VENERDI’ SANTO

Faenza, Cattedrale 19 aprile 2019

Il brano tratto dal profeta Isaia (Is 52, 13-53, 12) descrive, in un’intensa visione profetica, la passione del Signore Gesù: essa, lo sappiamo, è una passione d’amore per il Padre e per l’umanità. Rapito da un’intuizione sovrannaturale, il grande profeta intravvede in anticipo il momento culminante della redenzione e della morte del Servo sofferente. Coglie la grandezza e l’incommensurabilità dell’Amore di Dio per l’umanità e nello stesso tempo la stupidità dell’uomo che rifiuta il dono della salvezza, della trasfigurazione. L’uomo rifugge dall’incontrare Dio, il suo volto umano, per chiudersi in sé, come chi pensa di poter salvarsi da solo, senza Dio. Ma l’uomo che rinuncia a guardare il volto di Dio fattosi uomo giunge a non riconoscersi più per quello che è, ossia a perdere il criterio e la misura dell’umano. Chi non vuole guardare il volto del Verbo incarnato – noi per comprendere la novità e la contemporaneità del linguaggio del profeta Isaia abbiamo a disposizione l’apporto dei filosofi francesi Emmanuel Lèvinas e Paul Ricoeur, i quali sono giunti a dirci che il volto rappresenta la persona – perde l’immagine dell’uomo compiuto, che ha vita in pienezza. L’uomo senza Dio resta meno umano, rischia di diventare disumano. Grazie alla passione e morte di Gesù Cristo l’umanità trova, finalmente, la via del suo compimento secondo la misura dell’Uomo nuovo.

Riflettiamo solo qualche istante sul testo del profeta Isaia e comprendiamo la stoltezza dell’uomo che rifiuta Dio, sino ad eliminarlo dalla terra dei viventi.

Sebbene il Servo del Signore, Gesù Cristo, incarnandosi, abbia desiderato farsi umanità per renderla più simile a sé, questa, come «vede» il profeta Isaia, si è divincolata dal suo abbraccio, si è addirittura rivoltata e ribellata contro di Lui. L’umanità, secondo Isaia, sarebbe giunta a sfigurare l’aspetto di uomo del Messia, flagellandolo, sputandogli addosso, caricandolo con una croce, facendolo stramazzare a terra nella polvere che gli ha ricoperto il volto. Il proposito è stato quello di annientare in Cristo la somiglianza con noi, per non condividere nulla di Lui. L’umanità sembra presa da un’insana follia: cancellare qualsiasi traccia di Dio in sé. Con questo si rivolta contro se stessa, volendo sradicare l’immagine secondo cui è stata creata. Disprezzato e reietto dagli uomini, Cristo diventa l’uomo dei dolori, una persona irriconoscibile. Diventa «come uno davanti al quale ci si copre la faccia» per non vederlo e per non riconoscerlo come un proprio simile, come uno che ci appartiene ed è la nostra intima struttura d’essere e di volere. Non si vuole avere nulla da fare con Lui. Lo si crocifigge fuori dalle mura della città, a dire l’estraneità con Lui.

La stoltezza dell’umanità mostra così di giungere al massimo. Rifiuta, umilia, uccide Chi la crea, l’ama, incarnandosi per guarirla, per liberarla dalla schiavitù del peccato, per colmarla di vita, per eternizzarla. Cristo, peraltro, si carica delle nostre sofferenze, si addossa i nostri dolori, entra nella morte per aiutarci a viverli con il suo Amore. Mentre eravamo sperduti come un gregge e ognuno di noi seguiva la sua strada, con il suo sangue ci  costituisce popolo unificato con Dio Padre: un popolo che attraversa la storia come fermento di una nuova umanità. Imprimiamo nella nostra mente tutto questo per baciare, al termine di questa celebrazione del Venerdì santo, il Crocifisso con sincerità di amore e di riconoscenza. Se non giungeremo a farlo saremo più poveri, meno vivi e meno umani.

+Mario Toso