Oggi la democrazia è posta fortemente in crisi come democrazia sostanziale a motivo soprattutto del mercatismo imposto dal capitalismo globale e dalla sua radicalizzazione individualistica. Le seduzioni individualistiche ed utilitaristiche del modello neoliberista riducono l’ideale della libertà per tutti a libertà per pochi, approdando alla democrazia di un terzo, vale a dire di una parte circoscritta, la più abbiente, dei cittadini. Con conseguenze deleterie per la globalizzazione che finisce per ospitare quegli atteggiamenti protezionistici e isolazionistici che in questo momento, godono di grande popolarità a Londra come a Washington. Il capitalismo che ha arrecato indubbi vantaggi a quei popoli più poveri, che hanno saputo cogliere le opportunità offerte dal mercato internazionale, diventando capitalismo finanziarizzato, con i suoi aspetti negativi, danneggia gravemente la vita sociale e la stessa economia produttiva, portando i sistemi democratici a mostrare la corda, stressandoli con un progressivo ridimensionamento dei diritti sociali ed economici dei cittadini, accrescendo le diseguaglianze anziché diminuirle. Se l’attuale sistema economico, finanziario e monetario, non verrà profondamente riformato avrà influssi devastanti sulla democrazia sostanziale perché le impedirà di realizzare la giustizia sociale.[1] Senza giustizia sociale la democrazia si indebolisce, non riesce ad affrontare le diseguaglianze, non può realizzare la solidarietà e la inclusività, specie dei poveri. Se si vorrà trovare una via di uscita allo sfinimento di una democrazia rappresentativa, partecipativa, deliberativa, solidale, inclusiva, ossia ad una democrazia di bassa intensità, bisognerà:
- a) che siano superate le dottrine economiche neoliberistiche – basti pensare alle teorie della «ricaduta favorevole» o della «mano invisibile» incentrate sull’idea che la semplice crescita economica produce automaticamente equità ed inclusione, sostenibilità -, che ancora oggi conferiscono al mercato, all’economia e alla finanza un’autonomia quasi assoluta rispetto alla politica e al connesso bene comune. Le dottrine economiche neoliberistiche «esentano» la speculazione finanziaria dai controlli statali ed affermano che i mercati e la speculazione produrrebbero automaticamente la ricchezza delle Nazioni, ricchezza per tutti, con il funzionamento spontaneo delle loro regole. Papa Francesco polemizza non con tutti i neoliberisti, bensì con il neoliberismo più radicale, secondo cui il mercato è una divinità imperscrutabile, ove il libero mercato, lasciato a se stesso, ai suoi meccanismi tecnici, autoregolandosi, produce automaticamente maggiore equità ed inclusione sociale. Ma è risaputo che la crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga. Richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificatamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo (cf Evangelii Gaudium 204).[2] Ma, soprattutto, domanda che l’economia politica superi il limite culturale che la struttura e condiziona negativamente. In questione non sono tanto le capacità di calcolo matematico che il modello economico corrente esalta, bensì le premesse antropologiche su cui il modello si fonda. L’immagine dell’homo oeconomicus interessato unicamente al profitto non è più accettabile, perché poco realistica. L’imprenditore e il lavoratore non si muovono solo sulla base di interessi meramente economici. E l’idea di un conflitto tra economia, risorse umane, territorio conduce a risultati catastrofici. I primi a capirlo sono gli stessi imprenditori, che hanno già pagato le conseguenze dell’implosione di un modello economico troppo curvato sull’efficienza mercatista. Lo stesso Luigi Einaudi, nell’immediato dopoguerra del secolo scorso, incoraggiava il sistema bancario ad interessarsi dello sviluppo del territorio prima dei profitti dei banchieri. Se la Chiesa condanna le storture di un’economia globalizzata, non va, però, contro il capitalismo, l’economia di mercato, le Borse, il profitto, la concorrenza, la speculazione in sé. Domanda piuttosto che siano tutelati, promossi e posti al servizio dell’uomo e di tutti i popoli.[3] Richiede, inoltre, che sia regolata alla luce del bene comune globale e da una visione personalista e trascendente dei soggetti economici. La Chiesa ha indicato nella CIV di Benedetto XVI, della quale ricorre il decimo anniversario della promulgazione, la prospettiva di un’economia di mercato funzionale al bene comune nazionale e mondiale, popolata, da un’imprenditorialità plurivalente (imprese profit, finalizzate al profitto; imprese non profit, non finalizzate al profitto; e un’area intermedia tra queste),[1] coadiuvata da leggi giuste, da un’attività redistributiva da parte della politica, da un’economia animata in tutte le sue fasi dalla giustizia (cf CIV n. 37), dai principi della fraternità e della gratuità, dalla logica del dono, che diffondono e alimentano la solidarietà e la responsabilità sociale nei confronti delle persone, del bene comune e dell’ambiente, sollecitando una forma di profonda democrazia economica (cf CIV 39). Detto altrimenti, la Chiesa indica come capace di superare modelli anarco-liberistici e stato-centrici, un’economia strutturata, come già accennato, da un’antropologia relazionale, solidale, retta dal principio della reciprocità, ossia un’economia a stampo trinitario, conforme ad una metafisica della relazione (cf CIV n. 53). Bisogna che la solidarietà giochi un ruolo da protagonista dentro l’economia, non solo accanto ad essa mediante la beneficenza, la filantropia, l’elemosina. Potrebbe sembrare che l’enciclica di Benedetto XVI sia preda di in una visione astratta ed utopistica dell’economia. Invece, indica esperienze concrete in cui la reciprocità e il principio di fraternità strutturano l’economia. Cita l’economia non profit, l’economia di comunione, la cooperazione di consumo, le cooperative, le banche di credito cooperativo, il microcredito, la finanza etica. A dimostrazione che è possibile un’economia imperniata su una visione antropologica relazionale, a differenza di una visione dominata dall’individualismo e dall’utilitarismo, dalla massimizzazione dei profitti e basta. Detto altrimenti, ad uno sviluppo integrale, maggiormente inclinato a sconfiggere la povertà, è ministeriale una visione di persona che trova ispirazione ed orientamento nella rivelazione cristiana (cf ib.);
- b) sarà necessaria una riforma etica dell’economia e della finanza, per poter usufruire di quel bene pubblico che sono i mercati liberi, stabili, trasparenti, «democratici», non oligarchici, bensì funzionali alle imprese, ai lavoratori, alle famiglie, alle comunità locali, al bene comune, all’ecologia integrale. Come si potrà avere una nuova morale economica e finanziaria? Purtroppo oggi l’economia e la democrazia sono ancora influenzate negativamente mediante la costituzione di monopoli e di oligarchie che si sono formati talvolta anche con la complicità della stessa politica, come è stato per il caso della finanza. Questa, ha gradualmente partorito un’autocrazia, a motivo dell’abolizione del Glass-Steagall Act nel 1999 (prima negli USA, poi, negli anni successivi, in Europa e nel resto del mondo), basato sul principio di separazione della banca produttiva dalla banca speculativa. Togliendo la separazione le banche hanno unito in sé l’attività produttiva e l’attività speculativa, giungendo ad utilizzare i risparmi raccolti – prima utilizzabili solo per finanziare l’attività produttiva – in operazioni speculative, mettendoli in serio pericolo. Si aggiunga che all’autonomizzazione del sistema finanziario e allo sviluppo vertiginoso della massa finanziaria, con un’intossicazione a largo raggio del mercato, creando difficoltà sistemiche, ha contribuito pure il cambio di finalità dei contratti cosiddetti «derivati», originariamente di natura assicurativa, in contratti con finalità speculativa. La finanza è divenuta una superpotenza, che non ha confini, non ha regole, non conosce diritti diversi dai suoi, sostiene e sovvenziona in tutte le sedi il suo totalitario «pensiero» mercatista. La sua «cultura» dominante, improntata al neoindividualismo libertario, è soggiogata da una visione antropologica di autosufficienza: l’uomo è convinto ad essere il solo autore di se stesso (cf CIV n. 34). Non è soggetta a corti di giustizia, tende ad influenzare e a tenere sotto controllo le democrazie, rendendole funzionali al suo sistema, indebolendole, come già detto, sempre di più sul piano sociale e della sovranità democratica. Facendo credere, fra l’altro, che il prodotto interno lordo non si fa con l’impresa e con il lavoro, ma con la speculazione. La finanza autocratica comanda su tutti: sugli Stati, sui popoli, sui governi, determinando talora il loro ordine del giorno.
Ovviamente, mercati liberi, stabili, trasparenti, democratici, a servizio dell’ecologia integrale e del bene comune, come anche una nuova morale economica e finanziaria non nascono magicamente. Essi sono frutto: 1) di un’adeguata visione dell’uomo, ossia di un’antropologia relazionale, razionale, comunionale e trascendente; 2) del rigetto della tesi secondo cui la sfera dell’economia va tenuta separata sia dalla sfera dell’etica sia da quella della politica:[4] come ha affermato Benedetto XVI, «la sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente»;[5] 3) del riferimento al grande principio morale dello sviluppo integrale, sostenibile, inclusivo, ben presente sia nella CIV sia nella Laudato sì’;[6] 4) della riscoperta del primato della politica rispetto all’economia e alla finanza. Nell’esortazione EG e nell’enciclica LS,[7] papa Francesco in vista di uno sviluppo integrale, sociale, sostenibile, inclusivo, auspica il recupero del primato della politica sull’economia e sulla finanza. La politica ritornerà ad avere il suo legittimo primato, solo se saprà ricentrarsi sul bene comune, a partire da un’antropologia non individualista ed utilitarista, bensì relazionale, solidale. È la coscienza del bene comune che dei «molti» fa un popolo, unendoli in vista di un obiettivo condiviso. È la ricerca del bene comune, e non già la sottomissione prona alla speculazione senza regole, allo schema assolutizzato della rendita, che può restituire alla politica la sua altissima dignità e «sovranità». Lo schema della rendita, di cui parla il pontefice, non lascia spazio per pensare al lavoro come bene fondamentale per tutti. Così, «all’interno dello schema della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della natura, ai suoi tempi di degradazione e di rigenerazione, e alla complessità degli ecosistemi che possono essere gravemente alterati dall’intervento umano» (LS n. 190). Per la Dottrina sociale della Chiesa, ed anche per papa Francesco, il recupero dell’agire politico al servizio del bene comune è ultimamente favorito dall’incontro con Gesù Cristo, il quale, propiziando la nascita di un nuovo umanesimo, consente la rigerarchizzazione delle varie attività umane. Senza una nuova evangelizzazione non assisteremo mai a cambiamenti significativi, poiché il primato della finanza sulla politica perdurerà con i suoi effetti devastanti per la società, per i più poveri e per l’ambiente. Ecco come appare la situazione attuale agli occhi del pontefice: «Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura» (LS n. 189).
- c) l’instaurazione di un’economia sostenibile, inclusiva – precondizione di una democrazia altrettanto inclusiva, non potendo concretizzarsi una democrazia politica senza una «democrazia economica» −, mediante l’irrobustimento di un’economia di mercato funzionale al bene comune nazionale e mondiale. L’aspra critica di papa Francesco nei riguardi di «un’economia dell’esclusione e dell’inequità», un’economia che «uccide» (EG n. 53), mira a sollevare una questione morale e non a porre mano direttamente ad una riforma dell’attuale sistema finanziario dal punto di vista strutturale e tecnico. Non è compito specifico della Chiesa elaborare riforme che competono alla politica e allo stesso mondo economico. E tuttavia, la Chiesa, sulla base della sua competenza religiosa e morale prospetta orientamenti etici in vista dell’umanizzazione del sistema monetario e finanziario.
L’intento del papa Benedetto XVI è volto a portare il messaggio etico del Vangelo nel cuore del capitalismo finanziario contemporaneo, la cui impostazione, specie in questi ultimi tempi, sembra prescindere dalle persone, dalle famiglie, dalle imprese, dalle amministrazioni locali, dalla salvaguardia dell’ambiente, preoccupandosi principalmente del profitto a brevissimo termine. E «quando al centro del sistema – afferma papa Francesco in un’intervista – non c’è più l’uomo ma il denaro, uomini e donne non sono più persone, ma strumenti di una logica “dello scarto” che genera profondi squilibri».[8]
L’immediatezza di queste affermazioni stigmatizza la separazione che spesso si viene a determinare tra economia ed etica, così deleteria per tutte le espressioni dell’attività umana oltre che per l’ambiente. Il problema sollevato non è marginale per ciò che oggi si suole chiamare «sviluppo sostenibile», e nemmeno per una riflessione scientifica sul ruolo dell’economia. Conduce, infatti, al nocciolo dell’odierna crisi economica e finanziaria, che, con un effetto domino, ha generato fallimenti, diseguaglianze, nuove povertà e provocato anche suicidi. Trattandosi di una crisi essenzialmente etica, collegata a riduzionismi sociali e antropologici, non può non attirare l’attenzione delle istituzioni culturali, delle associazioni e dei movimenti cattolici o di ispirazione cristiana.
Secondo papa Benedetto XVI e papa Francesco, oggi è doveroso porre a tema la questione, nonché la possibilità, di un’economia sostenibile e dell’inclusione, a partire dal recupero delle sue radici umane e dal superamento di almeno tre riduzionismi. Il primo vede l’uomo come un agente economico mosso soprattutto dall’egoismo, che è una forma degradata di razionalità rispetto alla cooperazione, che per realizzarsi deve essere sostenuta da virtù personali e sociali. Il secondo concepisce i soggetti dell’attività economica – imprese private e pubbliche – come semplici entità indirizzate a produrre beni e servizi o a massimizzare il profitto dei detentori dei capitali, senza tener conto della responsabilità sociale dell’impatto sul territorio, sull’ambiente e delle conseguenze per le generazioni future. Il terzo si riferisce al concetto di «ricchezza delle nazioni», che viene spesso appiattito su beni e servizi prodotti su un territorio in una determinata unità di tempo, tralasciando di considerare in maniera adeguata i beni sociali, culturali e spirituali di un popolo.
- d) La crescita della responsabilità sociale delle imprese e degli imprenditori.[9] Un ruolo particolare oggi spetta agli imprenditori, spesso penalizzati dalle politiche, da un sistema finanziario più attento alle transazioni e alla loro redditività anziché agli investimenti a lungo termine nel territorio e nelle imprese. L’imprenditore è una figura fondamentale di ogni buona economia, specie di un’economia a servizio dell’uomo, della società, dell’ambiente. Non c’è buona economia senza buoni imprenditori, senza la loro capacità di creare lavoro, prodotti, senza la loro responsabilità sociale rispetto ad un’economia sostenibile ed inclusiva. Il vero imprenditore conosce i suoi lavoratori, perché lavora accanto a loro, lavora con loro. Se l’imprenditore non ha esperienza della dignità del lavoro, non sarà un buon imprenditore. Condivide le fatiche dei lavoratori, le gioie del lavoro, di risolvere insieme i problemi, di creare qualcosa di nuovo. Se e quando deve licenziare qualcuno è sempre una scelta dolorosa e non lo farebbe, se potesse. Nessun buon imprenditore ama licenziare la sua gente. Chi pensa di risolvere il problema della sua impresa licenziando la gente, non è un buon imprenditore, è un commerciante.
Una malattia dell’economia è la progressiva trasformazione degli imprenditori in speculatori per sé.[10] L’imprenditore non va assolutamente confuso con lo speculatore: sono due tipi diversi. Lo speculatore è una figura simile a quella che Gesù nel Vangelo chiama “mercenario”, per contrapporlo al Buon Pastore. Lo speculatore non ama la sua azienda, non ama i lavoratori, ma vede azienda e lavoratori solo come mezzi per fare profitto. Usa azienda e lavoratori per fare profitto a breve termine (cf CIV n. 40). Licenziare, chiudere, spostare l’azienda non gli crea alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, “mangia” persone e mezzi per i suoi obiettivi di profitto. Quando l’economia è abitata invece da buoni imprenditori, le imprese sono amiche della gente e anche dei poveri. Quando tutto passa nelle mani degli speculatori, tutto si rovina. Con lo speculatore, l’economia perde volto e perde i volti. Diventa un’economia senza volti. Un’economia astratta. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone e quindi non si vedono le persone da licenziare e da tagliare. Quando l’economia perde contatto con i volti delle persone concrete, diventa un’economia senza volto e quindi un’economia spietata. Bisogna temere gli speculatori, non gli imprenditori bravi! Ma paradossalmente, qualche volte il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro. Perché? Perché crea burocrazia e controlli partendo dall’ipotesi che gli attori dell’economia siano speculatori, e così chi non lo è rimane svantaggiato e chi lo è riesce a trovare i mezzi per eludere i controlli e raggiungere i suoi obiettivi. Si sa che regolamenti e leggi pensati per i disonesti finiscono per penalizzare gli onesti. E oggi ci sono tanti veri imprenditori, imprenditori onesti che amano i loro lavoratori, che amano l’impresa, che lavorano accanto a loro per portare avanti l’impresa, e questi sono i più svantaggiati da queste politiche che favoriscono gli speculatori. Ma gli imprenditori onesti e virtuosi vanno avanti, alla fine, nonostante tutto. Mi piace citare a questo proposito una bella frase di Luigi Einaudi, economista e presidente della Repubblica Italiana. Scriveva: «Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con gli altri impegni». Vivono la mistica dell’amore.
- e) È pregiudiziale la riforma dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e dell’architettura economica e finanziaria internazionale. Un aspetto da non dimenticare è la dimensione internazionale dell’economia e della finanza. Anche questa va curata. La CIV in proposito raccomanda una governance globale di tipo sussidiario e poliarchico, opponendosi all’idea di un Super Stato, ossia un’autorità politica mondiale costituita in un superpotere assoluto. La CIV, in vista del governo dell’economia mondiale, sollecita a guardare nella direzione di Nazioni Unite che si dotano di una Seconda Assemblea, accanto a quella delle Nazioni, un’assemblea ove siano rappresentati i corpi intermedi. Si tratterebbe di un Consiglio economico e sociale che abbia poteri sanzionatori simili a quelli del Consiglio di sicurezza, per colpire chi specula sul grano, sul petrolio, sull’acqua, sull’ambiente, per regolare i flussi migratori (cf CIV n. 67).
+ Mario Toso
Vescovo di Faenza-Modigliana
[1] Su questo si veda: Congregazione per la Dottrina della Fede-Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario (=OEPQ), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2018.
[2] Cf FRANCESCO, Evangelii gaudium, Libreria Editrice Vaticana 2013.
[3] Cf Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, (= CIV), n. 65.
[4] Si tratta di superare definitivamente la cosiddetta tesi del NOMA (Non Overlapping Magisteria), formulata in economia nel 1829 da Richard Whateley, cattedratico all’Università di Oxford e vescovo della Chiesa anglicana. Nella dottrina sociale della Chiesa ciò è stato sollecitato dai tempi della crisi economica provocata dal crollo della Borsa di New York (1929), nel secolo scorso: tra ordine economico e ordine morale, secondo l’enciclica Quadragesimo anno del 1931 (= QA, n. 42), non esiste estraneità; tra di essi c’è connessione sebbene siano ordini distinti; l’etica riguarda l’economia perché questa è attività umana e come ogni attività umana è retta dalla legge morale.
[5] BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, n. 36.
[6] Un tale primo principio morale universale consente di valutare la qualità umana ed etica dell’attuale sistema economico-finanziario, nei suoi agenti singoli e collettivi, negli intenti, nei mezzi, nelle istituzioni, negli effetti e nelle esternalità. In particolare, un tale principio primo permette di offrire una valutazione etica della finanza, delle azioni degli agenti, dell’uso degli strumenti finanziari, delle conseguenze con riferimento alla dignità delle persone e dei popoli, al bene comune, all’ecologia integrale. Dalla considerazione del suddetto primo principio, relativamente alla realtà della economia e della finanza, derivano orientamenti etici, ad esempio: 1) per il benessere: esso non si riduce al solo parametro economico, ma include altri parametri, quali ad esempio la sicurezza, la salute, la crescita del “capitale umano”, la qualità della vita sociale e del lavoro, la salvaguardia dell’ambiente; 2) per la libertà economica: se intesa in modo assoluto, staccata dalla verità e dal bene, genera centri di supremazia ed inclina verso forme di oligarchia finanziaria che nuocciono alla stessa efficienza del sistema economico; 3) per gli agenti economici e politici: la loro alleanza è fondamentale per garantire che l’uso dei networks economico-finanziari, che agiscono sul piano nazionale e sovranazionale, sia a servizio del bene comune, dell’ecologia integrale.
Secondo l’insegnamento sociale dei pontefici, l’etica non ha una funzione semplicemente regolativa degli eccessi e delle ricadute negative dell’economia sulle persone, sui popoli e sull’ambiente. Ha un particolare ruolo costitutivo e qualificante. L’economia sganciata dall’etica si snatura. Diviene «diseconomia», come ebbe a scrivere don Luigi Sturzo, uno dei più grandi pensatori politici del secolo scorso. Più recentemente, nella CIV Benedetto XVI ha chiaramente ribadito questo concetto: «L’economia, infatti, ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona». Per conseguenza, «occorre adoperarsi – aggiunge poco dopo – non solamente perché nascano settori o segmenti “etici” dell’economia o della finanza, ma perché l’intera economia e l’intera finanza siano etiche e lo siano non per un’etichettatura dall’esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura» (CIV n. 45).
[7]Cf Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, nn. 147-149 [=LS]).
[8] A. Tornielli-G. Galeazzi, Papa Francesco. Questa economia uccide. Con un’intervista esclusiva su capitalismo e giustizia sociale, Piemme, Milano 2015, p. 206.
[9] «Uno dei rischi maggiori è senz’altro – scrive non a caso Benedetto XVI – che l’impresa risponda quasi esclusivamente a chi in essa investe e finisca così per ridurre la sua valenza sociale. Sempre meno le imprese, grazie alla crescita di dimensione ed al bisogno di sempre maggiori capitali, fanno capo a un imprenditore stabile che si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve, della vita e dei risultati della sua impresa, e sempre meno dipendono da un unico territorio. Inoltre la cosiddetta delocalizzazione dell’attività produttiva può attenuare nell’imprenditore il senso di responsabilità nei confronti di portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l’ambiente naturale e la più ampia società circostante, a vantaggio degli azionisti, che non sono legati a uno spazio specifico e godono quindi di una straordinaria mobilità. Il mercato internazionale dei capitali, infatti, offre oggi una grande libertà di azione. È però anche vero che si sta dilatando la consapevolezza circa la necessità di una più ampia “responsabilità sociale” dell’impresa. Anche se le impostazioni etiche che guidano oggi il dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa non sono tutte accettabili secondo la prospettiva della dottrina sociale della Chiesa, è un fatto che si va sempre più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento. Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi. Anche oggi tuttavia vi sono molti manager che con analisi lungimirante si rendono sempre più conto dei profondi legami che la loro impresa ha con il territorio, o con i territori, in cui opera» (CIV n. 40).
[10] Su questo si veda: Francesco, Discorso nello stabilimento Ilva (Genova, 27 maggio 2017).