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FESTA PATRONALE DI SAN POTITO

13 GENNAIO 2019

Il battesimo di Gesù che oggi celebriamo non ci ricorda solo la sua manifestazione come Figlio di Dio ma anche il nostro battesimo mediante il dono del suo Spirito. Tale dono ci rende e ci plasma figli nel Figlio, persone che vivono in Cristo, in Lui, per Lui, con i suoi stessi sentimenti. Mediante il nostro battesimo siamo, dunque, immessi nella vita di Cristo e della Trinità, Padre, Figlio e Spirito santo. Siamo chiamati a vivere dell’Amore di Dio, della sua Bontà, Bellezza e Verità, nella stessa famiglia di Dio. Chi è battezzato e cosciente della sua identità di cristiano respira con i polmoni di Cristo, vede e pensa come Lui, crede in tutto ciò che è positivo, lavora e spera perché tutti possano godere della vita di Dio, sull’esempio dell’impegno di Gesù Cristo.

In questo giorno del Signore desideriamo celebrare anche la festa del patrono di questa comunità: san Potito, che nacque a Sardica, una regione dell’attuale Romania. Lo ricordiamo come martire, ucciso proprio perché discepolo di Cristo, durante la quarta persecuzione dei cristiani sotto Marco Aurelio Antonino il 13 gennaio. Il suo culto sembra sia giunto sin qui grazie ai monaci basiliani. Questa comunità, dunque, non solo è fondata in Gesù Cristo, il martire per eccellenza, ma ha anche come suo patrono un cristiano martirizzato verso il 160 dopo Cristo. Ciò che per noi conta è che abbiamo, per questa porzione di Chiesa, come punto di riferimento soprattutto due persone, una il Figlio di Dio e l’altra un nostro fratello nella fede, che noi desideriamo amare ed imitare proprio nel loro atteggiamento di dono supremo di se stessi. La loro testimonianza ci sollecita ad un’esistenza convinta e coraggiosa, desiderosa di cambiare il mondo dando la propria vita, combattendo contro il male, la gente falsa, corrotta, amante del potere e della ricchezza, degli idoli. Sappiamo che Potito scelse fin da giovane di essere di Cristo schierandosi nettamente contro la gente malvagia che calpestava i propri simili, abbandonando la vita mondana. La sua scelta di essere cristiano venne contrastata dal padre, uomo pagano, molto ricco, che voleva distoglierlo dal suo proposito con ogni mezzo. La determinazione del giovane Potito era così ferma che lo stesso padre alla fine rinunciò a segregarlo e a privarlo del cibo.  Potito non poteva vivere senza Gesù. Spiegando al proprio padre le ragioni del suo amore per Cristo gli fece capire che non poteva essere felice senza essere del suo Signore. Non bastavano le ricchezze, i piaceri della vita a colmare il suo cuore. Ciò che desiderava Potito era, sopra ogni altra cosa, essere senza peccati, gradito a Cristo più che agli uomini, vivere assieme alle persone timorate di Dio.

In definitiva, ciò che guidava l’intrepido Potito era un particolare e fine intuito di Dio. Egli era attratto irresistibilmente da ciò che poteva rendere bella e sapida la propria vita. Non si accontentava delle cose futili, materiali, che non saziano lo spirito e non colmano di gioia l’esistenza. Innamorato di Cristo riusciva a portarlo anche ai non credenti, come alla moglie di Agatone, il principe del Senato. Questa, ammalata di lebbra, non appena si convertì a Cristo venne prodigiosamente guarita.

Impariamo da san Potito, patrono di questa Comunità, ad essere missionari. Il quadro che lo raffigura sullo sfondo di una città pagana in rovina ci ricorda che pure noi viviamo in un mondo che, dal punto di vista morale e culturale sta crollando, e che può essere risanato ritrovando Dio e quell’amore per Lui che ci consente di abbattere gli idoli contemporanei. Solo l’amore a Dio, alla Bontà, Bellezza e Verità supremi ci può aiutare ad abbandonare quell’individualismo libertario ed utilitarista, quell’autosufficienza che ci portano al disprezzo della verità e del bene. Chi assolutizza se stesso, il proprio «io» non riconosce i legami sociali, i diritti altrui, ma solo i propri. In una società in cui i cittadini riconoscono come metro di misura solo se stessi, il proprio «io», viene a destrutturarsi la solidarietà, ciò che unifica moralmente. Viene a mancare il rispetto per l’altro, per le istituzioni sia civili sia religiose. Un’etica libertaria corrompe la società e la civiltà. Nasconde il valore del bene comune. Affievolisce il senso del servizio alla comunità.

Questa festa patronale ci aiuti a recuperare la nostra identità cristiana e, con essa, la vocazione missionaria, l’impegno nel servizio al bene comune, che viene accresciuto da una spiritualità capace di sacrificio e di dono generoso per Dio e per gli altri, come ci ha anche insegnato Nilde Guerra.

+ Mario Toso

Cattolici e politica in epoca di populismi

Incontro con i politici

Faenza, sala san Carlo, 26 gennaio 2019

Premessa

Prima di affrontare il discorso sui populismi che devastano la politica e la vita democratica occorre premettere alcune considerazioni sul rapporto cattolici e politica. Ciò è necessario perché non pochi oggi, specie dopo le votazioni del 4 marzo scorso, ritengono che tale rapporto ponga una questione inutile e superata, in quanto il voto dei cattolici non esisterebbe più. Se non esiste, perché interrogarsi ancora? Ma è proprio così? Incominciamo, allora, col considerare alcune recenti affermazioni. Qualche illustre professore universitario ha affermato candidamente che il voto dei cattolici non esiste più perché la Democrazia cristiana è morta e sepolta. Così, alcuni, come Adriano Sofri, si sono affrettati a dire, proprio in coincidenza con il tonfo elettorale del PD dei mesi scorsi, che insieme a tale partito è sprofondato anche il cattolicesimo sociale. A fronte di simili affermazioni è facile dire, senza perdersi in infiniti ragionamenti e disquisizioni, che sinché sulla faccia della terra esisterà un solo cattolico ci sarà anche il voto cattolico, comunque venga speso. Il cittadino cattolico non può essere diviso in due, anche se in lui la fede va distinta, non separata, dal voto. Ciò premesso non è assolutamente inutile interrogarsi sul rapporto tra cattolici e politica, come si farà qui, presentando il saggio del sottoscritto a voi Signori sindaci ed amministratori, assieme al professore Ernesto Preziosi già deputato nel PD e vicepresidente dell’AC.[1]

  1. Cattolici e populismi

Sono diverse le ragioni per cui ai cattolici di oggi è richiesto un rinnovato impegno nella politica: sia per rifondarla rispetto alla sua prevalente coniugazione oligarchica e digitale che ne atrofizza lo spessore etico; sia perché nell’attuale contesto socio-culturale è urgente un ripensamento delle derive degli ordinamenti giuridici in senso positivistico e libertario, come anche un improrogabile ammodernamento delle istituzioni e delle burocrazie; sia perché sono in gioco problemi politici sovranazionali che influenzano inevitabilmente l’esistenza stessa delle singole Nazioni; sia perché occorre reimpostare decisamente l’attuale Comunità europea, specialmente sulla base di un nuovo impianto culturale personalista, senza dimenticare che i populismi avanzanti, come anche la ideologia relativa ad una democrazia puramente digitale, finirebbero per pregiudicare la soggettività dei popoli democratici, per consegnarli a centri di potere occulti o tecnocratici. Il rafforzarsi degli attuali populismi, con il loro portato culturale e prassico, obbliga necessariamente il mondo cattolico a prendere posizione, perché mettono a repentaglio sia la politica sia la democrazia rappresentativa, partecipativa, sociale, inclusiva, deliberativa. I populismi, quali atteggiamenti culturali e politici che esaltano genericamente il popolo, sulla base di forti riserve nei confronti della democrazia rappresentativa, al lato pratico giungono a massificare i popoli, rendendoli mero «oggetto» nelle mani di capi carismatici o di gruppi ristretti. I nuovi rappresentanti eletti in Parlamento e provenienti da gruppi movimentisti, dicono di agire nell’interesse e per conto del popolo sovrano ma, in fin dei conti, vengono ascoltati solo cittadini selezionati, bypassando i rappresentanti dei corpi intermedi, ignorando il senso esatto del principio di sussidiarietà. L’espressione «popolo», come anche la «sovranità» del popolo, sono spesso evocate per giustificare le proprie scelte anche se queste, in ultima analisi, non corrispondono alle istanze più profonde della gente, bensì agli umori temporanei che assicurano una presunta «legittimazione».

  1. I principali caratteri dei populismi

Ciò premesso, per comprendere meglio l’impegno di tutti i cittadini, compresi i cattolici, è bene elencare le principali caratteristiche che accomunano i populismi e che sollecitano una decisa reazione sulla base di una ragione pensante, riflessiva. I populismi appaiono caratterizzati da:[2]

  1. antipluralismo. Il pluralismo sarebbe un disvalore e il principio costituzionale che prevede e valorizza il ruolo delle minoranze, sia istituzionali che politiche, sarebbe ugualmente una minaccia. Le libertà, poi, sono esaltate a parole, ma nei fatti vengono compresse. Per esempio: la libertà di commercio, di capitale, di servizi e della persona, ecc.;
  2. disintermediazione, a motivo del loro atteggiamento verticista, contrario alla democrazia-partecipativa. Le forze populiste rigettano l’intermediazione di chi rappresenta altri cittadini portatori di interessi sociali, come gli ordini professionali o il sindacato. Mentre le principali Costituzioni democratiche prevedono la rappresentanza degli enti intermedi che interagiscono e mediano valori e interessi sociali con le istituzioni (famiglia, associazioni, Ong, partiti, sindacati, le varie Chiese e confessioni religiose), i populisti intendono incontrare direttamente i cittadini, ignorando chi li rappresenta e la loro appartenenza comunitaria. Preferiscono contattare i cittadini come soggetti individuali, interpellabili come protagonisti unici, magari mediante frequenti referendum, con i mezzi tipici di una democrazia digitale, che sonda i pareri e gli assensi attraverso dei semplici clic, con un «sì» o con un «no»;
  3. comunicazione autoreferenziale e strumentale: il contatto diretto con il popolo ruota attorno alla capacità del leader di incontrarlo, ascoltarlo e interpretarlo, come già detto, senza mediazioni politiche. Il leader, che si ritiene sopra la legge, ma anche superiore alla magistratura (si pensi a quanto è stato detto a proposito del caso della nave Diciotti: i ministri riceverebbero un mandato dal popolo, pertanto sono da considerarsi insindacabili e superiori rispetto ai magistrati in quanto questi ultimi non sono votati dal popolo: è noto, invece, che i ministri non ricevono alcun mandato diretto dagli elettori), comunica attraverso la cassa di risonanza dei social network o dei blog personali, utilizzando forme espressive semplici: frasi retoriche e brevi, soluzioni chiare di problemi complessi, attacchi diretti agli avversari. Questo modello comunicativo viene a costituire un nuovo “popolo” democratico, un popolo digitale, avente come capo un leader carismatico, un condottiero che fa appello all’emotività, alle paure e può bypassare la Costituzione;
  4. moralismo ancorato all’idea di un popolo puro. I rappresentanti populisti, allorché eletti, come già accennato, ritengono di essere al di sopra della legge, della Costituzione, degli organi democratici, perché legittimati direttamente dal «popolo puro» (rispetto ai rappresentanti corrotti) di cui si ritengono i veri ed unici interpreti. Per i populisti, le élites politiche, seppure élites pensanti, sono sempre e comunque corrotte: soltanto nel popolo risiedono la virtù e la purezza, la vera sovranità. Sotto questo profilo è curioso notare che le forze politiche che hanno costruito il consenso proprio sulla critica alle élite e alla casta non prendano atto del fatto che, una volta conquistato il potere, esse stesse diventano casta, élite ed establishment. Naturalmente questo atteggiamento è voluto ed è funzionale al perseguimento di una politica che deve sempre trovare “un nemico” per affermare la propria leadership e per giustificare difficoltà e fallimenti dell’azione di governo. Questo nemico, di volta in volta, può essere rappresentato dall’Europa, dai poteri forti, dai giudici, dalle ONG, dai giornali, ma certamente la casta rappresenta sempre un elemento di forte valore simbolico contro cui scatenare la polemica politica.
  5. Non a caso, in Italia il «sistema operativo» per la gestione interna e la scelta dei candidati del Movimento Cinque Stelle (M5S) è un portale web chiamato «Rousseau». Non si dimentichi che l’idea, piuttosto ingenua, di «volontà generale» e di «popolo innocente» espressa dal filosofo ginevrino ha permesso nella storia il potere di tanti generali che, invece di servire il popolo, se ne sono serviti.

 

Alla fine dei conti – nonostante alcune connotazioni «virtuose» che non possono essere ignorate, come  il voler «essere “democrazia della gente ordinaria” contro la politica istituzionalizzata […]; il prestare attenzione agli interessi dei molti contro quelli dei pochi; il valorizzare l’esperienza civica e politica del luogo piccolo, come il villaggio e il quartiere, contro una cittadinanza astratta e distante; la costruzione dal basso della volontà popolare senza intermediazione partitica; e infine, la concezione della sovranità popolare come sostanza del corpo politico, valore definito che precede e sta sopra le norme costituzionali e le procedure democratiche –[3] i populismi contemporanei mettono in crisi la democrazia rappresentativa, partecipativa, deliberativa (le decisioni  dovrebbero essere prese su basi etiche e non solo su basi tecniche, su sondaggi digitali!), nonché il ruolo dei Parlamenti, in cui si discutono e si mediano gli interessi alla luce del bene comune. Non si può negare, che per la prima volta in Italia, la legge di bilancio dello Stato è stata approvata senza di fatto essere stata letta e discussa nelle Commissioni e nelle Aule. Dai populismi il popolo è visto e considerato non tanto come soggetto composto da persone-cittadini morali, liberi, responsabili, pensanti, bensì come popolo-oggetto, strumentalizzato da lobby, che lo manipolano, e fanno credere di essere al servizio del suo sviluppo integrale. Questo si raggiungerebbe con politiche prevalentemente assistenzialiste più che attraverso politiche industriali, politiche attive del lavoro, di formazione professionale, peraltro senza troppo preoccuparsi di riformare il sistema finanziario e monetario attuale (incentrato su un capitalismo finanziario, per il quale il lavoro è una variabile dipendente dai mercati finanziari e monetari, e non è un bene fondamentale e, quindi, una priorità). Non emerge, per ora, l’idea di una chiara definizione e separazione, per gli intermediatori bancari di credito, dell’attività di gestione del credito ordinario e del risparmio da quello destinato all’investimento e al mero business; così non emerge, nei progetti dei populisti italiani, il proposito di giungere ad una decisa regolamentazione dei sistemi bancari collaterali (shadow Banking system) e dei paradisi fiscali. I movimenti populisti e sovranisti in parte tendono a mantenere i confini chiusi, isolandosi dagli altri popoli, coltivando prima di tutto gli interessi del proprio Paese, ignorando la sua interdipendenza, coltivando uno spiccato nazionalismo.

Per altro, bisogna riconoscere che le forze neopopuliste, se da una parte mostrano anche una certa capacità nel fare diagnosi sociali corrette, nel percepire le ragioni della protesta, da un’altra parte si mostrano deboli nell’elaborare una visione di Paese in termini comunitari e solidali, nel trovare soluzioni appropriate. Contemporaneamente evidenziano una fragilità culturale ed antropologica profonda che, mentre attinge abbondantemente dal neoindividualismo libertario ed utilitarista, inficia la stessa solidità morale di ogni progetto, fosse anche economico, giungendo così a svuotare dal di dentro la democrazia, indebolendo lo Stato di diritto, stravolgendo la persona, essere libero e responsabile, relazionale, aperto alla Trascendenza. Per conseguenza, sembra mancare alle forze neopopuliste un umanesimo integrale, per sé anti-ideologico che, mentre pone al centro la persona, e non tanto gli individui, alimenta incessantemente l’ethos di un popolo plurale, multireligioso, capace di convergere, mediante il dialogo pubblico, su una piattaforma pubblica di etica laica, ma non laicista e libertaria. Un nuovo umanesimo integrale genererebbe un popolarismo che solo può arginare ogni tipo di populismo.

Specie con riferimento a questo substrato antropologico ed etico dovrebbero sorgere tra i cattolici forti dubbi, confermati da diversi segnali politici che rivelano forme di intervento assistenzialiste, stataliste, che non valorizzano sistematicamente la sussidiarietà (i corpi intermedi appaiono bypassati) come anche la solidarietà (si è arrivati a raddoppiare l’Ires sul terzo settore, si è cioè giunti a tassare la bontà, come ebbe a dire lo stesso presidente della Repubblica Mattarella: per fortuna pochi giorni fa è stato cancellato il raddoppio), ma anche il diritto, in alcune decisioni di regolamentazione del flusso migratorio.

«Per arginare i populismi e cogliere il buono che esprimono occorrono processi di maggiore democratizzazione; la lotta alle disuguaglianze sociali mediante la redistribuzione dei redditi e del potere; ripensare le forme di partito e, più in generale, la partecipazione democratica a tutti i livelli per renderla una cultura. Un altro efficace antidoto delle classi dirigenti è scegliere e promuovere standard di vita sobri. In tempi di crisi, più che politiche di decrescita, sono urgenti le riduzioni degli sprechi. Anche sul piano delle istituzioni, occorre dare segnali di maturità. I populismi attecchiscono in quegli Stati che trascurano le riforme costituzionali. L’intreccio tra populismo e nazionalismo è reso possibile da un’Unione Europea debole e da un’eurozona fragile. La scelta, da parte della Francia, della Germania e di alcuni Paesi dell’Europa del Nord, di impedire che le istituzioni intergovernative e il Consiglio europeo potessero intraprendere politiche ha prestato il fianco ai populismi».[4]

In definitiva, da parte dei populismi, ai mali odierni della democrazia (separazione tra rappresentanti e rappresentati, elevato astensionismo elettorale, alti tassi di disoccupazione, di povertà e diseguaglianze, deficit di politica, carenza di una visione complessiva di Paese, mercatismo imposto dal capitalismo finanziario) si è voluto rispondere da più parti mediante ciò che i sociologi e i politologi chiamano «democrazia liquida». Ma la democrazia liquida, che si pone tra la democrazia rappresentativa e quella diretta, è effettivamente in grado di risolvere i problemi della vita democratica?

Quando si parla di «democrazia liquida» si intende un modello di democrazia recente che ha tentato di ravvicinare alla politica soprattutto le giovani generazioni. Dall’esperienza della democrazia liquida stanno, però, emergendo alcuni limiti che non aiutano a risolvere i problemi odierni della democrazia. Al contrario, sembrano aggravarli. Tra i limiti più rilevanti, e che paiono colpire maggiormente il M5S rispetto alla Lega, vanno rimarcati: il pericolo di un nuovo oligarchismo, di una «dittatura degli attivi» che accumulano un progressivo potere sul movimento: coloro che controllano i mezzi di discussione sono in grado di orientare e controllare i voti, il consenso e le decisioni; il pericolo del populismo: gli eletti sono obbligati al vincolo di mandato sulla volontà del leader a cui si deve prestare giuramento e fedeltà; la maggioranza degli elettori finisce, al lato pratico, per ignorare i dibattiti in Rete. In ultima analisi, la democrazia liquida, rischia di cadere in quegli stessi mali che vuole combattere. In definitiva, è democrazia che coinvolge apparentemente il popolo, mentre le cose vengono decise solo da un gruppo ristretto.

 

 

  1. Irrilevanza ed incidenza dei cattolici di fronte alle sfide odierne

 

Ricapitolando: siamo di fronte a populismi e a propensioni antidemocratiche, che alimentano l’indebolimento della morale pubblica (peraltro promosso dallo stesso PD sostenendo – basti pensare alle leggi sulle unioni civili, sul testamento biologico, sul divorzio breve, sulla liberalizzazione della droga –  un’etica prevalentemente libertaria) e la destrutturazione delle istituzioni di rappresentanza, ma siamo di fronte anche a politiche troppo in sintonia con veterocentralismi (cf proposta di nazionalizzazione di Carige), che nei confronti dell’organizzazione e della gestione del welfare non puntano sulla responsabilizzazione della società civile, del libero mercato, della biodiversità economico-finanziaria, dell’economia civile. A questo punto poniamoci una domanda: i cattolici, portatori di una cultura personalista e comunitaria, avente una matrice di ispirazione cristiana, mostrano, forse, inquietudine per il futuro del loro Paese, specie delle nuove generazioni, nei confronti del progetto Europa, almeno nel momento in cui si manifestano numerosi conati antieuropeisti e ci si trova nuovamente di fronte ad elezioni che, per la particolare contingenza storica, mostrano di essere rilevanti? Ma è possibile che il personalismo cristiano, peraltro sedimentato nella carta costituzionale del nostro Paese, non abbia più nulla da dire e non possa ambire ad essere riconosciuto nella sfera pubblica alla stessa stregua dei neoindividualismi e dei neoutilitarismi libertari oggi dominanti? Perché non si capisce che la ubriacatura culturale che fa parlare prevalentemente di diritti civili (spesso diritti-arbitrii) e quasi mai di doveri, e poco di diritti sociali ed economici, finirà per abbattere lo Stato di diritto come anche lo Stato di diritto sociale, che sono pilastri fondamentali della democrazia moderna? I cattolici non possiedono un pensiero pensante, frutto di una ragione sapienziale, che supera il semplice pensiero calcolante, inclinato all’utilitarismo, frutto di una ragione strumentale? Non hanno a disposizione, grazie alla Dottrina sociale della Chiesa, un sistema di beni-valori organizzati, a cui corrisponde un insieme di diritti-doveri che non possono collimare con l’individualismo assiologico e che solo mantenendo collegati i diritti coi doveri può difendere più efficacemente i diritti individuali?  È noto che se la difesa dei diritti individuali – civili e politici – è la nuova frontiera della politica, perché i cattolici continuano ad ignorare che il personalismo è la migliore e più efficace difesa dei suddetti diritti e non l’individualismo libertario? Perché continuare a militare in politica a rimorchio di tradizioni culturali che non appartengono alla propria identità, sparandosi sui piedi?

 

  1. Alcune vie che possono rendere i cittadini cattolici rilevanti ed incidenti

 

A fronte di fenomeni come il populismo e gli oligarchismi, che stravolgono la politica e la stessa democrazia, i cattolici odierni sono in grado di partecipare in maniera significativa ed incidente nel dibattito pubblico e nei parlamenti? Sono ancora in possesso, come avvenne in passato, di una cultura politica capace di affrontare le principali questioni relative alla crisi della politica e della democrazia, per poter offrire un valido apporto alla sua soluzione e alla realizzazione del bene comune? Non pochi osservatori del mondo politico sono giunti ad affermare, dopo le votazioni del marzo scorso, che queste hanno segnato il definitivo tramonto del movimento politico cattolico. I cattolici mostrano un certa rilevanza nel mondo sociale dell’assistenza, una buona presenza sul piano politico locale, ma appaiono praticamente ininfluenti sul piano politico nazionale. Siedono magari in parlamento, in uno o l’altro schieramento, ma sono disarticolati fra loro, frammentati. In altri termini, non appaiono in possesso di un progetto culturale organico e non dispongono di una base sociale organizzata in un nuovo movimento sociale e politico.

Quale la soluzione rispetto a questo stato di cose?

Quanto detto obbliga, senz’altro, alla riconsiderazione del rapporto tra cattolici e politica. Peraltro, gli ultimi pontefici hanno più volte sollecitato un nuovo impegno dei cattolici in politica. Varie questioni ed appuntamenti cruciali per il futuro del nostro Paese, non ultimo lo sfascio della politica, che è fondamentalmente caratterizzato da una crisi antropologica e culturale, inducono a pensare che non si può dilazionare la suddetta riconsiderazione. Occorre, forse pensare, più che a formare precipitosamente dei nuovi partiti ad ispirazione cristiana (cosa che non è proibita, anche se attualmente non sembra che ci siano le condizioni politiche ed ecclesiali sufficienti) ad impegnarsi piuttosto sul piano culturale ed educativo. Ciò che manca per le varie anime del mondo cattolico è un progetto culturale politico organico, capace di coagulare laicamente energie e forze anche liberali e di uomini di buona volontà, attorno a un progetto buono di Paese e di Europa. E, insieme, manca un mondo sociale che se ne faccia effettivamente portatore, sperimentatore, costituendosi in una rete o in un forum che fa incontrare, unifica e genera processi, ma che per ora escluda ogni aspirazione elettorale, mancandone, come già accennato, le condizioni di realizzazione.

Nel saggio che oggi si presenta, più che altro per provocare una riflessione, senza la pretesa di offrire ricette, non si difende l’idea di un partito cattolico. Peraltro, un partito cattolico non è mai esistito e non dovrebbe esistere. Lo ha spiegato molto bene don Luigi Sturzo nel secolo scorso. Egli scriveva ai suoi tempi che la religione è universale, la politica è parziale, e quindi non ci dev’essere confusione dei piani. Sturzo è stato contro il partito cattolico e contro l’idea di uno Stato cristiano. Così, non è mai esistito un partito cattolico se si pensa che la DC lo fosse. La DC non era un partito di soli cattolici. Anche nel saggio non si parla di partito di soli cattolici, nell’eventualità che i cittadini cattolici decidano di fondare un partito. Si parla di un eventuale partito di ispirazione cristiana, comprendente uomini di buona volontà, liberali cultori della giustizia sociale, cattolici, credenti protestanti o appartenenti ad altre religioni, ossia di un insieme di cittadini convergenti su una piattaforma di beni-valori condivisi.

Nel saggio si parla, tra l’altro, di alcune cause dell’ininfluenza ed irrilevanza dei cattolici, come anche della teoria della diaspora, che, al lato pratico, ha contribuito alla dispersione e alla inefficacia sul piano politico. Da più punti di vista la teoria della diaspora appare politicamente un assurdo, perché il bene comune e i vari beni politici vanno conseguiti collaborando insieme; perché l’unità sui valori è prima di ogni pluralismo, di ogni diaspora: l’unità è la sola a consentire al pluralismo di essere non solo legittimo, ma auspicabile e fruttuoso; perché la teoria della diaspora implica una duplice debolezza teorica e pratica. «Per un verso, essa – come ha affermato il professore Stefano Zamagni presentando il saggio a Bologna nel mese del dicembre scorso –  comporta che i cattolici si rassegnino ad essere minoranza ovunque essi si trovino inseriti e quindi accettino di scomparire politicamente, proprio come l’immagine del lievito lascia intendere. Col risultato che, poiché nei partiti democratici vige il principio di maggioranza, chi è minoranza mai potrà vedere accolte le proprie istanze, a meno di gesti compassionevoli o buonisti da parte della maggioranza. Bel paradosso, davvero! I cattolici entrano nei partiti per far avanzare un certo progetto politico che dice della loro identità, pur sapendo che mai riusciranno a far valere le loro ragioni. Né vale l’argomento – troppo spesso adombrato – secondo cui, su questioni di primaria importanza, i cattolici presenti nei diversi schieramenti potrebbero convergere in modo unitario invocando il “voto di coscienza” – un’ingenuità questa davvero imperdonabile che denuncia la totale non conoscenza di quanto ci viene insegnato da tempo dai cosiddetti modelli a massa critica. (Una volta avviato, un processo di trasformazione politica raggiunge il fine desiderato solo se il numero di coloro che ad esso aderiscono raggiunge una certa soglia, cioè la massa critica. Diversamente, il processo collassa o addirittura degenera). Per l’altro verso, l’opzione in questione avrebbe un esito a dir poco ridicolo: tutte le grandi matrici culturali e ideologiche presenti da tempo nel nostro paese avrebbero la possibilità di esprimersi e di confrontarsi dialetticamente sulla scena politica, eccetto la matrice di pensiero cattolico! La linea di pensiero liberale, quella radical-repubblicana, quella nazional-popolare e quella socialista sarebbero titolate a presentarsi con i rispettivi programmi al giudizio degli elettori, ma non quella dei cattolici, i quali “per dire la loro” dovrebbero bussare all’una o all’altra porta, per chiedere “ospitalità”».

Per le altre cause della irrilevanza dei cattolici in campo politico rimando al saggio che viene presentato ora dall’onorevole Ernesto Preziosi, in particolare al terzo capitoletto. Nei capitoli successivi ci si ferma a riflettere su: una nuova stagione di impegno dei cattolici in politica; l’apporto originale e necessario dei cattolici; l’Europa dei popoli; la grammatica comune della Dottrina o insegnamento sociale della Chiesa; l’accompagnamento pastorale delle persone; la risemantizzazione della laicità; il dialogo tra cattolici e laici; la rilevanza pubblica della Chiesa, la spiritualità dei cattolici impegnati in politica.

Grazie per aver accettato l’invito.

[1] Cf M. TOSO, Cattolici e politica, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2018.

[2] Per descrivere alcuni tratti comuni dei populismi contemporanei ci riferiamo a F. OCCHETTA, Populismi, in «La Civiltà Cattolica» (17 giugno-1 luglio 2017), pp. 547-559.

[3] Cf ib., p. 553.

[4] Ib., p. 556.

+Mario Toso

Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

Faenza, convento delle Clarisse 25 gennaio 2019

La chiusura della Settimana di preghiera per l’Unità dei cristiani coincide con la Festa della conversione di san Paolo apostolo. Il tema centrale offerto alla nostra meditazione nella Settimana di preghiera è stato questo: «Cercate di essere veramente giusti» (Deuteronomio 16, 18-20). Che vuol dire in concreto, con riferimento al bisogno di realizzare l’unità dei cristiani? Occorre passare dalle parole ai fatti con azioni di unità, giustizia e misericordia. Occorre proseguire nella direzione di una comunione riconciliata. L’invito ad essere veramente giusti, come abbiamo pregato il 18 gennaio scorso, diventa impegno a vivere non solo una giustizia semplicemente umana, bensì a praticare una giustizia più che umana, una giustizia nuova, fondata cioè sull’amore di Dio. Solo una tale giustizia, dopo secoli di contrasti, aiuta a rapportarsi con gli altri cristiani, in modo da dare a ciascuno ciò che spetta alla loro altissima dignità di figli di Dio. Ai figli nel Figlio spetta una giustizia commisurata alla figliolanza divina e alla fraternità, che ci radicano nella vita in Gesù Cristo. Detto diversamente, l’unità si realizza non ponendosi su un gradino più alto degli altri, non riconoscendo la loro dignità di figli di Dio,[1] perché con questo modo di fare si creano distanze ancora maggiori, non si costruiscono ponti, bensì si scavano fossati. La soluzione alle divisioni e alle incomprensioni si trova convergendo su ciò che unisce e ci rende maggiormente membra gli uni degli altri, ossia su Gesù Cristo e il suo Vangelo.

In questa ultima giornata della settimana di preghiera siamo sollecitati ad essere costantemente persone e comunità di luce. I credenti, innestati in Cristo, luce del mondo, diventano, a loro volta, luce nel Signore, perché partecipano della sua vita in pienezza. La vita del Figlio di Dio è in se stessa luce: una luce che fa guarire dalla cecità interiore, illumina la mente e, quindi, fa vedere bene nelle profondità di Dio e della nostra stessa vita di credenti che si appartengono reciprocamente. Ecco un punto decisivo. Nel realizzare l’unità non si parte da una estraneità totale. Per procedere in un processo di unificazione è indispensabile riconoscere i propri errori e i propri limiti, ossia essere umili, capaci di superare le chiusure, per aprirsi, alla fine, a ciò che accomuna, all’accoglienza degli altri nel nostro «noi in Cristo», che godiamo grazie a Lui stesso. Un tale aprirsi è facilitato dal nostro previo appartenere a Dio Padre e a Cristo, a Colui che è pieno di vita, di verità e di amore, fonti di comunione spirituale e morale.

Il Figlio di Dio è Luce, proprio perché pienezza di vita. È vita vittoriosa sulla morte e sul peccato, vita che rifulge mediante la risurrezione. Paolo, che perseguitava i cristiani con caparbietà e crudeltà, è sbalzato da cavallo sulla strada di Damasco, proprio da una luce sfolgorante, accecante. È il Risorto che lo afferra, lo incontra, lo attira nella sua luce. Si rivela a lui come Signore pieno di vita gloriosa,  amore invincibile. E così lo trasforma da accanito persecutore in apostolo che si prende cura dei suoi fratelli, non solo dei suoi correligionari. L’incontro di Paolo con Cristo risorto, fuoco e passione di comunione e di unità, ci fa comprendere dove possiamo attingere forza, luce, capacità di perdono per superare le divisioni tra noi, tra cattolici ed ortodossi, tra protestanti, anglicani, Chiese della Riforma e Chiesa di Roma. Forse, in passato, ma ancora oggi, si è dato e si dà troppa importanza alle proprie vedute particolari, anziché a Cristo, all’unico Corpo mistico. Scismi, divisioni e scomuniche reciproche sono avvenuti e continuano ad esserci, perché nei vari cristiani e nelle varie Chiese non sempre alberga quell’amore al Padre comune, quella passione di comunione e di unità che è in Cristo Gesù. Se diventassero pienamente nostri ci aiuterebbero a vincere gli asti, le ripicche, a corroborare la fraternità, la fede.

Pregare per l’unità dei cristiani significa, al lato pratico, pregare perché tutti convergano e siano uno in Gesù Cristo e col Padre. Il nostro Salvatore, infatti, ha pregato così: «Che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Per crescere nell’unità occorre assegnare il primo posto all’Amore con la A maiuscola. La divisione tra i cristiani è uno scandalo, è controtestimonianza rispetto a ciò che dobbiamo essere.

In un mondo frammentato, come cristiani siamo sollecitati a mostrare una comune testimonianza, per affermare la giustizia e per essere strumenti della Grazia guaritrice di Dio. Più ci radicheremo in Cristo più saranno ridimensionate  o tolte le incomprensioni, le ragioni delle divisioni. Solo quando noi ascendiamo verso un punto superiore di verità possiamo scorgere meglio le ragioni dell’unità. Saliamo, dunque, sul Calvario. Immedesimiamoci nel Sacerdote che muore per renderci un unico popolo. Celebriamo l’Eucaristia, sacramento dell’unità per eccellenza, con il coraggio di togliere tutto ciò che ci allontana dal Sommo pontefice, Cristo, Colui che si costituisce ponte di unità tra noi e con il Padre. Come ricordò alcuni anni fa papa Benedetto XVI i cristiani aggravano le loro divisioni per due ragioni fondamentali. La prima è la rinuncia da parte delle comunità di agire come corpo unito preferendo operare secondo il principio delle scelte particolaristiche e locali. La seconda ragione è data dalla preferenza data a quella comunità che meglio incontra i propri gusti personali. Il risultato? A un livello generale è riscontrabile la moltiplicazione di comunità separate. A un livello personale si manifesta un cristianesimo «fai da te». Ciò che si riscontra tra le varie Chiese spesso si verifica anche nelle nostre parrocchie, mediante la moltiplicazione di gruppi disarticolati e la coltivazione di un cristianesimo individualistico. Chi ama Cristo ama tutti e ricerca l’unità, sperimenta la forza trasfiguratrice del suo Spirito. Desideriamo diventare specialisti dell’unità ecumenica? Viviamo intanto e per prima cosa in maniera sinodale nelle nostre Diocesi. Chi è diviso al proprio interno difficilmente diventa protagonista dell’unità. Camminiamo insieme, nell’amore e nella verità. Dialoghiamo non per avere ragione noi e per far passare i nostri particolarismi, per imporre le nostre faziosità, ma per convergere verso la verità che è Cristo, che tutti ci unifica e trasfigura. Solo così saremo allenati ad accogliere i nostri fratelli divisi, a non essere estraniati reciprocamente. L’ecumenismo quale processo di progressiva conversione ed unificazione non è un optional, un qualcosa di facoltativo. Il Signore, infatti, ci vuole e ci convoca nella comunione e nell’unità di ciò che ci supera e, proprio per questo, ci arricchisce tutti: la sua Vita. Diventiamo un cuor solo ed un’anima sola per la gloria del Signore. Conserviamo l’unità dello spirito mediante il vincolo della pace. Riconosciamo ed amiamo un solo Dio e Padre, che è presente ed opera in tutti. Preghiamo per tutti coloro che credono e lavorano per un ecumenismo che muove passi concreti verso l’unificazione in Cristo Signore.

[1] «Coloro che credono in Cristo ed hanno ricevuto validamente il battesimo sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica. Sicuramente le divergenze che in vari modi esistono tra loro e la Chiesa cattolica, sia nel campo della dottrina e talora anche della disciplina, sia circa la struttura della Chiesa, costituiscono non pochi impedimenti, e talvolta gravi, alla piena comunione ecclesiale. Al superamento di essi tende appunto il movimento ecumenico» (Unitatis Redintegratio, n. 3).

+ Mario Toso

Omelia per l’Epifania

La parola Epifania ci indica la manifestazione del Signore (cf Ef 3,6) come Colui nel quale l’umanità viene resa partecipe della salvezza. Cristo si rivela come Redentore a tutte le genti, rappresentate dai Magi. Il loro arrivo dall’Oriente è il segno della manifestazione del Re universale ai popoli.

Gesù, come abbiamo rivissuto in questi giorni, si manifesta, però, ai piccoli della terra, ai pastori, ai Magi che cercano la verità. Non si rivela ai grandi che abitano nei palazzi, che sono pieni di se stessi e sono solo preoccupati di conservare il loro potere. Dio, che è Luce, è accolto da chi gli spalanca il cuore e la mente. Come ci ricorda il profeta Isaia (cf 60,2), mentre la luce viene la tenebra ricopre la terra, una fitta nebbia avvolge i popoli. Se ben rammentiamo, lo stesso san Giovanni evangelista, nel giorno di Natale, ci ha ammoniti: veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo… eppure il mondo che è stato fatto per mezzo di Lui non l’ha riconosciuto. Ma anche i suoi connazionali non lo riconobbero: venne fra i suoi, e i suoi non l’hanno accolto (cf Gv 1, 1-18). Quanto detto da Giovanni vale ancora oggi per noi popolo cristiano. Tutte le volte che non incarniamo nella nostra esistenza la vita nuova che Egli ci porta ci chiudiamo alla Luce.

Dobbiamo imparare dai Magi. Occorre che prima ci mettiamo in cammino verso la Luce, per rivestirci di Cristo, che è la Luce. Solo i Magi vedono la stella in cielo: non gli scribi, non Erode, nessuno altro a Gerusalemme. Per trovare Gesù bisogna ascoltare quell’innato impulso a cercarlo che è stato scritto dentro di noi. Bisogna riconoscere che abbiamo bisogno della verità, della luce di Dio. Non basta sapere che Gesù è nato, come Erode, se non lo incontriamo. I Magi mostrano una disponibilità e un’apertura radicali a Lui. Vanno dal Signore non solo per portare i loro doni (oro, incenso e mirra) ma per donare se stessi totalmente. Questo dobbiamo ricordare a noi e insegnarLo alle nuove generazioni. Domandiamoci: l’Epifania è l’occasione per fare e ricevere altri doni, dopo quelli di Natale, e basta, ossia senza regalare Gesù, senza dare noi stessi a Lui? Quanti doni circolano nelle nostre famiglie, nelle nostre associazioni: prima a santa Lucia, poi a Natale e ora all’Epifania, ma poca partecipazione all’Eucaristia, poco incontro con il Signore, poca preghiera. Quanti giovani vivono il Natale come semplice occasione per una settimana bianca, per feste continue tra amici, tutte cose belle e legittime, ma senza il Festeggiato che è Gesù Cristo, senza Lui che è il Dono da ricevere e a cui donarsi. La manifestazione di Gesù a tutti i popoli non è, poi, riscoprire la nostra dimensione missionaria come singoli e come Chiesa? Qualche sera fa un adolescente, terminata la celebrazione Eucaristica, in sacrestia, a bruciapelo mi ha posto questa domanda: ma tu perché ti sei fatto prete? Gli ho risposto, io che sono salesiano: perché desideravo portare Gesù Cristo ai giovani, come te. Senza tante parole, il giovane mi ha lasciato con: Ah! Va bene. L’incontro fugace mi ha consentito di ricordare il mio impegno missionario giovanile, che ora è diventato l’impegno missionario anche di un vescovo, che non perde mai di vista i giovani.

Non dimentichiamolo: siamo chiamati a far risplendere nel mondo la luce di Cristo, riflettendoLo in noi stessi come la luna riflette la luce del sole. Vivendo il mistero dell’Epifania non possiamo non notare tutta l’insufficienza del nostro essere testimoni luminosi, coraggiosi. Quanti timori di essere e di dirsi di Cristo, anche nelle nostre associazioni, organizzazioni cattoliche o di ispirazione cristiana. Quanta incapacità ed indolenza nell’incarnare la vita di Gesù nelle nostre famiglie, nella scuola, nelle leggi e nelle istituzioni, nella cultura? Noi dovremmo vivere inquieti finché nel mondo la dignità umana è calpestata, le persone subiscono la tratta oppure restano in mezzo al mare, in balia delle onde e delle tempeste, perché gli Stati Europei non hanno ancora messo a punto una strategia comune per l’accoglienza di migranti e di profughi che fuggono dalle guerre e da povertà estreme, sicché sfidano pericoli, segregazioni, umiliazioni, disposti a perdere la loro vita. Dovremmo, invece, gioire tutte le volte in cui notiamo che l’umanità nuova che ci ha portato Cristo viene accolta, vissuta e incarnata nelle leggi e nelle istituzioni, negli stili di vita.

Preghiamo in questa Eucaristia per tutti i missionari, per le nostre associazioni missionarie, per l’AMI. Maria ci aiuti a portare Gesù, convinti che solo Lui ci può salvare dal nostro egoismo e dalla nostra povertà spirituale. Solo Lui ci può rendere come Lui, luce del mondo.

                                             + Mario Toso

Omelia per la Giornata mondiale della pace

All’inizio di un Nuovo anno festeggiamo la divina maternità di Maria. Nell’espressione “Dio mandò il suo Figlio nato da donna” si trova condensata la verità fondamentale su Gesù come Persona divina che ha pienamente assunto la nostra natura umana. Egli è il Figlio di Dio, è generato dallo Spirito santo e al tempo stesso è figlio di una donna, Maria. Viene da lei. È da Dio e da Maria. Per questo la Madre di Gesù si può e si deve chiamare Madre di Dio.

Questo titolo fu definito dogmaticamente nel 431, dal Concilio di Efeso.

Fin dall’antichità, pertanto, la Madonna venne onorata con titolo di Madre di Dio (Theotókos). In occidente, tuttavia, non si trova per tanti secoli una specifica festa dedicata alla maternità divina di Maria. La introdusse nella Chiesa latina il Papa Pio XI nel 1931, in occasione del 15° centenario del Concilio di Efeso, e la collocò all’11 ottobre. Fu poi il santo Paolo VI, nel 1969, riprendendo un’antica tradizione, a fissare questa solennità al primo gennaio e a connetterla con la Giornata Mondiale della Pace. Festeggiare la Madre di Dio, che è Madre del Principe della pace, significa impegnarsi a costruire la pace sulle orme del Redentore.

In occasione del 1 gennaio, a partire dal santo Paolo VI, ogni pontefice è ormai abituato ad indirizzare ai popoli e alle nazioni del mondo, ai Capi di Stato e di Governo, nonché ai responsabili delle comunità religiose e delle varie espressioni della società civile, un Messaggio per la Celebrazione della Giornata mondiale della Pace. Il Messaggio di papa Francesco per la 52a Giornata porta questo titolo: La buona politica è al servizio della pace. Si tratta di un Messaggio impegnativo sebbene scritto in maniera semplice e piuttosto breve. In esso si spiega che se si vuole la pace nel mondo è fondamentale che, nei vari Paesi, nella famiglia dei popoli, sia vissuta una buona politica, ossia un’azione comunitaria di servizio al bene comune. Tutti sono chiamati – cittadini e rappresentanti dei cittadini – a realizzare il bene comune, non andando in ordine sparso, bensì collaborando insieme, creando le condizioni sociali che consentono ad ogni persona, ad ogni famiglia, ad ogni gruppo umano, ad ogni popolo il conseguimento della propria pienezza umana in Dio. Perché la politica sia buona, cittadini e rappresentanti dei cittadini debbono essere educati a servire il bene comune (ma dove lo facciamo?), acquisendo tutta una serie di virtù umane (giustizia, equità, rispetto reciproco, sincerità, onestà), ma anche vivendo la virtù delle virtù teologali, ossia la Carità. Detto altrimenti, la politica richiede di essere redenta, come tutte le altre attività dell’uomo, mediante un’evangelizzazione del sociale. Solo così la politica può essere buona e porsi efficacemente al servizio dei doveri-diritti umani, della pace. Una politica animata dalla Carità, da un Amore pieno di verità, come ha insegnato Benedetto XVI, può meglio riconoscere la verità dei doveri-diritti, che non sono e non possono essere un qualcosa di arbitrario, frutto di scelte libertarie, come si sta sempre più verificando nei parlamenti. Per conseguire una buona politica, occorre, per conseguenza, che siano combattuti i vizi della politica che distruggono la vera politica, il bene umano che sta al centro del bene comune, togliendo credibilità sia ai cittadini sia ai rappresentanti, indebolendo la democrazia, mettendo in pericolo la pace. Quali sono i vizi che debbono essere sconfitti? Papa Francesco ne elenca alcuni: il disprezzo per il diritto, la noncuranza  delle regole comunitarie, l’arricchimento illegale, la xenofobia, il razzismo, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali a motivo di un profitto immediato. Pone al primo posto fra tutti i vizi, la corruzione, nelle sue molteplici forme di appropriazione indebita dei beni pubblici o di strumentalizzazione delle persone. Perché papa Francesco è molto severo e tranciante nei confronti della corruzione, giungendo a dire: «peccatori sì, corrotti no»? Perché la corruzione è come una peste che infetta la politica e la distoglie dal suo obiettivo primario: il bene comune. La prima radice della corruzione è il cuore umano che si attacca smodatamente al denaro, al potere, al successo personale, mettendoli al posto di Dio. La corruzione più che un peccato è l’origine di tutti i peccati in politica, ma non solo. Il corrotto vive una condizione di vita che impedisce a Dio di perdonarlo. Di fronte a Dio che non si stanca di perdonare, il corrotto si erge come autosufficiente, come colui che, in definitiva, è stanco della trascendenza, non crede in Dio. Adora solo se stesso. Il corrotto, in particolare, non si sogna nemmeno di chiedere perdono perché ritiene di non aver niente da farsi perdonare: che male c’è nel comportarsi come tutti (o quasi) si comportano non appena possono avvalersi di un qualche privilegio o approfittare di una posizione di forza e di potere per commettere soprusi ed ingiustizie? Che male c’è nel corrompere col proprio denaro o con il miraggio di una carriera facile conseguita o offerta a questo o a quella persona? Il corrotto non prova alcun rimorso, e non vede di che cosa pentirsi. I politici, ma anche i cittadini per vivere una buona politica debbono piuttosto riconoscere i propri limiti e i propri peccati. I credenti sanno che per vivere una politica buona non sono necessarie solo le virtù umane. C’è bisogno della Carità di Dio, del suo Amore pieno di verità, come appena detto. Essa abilità al servizio dei diritti umani, del bene di tutti, aprendo i vari «io» al «noi», all’unità e alla forza morale del vivere solidali, in comunità e comunione, prendendosi cura del bene di tutti, operando per il bene degli altri, del popolo intero, vivendo il comandamento nuovo come legge fondamentale dell’azione politica.

Per realizzare la pace occorre diventare esperti di grandi progetti. Occorre sognare in grande e coinvolgere tutti, specie le nuove generazioni. La politica infatti si sviluppa su più livelli: nazionale, regionale e mondiale, e ha bisogno dell’apporto di tutti. Chi, poi, intende militare nella politica attiva dovrebbe sapere che la pace, ossia le condizioni del bene di tutti, non si riducono solo alle condizioni economiche o ai diritti sociali. La pace è frutto del conseguimento dell’insieme dei diritti: civili, politici, sociali, religiosi e culturali. Chi vuole la pace non può combattere il diritto alla vita. Peraltro, chi vuole opportunità economiche per tutti non può dimenticare la dimensione etica della politica e dell’economia. Sono tre le dimensioni indissociabili della pace interiore e comunitaria: la pace con se stessi, con l’altro, con il creato. Maria, Madre del Cristo Salvatore e Regina della Pace ci aiuti a volerla, amarla e a realizzarla con lo Spirito d’amore del Figlio, uno Spirito di verità.

+ Mario Toso

Omelia per la Santa Messa di ringraziamento

Cari fratelli e sorelle, alla luce della Parola di Dio, in particolare della Lettera di san Paolo apostolo ai Galati (cf Gal 4, 4-7), alla fine di un anno e all’inizio di uno nuovo, siamo invitati a ringraziare Dio perché ci ha aiutati ad incarnare in noi la figliolanza del Figlio, perché siamo sicuri che non cesserà di mandare nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio anche nel prossimo anno solare.

Alla chiusura di un anno si è soliti innalzare a Dio un Te Deum di ringraziamento. Con ciò si vuole riconoscere la presenza amorevole di Dio negli avvenimenti della nostra storia. Con il Te Deum è tutto il popolo cristiano che innalza e fa sentire il suo canto di lode, unendosi agli Angeli, ai Profeti e a tutta la creazione. Infatti, la salvezza che Dio realizza è per tutti, compreso il cosmo.

Viene spontaneo ringraziare Dio, perché, quale Chiesa intera, nonostante infedeltà, difficoltà, stanchezze, l’uccisione di migliaia di cristiani, di decine di sacerdoti e suore missionari, il primo annuncio è risuonato in molti luoghi: «Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti».

Ma Dio va anche ringraziato perché nella catechesi, seppur non sempre incisiva ed estesa agli adulti, la formazione cristiana è stata guidata dall’obiettivo di far capire che credere in Gesù Cristo, vivere Lui, è una cosa bella, capace di colmare la vita di nuovo splendore e di una gioia profonda.

Sentiamo, poi, il bisogno di ringraziare Dio per il Sinodo dei giovani che ha coinvolto tutta la Chiesa che è in Faenza-Modigliana. Il suo compiersi ha smosso il cuore di molti giovani e già si possono scorgere i germogli di una Chiesa che si rinnova e si impianta radicandosi nella vita delle nuove generazioni.

L’accompagnamento dei processi innescati per la preparazione, la stessa celebrazione del Sinodo hanno sollecitato anche gli adulti ad intraprendere una nuova tappa nell’annuncio, a partire dall’ascolto dei giovani.

Ringraziamo Dio, inoltre, perché con il nuovo anno pastorale, iniziato nello scorso mese di settembre, ci siamo messi in marcia per vivere assieme il mistero del Verbo che si fa carne, ossia come popolo intero: popolo che accoglie la vita divina che viene in noi, tra noi, e la diffonde imprimendola sempre più nelle nostre vite, nelle leggi e nelle istituzioni. La Parola non va solo ascoltata, ma anche celebrata e, soprattutto, annunciata e testimoniata. Solo così cambia i cuori, le mentalità, trasfigura l’umanità e le culture, compresa la politica. Solo così fa albeggiare una nuova creazione, carica di speranza per tutti.

Un grazie al Signore va rivolto per le nuove vite con cui ha arricchito la popolazione del nostro territorio, ed anche per i nostri Seminaristi e i giovani Propedeuti, la cui giovinezza, gioiosa nell’impegno e nel dono, riempie i nostri cuori di motivi di riconoscenza al Padre, che continua ad inviare operai nella sua messe.

Ci sentiamo confortati perché la presenza di Dio suscita propositi di bene, nuovi progetti di accoglienza, come quello diurno che sarà allestito negli ambienti attigui alla Chiesa di san Domenico in Faenza dalla Caritas diocesana.

Siamo, peraltro, addolorati, perché nel mondo allignano troppe guerre, divisioni, diseguaglianze, ma anche le piaghe della fame e della povertà; perché non si è ancora provveduto a riformare profondamente l’attuale sistema monetario e finanziario mondiale; perché troppi bambini sono stroncati sul nascere e continua per il nostro Paese l’inverno demografico, come anche la disoccupazione specie per i giovani, ma non solo; perché, pur non essendo pochi i Paesi che hanno sottoscritto, in questo dicembre 2018, a Marrakech, il Compact Global con riferimento ai rifugiati e ai migranti, poco si sta facendo sul piano politico tra gli Stati in vista di un’accoglienza, protezione, integrazione sicure, legali, rispettose dei diritti e doveri di tutti, proporzionate alle reali disponibilità dei Paesi ospitanti; perché, a fronte di problemi cruciali, prevalgono la retorica, ideologie distorte circa l’identità delle Nazioni e la partecipazione deliberativa dei popoli. E potremmo continuare nell’elenco dei nostri mali.

Eccoci, dunque, Signore davanti a Te, con i nostri slanci di bene, ma anche con le nostre cadute. Spesso siamo affaticati, anche perché, sebbene parliamo di fraternità e di camminare insieme, in realtà inseguiamo i nostri piccoli punti di vista con caparbietà quasi indomabile. E così, ci troviamo dispersi, disarticolati, incapaci di comunicazione e di comunione, di considerarci entro un futuro comune. Investiamo più energie su quello che ci divide e sulla riuscita dei nostri «io», anziché sull’unità e sulla forza del «noi», dell’essere comunità.

Trovandoci con poco da offrirti, accogli il dono del nostro piccolo cuore, perché tu possa colmare la sua sete di infinito, di Te. Conservaci nel tuo Amore pieno di Verità. Effondi mille volte il tuo Spirito. Donaci un futuro pieno di un incontenibile amore per Te, per la vita. Che la pace sia servita da una buona politica, come ci propone il Messaggio per la Giornata Mondiale della pace 2019.

La Beata Vergine delle Grazie ci accompagni. Sia nostra Madre e Maestra di pace.

+ Mario Toso

Omelia per la Santa Messa della notte di Natale

Il Bambino Gesù che è nato per noi in questa notte, – anzi che nasce in ogni momento della nostra storia – è definito dal profeta Isaia Figlio di Dio, Principe della pace. Egli è luce, moltiplica la nostra gioia, aumenta la letizia, perché ci consente di amare in maniera più piena, come Lui ama. Libera da gioghi iniqui, da ogni sopruso (cf Is 9, 1-6). Salva portando per noi una nuova umanità, pacificata, consolidata nel diritto e nella giustizia, «restaurata», ossia riportata al suo stato primigenio di piena comunione con Dio. Redime divenendo uno di noi, consentendoci di vivere la vita di Dio, il suo Amore.

In Gesù Cristo, Dio e uomo, la natura divina sposa la natura umana. Dio diventa uomo. L’uomo diventa Dio. Come ebbe a scrivere sant’Agostino si compie un mirabile scambio. Il Verbo, Parola eterna del Padre, divenendo uomo, deve imparare a parlare per dire “mamma”, “papà”, “amici”, “fratelli”; deve imparare a lavorare nella bottega del falegname Giuseppe, suo padre putativo; Lui che è la Vita del mondo deve sperimentare la morte e imparare il soffrire, e prima piange la morte degli amici e delle persone care: tutto ciò è da Lui compiuto per essere, sino in fondo, figlio dell’uomo. È solo così, conoscendolo ed amandolo quale figlio dell’uomo, vero uomo, Uomo Nuovo, che noi abbiamo la possibilità di imparare a vivere come figli di Dio. Gesù Cristo, divenendo uno di noi, come Dio e uomo insieme, ci insegna il mestiere d’uomo, quale dovrebbe essere per noi da figli. Ci aiuta ad essere umanità ricreata, trasfigurata dal suo Spirito d’amore, mediante il quale ci costituisce popolo coeso, che annuncia e testimonia il Verbo incarnato. Assunti e incorporati in Lui col Battesimo e la Cresima, siamo chiamati a vivere la sua vita,  che è essenzialmente Amore. La nostra vocazione personale e di popolo cristiano è l’amore: essere  e vivere l’amore di Dio che si incarna per realizzare una nuova creazione.

Il suo amore, dunque, ci fa crescere come umanità nuova, trasfigura la nostra vita e ci sollecita a seminare la vita nuova, che Cristo ci dona (un’umanità sanata, elevata, ossia non schiacciata o umiliata, bensì potenziata e divinizzata), oltre che in noi, nella nostre famiglie, nelle relazioni tra persone, nelle leggi, nelle istituzioni, nell’economia, nell’ecologia integrale. La nascita di Gesù Bambino ci sprona, dunque,  a divenire popolo, che porta ed incarna la vita nuova di Cristo in tutti i momenti dell’esistenza, belli o tristi. Dobbiamo essere nella storia popolo che continua l’incarnazione di Cristo, per sanare e trasfigurare l’umanità. Dovremmo, senza dubbio, chiamarci popolo del Verbo incarnato, perché popolo che coltiva il progetto di cambiare la storia umana, liberandola dai suoi mali, dalle sue piaghe, dalle sue schiavitù. Se, però, con le nostre scelte, e cioè con il peccato e il disprezzo per l’altro fratello, mostriamo indifferenza nei suoi confronti, siamo ingiusti, calpestiamo la vita del più debole e la dignità delle persone, non le aiutiamo allorché sono povere, senza lavoro, devastate dalla solitudine, dalla droga, dalla schiavitù del vizio; se non educhiamo i più giovani ad accogliere e ad amare Gesù, ad amare per sempre, se nella stessa politica non si organizza il bene comune in modo da favorire lo sviluppo integrale di tutti, in definitiva – ecco la conclusione che dobbiamo trarre – ostacoliamo la stessa venuta dell’Uomo Nuovo, impediamo l’incarnazione della nuova umanità che Gesù Cristo porta e che da noi credenti dovrebbe essere calata in nuovi stili di vita, dentro nuove leggi ed istituzioni, sempre più commisurate alla dignità delle persone. Detto altrimenti, possiamo vanificare il Natale. Possiamo renderlo una festa senza il Festeggiato, una corsa frenetica per acquistare doni senza però accogliere il Dono, che è Gesù Cristo: dono da ricevere e da donare. In tale contesto, diventa inevitabile farci questa domanda amara: perché veneriamo e cantiamo il Bambino che nasce per noi, se poi con la nostra vita non gli consentiamo di  giungere nel cuore di ogni persona, di essere Principe della pace, redentore che umanizza e trasfigura il mondo? Perché ci dimentichiamo di essere portatori del suo Spirito d’amore?

Se come ci ha ricordato il Vangelo di Luca “oggi nasce per noi il Salvatore, che è Cristo Signore” è chiaro che dovrà essere nostra costante premura farne crescere la presenza nelle persone, nelle nostre famiglie e comunità ecclesiali, mediante soprattutto la preghiera, una rinnovata catechesi che coinvolge anche i genitori; mediante la formazione permanente, sia dei fedeli laici sia dei presbiteri; mediante una più approfondita conoscenza della Parola – chi non conosce la Bibbia non conosce Cristo -; mediante un’assidua pratica della Carità di Cristo in tutti gli ambienti di vita, non solo nell’assistenza, ma anche nel sociale e nel politico; mediante l’assunzione di una pastorale integrata, per una evangelizzazione comunitaria e corale, sinodale.

Che il Bambino Gesù, che si incarna anche nel pane e nel vino, transustanziandoli, diventi nutrimento per il nostro cammino, cibo di vita piena. Buon Natale a tutti, piccoli e grandi, giovani ed anziani, malati e soli. Cristo luce, porti pace e serenità a tutti.

+ Mario Toso

Omelia: SOLENNITÀ DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE

Cari fratelli e sorelle, la Parola di Dio, tratta dal libro della Genesi (Gen 3, 9-15.20), ci parla del peccato che si è introdotto nella storia dell’umanità. Avvenne agli inizi, con Adamo ed Eva, ma continua ancora oggi. Si tratta di un inganno macchinato dal nemico di Dio, da Satana, raffigurato dal serpente che parla alla donna ed induce a disobbedire al comando del Creatore. Ecco il punto nodale. L’umanità, nell’unità duale di uomo e donna, creata da Dio per amore, per vivere in piena armonia con Lui, si allontana dal Padre e flirta con chi porta divisione in essa, nonché confusione e perdita di coscienza della propria identità, quella di figli di Dio. Ma distaccandosi da Dio non si sa più chi si è, per chi si è. Viene meno il senso profondo della vita.

La solennità dell’Immacolata è per la Chiesa intera l’occasione per festeggiare in Maria di Nazareth l’umanità che finalmente risponde all’amore di Dio e non delude alle sue attese. Celebrare l’Immacolata è onorare ed amare la Madre del Redentore, di una nuova umanità. È comprendere che, come Lei, ognuno di noi, uomo o donna, giovane o anziano, siamo chiamati a metterci a disposizione di Dio, per consentire a suo Figlio Gesù, di diventare cuore del mondo, amore incarnato del Padre.

Come Maria immacolata, accogliamo, dunque, con fede Gesù e con amore doniamolo al mondo, perché ogni persona possa amare e servire Dio col cuore di Cristo.

Ma, chiediamoci, davvero noi oggi desideriamo donare al mondo un’umanità nuova, davvero lavoriamo per un nuovo rinascimento, per una nuova primavera, come la Madre di Gesù?

Non è, forse, che spesso ci mimetizziamo dietro proposte culturali e politiche che nulla hanno da spartire con i valori umani ed evangelici e che, anzi, sono in aperta contraddizione con l’insegnamento di Gesù Cristo? E, poi, non è vero che spesso siamo persone timorose, che rinunciano ad un annuncio gioioso e coraggioso di Gesù agli altri per paura di essere tacciati come retrogradi, portatori di una perniciosa superstizione? Così, già nei primi secoli veniva bollato il cristianesimo. Alle volte, poi, non sembriamo, a fronte delle sfide odierne, quali l’individualismo libertario e la cultura fluida del mondo digitale che ostacola la percezione della propria identità,truppe in ritirata che non sanno affrontare i problemi, senza credere di avere un proprio apporto originale da offrire, proponendo una visione di persona ad immagine di Dio, fatta per il dono? Non raramente i credenti generano la sensazione di essere un popolo di rassegnati, incapaci di reagire all’emarginazione prodotta da parte di culture materialistiche, tecnocratiche, chiuse alla trascendenza. Essi danno l’impressione di essere incapaci di portare la speranza ad un mondo in balia del non senso.

Ma chiediamoci anche: siamo, davvero, membra vive della comunità ecclesiale? Perché questa domanda? Perché emerge che in non poche occasioni, adulti e giovani, abbracciamo la nostra fede in maniera quasi consumistica, tenendola per noi, ripiegandoci nella coltivazione della nostra serenità interiore, pensando solo al nostro benessere spirituale, senza preoccuparci della salvezza integrale degli altri? Non è vero, forse, che ponendoci di fronte all’Immacolata preghiamo solo per la nostra famiglia, per noi stessi e non pensiamo che dobbiamo pregarla e supplicarla per il mondo intero? Ricordiamoci che non ci salviamo da soli. È importante che anche le nostre comunità ed associazioni siano redente e trasfigurate. Dobbiamo, poi, vigilare per non essere soprafatti dalla psicologia della tomba, che poco a poco ci trasforma in portatori di un pessimismo sterile, capaci di vedere solo rovine e guai attorno a noi. Il Figlio di Dio, regalatoci dal Padre e dalla Vergine Maria Immacolata, ci sollecita a superare la sfiducia permanente nelle persone, la paura dell’altro, gli atteggiamenti meramente difensivi, per diventare umanità sempre più capace di accoglienza, di convivialità, di servizio al bene comune. Maria Immacolata ci mostra un’umanità che ricerca gli interessi di Dio, desidera innalzare la civiltà dell’amore. Si presenta a noi come un persona umile, ma non per nulla rassegnata di fronte al male, all’idolatria e alla ingiustizia. Appare determinata nel collaborare con Dio, nel costruire il nuovo popolo di Dio, che è la Chiesa. Mentre avanziamo incontro a Dio che viene, guardiamo a Maria che «brilla come segno di sicura speranza e di consolazione per il popolo di Dio in cammino» (Lumen gentium, n. 68). La Vergine dell’ascolto e della contemplazione, la Madre dell’Amore, la serva del Signore (cf Lc 1, 26-38), interceda per tutti noi, per la sua Chiesa, perché non sia popolo delle catacombe e non si fermi mai nell’instaurare il Regno di Dio.

In questa Eucaristia preghiamo per coloro che questa notte sono morti nella discoteca di Corigliano in provincia di Ancona. Preghiamo perché i nostri giovani non solo possano andare in discoteche sicure ma anche nelle loro comunità religiose per onorare Maria Immacolata, «Vergine Madre, Figlia di suo Figlio, umile ed alta più che creatura» (Dante, Paradiso XXXIII, 1-3).

+ Mario Toso

AVVENTO 2018

Ci avviciniamo all’Avvento, momento importante dell’anno liturgico perché avvia un nuovo anno di Grazia per noi. L’Avvento viene celebrato perché ricordiamo e rendiamo presente nei nostri giorni l’opera della salvezza di Cristo. La redenzione va continuata e completata nelle nostre vite, nelle comunità, che si inoltrano nel tempo, verso la città celeste. L’Avvento ci sollecita all’attesa di Colui che viene ad abitare tra noi, con noi, in noi. Ci chiama all’impegno ad accogliere Chi ci salva e ci divinizza e, pertanto, viene a far nuove tutte le cose: le nostre relazioni, le famiglie, le società, il dialogo pubblico, interreligioso e interculturale. Siamo chiamati ad essere sempre, ogni anno, ogni giorno, popolo dell’attesa, dell’accoglienza di Dio, dell’incarnazione della sua Nuova Umanità: in noi, nelle legislazioni, nelle istituzioni, nelle città, nei rioni. L’attesa si traduce, spontaneamente, in operosità solerte. Il mondo è assetato di Dio e della sua giustizia. Il tempo scorre veloce, passa inesorabilmente, ma non dev’essere invano o comunque. L’uomo cerca ansiosamente la sua ragione di esistere. Non possiamo non essere popolo del Verbo che si fa carne e che viene ad accompagnarci nel nostro cammino con il suo Spirito d’amore, potente nel vincere il male e la morte, glorioso nel seminare ogni bene. La Chiesa del Verbo incarnato è popolo missionario di Cristo, che si pone al centro delle nostre esistenze, del mondo e della storia, come principio e fine. Continuiamo la sua incarnazione liberante e generativa di vita nuova nelle nostre comunità, nelle nostre associazioni e movimenti. In questo facciamoci aiutare dagli Orientamenti per l’anno pastorale 2018-2019: Un popolo in cammino verso Dio. Chiedete ai vostri parroci e ai responsabili delle associazioni che ve li presentino e ve li spieghino. Non dimentichiamoci di pregare per il Sinodo diocesano dei giovani, affinché diventino sempre più parte attiva e responsabile della Chiesa, popolo del Verbo che si incarna nel mondo per trasfigurarlo. Andiamo incontro al Signore che viene con le mani colme di opere buone. Tra queste, la nostra Diocesi domanda umilmente la solidarietà nei confronti della Casa del clero, che ospita i presbiteri anziani ed ammalati. La prima domenica di Avvento le diverse comunità parrocchiali sono chiamate ad organizzare una colletta per questo fine. Buon Avvento!

+ Mario Toso

OMELIA PER LA COMMEMORAZIONE DEI FEDELI DEFUNTI

Faenza, 2 novembre 2018

Cari fratelli e sorelle, ieri nella solennità di tutti i santi abbiamo riflettuto su quello che siamo: siamo una grande e sconfinata comunione. Formiamo la comunione dei santi del cielo e della terra. E ciò grazie a Cristo, del quale facciamo parte, formando il Corpo mistico che è la Chiesa. Venendo a celebrare l’Eucaristia qui, nel cimitero, come Chiesa viviamo l’affetto delle comunità cristiane per i defunti, per coloro che dormono il sonno della pace, in attesa della risurrezione del corpo.

La comunità ecclesiale genera, mediante il battesimo e la Confermazione, e con tutti gli altri sacramenti, nuovi figli per la famiglia di Dio. Si tratta di una moltitudine sconfinata di credenti di ogni nazione, razza e lingua (cf Ap 7,9), che formano un unico popolo, composto: da coloro che sono già giunti, secondo anche l’immagine di sant’Agostino, nella città santa, la Gerusalemme celeste, ove esultano alla presenza di Dio Padre e del Figlio Risorto e Glorioso; da quelli che attendono di entrare in essa dopo la purificazione dei peccati; e da tutti noi, pellegrini sulla terra. Una grande teoria di persone che attraversano i tempi e gli spazi per stabilizzarsi nella esultante comunità dell’Amore della famiglia di Dio, la Trinità.

La Chiesa, che è madre, coi suoi figli pellegrini su questa terra, si reca in questi giorni, in maniera comunitaria, presso i cimiteri o i dormitori, ove sono custodite e venerate le spoglie mortali di tanti fratelli e sorelle che sono vissuti e vivono in comunione con noi e le cui anime – come dice la Scrittura – «già sono nelle mani di Dio» (cf Sap 3,1).

In questa Chiesa e in questo cimitero, cari fratelli e sorelle, siamo venuti per onorare e ricordare i nostri defunti con una preghiera collettiva. Qui compiamo ed offriamo atti di fede, di speranza e di carità. Qui professiamo la nostra fede: «il terzo giorno Gesù è risuscitato, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine». Qui pronunciamo: «aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà». Qui viviamo l’amore di Cristo che è venuto per essere nostro cibo e viatico nel cammino verso la intramontabile luce di Dio, per aiutarci a trasfigurare la terra che attraversiamo, per sconfiggere la morte, e per trasferirci, resi immortali, nel suo Regno di amore.

Con una partecipazione corale al sacrificio eucaristico, possiamo intercedere per la loro salvezza eterna e, ancora una volta, sperimentare la più profonda comunione tra noi, che siamo in questo mondo e coloro che ci hanno preceduto nel segno della fede, in attesa di ritrovarci insieme. Saremo ancora, sia pure in maniera diversa, chiesa domestica unita alla grande famiglia di Dio. Grazie a Gesù Cristo, il pontefice massimo che unisce la sponda della mortalità con quella dell’immortalità – Egli è Uomo-Dio – le nostre suppliche e preghiere possono giungere ai nostri cari. Nella santa Messa, in cui facciamo memoria della morte e risurrezione di Cristo, assumendo la medicina di immortalità che è Cristo stesso, viviamo nei confronti dei nostri defunti non solo una tenerezza individuale, personale. Grazie a Cristo, che ci unisce nel suo Corpo, viviamo una tenerezza comunitaria: ossia la tenerezza di un popolo; una tenerezza ampliata, senza confini, perché vissuta in quella di Dio Padre, Figlio e Spirito santo. Mediante l’Eucaristia viviamo un amore non semplicemente umano ma divino.

Celebrando il sacrificio eucaristico non onoriamo da soli i defunti. Tutta la Chiesa, assieme a noi, fa giungere ai defunti il suo affetto e la sua solidarietà. Che mistero! Che consolazione! Che fortuna per noi cristiani. Anche se noi ci dimenticassimo dei nostri defunti, la Madre, che è la Chiesa, che a differenza dei suoi figli terreni non diviene arteriosclerotica, continuerà, sino alla fine dei tempi, a pregare per i defunti, senza fine. In un mondo in cui le persone sono diminuite nella loro dignità, sono scartate e quasi rimosse da prepotenti gesti di autoaffermazione solitaria, è davvero rasserenante pensare che continueremo ad essere ricordati e, in un certo senso, tenuti sulle ginocchia di quel popolo che Dio  ha costituito come comunione, famiglia.

L’Eucaristia è un momento unico, che ci fa sperimentare nei confronti dei nostri parenti defunti una commozione e un’empatia collettive e senza pari. Tutti ricordiamo non solo i defunti della nostra singola famiglia, bensì tutti i defunti. Siamo riconoscenti a tutti i defunti, perché grazie ad essi siamo stati resi partecipi della comunità cristiana, la comunità che comprende tutti i popoli della terra,  e in cui ognuno di noi è stato accolto e cresce. Lo sappiamo: non possiamo crescere da soli nella fede. La nostra fede cresce nella comunità, con la comunità, ossia grazie al dono di una comunione più ampia di quella semplicemente famigliare. Noi cresciamo come credenti in una comunione di persone, che è tale grazie alla nostra comunione con Cristo.

Davanti ai resti mortali dei nostri parenti è naturale che ci invada, con le lacrime, un mondo di emozioni, sentimenti d’affetto. Ricordiamo il loro amore per noi, le cure di cui ci hanno circondato, il bene che ci hanno voluto per farci crescere capaci di vero, di dono e di Dio. In un modo simile, le nostre comunità qui rappresentate, davanti a tutti i defunti si inteneriscono, provano riconoscenza per coloro che hanno piantato il Vangelo nelle nostre vite e nelle nostre comunità. Siamo grati a tutti i nostri fratelli defunti per averci aiutati a crescere come popolo ove la vocazione di servire le persone e Dio è un distintivo divino. Le preghiere per i nostri defunti rivolte a Cristo ci facciano crescere sempre di più nella comunione dei santi. Il ricordo dei nostri defunti ci restituisca alle nostre famiglie e alle nostre comunità cristiane orgogliosi e rinfrancati per aver sperimentato, ancora una volta, la forza potente della comunione dei santi, comunione tra noi e con Cristo. Tramite tale comunione possiamo beneficare i nostri defunti ed essere, a nostra volta, beneficati da loro. Maria, Madre della Chiesa, della comunione tra noi e con Cristo, ci protegga e ci accompagni nel nostro cammino verso la città santa, la nuova Gerusalemme.

+ Mario Toso