Ravenna, solennità di san Giovanni Bosco, 31 gennaio 2021.
Cari fratelli e sorelle, oggi ricordiamo un grande santo, san Giovanni Bosco, sacerdote, suscitato da Dio per i giovani, fondatore dei Salesiani, delle Figlie di Maria Ausiliatrice e dei Cooperatori salesiani. Victor Ugo lo definì un uomo da leggenda. Paul Claudel un volto modellato da Dio per mostrare ai giovani la sua bontà. Agli occhi di Pio IX don Bosco parve, in un tempo in cui si cercava di costruire l’unità nazionale, il tesoro d’Italia. Pio XI, papa Ratti, che da giovane visitò Valdocco, e che lo canonizzò il 1° aprile 1934 nel giorno di Pasqua, lo considerò un colosso di santità.
Giovane sacerdote, don Bosco si reca a Torino per chiedere consiglio a don Cafasso, direttore, assieme a don Guala, del Convitto ecclesiastico. Gli domanda cosa potesse fare. Don Cafasso vede lungo. Invita il giovane sacerdote a fermarsi da lui. La carica umana e spirituale di don Bosco non poteva essere racchiusa nel compito di precettore in una famiglia nobile. Torino, invece, poteva essere il campo pastorale commisurato alle sue capacità e al suo entusiasmo sacerdotale. Nel Convitto i giovani sacerdoti al mattino ascoltavano alcune lezioni sulla vita pastorale. Nel resto della giornata, i preti venivano mandati a esercitare il ministero nell’ambiente cittadino: visitando ospedali, carceri, istituti di beneficenza, tenendo prediche e il catechismo ai giovani, svolgendo assistenza ai malati. Don Bosco si affacciò così su un mondo che gli era quasi sconosciuto. Infatti, fino a questo momento, conosceva soltanto la povertà delle campagne. Non sapeva cosa fosse la miseria delle periferie cittadine. E così, andando per la città si fece un’idea sulle condizioni sociali e morali di tanti giovani. I sobborghi erano zone di fermento e di rivolta, cinture di desolazione. Adolescenti vagabondavano per le strade, disoccupati, intristiti, pronti al peggio. Giocavano, si azzuffavano, bestemmiavano. Accanto al mercato generale della città, c’era un vero «mercato delle braccia giovani». I luoghi adiacenti a Porta Palazzo brulicavano di ambulanti, di venditori di zolfanelli, di lustrascarpe, spazzacamini, mozzi di stalla, spacciatori di foglietti, garzoni di negozianti: tutti poveri giovani che vivacchiavano alla giornata. I primi giovani che poté contattare erano scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori. Quei giovani erano i primi «risultati» dell’incipiente rivoluzione industriale e dell’affollamento degli immigrati nelle cinture della città. Molti di essi venivano dalle montagne e dalle vallate attorno a Torino, con pochi spiccioli in tasca, attirati dal miraggio di un qualunque lavoro per campare. Ma il lavoro non c’era per tutti. Spesso erano sfruttati, malpagati, malvestiti e affamati. Non raramente dormivano in luoghi di fortuna. Bande di giovani vagavano, soprattutto la domenica, per le strade e le rive del Po. Don Bosco, che assieme a don Cafasso visitava le carceri, tira rapidamente i conti. Questi ragazzi avevano bisogno di una casa, di una famiglia, di scuola, di formazione professionale, di un lavoro più stabile e sicuro. Avevano bisogno di poter essere ragazzi, di poter saltare e giocare in spazi verdi. Avevano bisogno di incontrarsi con Dio, per scoprire e realizzare la loro dignità. Ecco allora don Bosco diventare amico di tanti di quei giovani, coi quali si fermava a parlare, li organizzava nel gioco, nel fare passeggiate, nel cantare. Andava a visitarli in mezzo ai loro lavori, nei cantieri. Finì per organizzare un Oratorio, ove i suoi ragazzi potessero trovarsi, giocare, pregare, imparare il catechismo, confessarsi. L’incontro con i ragazzi nell’Oratorio si allarga a tutto il giorno di festa. Giunge ad inglobare la settimana con le scuole serali. I ragazzi sono conquistati dalla bontà di don Bosco. Egli era cosciente che accogliendoli, accoglieva ed amava Gesù (cf Mt 18, 1-6.10). Egli, oltre a giocare con loro, lavorava, studiava, scriveva, chiedeva l’aiuto a diversi benefattori. Col tempo la sua opera si diffonde anche fuori Torino. Mentre il numero dei giovani cresceva, don Bosco scelse i suoi principali collaboratori tra di essi. Li osservava, li accompagnava e poi, al momento giusto, faceva a loro la proposta di aiutarlo all’Oratorio, nei laboratori, nelle sue scuole. Sempre con i suoi giovani fondò la Congregazione salesiana, che si diffuse in tutto il mondo. Don Bosco, insomma, li responsabilizzava, come quando arrivò il colera a Torino, nel 1854. L’epicentro della pestilenza fu Borgo Dora, a pochi passi da Valdocco. Il sindaco rivolge un appello a tutta la città: occorreva gente coraggiosa che si recasse ad assistere i malati, a trasportarli nei lazzaretti, perché il contagio non si diffondesse. Don Bosco convoca i più grandi e si rivolge a loro con una promessa: se vi mettete in grazia di Dio e non commetterete alcun peccato mortale, io vi assicuro che nessuno sarà colpito dal colera. Don Bosco esigeva ogni precauzione. Ciascuno dopo aver toccato i malati doveva lavarsi le mani. Nessuno fu contagiato.
Oggi vorremmo ricordare il Fondatore dei salesiani per alcuni tratti di particolare attualità. Come detto, al tempo di Don Bosco tanti giovani non vedevano prospettive positive per il loro futuro e vivevano nell’indigenza e con il rischio di finire in brutti giri. Anche oggi cresce sempre più il numero di giovani che per sfiducia nel futuro non studiano e non lavorano andando così ad aggravare ulteriormente una precaria condizione personale nel settore della formazione e, conseguentemente, in quello occupazionale e professionale. Don Bosco, come già accennato, preparava i suoi giovani al lavoro con una formazione professionale adeguata. Si impegnò a far valere i diritti dei giovani lavoratori e a stipulare contratti di apprendistato. In questo tempo di pandemia la sollecitudine di Don Bosco dovrebbe servire di esempio per non sottrarre ai giovani una cultura di base o per non condizionare negativamente il loro futuro. A fronte di giovani senza scuola e senza lavoro bisognerebbe pensare anche ad una formazione professionale sia pure di emergenza. In un momento di crisi come il nostro, può essere indispensabile indirizzare i giovani anche a mestierid’urgenza, che non richiedono anni di studio, ma si apprendono alla scuola di artigiani provetti o mediante corsi professionalizzanti di breve durata, organizzati ad hoc. L’enorme fabbisogno di risorse per i ristori alle tante attività in crisi, per finanziare la sanità, gli ammortizzatori sociali aggrava il nostro debito pubblico. Tali ingenti risorse non dovrebbero essere erogate in modo assistenzialistico. Dovrebbero, invece, essere investite pensando anche alle nuove generazioni tenendo conto del fatto che il nuovo debito che il Paese sta contraendo, seppure a condizioni agevolate, finirà per gravare proprio sulle loro spalle. L’elargizione del denaro non dovrebbe avvenire, senza pensare alla trasformazione e al rilancio dei vari settori produttivi, alla sostenibilità del sistema previdenziale per le future generazioni.
Don Bosco – ecco un altro tratto -, mediante il suo sistema educativo, fondato sulla prevenzione e non sulle punizioni, diede ai suoi giovani un’educazione integrale, coltivando tutte le dimensioni del loro essere. Puntava a fare di essi dei buoni cristiani e degli onesti cittadini. Alla base della sua educazione stava proprio l’amore preveniente e rigenerante di Dio.Le sue case e l’Oratorio non erano realtà chiuse in se stesse. Il noto semiologo Umberto Eco, scomparso anni fa, ha definito l’Oratorio organizzato da don Bosco come una macchina perfetta di comunicazione, che gestisce in proprio, riutilizza e discute i messaggi provenienti dall’esterno. In tal modo, il progetto educativo dell’Oratorio nasceva stando nel mondo, divenendo però alternativo, non conformista, apportatore di innovazioni. Tutta l’attività educativa di don Bosco era animata da una concezione trascendente della vita. Basti questa testimonianza di uno dei più illustri ex-allievi dell’Oratorio di Torino: don Orione. Quando don Bosco venne dichiarato santo, don Orione scrive ai suoi chierici nel 1934: «Ora vi dirò la ragione, il motivo, la causa per cui don Bosco si è fatto santo. Don Bosco si è fatto santo perché nutrì la sua vita di Dio. Alla sua scuola imparai che quel santo non ci riempiva la testa di sciocchezze, o di altro, ma ci nutriva di Dio, e nutriva se stesso di Dio, dello Spirito di Dio. Come la madre nutre se stessa per poi nutrire il proprio figliolo, così don Bosco nutrì se stesso di Dio per nutrire di Dio anche noi».
In questa Eucaristia ringraziamo il Signore per aver suscitato nella Chiesa don Bosco, pastore secondo il suo cuore (cf Ez 34), padre e maestro della gioventù.
+ Mario Toso