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OMELIA PER LA SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

Faenza, cattedrale 1 novembre 2018

Celebriamo oggi con grande gioia la solennità di Tutti i Santi. La Chiesa ci appare come un «giardino», in cui lo Spirito di Dio, con mirabile fantasia, ha suscitato una moltitudine di santi e sante di ogni lingua, popolo e cultura, di ogni età e condizione sociale. Ognuno è diverso dall’altro, con l’unica e irripetibile singolarità della propria personalità umana e del proprio carisma spirituale. Tutti, però, recano impresso il «sigillo» di Gesù (cf Ap 7,3), che è l’impronta del suo amore, testimoniato attraverso la Croce. Il sigillo comune ci fa intravedere l’unità che li collega tra di loro.

Oggi, infatti, celebriamo la festa dei molti santi, non tanto considerandoli come mere individualità, come atomi impreziositi da Dio. Facciamo la festa della Chiesa intera, Chiesa come insieme di credenti: di quelli che sono già nella città santa, la Gerusalemme celeste; di quelli che attendono di entrarvi mediante la purificazione; di quelli che, come noi, sono ancora pellegrini sulla terra. Oggi è la festa della Chiesa come unica famiglia, soprattutto come comunione di persone, perché parte di Cristo, del suo Corpo mistico, che le unisce in un unico popolo.

È festa della riconoscenza. Siamo in festa non tanto per i nostri meriti, bensì grazie all’amore che Dio nutre per noi. E, quindi, non è una festa di autocompiacimento. È, bensì, momento di rendimento di grazie, di gioia esultante, perché abbiamo Dio come Padre. Un Dio che ci ama perdutamente, che ci associa alla pienezza della sua eterna felicità, destinandoci a partecipare alla sua vita senza fine.

In definitiva, non si tratta di fare festa perché siamo persone diligenti e buone. Anche per questo, certamente. Ma siamo gioiosi e festanti, soprattutto perché persone amate, perché unite da una relazionalità profonda, perché costituite comunione di popolo: un popolo nuovo nel mondo, che cammina verso il futuro, che è l’Amore della Comunità trinitaria.

Il ricordo di tutti i santi, infine, lo celebriamo sperimentando un grande desiderio di bene, di vita immacolata nell’amore. I santi contemplati suscitano il desiderio intenso di essere simili a loro, persone totalmente pervase dalla luce di Dio. Ci spronano ad essere dinamici.

La festa odierna non è, dunque, semplice fruizione, di gioia fine a se stessa, per persone che si fermano nella beatitudine di un momento. È festa che mette in cammino, sospinge ad accelerare il passo nella costruzione di un mondo migliore, ad essere attivi contemplando, guardando in profondità e in avanti. Essere santi significa, certamente, vivere nella vicinanza di Dio, nella sua luce, vivere nella sua famiglia, ascoltare il Signore Gesù, ma significa in particolare seguirlo, camminare dietro a Lui, con Lui, senza perdersi d’animo di fronte alle difficoltà, alla Croce. È imboccare la strada delle beatitudini (cf Mt 5, 3-10). È percorrere la via che è Cristo. È Lui, infatti, il vero povero in spirito, l’afflitto, il mite, l’affamato ed assetato di giustizia, il misericordioso, il puro di cuore, l’operatore di pace. È Lui il perseguitato a causa della giustizia.

La nostra gioia di essere popolo di Dio, pertanto, sarà più grande se ci percepiremo come credenti attivi e responsabili, lievito nel nostro territorio, gente di fede che incide nei rapporti, nelle famiglie, nelle istituzioni, perché capaci di incarnare l’umanità nuova portataci da Cristo, il Beato per eccellenza.

Rispetto al compito di trasfigurare la vita sociale, di rendere più fraterne e giuste le relazioni, ciascuno di noi dovrebbe rattristarsi se non vi riuscissimo. Il divenire insignificanti e irrilevanti rispetto al bene comune dovrebbe farci arrossire, non perché punti nell’orgoglio, ma perché, in definitiva, non saremmo degni di essere membra vive del Corpo di Cristo. Dovrebbe allora inquietarci la parola di Cristo stesso, il quale stigmatizzò il sale insipido, che non insaporisce e a null’altro serve se non ad essere gettato via.

È, dunque, nella coincidenza con la solennità di tutti i santi, che si è deciso di rendere noti gli Orientamenti pastorali per l’anno 2018-2019, non a caso aventi per titolo: Popolo in cammino verso Dio. Nei brevi orientamenti, stilati dal vescovo e che i vostri parroci vi illustreranno, si sollecita la nostra Diocesi a fissare lo sguardo su Cristo incarnato, oltre che su Cristo Risorto. Egli è il Signore che vive in noi, nelle nostre comunità, e le sottopone al parto di una nuova umanità, alla nascita di una nuova tradizione di santità nella letizia.

Il popolo pellegrino, che noi siamo, è allora chiamato a trasfigurare la terra che attraversa, mentre si incammina verso Dio. Come anche cercano di far capire gli Orientamenti, la santità non dev’essere solo delle singole persone. Per diffondere il Regno di Dio in maniera efficace, è necessario essere soprattutto un popolo santo, che avanza nell’insieme delle sue componenti, con un cuore solo ed un’anima sola, per una stessa missione. Per servire meglio il mondo, dobbiamo vivere la gioia di sentirci popolo, popolo che immette nelle vene dell’umanità la linfa vivificante e divinizzante delle beatitudini. La santità, che siamo chiamati a vivere, è santità collettiva e comunitaria, ossia di popolo interamente missionario, inclusivo  dei giovani.

È proprio per questo che stiamo celebrando il Sinodo dei giovani.

Vivendo e testimoniando una santità comunitaria, sarà più facile affrontare le sfide che ci attendono. Saremo maggiormente in grado di esprimere una formazione permanente sia dei presbiteri sia dei fedeli laici, al fine di poter disporre di validi catechisti e catechiste, di docenti di religione preparati dal punto di vista non solo professionale, ma anche relazionale e didattico. Saremo anche più capaci di rinnovare la pastorale vocazionale e giovanile, nonché quella familiare. Ricordiamo che papa Francesco, nell’udienza del mercoledì in cui ha ricevuto anche i nostri cresimati, ha sollecitato ad istituire un catecumenato per i fidanzati. Ed, inoltre, saremo più impegnati nella pastorale sociale, scolastica, della comunicazione. I nostri credenti, diventando adulti, potranno così testimoniare una fede viva, pensata, generante una cultura cristiana, che li aiuterà ad essere luce splendente, a rendere efficacemente ragione della speranza che vive in loro.

Lungo il cammino, il vigore sarà dato dal Pane che viene dal cielo e che Gesù stesso ha spezzato nella sosta di Emmaus. Lo spezzare il pane è il gesto liturgico originale, che ci fa riconoscere come comunità che, mentre fa memoria della Pasqua, è costituita nel mondo fonte di una profonda rivoluzione morale e spirituale.

Nella celebrazione eucaristica che stiamo vivendo, accresceremo la gioia di essere popolo in comunione. Rinfrancati dalla comunione con Cristo e tra di noi, domani commemoreremo tutti i fedeli defunti. La comunione nel Corpo mistico di Cristo ci consente di far giungere il nostro suffragio a coloro che ci hanno generati alla vita e alla fede con tanto amore.

+ Mario Toso

CONFERENZA STAMPA: RIAPERTURA BIBLIOTECA CARD. GAETANO CICOGNANI

Siamo giunti ad un momento importante per la nostra Diocesi di Faenza-Modigliana: la riapertura della Biblioteca del Seminario Card. Gaetano Cicognani, che è la Biblioteca non pubblica più grande della Regione Emilia-Romagna. Per un’istituzione culturale e formativa quale è il Seminario della Diocesi, la Biblioteca è un polo imprescindibile. Il polo principale è costituito dalla Cappella ove è offerto il cibo spirituale, il pane celeste. La biblioteca offre alle persone un cibo prettamente culturale.La riapertura della Biblioteca, che è stata e sarà anche al servizio del territorio, rappresenta il ripristino di uno dei pilastri della formazione e dell’educazione cristiane programmate normalmente nella Diocesi, nelle parrocchie, nelle associazioni. La Biblioteca non è solo un patrimonio librario che conserva insigni testimonianze culturali e sociali della tradizione cristiana – tradizione religiosa e sociale -, di altre tradizioni, della letteratura in genere, della riflessione teologica, filosofica, sociologica, della sapienza umana, ma è luogo in cui, mediante ricerca, conoscenza approfondita e critica delle fonti, si entra in relazione, per quanto a noi possibile, con lo spirito e l’ethos di varie civiltà. Entrando nel cuore della storia di diverse generazioni si ha l’opportunità di arricchire il proprio pensiero, le nostre informazioni, l’umanesimo che ci appartiene e che vuole essere espressione di un impegno costante di crescita morale, spirituale e culturale, procedendo in avanti.

Ci saranno, però, altre occasioni per parlare sull’incidenza e sulla rilevanza di una Biblioteca rispetto al popolo di Dio e alla sua missione, al territorio.

Qui mi limito a ringraziare tutti coloro che, a cominciare da don Michele Morandi, Rettore di questo Seminario, don Ugo Facchini bibliotecario, Giovanni Gardini vicebibliotecario, hanno creduto nel progetto della riapertura. Un tale progetto ha importato dedizione su più fronti, quello della sicurezza, delle risorse economiche, della catalogazione, del reperimento del personale, per tenerla aperta non solo ai Seminaristi ma anche al pubblico, non solo di giorno, ma fino ad ora tarda per facilitare gli studenti che in città non possono usufruire di altri luoghi di studio. E, inoltre, auspico che la nostra Biblioteca non solo sia sempre più aggiornata per l’acquisizione di nuovi studi, collane, ma anche sia sempre più inserita nella rete delle biblioteche ecclesiastiche e civili, sul piano nazionale ed internazionale. L’obiettivo dev’essere quello di sviluppare un’istituzione moderna, rispondente alle esigenze attuali, concretizzando una felice sintesi tra la biblioteca tradizionale – concepita come luogo di consultazione e conservazione di testi a stampa – e la biblioteca elettronica, che non è ubicata fisicamente in un solo luogo, ma è un insieme di risorse dislocate in diverse istituzioni ed organizzazioni, disponibili in rete ventiquattro ore su ventiquattro.

La costituzione di una biblioteca che armonizza le prestazioni usuali con quelle più aggiornate, come l’organizzazione di eventi culturali, di circoli-laboratori di nuovo pensiero e di nuove esperienze di vita, facilita lo studio e la promozione dello spessore culturale delle persone; consente una migliore distribuzione e diffusione di beni culturali che prima erano meno accessibili; potenzia la collaborazione e lo scambio con altre biblioteche, con i centri culturali e le università del mondo. Un’«utopia» potrebbe essere, rimanendo però su un piano locale, in modo analogo alla rete che si va istituendo tra Curia e parrocchie, l’istituzione di una rete tra la Biblioteca del Seminario e le bibliotechine delle parrocchie e delle associazioni con sede nelle varie unità pastorali, nei centri delle varie istituzioni culturali. Naturalmente tutto ciò significa – ecco un altro impegno – coinvolgimento e preparazione di persone interessate a questo progetto.

+ Mario Toso

NESSUN PROFITTO È LEGITTIMO SE NON HA RADICI NEL BENE COMUNE

Faenza, Sala “Giovanni Dalle Fabbriche” 1 ottobre 2018

Premessa

La presentazione del documento «Questioni dell’economia e della finanza» della Congregazione per la Dottrina della Fede e del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale del maggio 2018,[1] ci consente di riflettere sull’imprescindibilità della Dottrina o Insegnamento sociale della Chiesa (=DSC o ISC) per l’azione dei credenti e sull’ispirazione cristiana.

 

  1. La Dottrina sociale della Chiesa lievito ed ispirazione dell’azione sociale

Prima di fare alcune brevi considerazioni sul Documento mi permetto di segnalare la nascita di un’Associazione che pone al centro tale imprescindibilità. Perché?

Poiché l’attenzione alla DSC, nelle stesse associazioni ed aggregazioni cattoliche e di ispirazione cristiana, attualmente gode di poca rilevanza, il qui presente Mons. Adriano Vincenzi, assistente incaricato CEI per Confcooperative ha voluto, assieme ad alcuni amici, costituire un’associazione intitolata Il lievito. Si tratta di un’associazione privata di fedeli la cui costituzione è stata approvata dal sottoscritto, qui a Faenza. Nel titolo si usa l’immagine del lievito per dire cosa è o dovrebbe essere la DSC, non solo per l’associazione che ne porta il nome, ma anche per le altre organizzazioni, i movimenti cattolici o di ispirazione cristiana. La DSC accolta, interpretata, vissuta, aggiornata è come il lievito che immette il suo fermento positivo nelle attività e nelle organizzazioni umane. È lievito che fa crescere la vita associativa, le società, così da renderle più se stesse, più fedeli alla propria mission, alla propria essenza etica, ai propri obiettivi operativi. Senza il lievito la pasta non si sviluppa, si affloscia, implode, diventa poco commestibile.

  1. La proposta del documento «Oeconomicae et pecuniariae quaestiones», ovvero un’antropologia ispirata cristianamente per una più incisiva riforma del sistema monetario e finanziario

L’immagine del lievito mi consente di collegarmi al tema che è al centro del nostro incontro, ovvero la presentazione dei contenuti del Documento già citato, relativo alle odierne questioni economiche e finanziarie. In tale testo si riflette sull’attuale situazione, giungendo ad esprimere alcune considerazioni in vista di un discernimento etico, circa alcuni aspetti del nostro sistema economico-finanziario. Il Documento fa appello, in vista della realizzazione di un sistema economico-finanziario, di mercati liberi, stabili, trasparenti, «democratici»– ovvero caratterizzati da una imprenditorialità plurivalente o dalla «biodiversità» delle imprese -,[2] funzionali all’economia reale, alle imprese, alle famiglie, al bene comune, ai popoli, ad un’antropologia diversa e nuova rispetto a quella dominante, ovvero neoindividualista, libertaria ed utilitarista che finisce per produrre, come ebbe a sottolineare papa Francesco, senza mezzi termini, un’economia che scarta, non include, anzi uccide. A quale antropologia fa, dunque, riferimento il Documento? Come si legge in esso, ai numeri 9 e 10 il pontefice fa riferimento ad un’antropologia relazionale, razionale, comunionale e trascendente, derivante dal Vangelo. Ecco quanto si legge nel numero 9: «[…] senza un’adeguata visione dell’uomo non è possibile fondare né un’etica né una prassi all’altezza della sua dignità e di un bene che sia realmente comune. Di fatto, per quanto si proclami neutrale o avulsa da ogni concezione di fondo, ogni azione umana – anche in ambito economico – implica comunque una comprensione dell’uomo e del mondo, che rivela la sua positività o meno attraverso gli effetti e lo sviluppo che produce.

In questo senso, la nostra epoca ha rivelato il fiato corto di una visione dell’uomo individualisticamente inteso, prevalentemente consumatore, il cui profitto consisterebbe anzitutto in una ottimizzazione dei suoi guadagni pecuniari. La persona umana possiede infatti peculiarmente un’indole relazionale ed una razionalità alla perenne ricerca di un guadagno e di un benessere che siano interi, non riducibili ad una logica di consumo o agli aspetti economici della vita».

Nel numero 10, invece, si legge: «È facile scorgere i vantaggi derivanti da una visione dell’uomo inteso come soggetto costitutivamente inserito in una trama di relazioni che sono in sé una risorsa positiva. Ogni persona nasce all’interno di un ambito familiare, vale a dire già all’interno di relazioni che la precedono, senza le quali sarebbe impossibile il suo stesso esistere. Essa sviluppa poi le tappe della sua esistenza sempre grazie a legami che attuano il suo porsi nel mondo come libertà continuamente condivisa. Sono proprio questi legami originari che rivelano l’uomo come essere relazionato ed essenzialmente connotato da ciò che la Rivelazione cristiana chiama “comunione”. Questo originario carattere comunionale, mentre evidenzia in ogni persona umana una traccia di affinità con quel Dio che lo crea e che lo chiama ad una relazione di comunione con sé, è anche ciò che lo orienta naturalmente alla vita comunitaria, luogo fondamentale per la sua compiuta realizzazione. Proprio il riconoscimento di questo carattere, come elemento originariamente costitutivo della nostra identità umana, consente di guardare agli altri non anzitutto come a potenziali concorrenti, bensì come a possibili alleati nella costruzione di un bene che non è autentico se non riguarda tutti e ciascuno nello stesso tempo. Tale antropologia relazionale aiuta l’uomo anche a riconoscere la validità di strategie economiche che mirino anzitutto alla qualità globale della vita raggiunta, prima ancora che all’accrescimento indiscriminato dei profitti, ad un benessere che se vuol essere tale è sempre integrale, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Nessun profitto è infatti legittimo quando vengono meno l’orizzonte della promozione integrale della persona umana, della destinazione universale dei beni e dell’opzione preferenziale per i poveri. Sono questi tre principi che si implicano e richiamano necessariamente l’un l’altro nella prospettiva della costruzione di un mondo che sia più equo e solidale».

In breve, il Documento afferma che l’umanizzazione della finanza, il suo orientamento etico al bene comune, che la fa essere pienamente se stessa, è comandato dall’ispirazione cristiana, ovvero da una antropologia relazionale, solidale, trascendente. I rapporti economici e finanziari improntati all’etica, creano fiducia, equità e cooperazione. Se lasciati solo agli automatismi di un mercato non animato dall’etica, essi producono scarti ed esternalità negative e, come ci ha ampiamente mostrato la crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007-2008, il fallimento delle stesse imprese e cooperative che non rispettano l’etica.

Detto in un altro modo ancora, il lievito che deve corroborare e fermentare la stessa etica della solidarietà, della vita sociale e della cooperazione è l’ispirazione cristiana, con la sua antropologia: non un’antropologia qualsiasi, priva di una scala di valori, al punto che la capovolge, mettendo al primo posto le cose da fare, l’organizzazione, le strategie, gli accorpamenti, il fatturato, ma non la persona, i soci, le famiglie e il bene comune.

Chi rinuncia all’antropologia ispirata dal Vangelo perde il lievito che fermenta l’attività economico-finanziaria, non facendola essere se stessa, ossia un’attività umana che perché tale è guidata dalla legge morale, dalla giustizia sociale e dal bene comune. Se non avviene così l’attività economica e finanziaria deteriora, perde la sua vocazione e la sua efficacia. Come diceva don Luigi Sturzo l’economia senza etica è diseconomia. Lo stesso può essere ripetuto per la finanza.

Chi pensa di poter fare a meno dell’ispirazione cristiana, a cui si richiamano gli stessi Statuti di varie associazioni, rischia di ridurre la sua attività economico-finanziaria a ricerca del mero profitto, a robotizzazione e digitalizzazione (importanti sicuramente, ma non fine ultimo), favorendo la spersonalizzazione dei rapporti, la caduta della responsabilità sociale, dimenticando i fini primari della promozione delle persone, dei soci e delle loro famiglie.

Chi è credente dovrebbe essere cosciente che ogni sua attività è pervasa e strutturata dall’amore cristiano. Se rinuncia al Vangelo di Cristo, all’antropologia che esso ispira rinuncia alla propria identità.

Di questo ho avuto modo di parlare a Cervia all’assemblea costitutiva di Confcooperative Ravenna-Rimini lo scorso 17 settembre.

Il Documento in esame, come anche la riflessione di questa sera, costituiscono un invito che interpella le coscienze per rafforzare l’impegno verso i valori della giustizia sociale e del bene comune, beni-valori che possono essere condivisi da tutti.

+ Mario Toso


[1] Cf Congregazione per la Dottrina della Fede-Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2018.

[2] Cf Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario, n. 20.

Omelia per la solennità di S. Francesco d’Assisi

Chiesa di san Francesco, 4 ottobre 2018

Cari fratelli e sorelle, nella solennità di san Francesco, patrono d’Italia, desideriamo ricordare la sua santità e nello stesso tempo la sua gioia. Si tratta di una gioia non superficiale. È la gioia di coloro che, pur tra gli stenti e le sofferenze, sanno fare della propria vita un dono incessante. Chi si dona è anche felice. San Francesco sperimentava nel suo intimo una grande pace e serenità perché aveva abbracciato il Signore. Lo rendeva gioioso la sua fede, il suo amore per Gesù, la sua bontà per ogni persona.È stato detto che egli rappresentava un altro Cristo: era davvero icona vivente del Signore Gesù, in tutto, al punto da condividere con Lui le stimmate. Diventò uno col Cristo. Che cosa, in particolare, lo assimilava di più a Cristo? Certamente le stimmate. Ma soprattutto l’amore affettuoso ed indiscusso per Dio Padre. La sua percezione della paternità di Dio era così profonda e sentita da portarlo a riconoscere una fraternità universale tra gli uomini, e degli uomini con le altre creature. Se Dio è loro Padre essi sono tutti fratelli e sorelle. Tutti conosciamo il Cantico delle creature. In esso è ben espressa una tale fraternità: è fratello il sole, bello, radiante cun grande splendore. Sorella è la luna, sorelle sono le stelle, clarite e preziose. Fratello è il vento. Sorella è l’acqua e nostra madre Terra. Emblematico in questo senso è l’episodio del lupo di Gubbio. In esso traspare in maniera chiarissima il senso della fraternità che anima Francesco nei confronti delle persone e degli animali. Il poverello di Assisi riesce a liberare Gubbio dalle devastazioni di un lupo terribile e feroce, il quale non solamente divorava gli animali ma anche le persone, piccoli e grandi. Ebbene, Francesco affronta il lupo e si rivolge a lui, che gli veniva incontro a bocca aperta, così: «Vieni qui, frate lupo, io ti comando da parte di Cristo di non fare male a me e a nessun’altra persona». Non appena Francesco fece il segno di croce il lupo chiuse la bocca, gli si avvicinò mansueto e come un agnello si accovacciò ai suoi piedi. Francesco gli disse: «Fratello lupo perché hai fatto del male ai tuoi fratelli uomini? Tutti ti odiano Fratello lupo, hanno paura tutti di te, devi smetterla. Ma io sono tuo fratello e voglio che ci sia pace tra te e gli uomini, così sarete tutti tranquilli in questa città». Quando il lupo capì il suo errore scrollò la testa. Fu allora che Francesco disse agli abitanti di Gubbio: «Il lupo vuole vivere in pace con voi, lo desidera veramente. L’importante che mi promettete che voi gli darete da mangiare, al vostro nuovo Fratello». Da quel giorno, grazie a Francesco e alla volontà sia del lupo sia dei cittadini di Gubbio, tornò la pace e il lupo passava a trovare gli abitanti che gli davano da mangiare come promesso. Il lupo divenne il cane di tutti, come anche l’amico di tutti i bambini. Alcuni anni dopo, tutti gli abitanti piansero alla morte del lupo perché avevano perso il loro caro amico Fratello lupo.

Il miracolo di Gubbio  ci insegna il senso della fraternità che legava Francesco con gli uomini e gli stessi animali, ma anche che quando gli uomini non si prendono cura delle creature di Dio e della loro stessa Madre Terra queste si «ribellano» e provocano danni agli uomini. A ognuno deve essere riconosciuto ciò che gli spetta. Senza giustizia nei confronti del creato l’umanità rischia, come nel caso di un inquinamento oltre ogni limite e del riscaldamento globale, di perire.

Francesco è anche mosso dal senso della paternità di Dio e della fraternità allorché decide di andare ad evangelizzare il sultano  mussulmano Melek-el-Kâmel in Egitto. Ad ogni persona spetta il diritto di incontrare e di credere in Gesù Cristo. In un periodo di scontro tra cristianesimo e l’islam, Francesco, armato solo della sua fede in Dio e, quindi, dal senso della comune fraternità, voleva predicare Gesù Cristo. Si recò dal sultano, il quale lo accolse e lo ascoltò con benevolenza. Mostrò un modello di missionarietà senza armi, nel rispetto e nel dialogo reciproco, quale esiste tra fratelli e non tra nemici.

Analogamente, Francesco fu riformatore della Chiesa all’insegna della comunione e non della lotta e della contrapposizione tra fratelli. Fu il Signore a farsi sentire nel suo intimo. Si fece udire a Lui dal Crocifisso della chiesetta di san Damiano: «Va, Francesco, e ripara la mia Chiesa in rovina». Il Crocifisso chiama Francesco a rinnovare la Chiesa con la radicalità della fede e con il suo entusiasmo di amore per Cristo. Questo avvenimento fa pensare ad un altro avvenimento verificatosi circa due anni dopo nel 1207: il sogno di papa Innocenza III. Questi vede in sogno che la basilica di san Giovanni in Laterano, la chiesa madre di tutte le chiese, sta crollando e un religioso piccolo e insignificante puntella con le sue spalle la chiesa affinché non cada. È Francesco. Non è il papa che salva la chiesa dal crollo, nonostante fosse potente, di grande cultura religiosa, come pure di grande potere politico. Ma come Francesco rinnova la Chiesa? Creando divisioni e scompiglio? Francesco riforma la Chiesa non senza o contro il papa. Il Poverello di Assisi aveva compreso che ogni carisma donato dallo Spirito santo va posto al servizio del Corpo di Cristo, che è la Chiesa. Per questo non si oppose al papa, al suo vescovo. Agì sempre in comunione con l’autorità ecclesiastica. Quale insegnamento per coloro che desiderano cambiare la chiesa con furore, creando tensioni e lotte continue! C’è chi vuole cambiare e rinnovare la Chiesa contro il papa, il vescovo e persino contro il proprio parroco. San Francesco indica un’altra strada, quella della convergenza e della collaborazione nel ricercare il bene della Chiesa. Innocenzo III intuì l’origine divina del movimento suscitato da Francesco. Questi volle un rinnovamento del popolo di Dio non senza gerarchia e forme canoniche. Nella vita dei santi non c’è contrasto tra carisma profetico e carisma di governo ebbe a sottolineare papa Benedetto XVI durante il suo pontificato. E se si crea qualche tensione, essi sanno attendere con pazienza i tempi dello Spirito.

Celebrando l’Eucaristia non possiamo dimenticare l’amore di Francesco per essa. Sapeva bene che in essa il Corpo di Cristo e il suo Sangue si rendono presenti. Dall’Eucaristia noi siamo nutriti e trasfigurati. L’amore per Cristo in Francesco diventa amore per l’Eucaristia. Come Francesco amiamo l’Eucaristia e i sacerdoti che la celebrano. Come lui mostriamo sempre una grande deferenza nei loro confronti. Rispettiamoli sempre, anche nel caso in cui fossero personalmente poco degni.

+ Mario Toso

Omelia per la festa della Comunità di Sasso-Montegianni

Cardeto, Comunità del Sasso 3 ottobre 2018

Cari fratelli e sorelle,

il Vangelo secondo Luca ci presenta alcuni episodi che descrivono persone desiderose di mettersi alla sequela di Gesù o che sono espressamente invitate a divenire suoi discepoli (cf Lc 9, 57-62). Si tratta di incontri che provvidenzialmente consentono di capire meglio il senso del rinnovo dei voti di Marinella, Lucia ed Amedeo. Quel tale, che dice a Gesù: «Ti seguirò dovunque tu vada», era rimasto così colpito dalla persona del Signore da offrirsi di seguirlo in qualsiasi luogo. Gesù rimane ammirato dal suo slancio, ma lo informa che, se le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, Lui non ha dove posare il capo. Negli episodi che seguono le persone che Gesù invita pongono alcune condizioni: «Permettimi di andare prima a seppellire mio padre»; «Consentimi di congedarmi dai miei parenti». Ma la risposta è tranciante: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu, invece, va’ e annuncia il Regno di Dio». E ancora: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il Regno di Dio». Che cosa vuole insegnare Gesù a coloro che desiderano seguirlo? Prima di tutto, che Egli vive in una situazione precaria, insicura, senza alleanze e protezioni, costretto ad una vita raminga, peggio di quella degli animali selvatici, perché si vede rifiutato dai suoi compaesani, dai samaritani ed anche dal clero costituito. Inoltre, il Re Erode minaccia di ucciderlo. Chi, dunque, si mette al suo seguito deve sapere che condividerà il suo destino, che non usufruirà mai di una stabilità e di un insediamento sicuro. Procedendo poi con il suo insegnamento, ci fa capire che non mette in discussione i doveri della pietà familiare o quelli verso i propri parenti. Propone semplicemente e nettamente una dedizione incondizionata e indivisa al compito di proclamare il Regno di Dio. Il discepolo dev’essere consapevole che solo Gesù Cristo e il suo Regno godono del primato rispetto ad ogni altra cosa. L’annuncio del Regno non tollera ritardi e rimandi, ripensamenti nostalgici e remore. Detto altrimenti, la sequela di Gesù è un impegno serio, esigente e coraggioso.

Il rinnovo dei voti di Amedeo, Lucia e Marinella offre l’occasione per prendere coscienza che, nella Comunità di Sasso, vive ed opera la Piccola Fraternità, composta da persone che hanno voluto seguire il Signore più da vicino, abbandonando ogni cosa, per dare il primato a Lui ed annunciare il Regno. Fra le pieghe della veste nuziale di Sasso, comunità sposata da Dio – scrive don Nilo nella pubblicazione annuale 2018 – esiste una piccola famiglia di consacrati. Essa testimonia la pienezza della salvezza, ovvero una salvezza che concerne la persona, nella sua interezza di anima e corpo. Per essere famiglia incisiva e rilevante, questa comunità radica la sua testimonianza nella dimensione spirituale dell’invisibile, ossia in qualcosa che non può essere scorta dall’occhio umano. La radica, precisamene, in Cristo, nel suo Spirito d’amore. I membri della Piccola Fraternità si definiscono frammento della Chiesa di Cristo. Costituiscono, con la loro Comunità, una diversità preziosa, proprio per la loro ulteriore consacrazione al Signore, per i loro voti, mediante i quali si affidano e si consegnano totalmente al Signore con maggiore visibilità pubblica nella comunità ecclesiale, scegliendo una vocazione speciale. Costituiscono, per i destinatari della loro opera e per tutti i collaboratori, un segno. Ossia, indicano la via che rende più umani, più aperti al dono, più capaci di amare, come Cristo. Occorre coglierlo e capirlo un tale segno, soprattutto con gli occhi della fede, perché la trascendenza non è percepita dalla vista umana. La Piccola Comunità scommette per un più di amore a Cristo, nella convinzione che solo così la propria ed altrui vita, ferita e povera, può essere guarita ed arricchita di nuove energie di rinascita. Solo l’amore ricevuto da Cristo, custodito e offerto a Lui mediante la propria consacrazione al Regno, può spezzare le catene che tengono prigionieri nel male, nell’egoismo, nella spinta all’autodistruzione, con la privazione di un futuro di speranza.

La consacrazione dei nostri amici, Amedeo, Lucia, Marinella, non è una restrizione della loro libertà, della loro capacità di amare. Tutt’altro. È un potenziamento, una crescita. È un mettere ali al loro impegno d’amore e di servizio agli altri. Partendo da Cristo, votandosi a Lui, è possibile dare un senso di pienezza alla vita, essere luce per gli altri, pronti a condividere se stessi, ad accompagnare, ad essere pane fragrante. «Situazioni concrete di bisogno, di indigenza, di malattia, di povertà esigono risposte inequivocabili», scrive ancora don Nilo. Marinella, Lucia ed Amedeo desiderano essere presenti e raccogliere la sfida, offrendo non solo qualche ora di vita, ma tutto se stessi, abitando nell’amore di Dio-Trinità. Lodiamo il Signore, che, mediante questi Suoi figli, compie meraviglie, miracoli d’amore per tutti i componenti della Comunità di Sasso. Preghiamo il Signore per loro. Partecipiamo all’Eucaristia per farci con Cristo cibo per tutta l’umanità, specie quella più bisognosa di rinascita.

+ Mario Toso