculturale che si mantiene impermeabile ad una visione trascendente della persona, ad una laicità non aliena dalla morale naturale. La democrazia fiorisce là ove non solo si potenziano i meccanismi istituzionali che massimizzano le possibilità di discussione, la continua correzione delle scelte, l’informazione sulle decisioni di interesse comune e la pubblicità del dibattito. Essa ha bisogno di un ethos diffuso tra la popolazione, di stili di vita orientati da una vita buona, del riferimento ad una verità morale fondata non solo sul consenso ma anche razionalmente. Il destino della democrazia è legato al rispetto della persona concepita nella sua integralità e nella sua trascendenza relazionale, in senso orizzontale e verticale. Per la vita della democrazia non bastano brandelli di verità etica, come hanno sostenuto Kelsen e Popper. Se non esiste nessuna verità oggettiva non vi è nulla che orienta l’azione politica. Prevalgono gli interessi immediati e il bene comune svanisce. Giovanni Paolo II, ha insegnato che una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come ha dimostrato la storia.[45]
Nel suo insieme, l’enciclica Fratelli tutti (=FT)[46] di papa Francesco offre la descrizione dei principali fattori di crisi delle attuali democrazie e, nello stesso tempo, indica ciò che è indispensabile per rafforzarle, come ad esempio una migliore vita politica che si struttura e si commisura alla dignità delle persone, alla loro libertà e al loro compimento umano in Dio. In particolare, papa Francesco segnala la fecondità della relazione fraterna quale legame sociale necessario a rafforzare la propria vocazione di cittadini, ma anche il senso di appartenenza alla pólis. La nostra vita sociale e, in specie, la vita democratica sussistono ove ci sono legami forti, comunione morale tra i molti «io» e i «noi di persone», carità e fraternità, oltre che verità e libertà, giustizia sociale. Al contrario, la vita personale e comunitaria immiserisce, specie quando domina la pretesa di appartenere solo a sé stessi e si vive come tante isole senza ponti di collegamento. Le persone non sono fatte per vivere nelle metropoli dell’indifferenza o sulla tomba delle comunità. Sono fatte per amare, per comunicare, per la comunione fraterna, per il dono reciproco e disinteressato. Sono chiamate ad uscire da sé stesse per formare dei «noi», per trovare negli altri un accrescimento d’essere.[47] La possibilità di cogliersi in profondità è legata alla presenza di un tu che, col suo sguardo, consente all’io di essere. Il noi, presente nell’io e nel tu, li trascende come un novum che non aveva esistenza prima del loro incontro. Ciascuno dei tre poli io-tu-noi è impensabile senza gli altri e tuttavia è radicato autonomamente nell’essere. La relazione, infatti, genera un noi, reale come l’io e il tu, ma anche dipendente da essi. Il noi mostra i lineamenti di una «persona», emergente sempre più chiaramente in relazione alla qualità del rapporto. Una comunità è una Persona nuova che unisce diverse persone, legandole nell’intimo.[48]
I gruppi chiusi, le persone e le comunità autoreferenziali, ovvero gli «io» e i «noi di persone» raggomitolati in sé stessi, non favoriscono una relazionalità aperta e diffusa, non animano la democrazia in forma dinamica e vitale, generativa del bene comune. Ne indeboliscono l’anima etica e rendono sterile il tessuto delle varie reti sociali. La democrazia, per vivere e crescere, deve essere popolata da persone e da gruppi di persone che collaborano tutti insieme alla realizzazione del bene di tutti. Detto diversamente, tra i diversi «io» e i diversi «noi», che la compongono, deve sussistere comunicazione, un dinamismo di comunione e di collaborazione verso il bene di altri «io», verso il bene di altri «noi», verso il «noi» più grande che è il popolo intero e il suo bene politico. Un tale dinamismo, secondo la FT, trova il suo fondamento generativo e propulsivo proprio nell’amore fraterno.
A fronte dei molteplici problemi che colpiscono la democrazia occorre istituire, secondo papa Francesco, alcuni percorsi di speranza che abilitano a salvarci tutti insieme. Siamo tutti nella stessa barca. Nessuno si salva da solo. O insieme ci salviamo o insieme periamo. Secondo papa Francesco ci può aiutare a realizzare democrazie «a più alta densità» – è questa un’espressione usata dal pontefice prima ancora di diventarlo –[49] ciò che si può definire il Vangelo della fraternità samaritana. La fraternità va considerata, assieme alla libertà, alla verità, alla giustizia e all’amore – quei beni-valori che sono già stati indicati da san Giovanni XXIII nell’enciclica Pacem in terris – uno dei pilastri fondamentali dell’ordine sociale e della vita democratica. I suddetti pilastri di un ordine sociale retto vanno intesi come correlati e interdipendenti tra di loro. Ognuno di essi non può esistere senza gli altri. La libertà, ad esempio, non può fiorire se non viene coniugata con la verità, la giustizia, la solidarietà. Parimenti, la verità non è compiuta se non comprende la libertà, la giustizia, la solidarietà. E così via, per gli altri pilastri. Dopo quanto ha scritto la FT sulla fraternità, come caposaldo di una società più pacifica, il discorso sulla interdipendenza e sulla correlazione tra i beni-valori proposti dalla Pacem in terris va rivisitato ed aggiornato secondo un humanum in cui la relazionalità fraterna è pure elemento essenziale interrelato agli altri beni-valori già elencati. Pertanto, una società ed una democrazia non possono rinnovarsi secondo fraternità se questa non si realizza legandosi alla verità, alla libertà, alla giustizia e alla solidarietà, e viceversa.[50] La novità della FT sta proprio in questo, e cioè nell’avere evidenziato la fondamentalità della fraternità in vista di una migliore politica, cosa peraltro già segnalata dalla Pacem in terris di papa Giovanni XXIII e chiaramente presupposta nella Caritas in veritate di Benedetto XVI, il quale l’ha esplicitamente rimarcata come elemento indispensabile per strutturare un’economia giusta, come anche una nuova teologia della storia e dello sviluppo economico e tecnologico.[51]
- Carità e fraternità fattori imprescindibili per la rigenerazione della democrazia
Papa Francesco, riflettendo sulla crisi della democrazia contemporanea e sulle sue derive populiste e sovraniste, ma anche su quelle liberali e individualiste, facendo appello proprio ad una migliore politica, indica l’amore o carità e la fraternità quali fattori imprescindibili per la sua rigenerazione e il suo sviluppo. La politica e la democrazia si irrobustiscono quando siano potentemente animate anzitutto dalla virtù teologale della carità. Una tale virtù non è un vago sentimento e neppure un amore semplicemente umano. La carità è virtù cardinale, virtù cristiana, che orienta ed unifica gli atti delle varie virtù nella costruzione della vita personale e della vita comunitaria. La carità, dunque, è un amore più che umano. È infusa da Dio nelle persone per renderle capaci di amare come si ama nella Trinità, come ama Cristo. L’amore umano, fragile, a motivo del peccato originale, necessita di essere guarito, integrato dall’amore di Dio, donato e ricevuto. L’amore-carità, amore dall’alto, amore trascendente, amore trinitario, ossia amore strutturalmente aperto all’altro tu, al noi delle tre Persone divine, relazioni sussistenti, rafforza il dinamismo di apertura e di comunione verso gli altri tu e gli altri noi, un dinamismo che è inscritto, sia pure in forma germinale, nell’amore umano. [52]
L’amore-carità consente alla politica e, per conseguenza, alla democrazia, di tendere costantemente alla loro perfezione. Perché? Perché l’amore-carità, ricorda papa Francesco, è realista,[53] ovvero è un amore più grande di quello semplicemente umano, amore aperto all’altro tu, e che si impegna a realizzare tutte le condizioni che sono necessarie alla concretizzazione del bene comune, il bene di tutti, specie dei più poveri, tramite responsabilità, solidarietà e partecipazione.
- La politica animata da un amore pieno di verità, dalla «caritas in veritate»
A fronte dei problemi della democrazia contemporanea, c’è bisogno di una sana e grande politica, ossia con una visione ampia, capace di un approccio integrale alle questioni sociali, di riformare le istituzioni, di coordinarle, di dotarle di buone pratiche.
La grandezza della politica si mostra quando opera sulla base del bene comune a lungo termine (cf FT n. 178), attento alle generazioni presenti, ma soprattutto a quelle future. È grande la politica che non pensa solo ai risultati elettorali immediati. Di una grande politica ha bisogno la società mondiale che per le sue riforme strutturali non ha bisogno di rattoppi, ma di soluzioni lungimiranti.
La grande politica, la vera politica, ha bisogno dell’amore politico. È animata dall’amore politico, ossia da un esercizio alto della Carità, cioè da un amore che riconosce ogni essere umano, compreso il povero e lo straniero, come un fratello o una sorella; da un amore che crea percorsi e processi sociali di fraternità e di giustizia efficaci.
La Carità sociale e politica ci fa amare il bene comune e ci fa cercare effettivamente il bene di tutte le persone. È scaturigine del popolo, del vero popolo, in cui ognuno, mediante la collaborazione con gli altri al bene comune, riconosce sé stesso.
La Carità politica non è un sentimento sterile. È molto di più di un sentimento soggettivo, specie se si accompagna all’impegno per la verità (cf FT nn. 183-184). Proprio per il suo rapporto con la verità favorisce un dinamismo universale ed è base di una civiltà dell’amore. Senza la verità, l’emotività si vuota di contenuti sociali oggettivi. La Carità per essere maggiormente sé stessa ha bisogno di verità, quella della ragione e quella fede (cf FT n. 185).
La Carità è articolata su più piani di espressione. L’attività dell’amore politico crea istituzioni più sane, ordinamenti più giusti, strutture più solidali. È Carità politica innalzare strutture perché il prossimo non abbia a trovarsi nella miseria. Se è Carità stare vicino a una persona che soffre, è pure Carità tutto ciò che si fa per modificare le condizioni sociali che provocano la sua sofferenza. «Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità –, il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica» (FT n. 186).
La vera carità politica non è quella che promuove strategie di contenimento che unicamente tranquillizzano e trasformano i poveri in esseri addomesticati e inoffensivi. La vera carità politica agisce in modo da rendere ogni essere umano artefice del proprio destino assieme agli altri.
Il politico è un realizzatore, un costruttore con grandi obiettivi, con sguardo ampio e pragmatico. «Le maggiori preoccupazioni di un politico non dovrebbero essere quelle causate da una caduta nelle inchieste, bensì dal non trovare un’effettiva soluzione al fenomeno dell’esclusione sociale ed economica, con le sue tristi conseguenze di tratta degli esseri umani, commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine internazionale organizzato» (FT n. 188).
- Fraternità e bene comune
La politica quando non abbia come sua direttrice la fraternità non si impegna fattivamente per la promozione del bene comune, del bene di tutti, specie per i meno abbienti, gli emarginati, i giovani, le donne. Spesso si trasforma in uno strumento di lotta per un potere asservito a interessi individuali e settoriali, in un tramite di conquista di posti e di spazi, più che di gestione efficace e giusta della cosa pubblica. Perché la politica rimanga sé stessa, ossia una delle forme più alte della carità, dev’essere liberata rispetto al suo asservimento da parte dell’economia e della finanza che assolutizzano il profitto. Quest’ultima va riformata affinché si possa usufruire di quel bene pubblico che sono i mercati liberi, stabili, trasparenti, «democratici», non oligarchici, funzionali alle imprese, ai lavoratori, alle famiglie, alle comunità locali. Dal primato dell’economia sulla politica si deve passare al primato del bene comune sull’economia. La democrazia politica presuppone che si realizzi simultaneamente una democrazia sul piano economico-sociale. In vista di ciò è fondamentale l’abbattimento delle cause strutturali della povertà, il superamento dei piani meramente assistenziali, specie mediante politiche che distribuiscano equamente le entrate e consentano l’accesso per tutti al lavoro, all’istruzione, all’assistenza sanitaria. Il lavoro libero e creativo, partecipativo e solidale, è antidoto alla povertà, è titolo di partecipazione.
Contro una democrazia sociale e partecipativa si pongono le molteplici forme di corruzione capillarmente diffuse, nonché l’aumento di organizzazioni criminali che, logorando in profondità la legalità e la giustizia, colpiscono al cuore la dignità delle persone. Si tratta di organizzazioni che offendono gravemente Dio, danneggiano i fratelli e depauperano il creato.
Ebbene, a fronte dei problemi accennati non si deve rimanere immobili ed indifferenti. Per poter vivere in armonia e in pace, la nostra umanità necessita di un supplemento di fraternità non solo proclamata ma sperimentata, ossia concretizzata in buone pratiche.
La fraternità va coniugata in molti ambiti, a cominciare dalla famiglia domestica per giungere fino alla famiglia dei popoli, avvolta da una fitta rete di comunicazioni e di interconnessioni che, come aveva affermato Benedetto XVI, rendono certamente più vicini ma non per questo più fratelli.[54] Papa Francesco, con la sua enciclica FT, ha dato l’avvio, a quella che potremmo chiamare «operazione fraternità» da realizzarsi specialmente in ambito sociopolitico e democratico. I cammini di fraternità, che egli propone per rinnovare la democrazia sono diversi. Qui ci fermiamo in particolare, a considerare i percorsi che aiutano a difendere e a promuovere lo Stato di diritto e a vivere una democrazia samaritana.
- Fraternità, Stato di diritto e democrazia samaritana
La fraternità, quale amore pieno di verità per l’altro, per i suoi diritti e doveri, fondati non solo sul consenso ma primariamente sulla legge morale naturale, può oggi aiutare a contrastare tutti quei tentativi che, apertamente o subdolamente, contribuiscono a smantellare lo Stato di diritto. Questo si è gradualmente consolidato mediante processi lenti e faticosi, ma ora, purtroppo, lo vediamo aggredito da più parti, specie da una cultura di tipo libertario ed individualistico.
Lo Stato di diritto è attualmente messo in crisi da violazioni plateali da parte di quegli stessi Paesi che sono stati tra i primi a codificarlo nelle loro Costituzioni. Vi sono Paesi che, mentre vedono sensibilmente diminuita la loro capacità di fissare le priorità dell’economia e di incidere sui dinamismi finanziari internazionali,[55] e su altre questioni vitali e globali – tra cui l’accesso all’acqua potabile per tutti, l’equa distribuzione delle risorse energetiche, la sicurezza alimentare, il controllo del fenomeno di migrazioni bibliche –, legiferano puntigliosamente su temi etici e bioetici senza tener conto della legge morale naturale, e fondano spesso le decisioni su antropologie depotenziate e libertarie. Vi sono comunità che, pur riconoscendo il diritto primario alla vita, hanno praticamente liberalizzato l’aborto e alcuni gruppi ne vorrebbero sancire il «diritto». Non solo. Vi sono ordinamenti giuridici e amministrazioni della giustizia che consentono di discriminare gli obiettori di coscienza nei confronti dell’aborto, dell’eutanasia e della guerra. Parimenti, mentre nelle Costituzioni è omologato il diritto alla libertà religiosa, crescono i pregiudizi e la violenza nei confronti dei cristiani e dei membri di altre religioni, ad esempio in tutta l’area dell’OSCE,[56] ma non solo. In tale area si è praticamente disegnata una netta linea divisoria tra credenza e pratica religiosa, sicché spesso, nel pubblico dibattito e sempre più di frequente anche nei tribunali, ai cristiani viene ricordato che possono credere tutto ciò che vogliono e esercitare culto come desiderano nelle chiese, ma che semplicemente è loro vietato di agire in pubblico in base alla loro fede. Si tratta di una distorsione deliberata e di una limitazione del vero significato della libertà di religione, che non riflettono la libertà prevista nei documenti internazionali, compresi quelli dell’OSCE. Sono molti gli ambiti in cui l’intolleranza emerge in modo evidente. Negli ultimi anni si è manifestato un aumento significativo di episodi in cui dei cristiani sono stati perseguitati e persino arrestati, per essersi espressi su questioni che interpellavano la loro coscienza. Alcuni leader religiosi sono stati minacciati dalla polizia, per aver condannato in pubblico comportamenti scandalosi, e alcuni sono stati addirittura incarcerati per aver predicato gli insegnamenti biblici relativi alla morale sessuale.[57]
Nell’ampio contesto dello Stato di diritto, che in epoca moderna si annoda allo Stato sociale, a fronte di una cultura mercantilistica e tecnocratica, il principio della fraternità risulta essere decisivo nella difesa e nella promozione dei diritti sociali, compreso il diritto alla cura, di fatto negato da una sanità selettiva a non pochi anziani in tempo di COVID-19 rispetto alle terapie intensive, accordate a persone più giovani. Lo Stato di diritto si intreccia con lo Stato sociale democratico, in cui si completa e si perfeziona. Quando i diritti sociali sono conculcati, i diritti civili e politici vengono vanificati. Ebbene, la fraternità aiuta a contrastare le odierne posizioni dell’opinione pubblica o di classi dirigenti secondo le quali, in un contesto di crisi finanziaria e di recessione economica, il necessario risanamento dei conti pubblici e la crescita possono essere conseguiti prevalentemente a prezzo della riduzione dei diritti sociali – si parla qui di diritti fondamentali, come il diritto alla salute, al lavoro, alla formazione professionale e alla sicurezza sociale −, dello smantellamento dello Stato sociale e delle reti di solidarietà della società civile, nonché della sospensione della democrazia.
Nel contesto del discorso di uno Stato di diritto, papa Francesco non ha dimenticato di segnalare i diritti degli immigrati e, guardando al delitto e alla pena, ha segnalato le condizioni vergognose di tante carceri, dove il detenuto è spesso ridotto in uno stato sub-umano, violato nella sua dignità di uomo nonché soffocato in ogni volontà ed espressione di riscatto.
- Fraternità e democrazia
Secondo papa Francesco, il bene della fraternità è fondamentale per la pace sociale e la democrazia, perché crea un equilibrio tra libertà e giustizia, fra responsabilità personale e solidarietà, fra beni dei singoli e bene comune. Consente di superare il «divorzio» che spesso si verifica tra classi dirigenti e cittadini rappresentati,[58] a causa della coltivazione, da parte delle prime, di interessi sezionali o privati. Aiuta a sconfiggere la corruzione e l’illegalità, che si annidano ad ogni livello della vita sociale, come ad esempio i traffici illeciti di denaro e quella speculazione finanziaria, che spesso assume caratteri predatori e nocivi per interi sistemi economici e sociali, esponendo alla povertà intere popolazioni.
Secondo quanto emerge anche dal precedente magistero del card. Bergoglio, ora papa Francesco, la fraternità oggi può svolgere, in particolare, un ruolo decisivo nel rifondare la democrazia rappresentativa, partecipativa, deliberativa, sempre più aperta al sociale. I problemi odierni della democrazia sono tali da indurre gli studiosi del settore a parlare di post-democrazia, ovvero di una fase in cui sono messi in crisi la stessa politica, l’istituto della rappresentanza, della partecipazione attiva della popolazione nella determinazione dei processi decisionali, a causa soprattutto del deterioramento dei partiti e di classi dirigenti lontane, per tenore di vita e mentalità, dai bisogni dei più poveri. Ma ciò appare ancora un fenomeno epidermico. La crisi della democrazia contemporanea sembra intaccarla più profondamente nella sua essenza etica, nel suo progetto relativo al bene comune, bene di tutti, che si realizza mediante l’apporto di tutti. E ciò, a causa di concezioni neoliberali, che assegnano il primato alla finanza anziché alla politica e che propongono, seguendo l’insegnamento di certe scuole economiche come quella di Chicago, l’ideale di una democrazia minima procedurale, la quale deve semplicemente assicurare il pacifico avvicendamento dei detentori del potere, invece di porsi obiettivi di giustizia sociale, che sarebbero considerati obiettivi impropri, che ne provocherebbero il fallimento.
Il concetto di democrazia oggi prevalente appare, dunque, subordinato, come già rilevato, a mentalità neo-utilitaristiche e neo-individualistiche, che lo configurano come un progetto sociale e politico che non include tutti i cittadini. Il neo-utilitarismo punta, infatti, a realizzare il bene per la maggioranza. Il neo-individualismo, che riduce il bene comune al bene dei singoli, finisce per promuovere il bene di pochi, dei più forti. I poveri, secondo un certo neoliberalismo, debbono essere sempre presenti, perché senza di essi l’economia di mercato non potrebbe funzionare al meglio.[59]
La fraternità, che evidenzia l’eguaglianza di dignità tra le persone e che spinge a farsi «prossimo» nei confronti di chi è nel bisogno, comanda di scegliere tra una democrazia «a bassa intensità», che produce esclusi e prevede anche alti livelli di povertà, e una democrazia «ad alta intensità», che include tutti e che si ripropone di sconfiggere la povertà; tra una democrazia che si mostra indifferente nei confronti dei cittadini che sono «caduti» e «feriti» a causa di crisi che colpiscono i più deboli e una democrazia costantemente «samaritana» − si rammenti la parabola evangelica al centro della FT −, ossia una democrazia che non passa oltre, ma si fa carico, tramite una solidarietà tutt’altro che assistenzialistica, delle fragilità dei cittadini più sfortunati, spogliati da eventi superiori alle loro forze, che li conducono alla disoccupazione, all’emarginazione sociale e alla disperazione.[60] Nell’attuale contesto di crisi dello Stato sociale e della democrazia sostanziale, aggravato da una pandemia imprevista, la fraternità sfida la stessa comunità europea a ripensarsi e a scegliersi come insieme di popoli impegnati nella costruzione di una vera comunità politica, concepita in termini di solidarietà e di sussidiarietà, essenziali per raggiungere finalità di giustizia sociale e di pace. Non è sufficiente evitare l’ingiustizia e sanare i bilanci. Occorre promuovere la giustizia sociale, la giustizia del bene comune. Non basta la libertà di fare. Per questa strada si può essere anche «tutti contro tutti». Urge una libertà responsabile che si faccia carico del bene comune, specie dei più bisognosi. Il bene comune va realizzato tramite l’apporto di tutti, anche dei più poveri, che non sono da considerare un «fardello». Una società matura è quella in cui la libertà è pienamente responsabile ed è basata sull’amore fraterno e sul mutuo potenziamento. La rifondazione della democrazia non è missione di pochi, ma di tutti. Non si tratta di articolare solo un nuovo programma economico e sociale, ma soprattutto un progetto politico e un tipo di società in cui c’è posto per tutti, in cui tutti sono chiamati a collaborare per la realizzazione del bene comune! Non si tratta solo di cambiare dirigenti o volti, occorre che i rappresentanti siano preparati e dediti al bene comune, in sinergia con i cittadini rappresentati.
Ma la fraternità può giovare soprattutto nel risanare le basi della vita politica che attualmente, a motivo di visioni antropologiche pessimistiche di stampo hobbesiano e neoutilitarista, appare impostata in termini di conflittualità, di demonizzazione dell’avversario, sino a concepirlo un nemico, con danni gravissimi per il bene comune. La visione hobbesiana dell’homo homini lupus mina alla base la politica e la democrazia che hanno, invece, secondo una visione personalista e comunitaria, il loro radicamento nell’amicizia fraterna, implicante tensione al bene comune, rispetto dell’altro, cura reciproca. Solo entro il contesto di un’esistenza fraterna, protesa al perseguimento del bene comune – che è bene di tutti e che si realizza mediante l’apporto di tutti – è possibile risolvere gli inevitabili conflitti sociali. Questi possono essere superati solo se si rimane ancorati ad un’unità di esistenza che accomuna tutti, per l’appunto quella della fraternità, che viene rafforzata quando si viva in Cristo: in Lui l’altro è accolto ed amato come figlio o figlia di Dio, come fratello o sorella, non come un estraneo o un nemico. L’unità della fraternità, protesa al bene comune, consente di vivere le conflittualità non ignorandole, bensì immergendosi in esse, trasformandole in opportunità di crescita, pervenendo alla loro soluzione su di un piano superiore che conserva le preziose potenzialità delle polarità in contrasto. Proprio l’unità nella fraternità – unità superiore ad ogni conflitto e ad ogni differenza – garantisce la solidità dell’unione morale dei popoli e mantiene ferma la determinazione di conseguire il bene comune in maniera democratica.[61]
- Conclusione
Con la prossima 50.a Settimana sociale dei cattolici in Italia, recante come titolo Al cuore della democrazia#PartecipareTraStoriaeFuturo, a Trieste (3-7 luglio 2024), si punta a rivitalizzare la democrazia non solo ascoltandosi, dialogando, praticando un discernimento della realtà alla luce della Parola di Dio, bensì condividendo prospettive pratiche, con una rinnovata immaginazione politica. Dopo aver letto il Documento preparatorio della Settimana sociale dei cattolici si ricava l’impressione che non bisognerà enfatizzare la pur importante partecipazione sociale da cui si vorrebbe prendere le mosse. Sarà necessaria anche un’adeguata riflessione sulla crisi della democrazia,[62] sulla partecipazione politica, sulle rappresentanze partitiche, sulle regole procedurali, sul principio della maggioranza, sulla nascita di nuovi movimenti sociali che sappiano occuparsi non solo del sociale. Ci si dovrà adoperare per ripensare le regole del gioco, vale a dire per ridisegnare l’assetto istituzionale, entro il contesto del bene comune mondiale. In particolare, si sarà inevitabilmente chiamati a riflettere, sia pure in termini compatibili alla competenza di una Settimana sociale già programmata da tempo, anche sulle proposte di riforma della nostra Costituzione, ossia sulla riforma del premierato e delle autonomie differenziate[63], riforme in discussione in Parlamento e che toccano punti complessi e delicati dell’ordinamento della nostra Repubblica.
La democrazia rinascerà eticamente, culturalmente, se si incentrerà sempre più su un umanesimo trascendente e comunitario, bypassando l’umanesimo transumano;[64] se saprà valorizzare i più poveri. Senza di loro la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, perde rappresentatività. Diventa una democrazia di pochi per pochi. Funzionale a tutto questo sarà il rilancio di una nuova evangelizzazione del sociale, quale grembo evangelico e culturale che alimenta le radici della democrazia sostanziale. Solo una nuova evangelizzazione del sociale ci aiuterà ad elaborare un nuovo pensiero e una nuova cultura politica, a fronte della complessità globale, della terza guerra mondiale a pezzi, delle epidemie, delle migrazioni, dei cambiamenti climatici.[65]
È tempo ormai di riflettere seriamente sul vuoto tragico in cui sono precipitati i cattolici. L’attuale situazione di diaspora oltre che essere un errore fatale dal punto di vista ideologico lo è anche dal punto di vista pratico, ossia dell’apporto di uno specifico contributo in vista della realizzazione del bene comune della famiglia umana.
Come ha incisivamente sottolineato il cardinale Matteo Zuppi, in occasione dell’anniversario del Codice di Camaldoli, celebrato nel mese di luglio 2023, uno dei problemi di oggi è «il divorzio tra cultura e politica, non solo per i cattolici, […] con il risultato di una politica epidermica, a volte ignorante, del giorno per giorno, con poche visioni, segnata da interessi modesti ma molto enfatizzati».[66] C’è bisogno di nuove generazioni di intellettuali, professionisti, pedagogisti, giuristi, economisti, politici, comunicatori e umanizzatori dell’intelligenza artificiale, che sappiano, come ai tempi di Pio XII fecero i Laureati cattolici, passare all’azione sul piano culturale, traducendo l’insegnamento sociale della Chiesa in un linguaggio politico, accessibile ai più. Una nuova presenza politica può nascere da una nuova cultura e, prima ancora, da una nuova evangelizzazione del sociale. Queste consentiranno di superare la falsa ideologia della diaspora, per formare una «massa critica» a livello politico, capace di una più incisiva e convinta partecipazione, tipica di una democrazia deliberativa.
APPENDICE 1 – Autonomia differenziata
Nota
«Il Paese non crescerà se non insieme»[67]. Questa convinzione ha accompagnato, nel corso dei decenni, «il dovere e la volontà della Chiesa di essere presente e solidale in ogni parte d’Italia, per promuovere un autentico sviluppo di tutto il Paese»[68]. È un fondamentale principio di unità e corresponsabilità, che invita a ritrovare il senso autentico dello Stato, della casa comune, di un progetto condiviso per il futuro.
Sono parole molto attuali anche oggi, in cui si discutono le modalità di attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, secondo quanto consentito dal dettato costituzionale. Ed è proprio la storia del Paese a dirci che non c’è sviluppo senza solidarietà, attenzione agli ultimi, valorizzazione delle differenze e corresponsabilità nella promozione del bene comune.
Ci dà particolare forza l’esperienza di sinodalità delle nostre Chiese, grazie alla quale stiamo crescendo nella capacità di “camminare insieme” come comunità cristiane e con i territori e la comunità civile del Paese.
In particolare, crediamo che la parola “insieme” sia la chiave per affrontare le sfide odierne e la via che conduce a un futuro possibile per tutti. Siamo convinti infatti – e la storia lo conferma – che il principio di sussidiarietà sia inseparabile da quello della solidarietà. Ogni volta che si scindono si impoverisce il tessuto sociale, o perché si promuovono singole realtà senza chiedere loro di impegnarsi per il bene comune, o perché si rischia di accentrare tutto a livello statale senza valorizzare le competenze dei singoli. Solidarietà e sussidiarietà devono camminare assieme altrimenti si crea un vuoto impossibile da colmare. Con Papa Francesco, ripetiamo che «la fraternità universale e l’amicizia sociale all’interno di ogni società sono due poli inseparabili e coessenziali. Separarli conduce a una deformazione e a una polarizzazione dannosa» (Fratelli tutti, 142).
Da sempre ci sta a cuore il benessere di ogni persona, delle comunità, dell’intero Paese, mentre ci preoccupa qualsiasi tentativo di accentuare gli squilibri già esistenti tra territori, tra aree metropolitane e interne, tra centri e periferie. In questo senso, il progetto di legge con cui vengono precisate le condizioni per l’attivazione dell’autonomia differenziata – prevista dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione – rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, che è presidio al principio di unità della Repubblica.
Tale rischio non può essere sottovalutato, in particolare alla luce delle disuguaglianze già esistenti, specialmente nel campo della tutela della salute, cui è dedicata larga parte delle risorse spettanti alle Regioni e che suscita apprensione in quanto inadeguato alle attese dei cittadini sia per i tempi sia per le modalità di erogazione dei servizi.
Gli sviluppi del sistema delle autonomie – la cui costruzione con Luigi Sturzo, nel secolo scorso, è stata uno dei principali contributi dei cattolici alla vita del Paese – non possono non tener conto dell’effettiva definizione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale.
Di fronte a tutto questo, rivolgiamo un appello alle Istituzioni politiche affinché venga siglato un «patto sociale e culturale» (Evangelii gaudium, 239), perché si incrementino meccanismi di sviluppo, controllo e giustizia sociale per tutti e per ciascuno.
Roma, 22 maggio 2024
CONSIGLIO EPISCOPALE PERMANENTE
SCHEDA TECNICA
Annotazioni in merito al DDL
“Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”
Le disposizioni costituzionali
Il Titolo V della Costituzione (artt. 114-133), riguardante le Regioni, le Province e i Comuni, ha subito un’ampia revisione nel 2001.
La normativa vigente affida l’esercizio della potestà legislativa allo Stato e alle Regioni, riservando 17 materie esclusivamente alla legislazione statale (art. 117 comma 2), elencando altre 20 la cui competenza è concorrente tra Stato e Regioni (art. 117 comma 3), mentre spetta a queste ultime la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non inclusa negli elenchi precedenti.
L’attuale dettato costituzionale, a seguito della novella del 2001, prevede che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” possono essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario per tutte le materie di competenza concorrente e tre di competenza esclusiva dello Stato: organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione e tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.
L’art. 116 comma 3 delinea le modalità con cui vengono attribuite le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. A seguito dell’iniziativa della Regione, seguono tre passaggi: il parere degli enti locali; un’intesa tra Regione interessata e lo Stato; una legge statale approvata a maggioranza assoluta dei componenti da entrambe le Camere.
Le iniziative di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna del 2017
In assenza di una normativa di attuazione della procedura delineata dalla Costituzione, le modalità con cui le tre regioni hanno attivato il procedimento descritto sono diverse.
Le Regioni Lombardia e Veneto hanno svolto il 22 ottobre 2017, con esito positivo, due referendum consultivi sull’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. La Regione Emilia-Romagna si è invece attivata, su impulso del Presidente della Regione, con l’approvazione da parte dell’Assemblea regionale, il 3 ottobre 2017, di una risoluzione per l’avvio del procedimento finalizzato alla sottoscrizione dell’intesa con il Governo.
In particolar modo, il Veneto ha chiesto la devoluzione di tutte le 23 materie elencate dall’art. 116 comma 3 Cost; la Lombardia 20, mentre 16 l’Emilia-Romagna.
Il 28 febbraio 2018, il Governo Gentiloni ha sottoscritto con le regioni interessate tre distinti accordi preliminari, chiamate anche “pre-intese”, che hanno individuato i principi generali, la metodologia e
un (primo) elenco di materie in vista della definizione dell’intesa, uguale per le tre Regioni: Tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; Tutela della salute; Istruzione; Tutela del lavoro; Rapporti internazionali e con l’Unione europea.
Il procedimento non è andato oltre. Nel frattempo, però, altre regioni, pur non avendo firmato alcuna pre-intesa con il Governo, hanno espresso la volontà di intraprendere un percorso per l’ottenimento di ulteriori forme di autonomia (ad esempio, Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Campania e Basilicata).
Il disegno di legge in Parlamento
Il DDL n. 1665, già approvato dal Senato, recante “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”, mira a definire i principi generali per l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia (art. 1), nonché le relative modalità procedurali di approvazione delle intese tra lo Stato e le singole regioni interessate (art. 2). Tali intese avranno durata massima decennale, tacitamente rinnovabili per un periodo uguale salvo disdetta di una delle parti manifestata almeno dodici mesi prima della scadenza (art. 7 commi 1-2).
La devoluzione di materie alle Regioni è subordinata alla determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (LEP), riservata allo Stato dalla Costituzione (art. 117 c. 2, lett. m).
I LEP sono stati emanati in ambito sanitario nel 2001, e più recentemente in ambito di alcuni servizi sociali ha provveduto la Legge di Bilancio 2022. Il DDL contiene una delega al Governo affinché li definisca in tutte le materie che implichino prestazioni concernenti i diritti civili e sociali con decreti legislativi entro 24 mesi dall’entrata in vigore della legge (art. 3 comma 1). Questi provvedimenti dovranno anche stabilire le “procedure e le modalità operative per monitorare l’effettiva garanzia in ciascuna Regione dell’erogazione dei LEP in condizioni di appropriatezza e di efficienza nell’utilizzo delle risorse, nonché la congruità tra le prestazioni da erogare e le risorse messe a disposizione” (art. 3 comma 4).
Il DDL prevede la costituzione di una Commissione paritetica Stato-Regioni (art. 5 comma 1) con compiti propositivi (art. 5 comma 1) e di monitoraggio (art. 3 comma 4; art. 8).
Dall’applicazione DDL e di ciascuna intesa non dovranno derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (art. 9 comma 1).
Infine, per evitare squilibri economici fra le Regioni che aderiscono all’autonomia e quelle che non lo fanno, il disegno prevede misure perequative, cioè risorse aggiuntive anche per chi non chiede maggiore autonomia (art. 10).
Alcune valutazioni
In via generale, il DDL aiuta a fornire un quadro più strutturato e coerente per il processo di autonomia differenziata previsto dall’art. 116 comma 3 Cost. Senza di esso, il procedimento sarebbe lasciato totalmente alla negoziazione bilaterale tra Stato e ogni singola Regione, senza alcuna assicurazione che il risultato sia efficiente e giusto.
L’articolo 1, relativo alle “finalità” presenta un insieme di valori – come l’unità nazionale, la solidarietà e l’eliminazione delle discriminazioni e delle disparità di accesso ai servizi essenziali sul territorio (art. 1 comma 1) – e una definizione dei LEP – che “indicano la soglia costituzionalmente necessaria e costituiscono il nucleo invalicabile per rendere effettivi tali diritti su tutto il territorio nazionale e per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, per assicurare uno svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari fra lo Stato e le autonomie territoriali e per favorire un’equa ed efficiente allocazione delle risorse e il pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti civili e sociali” (art. 1 comma 2).- certamente coerenti con i principi costituzionali.
È vero che il DDL non attua direttamente l’autonomia differenziata, limitandosi a definire il procedimento delineato dall’art. 116 comma 3 Cost, ma costituisce certamente un forte segnale politico che stimolerà le Regioni a stipulare intese con lo Stato per la devoluzione di un ampio numero di materie.
Non si possono quindi trascurare alcune preoccupazioni relative particolarmente al principio di solidarietà e di sussidiarietà verticale.
Sotto il primo profilo, la definizione dei LEP non implica che le prestazioni individuate come essenziali siano adeguatamente finanziate e, quindi, effettivamente erogate su tutto il territorio nazionale. Vi è dunque il rischio che alcune Regioni forniscano prestazioni superiori rispetto a quelle minime stabilite dai LEP che invece potrebbero non essere garantite nei territori in maggior difficoltà.
La clausola di invarianza della spesa implica che la convergenza a un livello uniforme di prestazioni avverrebbe auspicabilmente attraverso una rimodulazione delle risorse statali a favore delle Regioni in cui l’offerta di prestazioni è inferiore ai LEP. Ma se, invece, si assumesse che la spesa storica sinora sostenuta dallo Stato in ciascuna regione sia quella necessaria a finanziare i LEP, ne conseguirebbe il consolidamento degli attuali divari nell’offerta di prestazioni pubbliche sul territorio.
Quanto al secondo profilo di preoccupazione – relativo alla sussidiarietà verticale e quindi all’efficienza delle scelte di devolvere una determinata competenza a una Regione – è necessario notare, in via preliminare, che il dettato costituzionale prevede un numero di materie potenzialmente devolvibili molto ampio.
Per gran parte di essa non è possibile attualmente affermare con certezza che vi sia sempre un vantaggio in termini di efficienza in una gestione su base decentrata. Anzi, alcune materie, come la tutela dell’ambiente o della salute o la produzione di energia, sarebbero probabilmente meglio gestite a livello nazionale o sovranazionale anziché a livello regionale.
Inoltre, la devoluzione di determinate materie a Regioni che in esse possiedono particolari competenze e professionalità comporterebbe la perdita per lo Stato di un certo know-how che non potrebbe più essere utilizzato a favore dell’intero territorio nazionale. In altre parole, per una dinamica fisiologica, le Regioni tenderanno a chiedere la devoluzione di materie in cui possiedono eccellenze. Di conseguenza, lo Stato si ritroverebbe privo di esse ma ancora competente in Regioni che non richiederebbero la devoluzione di ambiti in cui sono in maggior difficoltà.
Vi è quindi il rischio concreto che il divario tra le diverse Regioni possa aumentare.
Le misure perequative previste dal DDL potrebbero garantire una maggiore omogeneità nei livelli di prestazione, a patto che tali misure siano effettivamente realizzate e finanziate e che il loro funzionamento non sia differito, ma sia contestuale all’attuazione del quadro normativo con l’entrata in vigore delle prime intese.
Un ultimo profilo di perplessità riguarda l’inevitabile eccessiva frammentazione (per lo meno con riguardo alle Regioni che stipuleranno intese) di regole, leggi, approcci e strumenti amministrativi. Tale frammentazione potrebbe rendere più difficile la mobilità di infraregionale di cittadini e imprese. Inoltre, ostacolerebbe l’obiettivo, imprescindibile per il Paese, di rafforzare la coesione dell’Unione Europea.
In conclusione, è doveroso richiamare l’approccio non ultimativo del DDL. Esso prevede sia la fissazione annuale delle risorse necessarie per finanziare i LEP sia la revocabilità delle intese dopo un decennio dalla sigla.
Se dunque gli effetti e gli impatti dell’Autonomia differenziata non fossero virtuosi, almeno quelli più pesantemente negativi potrebbero essere rimediati.
[1] Occorre rilevare che l’espressione «crisi della democrazia» è equivoca. In primo luogo, la si può intendere in senso neutro, quindi non in un’accezione negativa, e ancora meno catastrofista, bensì come trasformazione della democrazia. Ad esempio, è il caso di Bernard Manin, quando delinea il passaggio dalla democrazia dei partiti alla democrazia del pubblico, all’interno di un’analisi nella quale si individuano i connotati sia della prima che della seconda (cf B. MANIN, Principi del governo rappresentativo, Il Mulino, Bologna 2010). In secondo luogo, «crisi della democrazia» può significare che una determinata cultura politica considera la democrazia esistente come una democrazia fittizia, in ogni caso gravemente lacunosa e perciò da superare in vista di un’altra democrazia. Pensiamo, fra l’altro, al dibattito sulla cosiddetta democrazia formale, la democrazia esistente nei Paesi occidentali, contestata dai Paesi dell’area socialista, in nome di una democrazia effettiva ancora da edificare. In terzo luogo, si possono nutrire perplessità sull’uso dell’espressione «crisi della democrazia», poiché, il più delle volte, non soltanto viene adoperata senza specificarne il significato, ma anche in modo assai discutibile. In questo breve saggio, la si intende in un senso prevalentemente neutro, come spiegato appena sopra, ovvero nel senso di un’opportunità che può essere colta per propiziare cambiamenti positivi, tralasciando quelli negativi.
[2] Si tratta di una letteratura molto vasta. Qui, ci limitiamo a rimandare ai seguenti volumi: S. J. Pharr- R. D. Putnam (a cura di), Disaffected Democracies. What’s Troubling the Trilateral Countries, Princeton University Press, Princeton 2000; G. Zagrebelsky, La democrazia e la felicità, a cura di E. Mauro, Laterza, Roma-Bari 2011; C. Galli, Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino 2011; E. Gentile, Il capo e la folla, Laterza, Roma-Bari 2016. Ma si vedano anche: Strade e Pensieri per Domani, È ancora possibile una buona politica? Stili e obiettivi, Edizioni Paoline, Milano 2023; C. Galli, Democrazia ultimo atto?, Einaudi, Torino 2023; M. Conway, L’età della democrazia. L’Europa occidentale dopo il 1945, Carocci editore, Roma 2023; M. Barberis, Separazione dei poteri e giustizia digitale, Mimesis edizioni, Milano 2023; F. Pastore, Migramorfosi. Apertura o declino, Einaudi editore, Torino 2023; T. Boeri-R. PerottI, PNRR. La grande abbuffata, Feltrinelli, Milano 2023; S. Cassese, Le strutture del potere, Intervista di Alessandra Sardoni, Editori Laterza, Bari-Roma 2023; A. Colombo, Il governo mondiale dell’emergenza. Dall’apoteosi della sicurezza all’epidemia dell’insicurezza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2022. Dal punto di vista della Dottrina sociale della Chiesa può essere consultato: M. Toso, Per una nuova democrazia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016.
[3] Cf E. Gentile, Il capo e la folla, Laterza, Roma-Bari 2016. Secondo Emilio Gentile la democrazia recitativa non nega la libera scelta dei governanti da parte dei governati: la rende semplicemente irrilevante per la politica del capo dopo l’elezione al governo. Simile alla democrazia criticata dagli antichi greci, la democrazia recitativa è una raffinata forma di demagogia, che vorrebbe far apparire la democrazia del capo e della folla la migliore fra le migliori forme di governo. Mentre, nella realtà, può essere la peggiore fra le peggiori, perché opera per mantenere i governati in una condizione permanente di moltitudine apatica, beata o beota, simile alle gioiose famiglie degli spot pubblicitari, ma comunque servile, incapace persino di accorgersi di vivere in una democrazia recitativa dove la libertà, come la scelta e la revoca dei governanti, è solo una delle parti assegnate in copione.
[4] Sulla crisi della politica e della democrazia contemporanea si possono leggere con frutto: Strade e Pensieri per Domani, È ancora possibile una buona politica? Stili e obiettivi, Edizioni Paoline, Milano 2023; C. Galli, Democrazia ultimo atto?, Einaudi, Torino 2023; M. Conway, L’età della democrazia. L’Europa occidentale dopo il 1945, Carocci editore, Roma 2023; M. Barberis, Separazione dei poteri e giustizia digitale, Mimesis edizioni, Milano 2023; F. Pastore, Migramorfosi. Apertura o declino, Einaudi editore, Torino 2023; T. Boeri-R. Perotti, PNRR. La grande abbuffata, Feltrinelli, Milano 2023; S. Cassese, Le strutture del potere, Intervista di Alessandra Sardoni, Editori Laterza, Bari-Roma 2023; A. Colombo, Il governo mondiale dell’emergenza. Dall’apoteosi della sicurezza all’epidemia dell’insicurezza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2022. Dal punto di vista della Dottrina sociale della Chiesa può essere letto: M. Toso, Per una nuova democrazia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016.
[5] Su questo, ci permettiamo di rinviare a M. Toso, Democrazia e libertà. Laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, LAS, Roma 2006, pp. 205-208.
[6] Cf Z. Bauman, Il demone della paura, Laterza-L’Espresso, Roma-Bari 2014.
[7] Cf M. Magatti-C. Giaccardi, Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, Milano 20165, p. 30.
[8] Cf su questo almeno Francesco, Messaggio per la LVII Giornata mondiale della pace 2024, Intelligenza artificiale e pace 1° gennaio 2024.
[9] Leone XIII, Lettera enciclica Libertas praestantissumus (20.06.1888), in «Acta Sanctae Sedis» (=ASS), 20, (1887-1888) 593-613.
[10] Cf Giovanni Paolo II, Centesimus annus (=CA), Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1991, nn 4 e 17 (=CA).
[11] Su questo si legga anche Francesco, Discorso ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno, Aula della Benedizione (lunedì, 8 gennaio 2024).
[12] GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus (=CA) in AAS 83 (1991) 793-867. Per il testo italiano e la numerazione, si segue la raccolta I documenti sociali della Chiesa. Da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, pp. 491-572, n. 46.
[13] Per uno sguardo complessivo sul pensiero sociale di Giovanni Paolo II si legga M. Toso, Welfare Society. La riforma del welfare: l’apporto dei pontefici, LAS, Roma 20032, pp. 388-500.
[14] Su questo binomio nella DSC cf E. COLOM, Democrazia: libertà, verità e valori in «La società», 2 (1993) 243-264.
[15] Cf A. MacINTYRE, After Virtue: A Study in Moral Theory, University of Notre Dame Press, Notre Dame/IN 1984, pp. 56ss.
[16] Cf G. ABBA’, Felicità, vita buona e virtù, Las, Roma, 1989, p. 100.
[17] Cf CA 50.
[18] Cf CA 46.
[19] Cf, ad es., H. Kelsen, I fondamenti della democrazia, Il Mulino, Bologna 19703, pp. 199-257; B. Ackerman, La giustizia sociale nello Stato liberale, Il Mulino, Bologna 1984, pp. 454-490. Per una rapida informazione su pensatori, anche italiani, che si collocano nello stesso alveo di pensiero relativistico e formalistico, cf E. Berti, Momenti della rifondazione etica della democrazia in AA.VV., Valori morali e democrazia, a cura di G. Galeazzi, Massimo, Milano 1986, pp. 104-115, specie pp. 108-110. Sul pensiero di H. Kelsen, cf anche R. Gatti, Abitare la città, Dehoniane, Roma 1992, pp. 188-194; V. Possenti, Le società liberali al bivio, Marietti, Perugia 1991, pp. 315-345.
[20] CA 46.
[21] Cf ib.
[22] Cf ib., 51.
[23] Cf ib., 36.
[24] Cf ib.
[25] Cf ib.
[26] Cf ib., 41.
[27] Ib., 36.
[28] Cf ib., 50-51.
[29] Cf Benedetto XVI, Caritas in veritate (=CIV), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, N. 26. Si vedano anche l’edizione LAS (Roma 20102), dal titolo La speranza dei popoli. Lo sviluppo della carità nella verità, con lettura e commento da parte di Mario Toso; l’edizione Cantagalli (2009) con introduzione di S. Ecc. Mons. Giampaolo Crepaldi; l’edizione Libreria Editrice Vaticana-AVE (Città del Vaticano-Pomezia 2009) corredata dal commento di vari Autori (Franco Giulio Brambilla, Luigi Campiglio, Mario Toso, Francesco Viola, Vera Zamagni); l’edizione Libreria Editrice Vaticana-EDB, Città del Vaticano-Bologna 2009, con Linee guida per la lettura, a cura di Giorgio Campanini; e inoltre: Aa.Vv., Amore e Verità. Commento e guida alla lettura dell’Enciclica «Caritas in veritate» di Benedetto XVI, Paoline, Milano 2009. Infine, ci permettiamo di segnalare anche la recente lettura pastorale dell’enciclica da parte di M. Toso, Il realismo dell’amore di Cristo, Studium, Roma 2010.
[30] Su questi aspetti hanno fermato la loro attenzione anche Joseph Ratzinger e Jürgen Habermas. Si veda, ad esempio, J. Ratzinger-J. Habermas, Etica, religione e Stato liberale, Morcelliana, Brescia 2004.
[31] Considerare l’aborto come «diritto» apre un baratro di cui non si scorge il fondo: si praticherà quando e come si vuole, senza limiti, nei suoi confronti non varrà l’obiezione di coscienza, che pure è caposaldo delle libertà personali. Nell’ottica della decisione francese, chi obietterà si opporrà all’esercizio di un diritto, entrerà in uno spazio giuridico negativo, fino a poter subire sanzioni.
[32] Un caso che ha fatto discutere circa la competenza dello Stato ad interferire nella libertà di coscienza di individui e gruppi, è quello dell’obbligo imposto, tramite un mandato federale, dall’Amministrazione Obama alla Chiesa cattolica degli Stati Uniti, di offrire ai propri dipendenti copertura sanitaria per metodi contraccettivi e per pratiche abortive. Forzando così, contro coscienza, a sostenere pratiche di birth control anche coloro che le ritengono contrarie all’etica coerente con la propria fede. Non si tratta di un mero problema di diritto assicurativo. Si tratta di un gravissimo problema, connesso con il diritto alla libertà religiosa nel senso più ampio del termine, e con la missione universale della Chiesa. Per essere esenti da questa misura, gli enti cattolici dovrebbero dedicarsi all’evangelizzazione come unica missione e impiegare e prestare i loro servizi solo a persone di fede cattolica. Ciò contraddirebbe la stessa missione universale della Chiesa che, per volontà del suo fondatore, è al servizio di ogni uomo e di tutto l’uomo, indipendentemente dal credo di appartenenza. In definitiva, si tratta di una coartazione da parte di un Governo, che pretende di dire ad una comunità religiosa quale dev’essere la sua missione.
[33] «[…] i diritti individuali – si legge nella CIV -, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri. L’esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri. I doveri delimitano i diritti perché rimandano al quadro antropologico ed etico entro la cui verità anche questi ultimi si inseriscono e così non diventano arbitrio. Per questo motivo i doveri rafforzano i diritti e propongono la loro difesa e promozione come un impegno da assumere a servizio del bene».
[34] Cf CIV 43.
[35] Ib.
[36] Cf CIV 29.
[37] I limiti alle prerogative dello Stato nel campo della libertà di religione sono stati peraltro recentemente riaffermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, con sentenza del 15 maggio 2012, ha definito il grado di autonomia delle confessioni religiose in materia di scelta del proprio personale docente incaricato di insegnare religione e morale anche nei centri di istruzione sovvenzionati dallo Stato.
[38] Secondo papa Francesco occorre coltivare una corretta cultura dei diritti. Essa deve germogliare da una antropologia che non sia monca. «Vi è infatti oggi – afferma papa Francesco ‒ la tendenza verso una rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali ‒ sono tentato di dire individualistici ‒, che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale e antropologico, quasi come una “monade” (μονάς), sempre più insensibile alle altre “monadi” intorno a sé. Al concetto di diritto non sembra più associato quello altrettanto essenziale e complementare di dovere, così che si finisce per affermare i diritti del singolo senza tenere conto che ogni essere umano è legato a un contesto sociale, in cui i suoi diritti e doveri sono connessi a quelli degli altri e al bene comune della società stessa. Ritengo perciò che sia quanto mai vitale approfondire oggi una cultura dei diritti umani che possa sapientemente legare la dimensione individuale, o, meglio, personale, a quella del bene comune, a quel “noi-tutti” formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Infatti, se il diritto di ciascuno non è armonicamente ordinato al bene più grande, finisce per concepirsi senza limitazioni e dunque per diventare sorgente di conflitti e di violenze» (Discorso al Parlamento Europeo, 25 novembre 2014).
[39] Francesco, Discorso al Consiglio d’Europa, 25 novembre 2014.
[40] Cf ib.
[41] Benedetto XVI, Messaggio per la celebrazione della Giornata mondiale della Pace (1°gennaio 2011): libertà religiosa, via per la pace, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010.
[42] Le posizioni del fanatismo e del fondamentalismo finiscono per attribuire il diritto alla libertà religiosa solo ad alcuni soggetti e gruppi autoreferenziali e, allo stesso tempo, vorrebbero imporre ad altri le proprie concezioni anche con l’uso della violenza. Per questa via, negano l’universalità, l’intangibilità e la reciprocità della libertà religiosa. All’atto pratico, rifiutano la verità di un Dio, Padre di tutti – peraltro voler uccidere in nome di Dio è bestemmiarlo e offendere l’umanità ‒, nonché l’uguaglianza di dignità delle persone, la figura di uno Stato laico e aconfessionale, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, peraltro sancita nella Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo. Talora fomentano un atteggiamento di discriminazione, che provoca azioni irrazionali, sino a veri e propri atti di violenza, ad attentati contro luoghi di culto ed abitazioni, a persecuzioni ed uccisioni, come documenta, relativamente ai cristiani, il recente volume di René Guitton (cf R. Guitton, Cristianofobia. La nuova persecuzione, Lindau, Torino 2010).
[43] Il laicismo secolaristico, maggiormente presente nei Paesi occidentali, giunge al rifiuto del pluralismo religioso e di una laicità positiva attraverso la via singolare della negazione non solo del cristianesimo, ma di qualsiasi altra religione o tradizione, nel tentativo di promuovere una radicale emancipazione dell’uomo da Dio. Ciò viene fatto mediante un atteggiamento chiaramente prometeico, che considera la religione un fattore destabilizzante la società e oppressivo della libertà umana. Nel suo discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Benedetto XVI elenca una serie di casi in cui si tende a considerare la religione, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedirne ogni influenza nella vita sociale (cf Benedetto XVI, Discorso al corpo diplomatico della Santa Sede (10 gennaio 2011), in «L’Osservatore romano» [lunedì-martedì 10-11 gennaio 2011], p. 8).
[44] Cf J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture. Introduzione di Marcello Pera, Libreria Editrice Vaticana-Edizioni Cantagalli, Roma-Siena 2005, pp. 39-40.
[45] Cf Giovanni paolo ii, Centesimus annus, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, n. 46; M. Toso, Democrazia delle regole o dei valori? La dimensione antropologica ed etica della democrazia, in ID., Democrazia e libertà. Laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, LAS, Roma 2005, pp. 51-81.
[46] Cf Francesco, Fratelli tutti (=FT), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2020; M. Toso, Fratellanza o fraternità? Introduzione alla lettura dell’Enciclica «Fratelli tutti», Tipografia Faentina, Faenza 2021.
[47] Queste affermazioni possono essere approfondite con l’aiuto del personalismo comunitario coltivato da alcuni filosofi francesi quali Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier. Su quest’ultimo, in particolare, merita che siano letti i contributi di vari pensatori contemporanei che ne hanno illustrato e commentato l’umanesimo relazionale in occasione del centenario della nascita (1905-2005). Si veda in proposito: M. Toso, (Ed.), Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Nel Centenario della nascita (1905-2005), vol. I, LAS, Roma 2005, pp. 400; ID., (Ed.), Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale: Mounier e oltre, vol. II, LAS, Roma 2005, pp. 489.
[48] Cf E. Mounier, Révolution personnaliste et communautaire, Oeuvres, col. III, p. 492, trad. it. p. 113.
[49] Cf M. Toso, Riappropriarsi della democrazia, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2015 (prima ristampa), pp. 9-59. Una stesura più ampia degli stessi contenuti può essere trovata in ID., Per una nuova democrazia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016.
[50] Questa prospettiva è tipica della Dottrina sociale della Chiesa. Essa, come hanno recentemente sottolineato Michael Sandel, Pankai Mishra, Marilynne Robinson, riferendosi in specie alla FT, consente di evitare assolutizzazioni del libero mercato, in particolare di una libertà disancorata dalla verità, dalla fraternità e dalla solidarietà, che crede che ci si possa fare da soli, che siamo autosufficienti; assolutizzazioni della politica nella sua hybris di dominio che giunge di fatto ad escludere dal governo il popolo, i movimenti popolari, gli esclusi: i partiti oggi, divenuti eccessivamente tecnocratici non si peritano di essere accompagnati da movimenti di massa, dalla gente comune, avvalendosi del loro torrente di energia morale. Consente di non avere un progetto di giustizia ridotta al solo aspetto distributivo, dimenticando quello contributivo. Per giustizia contributiva si deve intendere la vita di una società in cui l’economia è configurata in modo che ciascuno possa contribuire in qualche modo significativo al bene comune, sia attraverso il mercato del lavoro sia in altri modi, in famiglia e nelle comunità. Consente, infine, di pensare al bene comune come ciò che presuppone uno stile di vita condiviso in condizioni di pluralismo e, inoltre, a deliberazioni che mirano a qualcosa di più del semplice consenso, ossia a qualcosa che sia anche vero (cf Fratelli tutti, solidarietà sociale e fede nel mercato: confronto tra Pankaj Mishra, Marilynne Robinson e Michael Sandel, in «Vita e Pensiero», anno CIV, maggio-giugno 2021, pp. 17-29).
[51] Cf M. Toso, La speranza dei popoli. Lo sviluppo nella carità e nella verità. L’enciclica sociale di Benedetto XVI, letta e commentata, LAS Roma 20102, pp. 45-64.
[52] Un tale amore, proprio perché strutturato a tu – ossia fatto in particolare per il colloquio e l’intimità con il Tu che è Dio Padre – è intrinsecamente orientato in senso fraterno. Trattandosi di un amore che è aperto a Dio Padre ci consente di riconoscere in Lui l’origine di una paternità comune. Proprio per questo diventa un amore originante fraternità e amicizia sociale. Ci sollecita ad uscire da noi stessi per riconoscere negli altri non solo dei propri simili in umanità, bensì dei fratelli in Cristo, quali figli di Dio nel Figlio. La fraternità, dunque, sboccia, quale prassi morale, dal dinamismo stesso dell’amore. È inscritta nella tensione dell’amore-carità che porta – simultaneamente al riconoscerci figli di uno stesso Padre -, ad una progressiva apertura verso l’altro, fratello o sorella: un’apertura che, come accennato, è intrinseca nello stesso essere umano, creato ad immagine di Dio, come essere strutturalmente sociale, fatto per vivere in un «noi di persone». Detto altrimenti, l’amore-carità consente di riconoscere negli altri fratelli e sorelle. Non solo. Sollecita a far sì che la fraternità di cui siamo impastati e costituiti ontologicamente, per origine divina, non sia solo un semplice dato di fatto, ma divenga prassi etica, essenza del nostro essere morale, della nostra condotta. La fraternità, assunta liberamente e responsabilmente sul piano morale, distinto ma non separato dal piano ontologico – la morale si istituisce su una linea propria, diversa da quella metafisica -, diviene parte costitutiva del nostro telos trascendente.
[53] Cf FT 165.
[54] Cf FT., n. 19.
[55] Cf CIV 24.
[56] Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa.
[57] Cf Intervento di S. Ecc. Mons. Mario Toso a Tirana (21 maggio 2013): difendere i diritti dei cristiani e dei membri di altre religioni nella zona dell’OSCE contro la discriminazione, in «L’Osservatore Romano» (mercoledì 29 maggio 2013), p. 2
[58] Cf Jorge Mario Card. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, Presentazione di Mario Toso, Libreria Editrice Vaticana-Jaca Book, Città del Vaticano-Milano 2013, p. 31.
[59] Cf CIV, n. 35.
[60] L’idea di una democrazia «samaritana», chiaramente allusa nella FT, sembra già presente nel pensiero del cardinale Bergoglio, che ebbe a scrivere: «La parabola del buon samaritano ci mostra con quali iniziative si può ricostruire una comunità, partendo da uomini e donne che sentono ed operano come veri soci (nel senso antico di concittadini). Uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non permettono che sorga una società dell’esclusione, ma che si avvicinano – si fanno vicini – e sollevano e curano chi è caduto, affinché il Bene sia Comune. L’inclusione o l’esclusione del ferito ai bordi della strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi. Tutti ci troviamo di fronte ogni giorno alla scelta tra l’essere samaritani o indifferenti viaggiatori che si tengono alla larga» (Jorge Mario Bergoglio, Nel cuore dell’uomo. Utopia ed impegno, Bompiani, Milano 2013, p. 63).
[61] Cf EG. 226.
[62] Per una riflessione sintetica sul rapporto tra comunità civile e società politica, sugli elementi costitutivi della comunità politica, sul rapporto tra persona, multietnicità e multireligiosità; sulla relazione tra comunità politica, Nazione e Stato; sul concetto di autorità, sulla relazione tra autorità e ordinamento giuridico, su autorità partecipata (rappresentanza, referendum, partiti, informazione), plurale o decentrata, sulla democrazia e sulla sua crisi contemporanea, nonché sull’apporto di papa Francesco in vista della sua soluzione, si veda M. Toso, Dimensione sociale della fede. Sintesi aggiornata di Dottrina sociale della Chiesa, LAS, Roma 20233, pp. 345-422.
[63] Cf Appendice n. 1, Nota del Consiglio Episcopale Permanente della CEI, 22 maggio 2024.
[64] Cf S. Zamagni, Prefazione, in M. Toso, Cattolici e politica in un tempo di cambiamento epocale, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2019, pp. 28-29.
[65] Cf M. Toso, Nuova evangelizzazione del sociale. Per una nuova cultura politica e di democrazia, Edizioni della Diocesi di Faenza-Modigliana, Universal Book di Rende- CS 2024.
[66] Cf M. Zuppi, Prolusione al Convegno su «Il Codice di Camaldoli», 21/07/ 2023.
[67] Cfr Conferenza Episcopale Italiana, Lettera collettiva, 1952; Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, 1989; Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, 2010; Episcopato meridionale, Lettera collettiva. I problemi del Mezzogiorno, 1948.
[68] Conferenza Episcopale Italiana, Per un Paese solidale…, n. 1.