Ce l’aveva insegnato il Covid, ma l’abbiamo dimenticato in fretta. Ora l’alluvione lo grida, ancora più forte. L’unica via è la comunità, quella che mette al centro l’uomo, e ci rende fratelli. È la parola che è risuonata di più, giovedì scorso, all’incontro organizzato dal nostro settimanale in collaborazione con l’Ufficio comunicazioni sociali della Ceer, l’Ucsi e la Fisc nell’aula magna del Seminario di Faenza col titolo Oltre il fango, la comunità. A due mesi dall’alluvione, a partire dai volti e dalle storie che abbiamo messo in pagina, la sfida era quella di andare oltre l’emergenza, trovare costanti e insegnamenti e costruire un pensiero su quanto è successo, «per non dimenticare», come ha detto all’inizio della mattinata il direttore del nostro giornale, Francesco Zanotti, e guardare avanti.
Un primo ritratto di questa comunità è arrivato dal racconto del vescovo di Faenza-Modigliana, monsignor Mario Toso che nelle scorse settimane ha visitato, con il vicario don Michele Morandi, le realtà più colpite della sua diocesi: «Mi ha turbato l’umiltà della vita della gente – ha spiegato – che sostiene il mondo e la Chiesa con il lavoro, l’impegno e un amore concretissimo, quello della cura dei più fragili che non si è interrotta e, anzi, si è realizzata con maggiore eroicità. Colpisce, quasi fosse esaltata da questa tragedia, l’importanza del rapporto con il creato: la gente continua ad amarlo, a curarlo e a proteggerlo. Colpisce la sofferenza e la dignità degli anziani che hanno perso tutto, la fatica non del tutto codificata dei bambini alcuni dei quali, col temporale, oggi piangono. Non sono mancate lacrime di commozione nei volti della gente, non solo per quanto ha perso ma anche per l’aiuto ricevuto». Questo è un tempo di grandi sfide, ha proseguito il presule citando il titolo dell’incontro Covid, pandemia, sfida climatica. «Sfide che si affrontano solo con un cuore solidale, aperto al trascendente. Al di là del fango, dell’indifferenza, della frammentarietà, c’è la comunità. È così che possiamo rialzarci. Occorre mettere insieme l’ecologia ambientale e quella umana: non bastano le conoscenze e le scienze. Serve l’etica». È l’ecologia integrale della Laudato si’ di papa Francesco, una categoria per leggere e agire nel tempo di oggi. «In Romagna l’uomo ha tradito la natura – ha concluso monsignor Toso – ma soprattutto ha tradito se stesso. Dobbiamo ripartire da qui, da queste riflessioni, se non vogliamo ripetere gli stessi errori».
In questa esperienza, abbiamo perso tanto, ha esordito il sindaco di Faenza Massimo Isola «ma alcune parole hanno assunto un nuovo significato. Anzitutto la comunità: ciò che tutti abbiamo sentito, oltre il fango, l’acqua, i rifiuti, e ci ha dato la forza di reagire. E poi la compassione: le persone che hanno deciso di farsi carico delle sofferenze degli altri. ‘Il tuo dolore è il mio’: così siamo diventati più forti, con questo modo di affrontare il dramma».
Il prefetto di Ravenna, Castrese De Rosa, ha fornito il quadro della gestione dell’emergenza di maggio. Prima con i numeri e poi in emozioni e ricordi personali. «Tra il primo e il 17 maggio – ha riferito – sul territorio provinciale si sono riversate qualcosa come oltre 128 dighe di Ridracoli, 4,5 miliardi di metri cubi di acqua, una portata senza precedenti. Sono caduti 500 millilitri di pioggia, la metà di quella che normalmente cade in un intero anno. Sono esondati 23 fiumi e sulle colline si sono sviluppate migliaia di frane». L’unico modo di affrontare un fenomeno di questa portata, è stato, anche in questo caso, fare squadra. «La mia esperienza nel mondo cattolico mi ha insegnato che da soli non si va da nessuna parte. Quelle ore non si dimenticano – ha spiegato il prefetto tradendo l’emozione di quei momenti -. Abbiamo avuto sette morti (nel ravennate, ndr) e restano qui. Sono andato al funerale di tutti». De Rosa ha ricordato in particolare una richiesta di aiuto: «Un sindaco, giovanissimo, mi avrà chiamato 50 volte, segnalando la presenza di una donna con un bambino e un’anziana sul tetto di via della Libertà, a Castel Bolognese. Lo ricordo ancora. Quando siamo andati a prenderli, gli ho chiesto chi fossero. Erano la sua futura moglie e la sua famiglia. ‘La inviterò al nostro matrimonio’, mi ha detto, ‘perché sono salvi grazie a voi’». Un’altra alluvione non ce la possiamo permettere, ha ripetuto De Rosa: «D’ora in avanti non abbiamo più alibi. Ma vi posso dire che abbiamo provato ad affrontare tutto questo con l’umanità. La persona viene prima di ogni altro aspetto».
A sfatare alcune interpretazioni circolate sull’alluvione è stata suor Chiara Agati, della Fraternità Dives in Misericordia di San Pietro in Vincoli, che 25 anni fa aveva fatto una tesi di laurea in Scienze ambientali su rischio idraulico nella valle del Lamone, che di fatto ha “previsto” tutte le aree maggiormente colpite dalle esondazioni. «L’ecosistema è un organismo – spiega -. Ogni componente è necessaria. E ha una biodiversità fondamentale da rispettare. Nella mia tesi ho studiato queste componenti e definito un parametro cardinale di ‘vulnerabilità’ del territorio, frutto di quattro diversi parametri. Le parti individuate come ‘rosse’ sono quelle colpite dall’alluvione. Non è la mia tesi a essere futuristica: è stata redatta in base alle conoscenze di 25 anni fa. Il problema è che da allora non è stato fatto niente. Allora è difficile dire che questo fenomeno era imprevedibile. Non sapevamo il giorno ma sapevamo che poteva succedere. Proprio il 12 maggio, in Cattedrale, il vescovo Mario ha detto una frase che mi ha colpito: “la natura ci presenterà un conto molto salato”». La soluzione, allora, prosegue suor Agati, non sono semplicemente le casse di colmata, né lo sfalcio degli alberi dall’alveo dei fiumi, gli unici corridoi ecologici che ci sono rimasti: «Il passo indietro da fare è enorme e molto impopolare. Stanno disboscando il fiume (il Lamone, ndr): è il rimedio facile che spegne la rabbia della gente, ma non è la soluzione. Abbiamo bisogno di interventi su scala molto più ampia». L’approccio dev’essere multidisciplinare e scientifico.
Infine, due esperienze concrete: quella dell’Agesci, che a Faenza ha gestito un centro di accoglienza e a Ravenna un hub di Protezione civile e quella della Caritas di Faenza-Modigliana. «L’impegno per noi è quello di esserci, ma anche di contagiare – ha spiegato Francesco Bentini, responsabile di zona Agesci -. È questa la sfida: educare con l’esserci, contagiare, fermarsi a capire e far capire cosa fare». «Quando la gente pensa alle persone che si rivolgono a noi – ha aggiunto Chiara Lama della Caritas Faenza – pensano due cose: ‘sono solo i poveri’ e ‘si sono cacciati in queste situazioni’. Nell’emergenza alluvione questi stereotipi sono saltati: riguardava tutti. Questo ci ha detto in modo chiaro e ancor più forte che la Caritas deve uscire, come spiega da tempo papa Francesco». L’incontro della scorsa settimana è stato poi l’occasione per fare memoria anche del racconto dell’alluvione, che si è fatto storia.
A partire dalle pagine del nostro settimanale. «C’è una narrazione un po’ facilona dell’alluvione – ha spiegato Alessandro Rondoni, responsabile dell’Ufficio comunicazioni sociali regionale – secondo cui basta cantare ‘Romagna mia’ e tutto andrà bene, come si diceva col Covid. Non è così, non è stato così». Questa crisi inaspettata «è stata l’occasione per riscoprire chi siamo, come giornali – ha spiegato Samuele Marchi, vicedirettore del Corriere Cesenate e responsabile della redazione di Faenza -. È il momento in cui ci dobbiamo mettere in gioco, come giornale di comunità».
Cosa ha significato in concreto? «Avere una linea editoriale che dia senso alla notizia e alla tragedia, senza cadere nella retorica, essere giornale popolare, oggi anche multimediale, essere in relazione con la comunità, formare informando, consumare le scarpe ed essere nei luoghi, avere un volto, specifico, cioè mettersi in gioco, e infine ‘ricomporre i cocci’. La realtà è complessa: da soli non ce la si fa, né dal punto di vista personale né da quello comunitario».
«Per noi è stata una sfida – ha aggiunto il direttore, Francesco Zanotti -. Abbiamo spalato notizie, distinguendo quelle buone dalle bufale. La mia indicazione è sempre stata: non si scrive nulla che non sia verificato. Quando si maneggiano le notizie si trattano le persone. Persone con volti e nomi ben precisi per cui occorre il massimo della cura».