VEGLIA PASQUALE 2019

Faenza, cattedrale 20 aprile 2019

Stiamo vivendo la Veglia più grande dell’anno liturgico, la Madre di tutte le veglie. In essa la Chiesa ci presenta i misteri fondamentali della nostra fede mediante ricchezza e splendore di simboli: fuoco, luce, acqua, il canto gioioso dell’alleluia. Grazie a questi segni eloquenti, che ci richiamano, in certo modo, gli elementi costitutivi del mondo, tutto il nostro essere – corpo, sensi, percezione, spirito, intelligenza di verità, volontà d’amore – viene coinvolto ad accogliere e a sperimentare l’evento della morte e risurrezione di Gesù Cristo.

I segni della Veglia pasquale parlano di una realtà che, mediante l’incarnazione di Cristo, già riguarda la struttura del nostro essere umano. Dopo l’incarnazione, la nostra umanità non può più considerarsi estranea al Verbo fattosi carne e che sottopone l’umano e tutto il creato ad un impulso di rinnovamento. La nostra vita, come quella di ogni uomo, a motivo dell’incarnazione, morte e risurrezione di Cristo, sono redente nelle loro fondamenta, nelle loro radici.

Se è realmente così – come tante volte ci viene spiegato nelle celebrazioni – perché le radici della vita di Cristo piantate, in certo modo, nel nostro DNA, non sempre germogliano, non fioriscono, non fruttificano? Se davvero siamo persone redente, trasfigurate, perché le nostre comunità rimpiccioliscono nel tempo, i giovani sono sempre più assenti, i matrimoni cristiani diminuiscono, i credenti, pur presenti nella società civile e nelle varie istituzioni, non sembrano riuscire ad incidere su di esse, in modo da renderle più umane? Non abbiamo, forse, cominciato a vivere un grande «sabato santo», giorno dell’assenza di Dio? Non si diffonde, come aveva già previsto il giovane teologo Ratzinger, un paganesimo intra-ecclesiale, ossia un senso di autosufficienza tra i credenti, al punto da ritenere di essere salvezza a se stessi? Non si sta diffondendo la convinzione che il cristianesimo non è quanto viene proposto dalla Chiesa ma un qualcosa che ognuno deve confezionare da sé, scegliendo ciò che più gli aggrada dal Vangelo, tralasciando il resto? Non cresce in molti il convincimento che la morte di Dio porta più libertà?

Le radici cristiane di cui tanto si è parlato e che si sarebbe voluto codificare nella costituzione europea sono radici «letterarie», concetti astratti, eterei, o realtà concrete, vitali, parte integrante del nostro essere?

In occasione del disastroso incendio della cattedrale Notre Dame di Parigi si è parlato a proposito e a sproposito del cristianesimo e della sua impronta sull’Europa. Anche nel contesto di questa veglia pasquale non è inutile che ci poniamo la domanda: di quale cristianesimo, dopo che il Verbo si è fatto carne, vogliamo farci portatori? Di un cristianesimo mero schema concettuale, costruzione nostra o guscio vuoto, privo ormai del suo abitante? Può sussistere un cristianesimo senza cristiani autentici? Perché preoccuparsi del destino delle chiese senza tuttavia considerare il problema serio che Cristo sta scomparendo dall’orizzonte valoriale delle nuove generazioni? Possiamo disquisire finché vogliamo. Rimane indubitabile che il cristianesimo diviene fonte di civiltà quando i credenti sono realmente tali e con la loro fede riescono a portare nel mondo il fermento di Dio, la vita nuova di Cristo. Essi non possono pensare di essere luce del mondo, sale della terra, se la vita quotidiana che conducono non trova alimento e, quindi, connessione con le radici cristiane, che Cristo ha piantato nel nostro essere con la sua morte e risurrezione.

Occorre essere preoccupati sia della presenza della gente alle celebrazioni dei misteri di Cristo sia della capacità di far sì che la vita comunicata dalla partecipazione ad essi si diffonda nel mondo, nelle istituzioni, nelle legislazioni, nella famiglia, nella scuola, nella cultura. Chi è redento da Cristo non è destinato a vivere chiuso in recinti, bensì è mandato ad annunciare il Risorto a tutti i popoli. Così, non si può ignorare che se le singole gocce d’acqua, ovvero i cristiani, rimangono separati e non divengono un fiume d’acqua viva difficilmente possono irrigare la terra riarsa, facendola germogliare e fruttificare. La fecondità del cristianesimo dipende sicuramente dall’incarnazione dei valori evangelici nella cultura. Prima ancora, però, dipende dalla comunione con Cristo. Bisogna che, partecipando a questa solenne celebrazione pasquale, fonte e culmine della vita cristiana, giungiamo ad accrescere la nostra fede. Essa non è tanto un cumulo più o meno voluminoso di nozioni, o una moltitudine di gesti ripetuti meccanicamente durante i nostri incontri, quanto piuttosto un arrivare a «toccare» la mano di Dio, che viene tra noi, per stare con noi. Una fede vera è ascoltare la sua Parola col cuore, è vivere empaticamente con Chi è per noi Amore pieno di verità. Non dobbiamo dimenticare che è soprattutto l’Amore di Cristo, accolto, celebrato, testimoniato che consentirà alla Chiesa di rinnovarsi e di apparire agli uomini come la patria che dà loro vita, più umanità, speranza oltre la morte.

I cristiani, vedono in Cristo il loro Tutto. Essi non sono tanto innamorati delle idee del bene e del vero, della povertà in sé, ma di Cristo. Non devono essere innamorati delle loro opere e delle loro istituzioni, pur importanti e necessarie per testimoniare il loro servizio all’uomo, ma soprattutto di una Persona, che è Gesù Cristo. Diventano luce per il mondo quando il loro io è misticamente immerso in quello di Gesù Cristo, ossia quando riescono a far vedere agli altri quanto sono innamorati di Lui.

+ Mario Toso