- Fonti della spiritualità
Celebrando la santa Messa abbiamo già riflettuto sulla fonte che è l’Eucaristia. Il momento liturgico della santa Messa pone al centro il mistero di Cristo crocifisso e risorto al quale ci si unisce. Partecipando a tale mistero-evento si ascolta la Parola, si fa comunione con il pane spezzato e il sangue versato. Si innalza la preghiera più grande di ringraziamento per i doni che il Signore ci dona. Si costituisce il Corpo di Cristo, che è la Chiesa, nella fraternità e nella partecipazione della sua missione evangelizzatrice ed umanizzatrice.
Un’altra fonte della spiritualità è rappresentata dalla fede e dalla sua dimensione sociale. Fede, non tanto intesa come nozioni e concetti da credere, quanto piuttosto come adesione alla persona di Cristo Gesù, al Cristo pasquale, che crea un mondo nuovo. La fede non è credere ad una dottrina, ad una scienza. È incontro a tu per tu con la persona del Signore Gesù.
È accoglierlo. È innamorarsi di Lui. È vivere Lui, in una doppia compenetrazione noi in Lui e Lui in noi, come i tralci vivono uniti alla vite. San Paolo è giunto a scrivere che, per lui, «vivere è Cristo».
È dimorare con Cristo, in Cristo. È fare esperienza della sua vita per intero: unendosi alla sua incarnazione, alla sua opera di ricapitolazione di tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra (cf Ef 1,10). È partecipare alla salvezza integrale che opera Cristo, che salva ogni uomo e tutto l’uomo, ogni popolo e tutti i popoli, senza distinzioni di razza, tribù, lingua e nazione. È impegnarsi a salvare, ad umanizzare non solo la vita interiore delle persone, ma anche le loro relazioni sociali, il «volume totale» delle loro dimensioni costitutive (corporeità, soggettività, socialità, apertura alla Trascendenza), le istituzioni, la politica.
Specificando quanto già detto, fonte della spiritualità dell’impegno sociale e politico è non una fede in astratto, disincarnata, bensì una fede il cui contenuto è ineludibilmente sociale.
Come ha bene spiegato papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (=EG) se il credente confessa un Padre che ama infinitamente ciascun essere umano deve rendersi conto che gli conferisce una dignità infinita. Così, se i credenti confessano che il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne umana vuol dire che ogni persona è stata elevata al cuore stesso di Dio.
«Confessare che Gesù ha dato il suo sangue per noi ci impedisce di conservare il minimo dubbio circa l’amore senza limiti che nobilita ogni essere umano. La sua redenzione ha un significato sociale perché “Dio, in Cristo, non redime solamente la singola persona, ma anche le relazioni sociali tra gli uomini”. Confessare che lo Spirito Santo agisce in tutti implica riconoscere che Egli cerca di penetrare in ogni situazione umana e in tutti i vincoli sociali: “Lo Spirito Santo possiede un’inventiva infinita, propria della mente divina, che sa provvedere e sciogliere i nodi delle vicende umane anche più complesse e impenetrabili”» (EG 178).
Altra fonte della spiritualità dell’impegno sociale e politico è la stessa Chiesa costituita da Cristo come popolo in comunione con Lui e vivente con slancio e coraggio della sua stessa missione. Chi, in forza del Battesimo, della Comunione e della Crismazione, vive inserito in Cristo, vive del dono del suo Spirito d’amore e di verità, è chiamato ad essere missionario, a vivere in uno stato permanente di missione evangelizzatrice in tutti i campi, compreso l’ambito del sociale, inteso in senso ampio.
Rispetto a questo compito va superata l’attuale distanza di molte comunità e di molti credenti dall’esigenza di redenzione e di rinnovamento del sociale. E ciò sulla base della gioia di comunicare Cristo in tutti i luoghi, tramite una costante uscita verso il proprio territorio, verso i nuovi ambiti socioculturali, entrando in un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma dei metodi pastorali e delle prassi. Occorre potenziare la mistica del vivere insieme, la sollecitudine di trasformare la vita comunitaria in una vera esperienza di fraternità attraente e luminosa, ricca di vocazioni «forti». Come ha sottolineato opportunamente papa Francesco «anche se si nota una maggiore partecipazione di molti ai ministeri laicali, questo impegno non si riflette nella penetrazione dei valori cristiani nel mondo sociale, politico ed economico. Si limita molte volte a compiti intraecclesiali senza un reale impegno per l’applicazione del Vangelo alla trasformazione della società. La formazione dei laici e l’evangelizzazione delle categorie professionali e intellettuali rappresentano un’importante sfida pastorale» (EG 102).
- Perché l’impegno dei credenti nella penetrazione dei valori cristiani nel mondo economico, sociale e politico sembra essersi affievolito?
Le cause sono molteplici. Tra di esse si deve senz’altro annoverare il venir meno del radicamento della vita dei cattolici nel contesto spirituale e culturale di una fede viva. L’indebolimento della fede e di una spiritualità cristiana incarnata ha favorito lo scollamento tra la dimensione religiosa della vita del credente e il suo impegno politico. E, inoltre, ciò ha fatto sempre più che il credente fosse incapace di rendere socialmente visibile il contenuto morale della fede. A lungo andare, tutto questo ha provocato il secolarismo dei movimenti sociali di ispirazione cristiana rispetto ai valori evangelici e all’esperienza di una fede vissuta profondamente, generando il disfacimento di una formazione e di una mentalità cristiane. Non raramente, la Dottrina sociale della Chiesa – fonte di una spiritualità incarnata dell’impegno sociale e politico – , oltre che ad essere considerata troppo astratta per affrontare i problemi concreti, è rimasta negli Statuti delle organizzazioni cattoliche o di ispirazione cristiana, come affermazione di principio, senza essere tradotta nella pratica! Di fatto, la Dottrina sociale della Chiesa è ormai pressoché ignorata da molte associazioni, aggregazioni, movimenti cattolici o di ispirazione cristiana, specie da parte delle nuove generazioni. Per non parlare, poi, della vita parrocchiale: ci sono indagini che rilevano che la catechesi è impartita da persone, che, per l’80%, ignorano che cosa sia la Dottrina o Insegnamento sociale della Chiesa e, quindi, non sono in grado di veicolarla nella loro opera educativa. L’assenza della Dottrina sociale dall’orizzonte valoriale dei cattolici li priva di uno strumento essenziale per il discernimento, per la progettualità, per una spiritualità incarnata. Viene meno quell’insieme di principi di riflessione, di criteri e di orientamenti pratici, che sono indispensabili per la formazione di un giudizio critico sulla realtà e per l’azione costruttrice della società, conformemente alla dignità delle persone, dal punto di vista sia umano che cristiano.
Come ha ricordato papa Francesco venendo a Cesena nel 2017 all’origine della spiritualità dell’impegno sociale e politico esiste in ognuno una vocazione umana al bene comune.[1] Nessuno può sentirsi esonerato dalla sollecitudine nei confronti del bene comune e della giustizia sociale. Ma per chi vive in Cristo esiste anche una vocazione cristiana all’impegno sociale e politico.[2]
Le due vocazioni – vocazione umana e vocazione cristiana – non si contrappongono. La vocazione cristiana al bene comune non cancella la vocazione umana allo stesso bene, non la ostacola, bensì la include, la lievita, la consolida nella sua giusta autonomia.
Con riferimento alla scarsa coscienza di una vocazione cristiana all’impegno sociale e politico risulta ancora attuale la denuncia di Giuseppe Dossetti, che in suo scritto di anni fa sottolinea le insufficienze dei cristiani e del clero con queste parole: «Una porzione troppo scarsa di battezzati consapevoli del loro battesimo rispetto alla maggioranza inconsapevole. Ancora l’insufficienza delle comunità che dovrebbero formarli; lo sviamento e la perdita di senso dei cattolici impegnati in politica, che non possono adempiere il loro compito proprio di riordinare le realtà temporali in modo conforme all’Evangelo, per la mancanza di vero spirito di disinteresse e soprattutto di una cultura modernamente adeguata; e infine l’immaturità del rapporto laici-clero, il quale non tanto deve guidare dall’esterno il laicato, ma proporsi più decisamente il compito della formazione delle coscienze, non a una soggezione passiva o a una semplice religiosità, ma a un cristianesimo profondo e autentico e quindi a un’alta eticità privata e pubblica».[3]
Si tratta, scrive Fabio Pizzul, di «una denuncia chiara della progressiva insignificanza dei cattolici, non determinata tanto da un’ostilità laicista di una società sempre più scristianizzata, quanto piuttosto di un progressivo scadimento della qualità della testimonianza cristiana dei fedeli laici impegnati. A 30 anni circa di distanza della denuncia di Dossetti, la situazione non è certo migliorata e si è probabilmente allontanata, almeno dalla stragrande maggioranza degli italiani, l’idea che la politica possa essere considerata una modalità per testimoniare il Vangelo e, persino, per incamminarsi lungo la via della santità. La notte così efficacemente evocata da Dossetti nel 1994 non pare finita e, se possibile, pare essere diventata ancora più buia, almeno dal punto di vista della possibilità di vedere riconosciuto e valorizzato il contributo dei cattolici alla vita del Paese. L’impressione della loro inutilità diventa così sempre più concreta».[4]
Rispetto a ciò appare necessaria una profonda conversione – uso questo termine, che riprendo dai testi pontifici, anche se corro il rischio di essere poco compreso ‒, pastorale, pedagogica, politica, economica, culturale, come ha sottolineato l’esortazione apostolica Evangelii gaudium.[5] Il che coinvolge necessariamente diocesi, parrocchie, movimenti, che non possono delegare ad altri il compito della formazione politica (non partitica!) del credente impegnato nel sociale e nel pubblico. Le comunità cristiane sono chiamate a formare non tanto dei «sacrestani», come soleva ripetere Vittorio Bachelet, bensì cristiani ben consapevoli della dimensione sociale della loro fede, che assumono con coraggio e responsabilmente la loro vocazione al bene comune. È abbastanza evidente che, se si desiderano nuove rappresentanze, occorre generare un nuovo movimento sociale cattolico, come vivaio di vocazioni alla politica, formato da soggetti che vivono in rete buone pratiche, a servizio del bene comune, con uno sguardo che vada oltre i confini nazionali, aprendosi all’Europa e al mondo. E questo, senza rinunciare all’ispirazione cristiana, anche quando, per varie ragioni, si confluisca in organizzazioni aconfessionali.[6] Sarà possibile esprimere nuovi rappresentanti, soltanto se prima e durante si vive un’azione sociale di popolo. Cosa che, a sua volta, sarà possibile, se si sarà capaci di elaborare un progetto di Paese, di bene comune, di cittadinanza attiva e responsabile, sull’esempio di coloro che, a suo tempo, elaborarono il Codice di Camaldoli.[7] Il contributo dei cattolici che elaborarono il Codice di Camaldoli fu determinante anche in sede di Assemblea costituente. In questa Assemblea i rappresentanti delle grandi correnti di pensiero riuscirono, pur nella differenza delle idee, a costruire un tessuto comune di valori condivisi su cui nei decenni successivi si è sviluppata la convivenza civile del nostro paese. Mi pare, questo, un significativo esempio del ruolo che hanno svolto i cattolici nella politica del nostro paese e che occorrerebbe riscoprire e rivitalizzare. Urge, a tal fine, una nuova cultura politica, rispetto alla quale è fondamentale il riferimento alla Dottrina o Insegnamento sociale della Chiesa, che deve essere conosciuto e sperimentato specie dalle nuove generazioni, contribuendo così, fra l’altro, al suo aggiornamento. Solo una nuova cultura politica consentirà di instaurare un progetto di trasformazione della società e di ravvivare i mondi vitali. Sarà possibile stare in politica da cristiani, se si sarà sorretti da un nuovo movimento sociale e culturale, da una spiritualità, che maturerà coltivando una formazione non solo delle coscienze in sé, ma delle coscienze incarnate, situate storicamente, impegnate in un’azione costruttrice della società. Il che potrà avvenire, promovendo un discernimento incessante nelle aggregazioni, nelle associazioni e nei movimenti cattolici o ad ispirazione cristiana.
- Altre fonti dell’impegno sociale e politico: la «Carità» e la connessa «fraternità».
Nell’enciclica Fratelli tutti papa Francesco ha affermato che la carità è principio architettonico della politica.
Papa Francesco, riflettendo sulla crisi della democrazia contemporanea e sulle sue derive populiste e sovraniste, ma anche su quelle liberali e individualiste, facendo appello proprio ad una migliore politica, indica l’amore o carità e la fraternità quali fattori imprescindibili per la sua guarigione e il suo sviluppo. La politica e la democrazia si irrobustiscono quando siano potentemente animate dalla virtù teologale della carità. Una tale virtù non è un vago sentimento e neppure un amore semplicemente umano. La carità è virtù cardinale, virtù cristiana, che orienta ed unifica gli atti delle varie virtù nella costruzione della vita personale e della vita comunitaria. La carità, dunque, è un amore più che umano. È infusa da Dio nelle persone per renderle capaci di amare come si ama nella Trinità, come ama Cristo. L’amore umano, fragile, a motivo del peccato originale, necessita di essere guarito, integrato dall’amore di Dio, donato e ricevuto. L’amore-carità, amore dall’alto, amore trascendente, amore trinitario, ossia amore strutturalmente aperto all’altro tu, al noi delle tre Persone divine, relazioni sussistenti, rafforza il dinamismo di apertura e di comunione verso gli altri tu e gli altri noi, un dinamismo che è inscritto, sia pure in forma germinale, nell’amore umano.
L’amore-carità consente alla politica e, per conseguenza, alla democrazia, di tendere costantemente alla loro perfezione. Perché? Perché l’amore-carità, ricorda papa Francesco, è realista,[8] ovvero è un amore più grande di quello semplicemente umano, amore comunque aperto all’altro tu, e si impegna a realizzare tutte le condizioni che sono necessarie alla concretizzazione del bene comune, il bene di tutti, specie dei più poveri, tramite responsabilità, solidarietà e partecipazione.
Un tale amore, proprio perché strutturato a tu – ossia fatto in particolare per il colloquio e l’intimità con il Tu che è Dio Padre – è intrinsecamente orientato in senso fraterno. Trattandosi di un amore che è aperto a Dio Padre ci consente di riconoscere in Lui l’origine di una paternità comune. Proprio per questo diventa un amore originante fraternità e amicizia sociale. Ci sollecita ad uscire da noi stessi per riconoscere negli altri non solo dei propri simili in umanità, bensì dei fratelli in Cristo, quali figli di Dio nel Figlio. La fraternità, dunque, sboccia, quale prassi morale, dal dinamismo stesso dell’amore. È inscritta nella tensione dell’amore-carità che porta – simultaneamente al riconoscerci figli di uno stesso Padre -, ad una progressiva apertura verso l’altro, fratello o sorella: un’apertura che, come accennato, è intrinseca nello stesso essere umano, creato ad immagine di Dio, come essere strutturalmente sociale, fatto per vivere in un «noi di persone». Detto altrimenti, l’amore-carità consente di riconoscere negli altri fratelli e sorelle. Non solo. Sollecita a far sì che la fraternità di cui siamo impastati e costituiti ontologicamente, per origine divina, non sia solo un semplice dato di fatto, ma divenga prassi etica, essenza del nostro essere morale, della nostra condotta. La fraternità, assunta liberamente e responsabilmente sul piano morale, distinto ma non separato dal piano ontologico – la morale si istituisce su una linea propria, diversa da quella metafisica -, diviene parte costitutiva del nostro telos trascendente.
Per capire meglio il discorso appena abbozzato è fondamentale riflettere ulteriormente sulla relazione tra l’amore-carità e la fraternità. L’amore aperto al Tu divino che è Dio Padre, come già detto, è originante la fraternità. In che senso? Non certo perché la crea dal nulla, in maniera volontaristica. La fraternità non può essere creata dal punto di vista ontologico. Infatti, che noi nasciamo «fratelli» e «sorelle» in una famiglia, dallo stesso padre e dalla stessa madre, non dipende dalla nostra volontà sic et simpliciter: noi non ci creiamo fratelli e sorelle, ma ci troviamo ad esserlo. Tale fraternità, quindi, può essere creata bensì dal punto di vista morale, ossia dal punto di vista della nostra condotta, dei nostri atteggiamenti e delle nostre scelte coscienti e responsabili. Caino era ontologicamente e biologicamente fratello di Abele. E, tuttavia, non si è comportato moralmente come tale. Se Caino fosse stato guidato dall’amore nei confronti di suo fratello non l’avrebbe ucciso. Avrebbe, invece, coltivato quei sentimenti e quegli atteggiamenti che potevano far crescere relazioni di affetto e di cura nei suoi confronti. Il vero amore fraterno, infatti, pone l’attenzione sul fratello, considerandolo come un’unica cosa con sé stessi.[9]
Senza una fraternità consapevolmente coltivata avviene che la politica e la democrazia impoveriscono. È proprio questo che sottolinea papa Francesco. Ma con questo non è ancora detto tutto. Occorre aggiungere altre riflessioni per completare il quadro del pensiero di papa Francesco sulla fraternità, per capire se e come, con le nostre capacità e facoltà razionali, noi possiamo giustificarne l’esistenza.
- Alcuni punti nodali dell’educazione globale, comprensiva dell’impegno sociale e politico
L’educazione è chiamata ad aiutare i credenti, che sono simultaneamente cittadini, a diventare costruttori attivi e responsabili della comunità cristiana.
Tutto questo deve avvenire mentre si impara Cristo, sotto la guida dello Spirito santo, che conduce i credenti alla verità intera di Cristo.
È da non dimenticare che in quanto siamo di Cristo, apparteniamo a Lui radicalmente, totalmente. Una simile appartenenza ha il primato su qualsiasi altra appartenenza. I primi martiri professavano con la vita il primato della loro appartenenza a Cristo rispetto ad altre appartenenze. Oggi, il cristiano deve sapere distinguere le sue varie appartenenze religiose, politiche, sociali, e stabilire una gerarchia, relativamente ai grandi beni valori della vita, della famiglia, della libertà di coscienza, della libertà religiosa, della morte.
Appartenendo totalmente a Cristo, la sua vita di Amore deve giungere a pervadere, a permeare tutta la nostra vita intellettiva, affettiva, lavorativa, sociale, culturale. Non può sussistere una separazione tra fede e vita, poiché la fede non annienta l’uomo, ma lo perfeziona e lo completa. La verità, offerta a noi da Cristo, non annulla la verità umana, conquistata mediante la ragione.
Bensì la conferma e la rafforza. Peraltro, la ragione, nel suo uso retto, aiuta la fede e la Parola di Dio a rinsaldarsi nello spirito umano. Come e perché può avvenire questo? Perché l’atto di fede è anche pensare. Credere è null’altro che pensare assentendo. Sant’Agostino affermava che «Chiunque crede pensa, e credendo pensa e pensando crede». «La fede se non è pensata è nulla». Ed ancora: «Se si toglie l’assenso, si toglie la fede, perché senza assenso non si crede affatto».
La fede non propone nulla che vada contro la ragione, non sollecita a aderire a concetti irrazionali, semmai a realtà sovrarazionali. L’Amore di Cristo non inficia, bensì accresce la nostra capacità di amore, di bene, di Dio.
Molte affermazioni di ragione come la definizione della famiglia, che si trova nella Costituzione italiana, e cioè che essa è una società naturale fondata sul matrimonio (cf art. 29) tra un uomo e una donna, non sono contraddette dalla fede. Anzi, esse trovano corrispondenza in quanto ha insegnato Gesù sul rapporto uomo e donna e sul loro legame coniugale.
La fede rafforza la concezione di uno Stato a servizio della persona – è la persona che ha il primato sullo Stato, e non il contrario –, e, quindi, ritiene inconcepibile uno Stato che vada contro il diritto alla vita, dal momento del concepimento sino alla conclusione naturale dell’esistenza.[10] Non ammette la morte di Stato, ossia un diritto all’aborto,[11]all’eutanasia, al suicidio assistito,[12] come anche la pena di morte, legittimati giuridicamente. A proposito della pena di morte è da rilevare che papa Francesco omologa nell’enciclica FT quanto aveva già disposto con la revisione del n. 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica, mediante un rescritto a firma del cardinale Luis Ladaria, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede.[13] La Chiesa riconosce, invece, l’obiezione di coscienza all’aborto, un diritto sancito dalla stessa bioetica e dalla deontologia del medico. Le leggi che autorizzano e favoriscono l’aborto e l’eutanasia si pongono radicalmente contro il bene del singolo e il bene comune. Uno Stato che riconoscesse il cosiddetto diritto all’aborto e all’eutanasia va contro il proprio compito, cioè, tutelare e promuovere la vita, in quando sia umanamente possibile, col rispetto della dignità. L’aborto e l’eutanasia devono essere ritenuti crimini che nessuna legge può pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza.[14] Fin dalle origini, la predicazione apostolica ha inculcato ai cristiani il dovere di obbedire alle autorità pubbliche legittimamente costituite (cf Rm 13,1-7; 1 Pt 2,13-14), ma nello stesso tempo ha ammonito fermamente che «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29). Già nell’Antico Testamento, proprio in riferimento alle minacce contro la vita, troviamo un esempio significativo di resistenza al comando ingiusto dell’autorità. Al faraone, che aveva ordinato di far morire ogni neonato maschio, le levatrici degli Ebrei si opposero. Esse «non fecero come aveva loro ordinato il re di Egitto e lasciarono vivere i bambini» (Es 1,17). Ma occorre notare il motivo profondo di questo loro comportamento: «Le levatrici temettero Dio» (ivi). È proprio dall’obbedienza a Dio – al quale solo si deve quel timore che è riconoscimento della sua assoluta sovranità – che nascono la forza e il coraggio di resistere alle leggi ingiuste degli uomini. È la forza e il coraggio di chi è disposto anche ad andare in prigione o ad essere ucciso di spada, nella certezza che «in questo sta la costanza e la fede dei santi» (Ap 13,10). Nel caso quindi di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l’aborto o l’eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, «né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto».[15]
- Di quale politica e di quali politici c’è oggi bisogno?
A queste domande risponde papa Francesco nella sua ultima enciclica FT.[16] Mentre si respinge il cattivo uso del potere, la corruzione, la mancanza di rispetto delle leggi e l’inefficienza, occorre ricercare una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un approccio globale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi. Occorre una politica sana, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose.[17] Una politica più adeguata è quella che opera sulla base dei grandi principi, pensando al bene comune a lungo termine, a quelli che verranno dopo la presente generazione.[18]Su un altro piano, ossia quello della società mondiale, la sana politica si impegna a reimpostazioni di fondo delle strutture, a riformarle non con rattoppi o soluzioni veloci meramente occasionali. Decisivo è un progetto politico, sociale, culturale e popolare che tenda al bene comune mondiale. La politica di cui c’è bisogno deve includere tutti, riconoscendo ogni essere umano come un fratello o una sorella, e ricercare un’amicizia sociale. E, pertanto, dovrà essere pervasa da un esercizio alto della carità che, come insegna la Dottrina sociale della Chiesa, trova nella stessa politica ampio spazio di incarnazione.[19] La carità sociale e politica «ci fa amare il bene comune e fa cercare effettivamente il bene di tutte le persone, considerate non solo individualmente, ma anche nella dimensione sociale che le unisce. Ognuno è pienamente persona quando appartiene a un popolo, e al tempo stesso non c’è vero popolo senza rispetto per il volto di ogni persona.
Popolo e persona sono termini correlativi. Tuttavia, oggi si pretende di ridurre le persone a individui, facilmente dominabili da poteri che mirano a interessi illeciti. La buona politica cerca vie di costruzione di comunità nei diversi livelli della vita sociale, in ordine a riequilibrare e riorientare la globalizzazione per evitare i suoi effetti disgreganti».[20] Come ha insegnato Benedetto XVI, la politica, animata da un amore pieno di verità, col suo dinamismo universale, può costruire un mondo nuovo. La carità può aiutare la politica a essere sé stessa, perché non è un sentimento sterile. Proprio perché include un impegno per la verità non è facile preda delle emozioni e delle opinioni contingenti. Favorisce l’universalismo, al di là di ambiti ristretti e privati di relazioni. In tal modo, l’amore sociale diventa il modo migliore di raggiungere strade efficaci di sviluppo per tutti.[21]
I politici di cui abbiamo bisogno, spiega papa Francesco, devono essere attori di atti di carità che spingono a creare istituzioni più sane, ordinamenti più giusti, strutture più solidali, in vista di una società ove il prossimo non abbia a trovarsi in miseria. «Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità –, il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica».[22] Il politico, mosso dalla carità, ha sempre un amore preferenziale per gli ultimi. È la carità che gli offre uno sguardo con cui coglie la dignità dell’altro, dei poveri, rispettandoli nel loro stile proprio e nella loro cultura. A partire da essa le vie che si aprono sono diverse da quelle di un pragmatismo senz’anima. Impedisce di affrontare lo scandalo della povertà promovendo strategie di contenimento che unicamente tranquillizzano e trasformano i poveri in esseri addomesticati e inoffensivi. I politici sono chiamati a prendersi cura della fragilità dei popoli e delle persone con forza e tenerezza, opponendosi alla cultura dello scarto. Il politico, a fronte della marginalità, è un realizzatore di nuove opportunità, è un costruttore con grandi obiettivi, con sguardo ampio, realistico e pragmatico, anche al di là del proprio Paese. Lotta contro i fenomeni di esclusione sociale ed economica, contro la tratta degli esseri umani, il commercio di organi e di tessuti umani, lo sfruttamento sessuale dei bambini e bambine, il lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, il traffico di droghe e di armi, il terrorismo e il crimine internazionale organizzato.[23] Sul piano mondiale, il politico collabora alla globalizzazione dei diritti umani più essenziali, per eliminare la fame, la speculazione finanziaria che condiziona il prezzo degli alimenti, l’enorme spreco di alimenti, la mancanza della casa, la sete, l’assenza di cure per la salute. Combatte l’intolleranza fondamentalista e il fanatismo che danneggiano le relazioni sociali e culturali. Ogni politico è chiamato a vivere la tenerezza, cioè un amore che si fa vicino e concreto. Essa è un movimento che parte dal cuore ed arriva agli occhi, alle orecchie, alle mani. La tenerezza è la strada che hanno percorso gli uomini e le donne più coraggiosi e forti. «In mezzo all’attività politica, “i più piccoli, i più deboli, i più poveri debbono intenerirci: hanno “diritto” di prenderci l’anima e il cuore. Sì, essi sono nostri fratelli e come tali dobbiamo amarli e trattarli”».[24]Il buon politico unisce all’amore la speranza, la fiducia nelle riserve di bene che ci sono nel cuore della gente, malgrado tutto. Diverse indagini hanno messo in evidenza come, nel nostro Paese, la fiducia nei confronti dei rappresentanti delle istituzioni è in forte calo. Ciò ha mostrato, sino a ieri, i suoi effetti visibili nelle urne, pressoché deserte a causa degli alti tassi di assenteismo. Assieme all’astensionismo elettorale si è constatata la crescente diminuzione degli iscritti nei partiti e di presenze alle
«primarie», in un Paese che sino a poco tempo fa si distingueva per una larga partecipazione dei cittadini al voto. Quando l’astensionismo di massa supera il cinquanta per cento, come ha rilevato Gustavo Zagrebelsky, la democrazia non è più tale e si trasforma nell’autocrazia di una parte della società sull’altra. Peraltro, ci si deve rendere conto, in particolare, della necessità di riabilitare anche il potere dei popoli – il potere democratico – come l’unico ambito capace di porre un limite umano al potere, in sé illimitato, della tecnica, verso il quale si è rivolto il dio denaro, trovando in esso spazi compiacenti. Ma, come dare al popolo la possibilità di esprimere il proprio punto di vista? L’attuale mondo politico, infatti, è caratterizzato da crisi dei partiti come strumenti di rappresentanza e di partecipazione: da crisi di trasformazioni involutive, che li riducono sempre di più a veri e propri comitati d’affari. I partiti, da canali di comunicazione del sentire dei cittadini, si sono trasformati in strumenti personalizzati, quasi identificati con i loro leader, perdendo la funzione di sintesi delle varie istanze sociali. Non a caso, oggi si parla significativamente di «partiti senza società e, dunque, di leader senza partiti».113 Non bisogna dimenticare, però, che la rivalutazione della politica è un fatto collettivo. Passa attraverso la ricomposizione dell’anima della società civile, aiutandola a ricostruire una coscienza comune, in un contesto di molteplici culture e religioni. Il discorso politico si sviluppa, infatti, in maniera dialogica, creando consenso ed impegno comune. Il magistero sociale, offerto da papa Francesco ai politici e ai movimenti popolari, anche con la sua ultima enciclica FT ha proprio il fine di facilitare il compattamento di una coscienza globale dei popoli sul piano regionale e mondiale. Da questo punto di vista, è fondamentale l’educazione delle coscienze, rendendo stabile il loro retto agire e sentire ed anche il collegamento con la legge morale naturale.
Mario Toso, vescovo
[1] Parlando delle ragioni che dovrebbero spingere ad un impegno responsabile nel campo della politica, papa Francesco, il 1° ottobre 2017 in Piazza del Popolo a Cesena, in occasione della sua visita nel terzo centenario della nascita di Pio VI, ha ricordato che è essenziale lavorare tutti insieme per il bene comune. Dal discorso del pontefice emergono alcuni elementi fondamentali: tutti devono coltivare l’impegno di lavorare per il bene comune, perché tutti, adulti o giovani, sono cittadini e hanno una vocazione al servizio del bene comune. Orizzonte e fine dell’impegno è la buona politica, amica delle persone, inclusiva e partecipativa, che non lascia ai margini nessuno, che tiene il timone fisso nella direzione del bene di tutti. Per questa ragione, bisogna prepararsi in modo da essere in grado di agire efficacemente in prima persona. Chi intende impegnarsi direttamente in politica deve prendere la propria croce e sapere che potrebbe essere un «martire» al servizio di tutti. L’agire politico, in nome e a favore del popolo, è una nobile forma di carità. Il che esige coerenza dai protagonisti della vita pubblica. Essi vanno accompagnati con una critica costruttiva. Non è lecito fermarsi a guardare da un balcone, nella speranza del fallimento del proprio avversario. Occorre dare, hic et nunc, il proprio contributo, riscoprendo il valore della dimensione sociale della convivenza (Cf Francesco, Discorso in Piazza del Popolo [Cesena], 1° ottobre 2017).
[2] Per chi vive in Cristo c’è una vocazione cristiana alla vita della res publica, all’impegno di portarla a compimento in Dio. Siamo sollecitati a vedere la nostra vita e la nostra azione, in tutti i campi, fondate su Gesù Cristo; anzi, innestate in Lui, che ha assunto l’umano divinizzandolo. E questo, perché Egli si è fatto carne e, con tale misterioso evento, ha assunto e indirizzato anche le nostre vite verso quella completa realizzazione che si attua soltanto in Lui. Dobbiamo, pertanto, vivere la nostra chiamata al sociale, al bene comune, tendendo a quella pienezza umana che ci è già stata donata in nuce dal Figlio di Dio. Ciò ci fa capire che siamo portatori di una vocazione cristiana al sociale e alla politica. Non sempre ce se ne rende conto. Le ragioni dell’impegno in politica, al servizio del bene comune sono, in sintesi, anche di un ordine che sovrasta quello semplicemente razionale.
[3] G. dossetti, Sentinella quanto resta della notte? in ID., La parola e il silenzio. Discorsi e scritti 1986-1995, Paoline Editoriale Libri, Milano 2005, p. 376.
[4] F. Pizzul, Perché la politica non ha più bisogno dei cattolici. La democrazia dopo il Covid 19, Edizioni Terra Santa, Milano 2020, pp. 98-99.
[5] Cf Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, nn. 25-33; 52-75.
[6] Su questo, ci permettiamo di rinviare a M. Toso, Per una nuova democrazia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016, pp. 57-60.
[7] Cf ICAS, Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale, Editrice Studium, Roma 1945, testo conosciuto come Codice di Camaldoli. Considerata la situazione attuale, prima ancora di avviare precipitosamente la nascita di nuovi partiti o di riesumare quelli già morti, occorre impegnarsi nell’unire le forze, lavorando alla compattazione di una nuova piattaforma valoriale e culturale, sulla cui base elaborare una nuova progettualità. Al riguardo, può servire come modello l’azione di quei cattolici, che, nel secolo scorso, hanno provveduto alla stesura del noto Codice di Camaldoli. Si potrà allora giungere, attraverso ulteriori passaggi, ad un progetto politico organico. In questa fase storica, i cattolici dovrebbero percepire l’urgenza di unirsi, mentre varano nuove forme aggregative sul piano politico, in un Movimento, al fine di individuare un nuovo pensiero, una nuova visione della società e, conseguentemente, un nuovo progetto di Paese sul piano sociale e politico! Un problema non secondario, oggi, è quello appunto di costruire l’unità necessaria, innanzitutto tra i credenti e, poi, con tutti gli uomini di buona volontà, anche di estrazione liberale, purché non siano alieni dalla solidarietà. Detto brevemente, la questione cruciale non è tanto la forma della discesa in campo, quanto come costruire una spiritualità dell’unità tra i cattolici, che attualmente sono in preda al dogma della diaspora e vivono in un pluralismo divaricato! Se non esiste il «dogma» dell’unità politica dei cattolici, in democrazia, come già detto, esiste la regola procedurale del principio di maggioranza, che induce ad allearsi, specie con riferimento ai grandi beni-valori del vivere sociale e civile, affinché possano essere inscritti nelle leggi e nelle istituzioni. Per cambiare le cose e risolvere i grandi problemi della povertà, della disoccupazione, della fame, delle guerre, delle devastazioni del pianeta, non bastano i piani assistenziali, la semplice testimonianza individuale. Occorrono nuove leggi e nuove politiche, le quali possono essere varate solo mediante maggioranze espresse nei parlamenti. Come ha scritto papa Francesco: «La necessità di risolvere le cause strutturali della povertà non può attendere, non solo per una esigenza pragmatica di ottenere risultati e di ordinare la società, ma per guarirla da una malattia che la rende fragile e indegna e che potrà solo portarla a nuove crisi. I piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie. Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali dell’inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali» (Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium [= EG], n. 202).
[8] Cf FT 165.
[9] Cf ib., 93-94.
[10] Nell’Angelus del 5 febbraio ha ben espresso il convincimento dei credenti e dell’impegno a favore della vita con queste parole: «[…] oggi, in Italia, si celebra la Giornata per la Vita, sul tema “Donne e uomini per la vita nel solco di Santa Teresa di Calcutta”. Mi unisco ai Vescovi italiani nell’auspicare una coraggiosa azione educativa in favore della vita umana. Ogni vita è sacra! Portiamo avanti la cultura della vita come risposta alla logica dello scarto e al calo demografico; stiamo vicini e insieme preghiamo per i bambini che sono in pericolo d’interruzione della gravidanza, come pure per le persone che stanno alla fine della vita – ogni vita è sacra! – perché nessuno sia lasciato solo e l’amore difenda il senso della vita. Ricordiamo le parole di Madre Teresa: «La vita è bellezza, ammirala; la vita è vita, difendila!», sia col bambino che sta per nascere, sia con la persona che è vicina a morire: ogni vita è sacra!»
(Francesco, Angelus, 5 febbraio 2017).
[11] Si tenga presente che la legge italiana 194/78 non sancisce il diritto all’aborto, come ritengono in molti.
[12] Contrariamente a quanto ha fatto credere gran parte della stampa italiana, nel caso del giovane Dj Fabo, in Svizzera non è approvata l’eutanasia, non esiste negli ospedali nemmeno il suicidio assistito alla maniera di un protocollo sanitario regolato e gestito negli ospedali secondo le regole del servizio pubblico nazionale o cantonale. In Svizzera l’eutanasia è un delitto, punito dall’art. 114 del Codice penale. È un delitto anche l’istigazione e l’aiuto al suicidio (art. 115). I giornali hanno confuso il sistema giuridico elvetico con l’attività di alcune associazioni private. Hanno scambiato il diritto svizzero con i margini permissivi che permettono a queste associazioni di passare immuni da sanzioni penali.
[13]A proposito della pena di morte ecco quanto afferma con perentorietà papa Francesco nella FT, ricollegandosi a San Giovanni Paolo II che l’aveva dichiarata soluzione inadeguata sul piano morale e non più necessaria sul piano penale: «Oggi affermiamo con chiarezza che “la pena di morte è inammissibile” e che la Chiesa si impegna con determinazione a proporre che sia abolita in tutto il mondo» (FT 263). Qualche numero più in là si legge: «Desidero sottolineare che “è impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone”» (FT 267). Precisa, inoltre: «Particolare gravità rivestono le cosiddette esecuzioni extragiudiziarie o extralegali, che “sono omicidi deliberati commessi da alcuni Stati e dai loro agenti, spesso fatti passare come scontri con delinquenti o presentati come conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionato della forza per far applicare la legge”» (Ib.). Da ultimo, sollecita tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà a «lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà». E conclude: «questo, io lo collego con l’ergastolo. […] L’ergastolo è una pena di morte nascosta» (FT 268).
[14] Su questi temi si legga la recente Lettera Samaritanus bonus della Congregazione per la Dottrina della Fede avente come sottotitolo: Sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2020.
[15] EV 73. Un particolare problema di coscienza potrebbe porsi in quei casi in cui un voto parlamentare risultasse determinante per favorire una legge più restrittiva, volta cioè a restringere il numero degli aborti autorizzati, in alternativa ad una legge più permissiva già in vigore o messa al voto. Simili casi non sono rari. Si registra infatti il dato che, mentre in alcune parti del mondo continuano le campagne per l’introduzione di leggi a favore dell’aborto, sostenute non poche volte da potenti organismi internazionali, in altre Nazioni invece – in particolare in quelle che hanno già fatto l’amara esperienza di simili legislazioni permissive – si vanno manifestando segni di ripensamento. Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all’aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui. L’introduzione di legislazioni ingiuste pone spesso gli uomini moralmente retti di fronte a difficili problemi di coscienza in materia di collaborazione in ragione della doverosa affermazione del proprio diritto a non essere costretti a partecipare ad azioni moralmente cattive. Talvolta le scelte che si impongono sono dolorose e possono richiedere il sacrificio di affermate posizioni professionali o la rinuncia a legittime prospettive di avanzamento nella carriera. In altri casi, può risultare che il compiere alcune azioni in sé stesse indifferenti, o addirittura positive, previste nell’articolato di legislazioni globalmente ingiuste, consenta la salvaguardia di vite umane minacciate. D’altro canto, però, si può giustamente temere che la disponibilità a compiere tali azioni non solo comporti uno scandalo e favorisca l’indebolirsi della necessaria opposizione agli attentati contro la vita, ma induca insensibilmente ad arrendersi sempre più ad una logica permissiva. Per illuminare questa difficile questione morale occorre richiamare i principi generali sulla cooperazione ad azioni cattive. I cristiani, come tutti gli uomini di buona volontà sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la Legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male. Tale cooperazione si verifica quando l’azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad un atto contro la vita umana innocente o come condivisione dell’intenzione immorale dell’agente principale. Questa cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile lo prevede e la richiede: per gli atti che ciascuno personalmente compie esiste, infatti, una responsabilità morale a cui nessuno può mai sottrarsi e sulla quale ciascuno sarà giudicato da Dio stesso (cf Rm 2,6; 14,12). Rifiutarsi di partecipare a commettere un’ingiustizia è non solo un dovere morale, ma è anche un diritto umano basilare. Se così non fosse, la persona umana sarebbe costretta a compiere un’azione intrinsecamente incompatibile con la sua dignità e in tal modo la sua stessa libertà, il cui senso e fine autentici risiedono nell’orientamento al vero e al bene, ne sarebbe radicalmente compromessa. Si tratta, dunque, di un diritto essenziale che, proprio perché tale, dovrebbe essere previsto e protetto dalla stessa legge civile. In tal senso, la possibilità di rifiutarsi di partecipare alla fase consultiva, preparatoria ed esecutiva di simili atti contro la vita dovrebbe essere assicurata ai medici, agli operatori sanitari e ai responsabili delle istituzioni ospedaliere, delle cliniche e delle case di cura. Chi ricorre all’obiezione di coscienza deve essere salvaguardato non solo da sanzioni penali, ma anche da qualsiasi danno sul piano legale, disciplinare, economico e professionale.
[16] Francesco, Fratelli tutti (=FT), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2020.
[17] Cf FT 177.
[18] Cf ib., 178.
[19] Cf ib., 180-181.
[20] Ib., 182.
[21] Cf ib., 183-184.
[22] Ib., 186.
[23] Cf ib., 187-188.
[24] Ib., 194.