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Consegna del Segno della Croce

Bagnacavallo, san Michele 24 marzo 2019

Cari giovani, è uno dei momenti più importanti e decisivi della vostra crescita cristiana: crescita, come dice l’aggettivo, secondo la forma di Gesù Cristo. Il nostro compito di credenti è l’immedesimazione con Gesù, come Figlio di Dio che redime il mondo e lo cambia in meglio non con la violenza, con gli eserciti, bensì mediante l’Amore, facendo di sé un dono totale, sino a morire. Egli morendo in croce, dando tutto se stesso sino all’ultima goccia di sangue, ci ha mostrato la via mediante cui si vince il male, il peccato, l’odio, l’opposizione a Dio. È la via dell’Amore, un Amore pieno di verità. Gesù ci ha mostrato che possiamo essere persone complete, piene di gioia, seppure crocifisse, vivendo l’Amore, ovvero persone impegnate, che lottano contro il male per far trionfare il bene, consumando se stessi. Normalmente si pensa di realizzarsi solo divertendosi, vestendo bene, accumulando ricchezze e successi, avendola vinta sull’altro. In realtà, realizziamo noi stessi donandoci, svuotandoci, come ci ha insegnato Gesù Cristo, amando il Padre e gli altri sopra ogni cosa. È morendo a noi stessi, servendo i nostri fratelli, specie i più poveri, che siamo più noi stessi, ossia persone che si realizzano mentre si donano. «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa maia, la salverà» (Lc 9,22-25). Queste parole di Gesù ci potrebbero rattristare e far pensare che la vita del credente sia una vita senza gioia, piena di sacrifici e di rinunce. In realtà, prendere la croce significa fare nostro il suo Amore e vivere la nostra esistenza come un dono incessante, come il suo, che sfocia nella vittoria sul peccato, nella pienezza di vita del Risorto. La vita del cristiano è una vita colma dell’amore di Cristo: un amore forte, indomito, che non si piega di fronte all’odio, al peccato, ma è disposto ad affrontare i pesi della lotta contro ogni forma di male: la povertà, l’umiliazione della dignità e della libertà altrui, l’ingiustizia, la violenza contro gli altri. Il cristiano desidera possedere lo Spirito d’amore di Gesù, prega ogni giorno per portarlo dentro di sé e con esso affrontare la vita, gli impegni quotidiani, partecipare alla redenzione ed umanizzazione della propria famiglia, del proprio paese, della propria Nazione e del mondo.

Bene hanno fatto i vostri animatori a presentarvi due modelli di credenti che si sono fatti imitatori di Cristo missionario e martire: san Oscar Romero e Annalena Tonelli, laica, nostra conterranea, ammazzata mentre era in Africa. Oscar Romero, arcivescovo in san Salvador, ha lottato contro la dittatura, le gang criminali che angariavano il suo popolo e hanno reso il Salvador il Paese del mondo col più alto tasso di omicidi. Il 24 marzo, mentre stava celebrando la Messa nella cappella dell’ospedale, viene ucciso dagli «squadroni della morte», braccio armato del regime. La sua figura ricalca quella di Gesù, che è stato insultato, preso a schiaffi, picchiato e infine ucciso. Negli ultimi anni, prima della morte, riceveva spesso messaggi anonimi e minacce di morte. Denigrato, diffamato, con il suo martirio ha risvegliato molte coscienze nella sua Nazione e ha mostrato che si può cambiare il proprio Paese non con la violenza bensì vivendo l’amore crocifisso di Gesù Cristo. Annalena Tonelli, nata a Forlì, dopo aver frequentato giurisprudenza a Bologna desiderò dedicarsi ai poveri, ai perseguitati e ai rifugiati specie in Africa. Fondò una piccola comunità di laiche missionarie. Era convinta che con l’istruzione si poteva aiutare i popoli più poveri ad emanciparsi. Per amore delle persone e delle donne africane, per debellare le malattie tropicali e la lebbra si specializzò in medicina. Spesso affermava che la sua unica appartenenza era Dio e il prossimo. Servendo i poveri, gli abbandonati e i malati intendeva seguire solo Gesù. Null’altro le interessava se non seguire Lui e i poveri per Lui. Venne uccisa con un colpo d’arma da fuoco alla nuca il 5 ottobre 2003.

Cari amici, in questo periodo quaresimale, di conversione e di crescita, guardiamo a Gesù Cristo, a san Oscar Romero e a Annalena Tonelli. Preghiamoli perché ci rendano fieri di essere di Cristo, pietra angolare della Chiesa, principio di una nuova creazione. Non abbiate paura di amare come Gesù. Solo il suo Amore vi colmerà di gioia.

+ Mario Toso

I DOMENICA DI QUARESIMA

Faenza, Basilica Cattedrale 10 marzo 2019

All’inizio della Quaresima, ossia di un cammino di conversione, siamo invitati a capire quale sia la via più efficace della nostra redenzione e del mondo. È la via dei compromessi e dei patteggiamenti? Cambiamo e trasformiamo noi stessi e la terra adorando le cose con avidità di possesso, perseguendo la gloria umana, cercando il potere e il successo sopra ogni cosa, piegando Dio per soddisfare il nostro orgoglio? Le tentazioni che il Signore Gesù subisce nel deserto e le risposte date a Satana ci offrono indicazioni preziosissime per il nostro compito di popolo di pellegrini che attraversano la terra per trasfigurarla, ossia per renderla più umana, giusta e fraterna. Cristo, facendosi carne, ha voluto provare dentro di sé le tentazioni del mondo perché, uniti a Lui, le superiamo. Ci ha voluto dare, in certa maniera, un esempio, un punto di riferimento.

Riflettendo sulle tentazioni di Gesù impariamo da Lui come affrontarle, a non entrare in dialogo con il Tentatore e, in particolare, quale discernimento praticare nella nostra vita, per essere suoi veri discepoli, protagonisti di una nuova creazione. Gesù è tentato tre volte dal diavolo. La prima volta lo invita a trasformare una pietra in pane; poi, gli prospetta di diventare un messia potente e glorioso; infine, gli chiede di buttarsi giù dall’alto del tempio di Gerusalemme per manifestare in maniera spettacolare la sua potenza divina, strumentalizzando Dio a proprio vantaggio. Si tratta di strade che, nonostante le apparenze, non ci consentono di ottenere successo e felicità. Non ci avvicinano a Dio, a Gesù Cristo. Anzi, ci allontano, ci separano da Loro, dalla loro vita, dal loro progetto di salvezza. Percorrendo le strade delle tentazioni portiamo il mondo e noi non alla pienezza umana, bensì alla distruzione. Le tentazioni sono strade di rovina, di disumanizzazione.

Ma non dimentichiamo che Gesù Cristo è stato sottoposto a tentazione sino agli ultimi momenti della sua vita, non solo nel deserto di cui ci parla il brano evangelico odierno. Mentre era sulla croce, ad esempio, viene deriso e provocato dai capi del popolo, dai soldati: «Salvi se stesso!» (cf Lc 23, 35.37.39). In sostanza: se vuole essere nostro capo rinunci a comportarsi secondo la sua logica. Si comporti secondo una logica di dominio, la logica del mondo: scenda da quella croce e sconfigga i nemici con la forza. Se è Dio, come dice di essere, dimostri potenza e superiorità. Prevalga non amando gli altri sino a morire, bensì amando se stesso. Cambi il mondo facendo leva sulla difesa del proprio io e non sullo svuotamento di se stesso. In altri termini, secondo il demonio che tenta, per cambiare davvero la storia non bisogna amare gli altri, perdonarli, bensì occorre piegarli, sottometterli con la violenza.

A ben capire, le tentazioni che Cristo ha subito sino alla fine sono un attacco alla sua vita d’amore, di dono totale, a Dio e all’umanità. Sono, se pensiamo a noi come suoi discepoli, anche un attacco alla sua futura Chiesa, un volerla finita, prima ancora del suo inizio. L’esperienza delle tentazioni subite da Gesù ci debbono insegnare a capire che l’assalto del demonio continua. Le tentazioni e le risposte di Gesù ad esse sono un ammaestramento. Ci insegnano quel discernimento che dobbiamo esercitare ogni giorno per non venire meno alla nostra vocazione, per non soccombere come popolo di redenti, chiamati a continuare l’incarnazione di Cristo nel mondo. Ci offrono quelli che debbono essere i criteri delle nostre scelte in quanto cristiani: non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio; adorerai il Signore Dio tuo, a Lui solo renderai culto e ti prostrerai, mantenendoti umile e fiducioso nel Padre, rinunciando agli idoli del denaro, del successo e del potere; non mettere il Signore tuo Dio alla prova, non lo tirerai dalla tua parte, per soddisfare il tuo orgoglio. Il discernimento che ci insegna ad avere Gesù Cristo, nostro Fratello e Maestro, è per vivere, con la dignità dei figli di Dio, la missione di annunciatori e di testimoni dell’Amore del Padre e del suo perdono. È discernimento per la lotta al male, al peccato, a tutto ciò che ci allontana dall’amore fraterno, dalla giustizia e dalla pace, ossia da tutto ciò che trasfigura la terra, la umanizza liberandola dall’egoismo, dall’odio, dalla violenza. È discernimento per la denuncia di ciò che non va bene. È discernimento per la profezia della fraternità e della speranza. È discernimento per l’annuncio di un nuovo mondo. In questa Eucaristia facciamo comunione con Colui che morendo e risorgendo è costituito principio di redenzione e di rinnovamento della storia.

+Mario Toso

Esequie di Mons. Antonio Taroni

Faenza, basilica cattedrale 8 marzo 2019

Cari presbiteri e diaconi, cari fratelli e sorelle, la nascita al cielo del presbitero Mons. Antonio Taroni ci sollecita, proprio all’inizio di questa Quaresima che ci invita alla conversione, a riflettere sulla nostra vita cristiana. La vita e la morte che ci appartengono, in quanto battezzati in Cristo, sono vita e morte non per se stesse ma per il Signore. «Fratelli – ci ricorda san Paolo – nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore» (Rm 14, 7-9).

Il presbitero, in particolare, è a servizio del popolo di Dio, quel popolo sacerdotale della Nuova Alleanza, che è costituito tale grazie alla morte e risurrezione di Gesù Cristo, il Sommo Sacerdote. La vita del presbitero, come anche la Chiesa – popolo di cui è ministro -, vanno letti e compresi proprio alla luce della morte e risurrezione di Cristo.

Grazie alla morte e risurrezione del Signore Gesù, l’esistenza di ogni credente, compresa quella del presbitero, non è per il nulla, bensì per una vita in pienezza, già fin da questa terra. Con la morte, la vita non ci è tolta ma trasformata; non viene annientata bensì potenziata, eternizzata, stabilizzata in una vita immortale. Veniamo sepolti corruttibili, risorgeremo incorruttibili. Il Cristo glorioso siede accanto al Padre e ci attende per essere tutti con Lui, partecipi della sua pienezza di vita. Un simile destino, però, non è solo per i singoli credenti. È per il popolo intero di Dio. Diventati di Cristo, nutriti di Lui con il pane eucaristico, mediante il dono del suo Spirito d’amore diventiamo un «noi» di persone, strutturato dalla comunione con Cristo e tra di esse, partecipi della sua missione di Inviato del Padre e della sua ricchezza di vita. Il popolo cristiano è popolo di pellegrini che mentre attraversano la terra la trasfigurano. In che maniera? Vivendo santi ed immacolati, nella Carità, ossia animati dall’Amore di Cristo, ricevendone redenzione, perdono delle colpe, secondo la ricchezza della grazia del Figlio di Dio. Cristo riversa in noi la sua vita filiale in abbondanza, assieme ad ogni sapienza. Donandoci ogni sapienza ed intelligenza, ci fa conoscere e sperimentare il mistero della volontà di Dio, il suo disegno: ricondurre a Cristo, come unico Capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra. Dio, quando risuscita e fa sedere alla sua destra il suo Figlio glorioso – il Figlio in cui noi siamo figli del Padre -, manifesta la speranza a cui siamo chiamati, nonché il nostro compimento nel Risorto. Cristo ci è indicato come Capo su tutte le cose, come loro perfezione.

Nella Chiesa, ovunque noi siamo e qualunque professione esercitiamo, siamo chiamati, dunque, a vivere con l’atteggiamento dei figli nel Figlio, per concorrere ad attuare una nuova creazione. Come persone e come comunità abbiamo la missione di continuare quella di Cristo: fare nuove tutte le cose in Lui e per Lui, per generare una nuova umanità e una nuova storia. Il futuro delle nostre comunità sta nel percepirsi come un popolo nuovo, una sola umanità, un solo uomo in Cristo, misura perfetta dell’umanità: libera, responsabile, fraterna, relazionale, solidale, giusta e pacifica. Vivendo in comunione con Cristo e tra di noi, possiamo continuare nel nostro territorio la gloriosa tradizione che ha contraddistinto il popolo di Dio sia sul piano della santità sia sul piano sociale, della umanizzazione.

Proprio a partire dalla consapevolezza del nostro essere popolo di pellegrini che trasfigura la terra che attraversa, proprio su questo sfondo viene spontaneo riflettere sulla figura di Monsignor Antonio Taroni e invitare a pregare per lui e i suoi famigliari. Vicario parrocchiale a Granarolo, assistente diocesano dell’Azione Cattolica formò molti giovani nello spirito del Concilio Vaticano II, ossia secondo una visione di Chiesa centrata non tanto sul sacramento dell’ordine bensì sui sacramenti dell’iniziazione cristiana. Battesimo, cresima, eucaristia costituiscono i fondamenti della Chiesa, che comprende così tutti i membri del popolo di Dio. Il ricentramento battesimale dell’ecclesiologia conciliare ha permesso a Mons. Antonio, ma non solo a lui, di collocare il suo sacerdozio nella luce più adeguata, quella ministeriale. Parimenti, gli ha consentito di indicare lo spazio per un’effettiva vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, pensati come soggetti ecclesiali e non più oggetto dell’azione ecclesiale. Come parroco di sant’Apollinare a Russi, non solo ha ristrutturato gli ambienti parrocchiali, ma ha speso la sua vita tra la gente, ha educato i giovani, ha accompagnato le famiglie, ha visitato gli ammalati, si è fatto carico dei poveri, ha contribuito a costruire la comunità ecclesiale e civile. Ha investito nella formazione dei formatori, convinto che il patrimonio della presenza ecclesiale in un territorio si regge sulle gambe di credenti ben preparati. Ha vissuto la profezia della fraternità, come un accompagnamento delle varie componenti ecclesiali, per renderle capaci di un cammino fatto insieme. Ha educato il suo popolo con lo stile e le virtù del buon pastore. Per diversi anni Mons. Antonio, come già accennato, è stato incaricato del settore catechesi dell’Ufficio «Fede, annuncio e Catechesi». Dopo aver rinunciato alla parrocchia divenne canonico Penitenziere della Basilica Cattedrale. Come confessore, assiduo ed apprezzato, è stato uomo di pace e di riconciliazione, segno e strumento della tenerezza di Dio, attento a diffondere il bene e la speranza della rinascita. Con un piccolo gruppo ha coltivato sapientemente la Lectio divina. Nel maggio scorso l’ho nominato Coordinatore del Gruppo di studio sulla catechesi per elaborare un quadro completo della situazione esistente in Diocesi. Si è messo all’opera con slancio giovanile. Due settimane fa, visitandolo a casa, abbiamo parlato del cammino compiuto. Con lui credo che sia venuta meno una delle persone più competenti, non solo per gli studi compiuti presso l’Università pontificia salesiana, ma anche per l’esperienza accumulata negli anni. Pur avendo incoraggiato la proposta delle «Tresere educatori» era il primo a dire che era insufficiente a preparare adeguatamente i catechisti. Peraltro, prima si era fatto promotore di scuole estive di formazione di almeno due settimane. Assieme a lui abbiamo programmato ultimamente un corso annuale sui fondamentali della catechesi nel V ciclo di teologia. Purtroppo la salute non l’ha sorretto. La sua partenza e il vivo ricordo che lascia nella nostra Diocesi ci invita a pensare che ministri animati da una convinta appartenenza al presbiterio e da un profondo respiro ecclesiale; evangelizzatori preparati alla missione, come Mons. Taroni, non si improvvisano. A forgiarli è un delicato lavoro di accompagnamento e di formazione diffusi nella Diocesi. Non si può, allora, che concludere se non pregando il Signore perché continui a mandare operai nella sua vigna e perché trovino nei presbiteri, nei diaconi, nei laici, nei religiosi, un popolo che li sostiene con simpatia e corresponsabilità.

+ Mario Toso

Via crucis per le donne crocifisse

Faenza, venerdì 8 marzo 2019

La via Crucis per le donne crocifisse che si celebra questa sera vuol’essere un segno di solidarietà e di preghiera in favore delle donne vittime di tratta, prostituzione. Avviene in coincidenza con la giornata della donna che, a sua volta, vuole ricordare come nella storia umana, benché abbia un ruolo specifico e fondamentale nei confronti della vita, dello spirito e della cultura, la donna spesso viene calpestata nella sua dignità e impedita di dare il suo apporto decisivo.

La violenza sulle donne è strada di umiliazione dell’umano. Più che offesa dei diritti è offesa della donna in quanto persona nella sua unità di corpo e spirito, strettamente congiunti. È autolesionismo antropologico e umanitario. È offendere l’umanità stessa, fatta da due metà di cielo, che sono complementari, chiamate ad integrarsi e a sostenersi mutuamente. Se la metà del cielo che è la donna, con il suo genio femminile, è resa schiava, viene considerata come un mero strumento per l’altra metà, e addirittura è sottoposta alla tratta, umiliata, anche l’altra metà dell’umanità ne subisce gravissimo danno: viene impoverita, imbarbarisce, degrada. Finisce la comunione interpersonale, il mutuo aiuto nella reciprocità, la pari dignità, l’uguaglianza, che è alla base di uguali diritti. Dove c’è schiavitù non c’è umanità e civiltà. Senza donne libere e responsabili, l’umanità, come ogni frutto buono ad essa collegato, è pregiudicata. Viene meno: l’essere donna secondo pienezza, nella molteplicità delle modalità; la maternità libera e responsabile; la maternità spirituale della donna vergine; la famiglia, basata sull’unità di un «noi» ove vige l’uguaglianza nella ricchezza della diversità dei sessi; la tenerezza che custodisce e fa fiorire; la pace, che è soprattutto donna; la generazione della vita sotto il cuore di una madre e, con essa, la gioia di essere amati.

Nessuno ha il diritto di togliere la dignità all’altro, alla donna. Chi lo fa – specie se colei che si fida di chi dovrebbe esserle di aiuto viene spogliata del suo essere umano e ridotta a cosa -, è spietato, disumano, vigliacco. Tutti hanno diritto alla vita, ad una vita dignitosa e piena. Preghiamo e lavoriamo perché questi diritti siano considerati, da parte di tutti, doveri. Non dimentichiamo che l’umanità, nell’unità delle due metà che la costituiscono, è destinata alla maternità di un genere umano che supera se stesso, a generare più che se stesso, ossia Dio. Maria, Madre di Dio, ci aiuti.

+ Mario Toso

Mercoledì delle ceneri

Faenza, basilica cattedrale 6 marzo 2019

Cari fratelli e sorelle, eccoci all’inizio di una nuova Quaresima, cioè 40 giorni per rinnovarci in Cristo, per partecipare più profondamente alla passione d’amore del Figlio di Dio, per vivere una vita da risorti, ossia da persone vittoriose sul peccato e sul male. La Quaresima è quel periodo che la Chiesa ci mette a disposizione per preparare una nuova primavera per le nostre vite e per le nostre comunità, per portare frutti sul piano dell’annuncio, della catechesi, della testimonianza, della carità.

Il pianto per i peccati, il digiuno – la legge del digiuno “obbliga a fare un unico pasto durante la giornata, ma non proibisce di prendere un po’ di cibo al mattino e alla sera: alla legge del digiuno sono tenuti tutti i maggiorenni fino al 60° anno iniziato; la legge dell’astinenza proibisce l’uso delle carni, come pure dei cibi e delle bevande che, ad un prudente giudizio, sono da considerarsi particolarmente ricercati e costosi; i1 digiuno e l’astinenza, nel senso sopra precisato, devono essere osservati il Mercoledì delle Ceneri e il Venerdì della Passione e Morte del Signore Nostro Gesù Cristo; l’astinenza va osservata in tutti i singole venerdì di Quaresima -, l’elemosina, la preghiera a cui siamo invitati, sia dal profeta Gioele sia dal Vangelo di Matteo, non sono fine a se stessi, bensì sono funzionali a metterci maggiormente in comunione con chi è l’Uomo Nuovo, cioè Gesù Cristo, e con la sua incarnazione, per far nuove tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra. La Quaresima è per la Pasqua, perché diventiamo persone risorte, vittoriose sul male; perché collaboriamo a rendere attuale quell’incarnazione di Cristo che deve portare, mediante noi, una umanità nuova nelle famiglie, nelle scuole, nelle istituzioni, nella politica e nell’economia, nella cultura.

Il profeta Gioele ci sollecita ad un cammino di conversione personale e comunitaria. Tutti – piccoli e grandi, presbiteri, christifideles laici, religiosi e religiose, famiglie e comunità parrocchiali – siamo chiamati a ritornare a Dio con il cuore, e non con pose, non con atteggiamenti teatrali, con gesti meramente esteriori. Occorre cambiare, prima di tutto il centro della nostra persona, i nostri pensieri, la mentalità, i sentimenti e, poi, le azioni nei confronti di Dio e del prossimo. In sostanza dobbiamo diventare persone sempre più buone dentro. Dobbiamo essere giusti non per essere ammirati, per ricevere il plauso degli altri, la loro approvazione. Il bene va compiuto non per interesse, bensì perché il bene  è bene. La nostra perfezione morale e spirituale sta nell’attuare il bene per amore di Dio, non perché ce ne viene un tornaconto.

L’elemosina, ossia la nostra offerta a Dio e ai poveri, non va praticata facendoci pubblicità, facendo suonare la tromba per attirare l’attenzione della gente. Gesù, invece, chiede addirittura il distacco della stessa persona dal suo gesto, perché l’offerente diventi ignoto, sconosciuto al pubblico. Il gesto dell’elemosina dev’essere esclusivamente per amore del Padre. Così, il Signore esorta a non pregare pubblicamente, come fanno gli ipocriti, in piedi nelle chiese, agli angoli delle piazze, per farsi vedere e ricavarne una buona reputazione. Egli esorta, piuttosto, a pregare nel segreto della propria stanza, per aprire il cuore al Padre, perché Lui veda ciò che è nascosto in esso. La preghiera dev’essere destinata soltanto a lodare e a supplicare il Padre, a consegnare il cuore a Lui, non a fare mostra di sé. Cristo non si oppone certamente alla preghiera pubblica, ma alla sua strumentalizzazione, per farsi ammirare. Dio non ascolta coloro che usano tante parole e ripetono preghiere all’infinito, perché Egli sa ciò di cui abbiamo bisogno prima ancora che apriamo bocca. Non bisogna forzare la mano al Padre con molte preghiere e gesti. Si tratta, invece, di aprirgli il cuore e di avere fiducia in Lui. Anche il digiuno va vissuto nel «nascondimento», al pari dell’elemosina e della preghiera. Quando si digiuna non si deve mostrare un volto emaciato, assottigliato, per far capire agli altri quanto soffriamo. L’importante è invece che digiunando ci ricordiamo di Dio e gli facciamo spazio nella nostra vita.

Si è detto che Gioele invita sia i singoli sia il popolo intero alla conversione, nell’immedesimazione con il con l’Uomo Nuovo, venuto in questo mondo per realizzare una nuova creazione. Cosa vuol dire, più in concreto, che il popolo intero deve convertirsi e partecipare alla Pasqua di Gesù Cristo? Significa che come comunità diocesana siamo chiamati a partecipare, con tutte le componenti che la costituiscono – associazioni, aggregazioni, unità pastorali, consigli, vicariati, parrocchie – alla missione di Gesù. Egli è venuto per redimere, per divinizzare l’umanità, per realizzare una umanità in comunione con Dio Padre. In tale maniera, il Signore Gesù fa dell’umanità un popolo nuovo, un popolo di pellegrini che, mentre camminano verso la città celeste, trasfigurano la terra che attraversano. La presenza del Figlio di Dio in mezzo a noi ci costituisce fermento del Padre nella storia.

Dunque, la quaresima è un periodo di conversione anche per la nostra Diocesi che, per essere maggiormente a servizio dell’incarnazione di Gesù Cristo, deve impegnarsi ad essere sempre di più famiglia di persone sante ed immacolate, viventi nella carità. La nostra Diocesi è chiamata non a diminuire il proprio ardore nella missione, bensì a continuare la gloriosa tradizione di santità che l’ha caratterizzata nei secoli scorsi, ma anche la tradizione di liberazione e di umanizzazione del sociale.

La quaresima, vissuta con spirito di umiltà, dovrebbe, pertanto, rendere la nostra Diocesi una Chiesa più bella, gioiosa, audace, capace di incidere nel territorio, sulla cultura, sulle leggi. Per raggiungere simili traguardi occorre che, mediante conversione, ritorniamo a riscoprire la nostra appartenenza a Cristo, a creare nuova cultura partendo dal nostro vivere Cristo. Senza la chiara e lucida consapevolezza di essere di Cristo, di essere suoi, non possiamo trasfigurare l’umano, non possiamo generare nuovi umanesimi e aiutare la vita sociale a rimanere  entro l’alveo di un’esistenza morale e civile.

Il segno austero delle ceneri che saranno poste sul nostro capo è monito severo che ci ricorda la nostra radicale fragilità. Siamo su questa terra come pellegrini, incamminati verso un altro mondo. Non abbiamo qui una dimora permanente. Per le stesse ragioni le ceneri sono invito a vivere con coerenza la nostra identità, la nostra missione: essere Chiesa del Verbo incarnato; prolungare la sua incarnazione affinché possa proseguire la sua opera di redenzione e di trasfigurazione delle persone e delle cose. Abbiamo bisogno dello Spirito di Gesù che ci accompagni nel deserto per vincere le tentazioni, il loro attacco ad una vita d’amore. Il combattimento spirituale, il digiuno, la preghiera siano un’ascesi che ci trasforma non in persone tristi, bensì gioiose nel dono pieno di noi stessi.

+ Mario Toso

Incontro di preghiera per animatori: profilo dell’animatore

Russi, 1 marzo 2019

  1. Premessa

Care giovani animatrici ed animatori, benvenuti in questa Chiesa dedicata alla Madonna dei sette dolori. Questa sera riceverete un mandato, come lo ricevettero i discepoli del brano evangelico che avete ascoltato (cf Mt 28, 16-20). Sentivi, pertanto, scelti per un  grande impegno: essere per gli altri, specie per i ragazzi e le ragazze che incontrerete la prossima estate nei campi dei Grest, dei Cre, ma non solo. Con essi, per essi vivrete un’esperienza di servizio. Sarete Chiesa giovane per i più piccoli, per farli divertire, pregare, rendendoli più capaci di fare il bene. Questa sera ci fermeremo a fare alcune riflessioni sulla figura dell’animatore. Dapprima tenteremo di dire cosa non è l’animatore, ossia lo definiremo per via negativa. In un secondo momento ne parleremo definendolo positivamente.

  1. Il profilo dell’animatore

 

  • Partiamo da cosa non è

L’animatore non è l’animatore di un villaggio turistico, con il compito di intrattenere e coinvolgere gli ospiti in attività di gioco, di divertimento, di ginnastica, semplicemente per rendere il soggiorno più piacevole.

L’animatore non è nemmeno colui che occupa il proprio tempo in attività del tempo libero con lo scopo di raggranellare dei soldini, per vivere più dignitosamente.

Non è uno alla ricerca della propria autorealizzazione, quanto piuttosto si sente impegnato a far crescere gli altri umanamente e cristianamente.

Non è una persona spenta, sbiadita, demotivata, cupa, semmai uno che è appassionato e amante della vita, colmo di gioia che contagia.

Non è una persona che accentra tutto su di sé e considera i ragazzi e le ragazze come persone da selezionare e legare a sé, rendendole quasi una sua proprietà, funzionali alla sua felicità.

  • Definizioni positive dell’animatore

L’animatore è:

  • una persona che desidera donarsi, impegnarsi, perché i più piccoli possano crescere gioiosi e divenire, a loro volta, capaci di dono, gioiosi. Pertanto, è uno che sa accogliere, coinvolgere, fa giocare, organizza varie attività, responsabilizza, crea un ambiente sereno, di amicizia, famigliare.
  • una persona che sa operare insieme ad altri, sa fare squadra con gli altri animatori. Tutti insieme gli animatori condividono sogni, un progetto, uno Spirito: vivono assieme il più possibile, organizzano le giornate, ne verificano lo svolgimento, si riservano momenti di preghiera e di riflessione, di incontro vero con Gesù il Signore, per offrirsi a Lui, per mettersi a sua disposizione con entusiasmo, sull’esempio di Colei che all’invito dell’angelo rispose con un «Eccomi!».
  • una persona che si coltiva, si prepara, vuole essere «professionale», anche nell’organizzare un gioco, nell’arbitrare, nel comunicare. È fedele alla parola data, sa relazionarsi con le famiglie, con la parrocchia. Non ama la mediocrità, non fa sconti immotivati sull’impegno. Sa correggere in bel modo, senza offendere, senza scoraggiare, bensì spronando.
  • una persona che sente di avere delle responsabilità È cosciente che gli sono affidate altre persone che devono crescere nella libertà, nella fraternità, nell’amicizia, nella fede.
  • Ha il senso dell’appartenenza alla propria comunità parrocchiale e civile. Sente il dovere di agire a nome e per conto di essa.
  • Sa essere persona di speranza, che ha sempre fiducia nei ragazzi, anche quelli che sembrano meno dotati per questa o quell’altra attività o disciplina. Sa scorgere le doti positive di ognuno e mette ciascuno in condizione di svilupparle.
  • Non perde il contatto con Colui che lo manda, e lo ama colmando ognuno del suo amore perché ne diventi annunciatore, dispensatore.
  • Coltiva il metodo educativo preventivo – si tratta di un metodo che non è repressivo, ossia che fa ricorso alle punizioni, bensì crea le condizioni affinché i ragazzi non siano attratti dal male ma dalla bellezza del bene -, come quello di don Bosco, stando in mezzo ai giovani, con simpatia, ascoltando quanto i ragazzi confidano, chiedono, impegnandoli intensamente. Non raramente i ragazzi e le ragazze che si ha l’opportunità di incontrare provengono da famiglie che non hanno sempre il tempo per l’ascolto, per dare quelle risposte che i ragazzi si attendono. L’animatore è colui che può darle, specie se è un educatore preparato.
  • Si impegna a comunicare il suo affetto, con amorevolezza, senza essere appiccicaticcio. Don Bosco soleva ripetere che non basta amare i giovani. Occorre che loro si accorgano di essere amati. Il suo metodo, non a caso, poggiava sul trinomio: ragione, religione, amorevolezza. Un tale trinomio va rivalutato e reinterpretato proprio nell’attuale contesto socio-culturale che tende ad emarginare la ragione pensante. Oggi domina, infatti, la ragione calcolante, strumentale, mentre dovrebbe vigoreggiare una ragione riflessiva, sapienziale.
  • Ricerca quel punto accessibile al bene che c’è in ogni ragazzo, anche il più irrequieto e monello. Facendo leva su quel punto si guadagna la fiducia dei ragazzi. Per questa via don Bosco ha saputo trasformare dei giovani sfaccendati, volgari e rissosi in giovani apostoli.

Cari giovani, molti di voi non sono alla prima esperienza. Hanno già partecipato a dei Grest o a dei Cre. Altri di voi è la prima volta che si impegnano a diventare animatori. Questo, a dire il vero,  è il terzo incontro formativo. Forse, lo riconoscete anche voi, è troppo poco. Però, da qui all’estate c’è ancora tempo per continuare la preparazione, per pregare. Fatevi aiutare dai vostri formatori e anche dai vostri parroci. Il Signore Gesù vi accompagni. Sappiatelo incontrare nell’Eucaristia, nel sacramento della riconciliazione. Diventate sempre più innamorati di Gesù Cristo. Solo così riuscirete ad innamorare i vostri ragazzi di Lui.

+ Mario Toso

San Pier Damiani 2019: assemblea diocesana

Faenza, Basilica cattedrale 21 febbraio 2019

Benvenuti a questo momento ecclesiale di incontro e di riflessione anzitutto sulla figura di san Pier Damiani e, poi, sul Report che è il risultato di una preparazione voluta per accompagnare l’indizione e la celebrazione del Sinodo diocesano dei giovani. Abbiamo ritenuto che questo 21 febbraio, giorno della nascita al cielo di san Pier Damiani, fosse il più indicato per la presentazione e la consegna di tale Report sulla condizione giovanile nel ravennate e nella nostra Diocesi!

Si tratta di un momento vertice per il Sinodo dei giovani: Sinodo della Chiesa locale con i giovani, per i giovani. Come appena detto verrà presentato e consegnato, in particolare, il Report avente come titolo Prove di sintonia. Giovani e Chiesa in un’interpretazione sinodale (libreria universitaria.it edizioni, Limena 2019). Esso raccoglie i risultati dell’indagine condotta dall’Istituto Universitario Salesiano di Venezia con l’aiuto dei nostri responsabili della pastorale vocazionale e giovanile e degli stessi giovani della Diocesi, specie nei momenti di focus group. Dall’indagine, strutturata come specifica fase di ascolto, attraverso tre azioni di ricerca (survey telefonico, focus group, questionario a campionatura), è derivato il suddetto Report, che avrete fra poco tra mano. Esso non è riducibile a mero ed asettico studio sociologico. È qualcosa di più. Infatti, si tratta di un lavoro ministeriale agli obiettivi del Sinodo, che nasce dalla sollecitudine pastorale della nostra Chiesa di Faenza-Modigliana. E ciò a partire dall’urgenza del rinnovamento dell’approccio ai giovani, al fine di  responsabilizzarli nell’essere Chiesa per i giovani, giovani per i giovani. Proprio per questo non va accolto come uno strumento qualsiasi, che riguarda genericamente più diocesi. Esso riguarda la nostra, in specie. Va accolto, dunque, come una testimonianza di vita ecclesiale, colta nei suoi aspetti positivi ma anche in quelli critici. Non va considerato una mera descrizione del dato di fatto, ma anche delle esigenze e delle opportunità di  evangelizzazione e di riorganizzazione delle pastorali vocazionale e giovanile. Pertanto, il Report non va preso in consegna per essere riposto nella piccola biblioteca parrocchiale o di famiglia per abbellire l’ambiente. Esso va tenuto sul proprio tavolo di lavoro. Va spesso consultato, letto in gruppo, studiato, presentato e spiegato ai catechisti, agli animatori, ai formatori, ai responsabili delle associazioni, aggregazioni. Va, in certo modo, seminato e incarnato nel territorio. Cari giovani, dovete, allora, utilizzarlo come uno strumento di lavoro pastorale e pedagogico, per rendere il vostro compito di costruttori della Chiesa e della società più appropriato, commisurato alla stessa realtà dei giovani, ai bisogni delle famiglie, delle comunità parrocchiali, delle associazioni, degli Uffici pastorali diocesani, degli Oratori.

Desidero fin d’ora ringraziare tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno collaborato alla realizzazione dell’indagine, sino alla stampa del volume, che appare agile e fruibile. In fondo al volume vi è un elenco delle persone che meritano un ringraziamento particolare, ma questa è anche l’occasione per ringraziare tutti, senza dimenticare nessuno, per la partecipazione appassionata e convinta.

 

Ho detto poco fa che la presentazione del Report è stata voluta in coincidenza con l’anniversario della morte di san Pier Damiani. Infatti vi sono più ragioni che ci inducono a farlo. Ne ricordo due. Anzitutto, perché non solo fu un grande protagonista del rinnovamento della Chiesa dei suoi tempi, mediante l’organizzazione e la promozione della vita eremitica, fondando nuovi eremi e monasteri nelle Marche, nell’Umbria, nella Toscana e nella nostra Romagna. Ai suoi occhi il monachesimo ordinario appariva come un minimum, una via larga. Al contrario, l’eremitismo rappresentava per lui la via stretta e difficile, a cui allude il Vangelo. In secondo luogo, perché in lui la vocazione alla vita di solitudine, avente come obiettivo l’accrescimento del desiderio di Dio – l’eremita, al dire dello stesso san Pier Damiani, punta a diventare intimo di Cristo, ad accoglierlo nella sua cella, a tendere sempre di più verso di Lui – gradualmente sfocia nell’amore per la Chiesa, in un impegno assiduo per renderla più bella e santa, luce del mondo. E così, lui eremita, divenne anche iniziatore e promotore di un potente movimento di riforma della vita dei vescovi, del clero, oltre che dei christifideles laici. Detto altrimenti,la crescita spirituale, guadagnata nell’eremo lo aprì all’amore per la Chiesa, lo fece sentire Chiesa, parte di essa. Egli, eremita, amante della vita solitaria, sentì in sé un apparente contradditorio impulso ad interessarsi della vita della Chiesa, il cui popolo vive seminato nei villaggi, nelle città. E così intraprese lunghi viaggi, entrò nelle curie, nelle corti imperiali, nelle metropoli ove pulsava la vita commerciale e politica del suo tempo.

Per amore della sua Chiesa, seppur tra ripensamenti, accetta la nomina a cardinale vescovo di Ostia, compie diverse missioni di pace, di ricomposizione della comunione di città, vescovi, imperatori con la Sede di Pietro. San Pier Damiani, dunque, non si limitò a condurre una vita di preghiera e di penitenza nella solitudine, per assecondare la sua inclinazione mistica.

Obbedendo al Papa, che lo chiamava a servire la Chiesa fuori dall’eremo e a dirimere importanti questioni ecclesiali e civili, ci insegnò la via della pienezza della vocazione cristiana. Questa non consiste solo nel rimanere statici in ciò che ci è più congeniale e scegliamo all’inizio della nostra giovinezza. Nella vita cristiana occorre essere disponibili ad andare ove Dio chiama, ad obbedire ai successori degli apostoli. Ci può essere, cioè, il momento in cui, anche attraverso il discernimento ecclesiale, occorre essere pronti a partire, a far “esodo”, a uscire dalla propria terra di elezione, come fece Abramo, nostro padre nella fede.

 

Cari giovani sinodali, ecco allora un grande insegnamento che deriva dalla riflessione sulla vocazione e sulla vita di san Pier Damiani. Urgenze della storia e chiamata ecclesiale, sono le coordinate di una vocazione autentica, che superano i nostri gusti personali, le nostre inclinazioni prime. Spesso siamo concentrati sulla crescita del nostro «io», sull’autorealizzazione. La maturità cristiana passa, invece, attraverso l’essere disponibili a servire Cristo anche là ove uno non avrebbe mai pensato di andare. In linea con quanto detto potrebbe essere che il vescovo di una diocesi convochi e, mediante responsabilizzazione, invii dei giovani ben preparati in missione, in una parrocchia diversa dalla propria, a svolgere il ministero del catechista.

San Pier Damiani non rimane ancorato alla forma della vocazione coltivata agli inizi, facendola diventare un assoluto: o così o niente. Obbedisce al successore di Pietro, ossia papa Stefano IX – al papa era stato consigliato di far leva sul punto debole di Pier Damiani: l’obbedienza -, senza peraltro rinnegare la sua vocazione monastica primigenia: diventa attivo rimanendo, però, interiormente contemplativo, lì ove era chiamato.

Benedetto XVI scrisse che san Pier Damiani è stato uno dei più grandi riformatori della Chiesa: “egli si consumò, con lucida coerenza e grande severità, per la riforma della Chiesa del suo tempo”. Le parole di papa Benedetto ci fanno comprendere che la prima grande riforma, è avvenuta in lui stesso. Ha accettato come uomo e come monaco cristiano, attraverso l’obbedienza alla chiamata del Signore, a «riformarsi», ad accogliere dalle mani del Signore una «nuova forma» di vita.

 

Tutti noi, giovani, adulti, anziani, religiosi e religiose, diaconi e presbiteri, abbiamo bisogno di uscire da noi stessi, dai nostri particolarismi, dalle nostre presunte “missioni”, per il bene della Chiesa.

Abbiamo bisogno di metterci in profondo ascolto della volontà del Signore. Questa sera lo stiamo facendo. Mediante il Sinodo cerchiamo di capirla e di accoglierla, per vedere la direzione della missione, del cambiamento che ci indica Cristo, che è Verbo incarnato per essere la nostra Via e Verità.

 

Il suo Spirito d’amore ci porterà, allora, in direzioni nuove e sconosciute, forse non scelte all’inizio del nostro impegno ecclesiale. L’importante è che siano scelte in comunione con la Chiesa, con Gesù Cristo. Accogliamo con amore Lui, l’unica via di una piena maturità umana e di una conversione alla vera riforma personale ed ecclesiale. Conformiamoci a Cristo, l’uomo nuovo, l’uomo che donandosi fino alla morte inaugura la grande riforma dell’umanità e della storia.

 

Non è, forse, così la vita di ogni uomo e donna che accoglie un figlio, che cerca un lavoro, che fatica, che gioisce, e affronta le belle e brutte sorprese della vita? Esse sono la mano provvidente del Padre che cura i suoi figli per farli crescere secondo la piena maturità di Cristo. Le sfide storiche e gli orientamenti ecclesiali, che emergeranno alla conclusione del Sinodo saranno la mano del Padre che ci condurrà, come ha fatto con Pier Damiani, alla piena maturità umana e cristiana. Ad essa aneliamo intimamente, anche se non sempre coscientemente.

Concludiamo con una breve preghiera: «San Pier Damiani, intercedi per noi. Insegnaci a desiderare la gioia piena. Vivendo in  piena comunione con Cristo e la sua Chiesa affrontiamo le sfide del nostro tempo alla luce del Vangelo perché diventino vie della nuova evangelizzazione della nostra Comunità ecclesiale di Faenza-Modigliana».

+ Mario Toso

Vescovo di Faenza-Modigliana

Anniversario dell’istituto salesiano Rainerum a Bolzano

Chiesa di san Domenico, Bolzano 9 febbraio 2019

Caro sig. Ispettore don Igino Biffi, caro Direttore don Ivan Ghidina, cari confratelli, personale docente, educatori e giovani, la celebrazione degli 80 anni di presenza dei salesiani a Bolzano presso l’Istituto Salesiano Maria Ausiliatrice-Rainerum Salesiani Don Bosco è l’occasione per ringraziare Dio Padre per il bene compiuto grazie al suo aiuto in questo territorio. È l’occasione, inoltre, per riflettere sul prezioso tesoro di santità e sul prodigio di pedagogia che è san Giovanni Bosco, padre e maestro dei giovani. In teatro, di fronte a salesiani che in passato hanno operato in questa istituzione e agli ex-allievi, abbiamo già assistito alla parte commemorativa, grazie anche ad una ricerca storica messa a punto dai giovani del terzo anno della scuola superiore (2017-2018) in collaborazione con varie istituzioni cittadine, aiutati dal prof. ing. Luigi Coffele. Qui ci fermiamo, in particolare, a rivivere, alla luce della Parola di Dio e della tradizione salesiana, il carisma don boschiano, nel contesto del nostro tempo, spesso caratterizzato da «giorni nuvolosi e di caligine» (cf Ez 34, 11-31) per noi e per i nostri giovani. Esso si presenta a noi come attualissimo, indispensabile per continuare il servizio della Congregazione salesiana alla Chiesa e alla società, specie alle nuove generazioni.In un clima culturale, che esalta la comunicazione e le interconnessioni, e che tuttavia ci porta, ad abitare paradossalmente mondi frammentati, di profonde solitudini – mondi tanto più fluidi e di spaesamento valoriale quanto più le identità sono miscelate, destrutturate -, comprendiamo la rilevanza e l’importanza di ambienti educativi e comunicativi ispirati dalla sapienza cristiana. Don Bosco ne comprese l’essenzialità già due secoli fa. Non a caso è andato incontro ai giovani poveri ed abbandonati, offrendo a loro una casa, un lavoro, una cultura, una fede incarnata. È stato definito, non paia fuor di luogo, vero intellettuale di massa. Il noto semiologo Umberto Eco, scomparso qualche anno fa, ha letto ed interpretato l’esperienza dell’Oratorio di don Bosco come una macchina perfetta di comunicazione che gestisce in proprio, riutilizza e discute i messaggi provenienti dall’esterno. In tal modo, il progetto educativo dell’Oratorio nasceva stando nel mondo, divenendo però alternativo (rispetto alle categorie dominanti del tempo), e quindi non conformista, apportatore di innovazioni educative, in sintonia con la dignità umana. Alla luce dell’esperienza educativa del santo piemontese, ecco come dovremmo comportarci con riferimento alla cultura digitale, ai nuovi mezzi di comunicazione che ci avvolgono con i loro messaggi troppo semplificati, e quindi poco veritieri, e ci condizionano senza che ce ne accorgiamo, abituandoci ad esserne meri fruitori, quasi spettatori passivi ad imbuto: fare delle nostre famiglie, delle nostre scuole, delle nostre associazioni, dei laboratori di una nuova cultura e comunicazione, a servizio della crescita integrale dei giovani. Dovremmo seguire, su un altro piano, ciò che gli Ordini mendicanti del Medioevo, francescani e domenicani – stiamo celebrando l’Eucaristia in questa chiesa ove i figli di san Domenico hanno irradiato il Vangelo e la cultura cristiana -, vollero fare con le loro università: istituire centri culturali ove confrontare ed illuminare i grandi problemi del tempo con la luce del Vangelo, coniugando fede e vita, libertà e verità. Certo, per riuscire in questo intento, per ridare giovinezza e vitalità al pensiero, in una società e in una cultura senescenti dal punto di vista intellettuale e spirituale, dobbiamo essere tutti più reattivi rispetto ai gravi problemi odierni, più solerti nel discernimento. Ma, soprattutto, siamo chiamati ad uscire allo scoperto, a non vivere come ruote di scorta rispetto ad altri, specie di chi organizza la società secondo prospettive lontane dai valori umani e cristiani. Siamo, cioè, chiamati a dare il nostro apporto necessario ed originale di credenti. Siamo chiamati a pronunciarci chiaramente, e ad impegnarci ad inscrivere nelle istituzioni i valori del Vangelo, come hanno saputo fare i cattolici del passato, assieme ad altri uomini di buona volontà. Anche oggi c’è bisogno di persone con schiena eretta, atte a vivere l’Amore della e nella verità, ossia una carità pastorale ed intellettuale che illumina le intelligenze ed accende i cuori di empatia nei confronti della vita buona e del Bello. Solo così si potranno forgiare nuove personalità, nuovi protagonisti nella vita sociale e politica. Ovvero cittadini capaci, a fronte di culture intrise di laicismo e di individualismo libertario, di proporre la promozione dei diritti individuali in connessione coi rispettivi doveri, di saper subordinare la ragione calcolante alla ragione pensante, la finanza alla politica.

Non solo la Chiesa ha bisogno dei giovani attivi e protagonisti, ma anche la società, la città, la cultura, la scienza, l’economia e la politica. I giovani costituiscono un potenziale di energie spirituali, umane e morali, davvero enorme, ma purtroppo sottovalutato e inutilizzato. Senza di essi è difficile il rinnovamento, non si può sperare in un futuro di speranza per la Chiesa e per la società. Essi non debbono essere considerati buoni solo per il consumo, e non per una crescita sostenibile, che deve avvenire secondo una logica del dono e della gratuità. Come già accennato, don Bosco mal sopportava città e quartieri popolati da giovani allo sbando, a rischio, senza un’occupazione, istruzione, senza Dio.

Ragione, religione ed amorevolezza era il trinomio su cui don Bosco imperniava la sua sapiente azione educatrice, liberatrice ed umanizzante. Cari confratelli salesiani, un tale trinomio va rivalutato e reinterpretato proprio nell’attuale contesto socio-culturale. Oggi domina la ragione calcolante, strumentale, mentre dovrebbe vigoreggiare una ragione riflessiva, sapienziale. Oggi, i nostri giovani, sentono poco l’appartenenza alla Chiesa ed interpretano spesso il cristianesimo come una religione «fai da te». Dovrebbero, invece, sperimentare un incontro filiale col Padre, disponibili ad andare ove lui manda a servire. Il pericolo odierno per i nostri giovani è immaginare la comunità ecclesiale come un ambiente estraneo o come l’ambiente ove ci si può ritagliare un angolino, ove si sta bene con pochi amici intimi, ignorando il bene più grande della comunità e del mondo. Oggi, nonostante l’essere iperconnessi, prevale l’indifferenza, la superficialità delle relazioni, l’utilitarismo. L’amorevolezza è sempre più rarefatta e sfuggente. Più aumentano le relazioni virtuali più cresce il bisogno di relazioni più personali, senza intermediazioni che creano deformazioni, ossia ricche di empatia e di convivialità, che dimostrano quanto la nostra persona è importante per gli altri.

In questa celebrazione eucaristica siamo sollecitati a vivere il trinomio educativo donboschiano in un contesto trinitario. L’esperienza dello Spirito santo, Spirito di Dio e di Cristo, figlio amatissimo del Padre, ci aiuterà a comprendere che il suo Amore non umilia la ragione bensì la sfida e la induce a trascendersi, e inoltre rende il nostro rapporto religioso un incontro con Dio, risposta d’amore al suo Amore, trasfigurazione della nostra amorevolezza umana in una presa in carico disinteressata dell’altro.

Con don Bosco viviamo nella gioia di essere di Dio e di donarlo ai giovani. Preghiamo per i giovani di questa istituzione affinché, guardando ai salesiani e a don Bosco, si appassionino nell’impegno di far crescere i loro coetanei: siano giovani per i giovani. Come l’uomo da leggenda, che è stato il «prete della gioia» – così l’ha definito qualche giorno fa papa Francesco, exallievo salesiano -, ha contribuito ad interpretare la genialità pedagogica del cristianesimo e a sviluppare un nuovo umanesimo giovanile nell’Ottocento, così noi operiamo per un rinascimento educativo della nostra società e per una civiltà che pone il digitale e le nuove tecnologie a servizio della comunione delle persone reali e concrete. «In conclusione, fratelli – come scrive san Paolo ai Filippesi – tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto» dei nostri pensieri e delle nostre sollecitudini (Fil 4, 4-9).

Maria Ausiliatrice ci benedica e ci assista.

+Mario Toso

Glorie: Madonna del fuoco, festa patronale

Glorie, 3 febbraio 2019

Cari fratelli e sorelle, conoscere l’origine della devozione alla Madonna del Fuoco, protettrice di Glorie è fondamentale per questa comunità parrocchiale. Il culto alla Madonna del Fuoco si sviluppò nel secolo scorso per opera di un proprietario di Villa Savoia e fu incrementato dai braccianti che, dalle colline forlivesi, specie da Terra del Sole, vennero a lavorare in queste zone per bonificare la Bassa. Il quadro qui venerato, che mostra alle spalle della Madonna e del Bambino il fuoco, allude  all’incendio che a Forlì, nella notte tra il 4 e il 5 febbraio 1428, devastò una scuola ove  si trovava l’immagine originale della Madonna del Fuoco, una xilografia impressa su un semplice foglio di carta fissato su una tavoletta. Nonostante le fiamme abbiano distrutto la scuola, l’immagine cartacea rimase illesa. La domenica seguente fu trasportata solennemente nella cattedrale di Forlì ove è conservata e tuttora venerata. Sarebbe bello, a questo proposito, che si potesse organizzare una visita all’immagine alla Madonna che è custodita a Forlì.

Spiegata per sommi capi l’origine del culto della Madonna del Fuoco a Glorie, va sottolineato che tale culto è dovuto, così narra la tradizione, all’opera di laici. Non so se interpreto bene. Forse bisognerebbe approfondire di più questo aspetto. Ma leggendo l’origine del culto della Madonna del Fuoco a Glorie mi è venuta in mente l’origine del cristianesimo nella Corea. Ebbene, nella Corea, il cristianesimo si impiantò in maniera singolare per opera dei laici, prima ancora che dei sacerdoti: alla fine del XVIII secolo. Alcuni eruditi coreani entrarono in contatto con i testi biblici in cinese portati nel loro paese da alcuni missionari occidentali ed iniziarono a studiare autonomamente la dottrina cattolica, senza l’aiuto di presbiteri.

Nel 1784 uno di loro, Lee Seung Hun, fu inviato a Pechino per essere battezzato dai missionari cattolici. Tornato in patria battezzò gli altri membri del suo gruppo, dando vita così alla Chiesa coreana senza alcun apporto esterno, in particolare senza l’apporto di sacerdoti che arrivarono solo più tardi. Nell’Ottocento la neonata Chiesa fu colpita dalle persecuzioni. Nel 1866 i cristiani coreani subirono il martirio più doloroso della loro storia: più di diecimila fedeli furono massacrati, la metà di tutti quelli esistenti nel Paese.

Perché vi ho parlato dei martiri coreani? Quello che desidero dirvi è che la fede cristiana nella storia della Chiesa, in Corea o in altre Nazioni, non è solo promossa da missionari sacerdoti, da suore, ma anche da fedeli laici. Il fatto che qui a Glorie il culto alla Madre di Dio si sia diffuso specie per opera dei braccianti forlivesi è senz’altro istruttivo per questa comunità che non gode più della presenza stanziale di un parroco. Indica quella via di educazione alla fede che non deve, specie oggi, andare perduta, quando le vocazioni sacerdotali e religiose diminuiscono e il proprio parroco, don Marco, deve accompagnare tre comunità. La diffusione della fede, l’educazione cristiana, non sono solo compito dei sacerdoti o delle donne, delle mamme, ma anche dei papà. In un contesto sociale e culturale che, come il nostro, è sempre più povero di senso del trascendente e del senso di appartenenza alla comunità cristiana e alla sua missione, l’esempio dei braccianti forlivesi arrivati sin qui, con le loro famiglie, è particolarmente importante. Chi veniva da Forlì o dai dintorni portava con sé non solo la vita e il lavoro, la famiglia, ma anche la fede, l’attaccamento alla Madre, la Madonna del Fuoco.

Se guardiamo bene, nell’immagine venerata in questa chiesa, Maria porta in braccio Gesù Bambino, Via, Verità e Vita. In questa domenica celebriamo la 41.a Giornata nazionale per la vita. Come dalle mani della Madonna accogliamo Gesù Bambino, che è la Vita, così accogliamo, serviamo, promuoviamo la vita umana. Custodiamo la dimora della vita, che è la terra, come hanno fatto i braccianti forlivesi, che sono venuti in questa zona per  bonificarne il territorio. Per avere futuro, sia come comunità ecclesiale sia come comunità civile, siamo chiamati all’accoglienza di Gesù Cristo e della vita umana. Questa  va accolta in maniera aperta, prima e dopo la nascita, in ogni condizione e circostanza in cui essa è debole, minacciata e bisognosa dell’essenziale. La difesa di chi non è ancora nato deve essere chiara, ferma e appassionata, perché è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra. Lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo. Gesù Cristo, che si è fatto carne, uno di noi, ci aiuti a capire il valore immenso di ogni persona, che non è solo un essere umano, bensì anche figlio, figlia di Dio. La Giornata per la vita ci veda impegnati nell’accoglierla, nel promuoverla, convincendoci che il miglior ambiente del suo fiorire è la famiglia. Impegniamoci anche nel consolidare la scuola materna, luogo in cui la vita è coltivata con un’educazione completa, che irrobustisce la pianticella della fede.

Buona festa a tutti!

+ Mario Toso
vescovo

RICORDO DI PADRE DOMENICO GALLUZZI

13 GENNAIO 2019

«Egli ha dato se stesso per noi – spiega san Paolo – per formare per sé un popolo, che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone» (Tt 2, 11-14). Nella domenica in cui celebriamo il Battesimo di Gesù, che ci ricorda che lo stesso Gesù Cristo viene a battezzarci in Spirito santo e fuoco (cf Lc 3, 15-16.21-22) e fare di noi un popolo santo di sacerdoti nel Sommo Sacerdote, ricordiamo la meravigliosa figura di padre Domenico Galluzzi, fondatore di questo convento claustrale.

Padre Domenico è vissuto avendo come ideale supremo quello di vivere il Sacerdozio di Cristo per essere santo non solo per sé, ma per santificare, come è proprio di ogni vera santità, che è aperta al dono, al servizio dell’evangelizzazione: «Santifico me stesso, per santificare gli altri», soleva ripetere. In vista di ciò aspirava ad essere una cosa sola con il Signore Gesù per aiutare i suoi fratelli presbiteri, ma non solo, a divenire cristoconformi, ossia capaci di rendere la propria vita una cosa gradita, sacra a Dio, al pari di Cristo.

Attratti dalla sua vita esemplare, dalla quale traspariva il volto misericordioso del Salvatore, padre Galluzzi era ricercato da diversi fedeli, religiosi e religiose, seminaristi e sacerdoti come confessore, guida spirituale per l’accompagnamento nella crescita della fede. Egli era sempre disponibile ed aveva un particolare carisma nel plasmare gli animi, orientandoli a crescere secondo la pienezza di vita a cui tutti siamo chiamati in Cristo. Vivificato dallo Spirito del Signore, padre Domenico desiderava dedicarsi a generare nelle persone l’immedesimazione con Cristo. Se il Verbo incarnandosi ha consentito all’uomo di essere realmente figlio di Dio, figlio nel Figlio, il progetto pastorale di padre Galluzzi, domenicano, si focalizzava su una missione particolare: rendere i propri fratelli e sorelle figli e figlie amantissimi del Padre inabitanti nel Figlio. Soprattutto i presbiteri erano al centro della sua sollecitudine pastorale e della sua preghiera. Perché? Non potevano non essere santi coloro che, in forza del loro ministero, impersonano Cristo e sono a servizio del popolo di Dio. I preti devono essere coloro che aiutano i loro fedeli a divinizzarsi in Cristo. Come è possibile che chi non è pienamente nel Signore riesca a mettere maggiormente a contatto i credenti con Dio? Come può il sacerdote, che peraltro non è Colui che salva, far gustare e mostrare ai suoi fratelli quella «vita nuova» che Gesù è venuto a portare all’umanità se egli stesso non riesce a viverla intensamente, convintamente? Il sacerdote è più se stesso, e più autentico testimone, quando diventa una cosa sola con il Signore, ossia quando vive intimamente in Cristo, come figlio nel Figlio. Più in concreto, l’obiettivo dell’ansia pastorale di padre Domenico era quella di ripristinare o di ricomporre, qualora fosse stato necessario, il volto oscurato o frantumato di Cristo nella vita dei sacerdoti. Mirava a ricostruire nei presbiteri l’immagine di Cristo crocifisso, ossia quella figliolanza divina, che si dona totalmente al Padre e ai fratelli salendo sulla croce, vivendo la stessa passione sacerdotale del Signore. I presbiteri sono maggiormente utili alla Chiesa e ai fedeli quando sono sacerdoti santi, ossia quando sono pienamente cristificati; quando con il loro apostolato accendono nell’anima dei fedeli l’amore sacrificale di Cristo. Solo così si estende il Regno di Dio. Solo così si rende più vitale il corpo di Cristo. Come santa Teresa del Bambino Gesù, padre Domenico era convinto che  uno sforzo di santità, un atto di perdono e d’amore sono come una piccola goccia di sangue che arriva sino alla periferia della Chiesa e nel cuore dei sacerdoti missionari che soffrono e può aprire i cuori di tante persone che ancora non conoscono Gesù. Nello stesso tempo, era convinto che una mancanza d’amore, di pazienza e di santità può diventare un macigno che impedisce l’avvento del Regno di Dio, l’incarnazione di Cristo nei cuori, nelle famiglie, nelle leggi e nelle istituzioni.

Padre Domenico visse intensamente il suo sacerdozio perché la vita d’amore di Cristo, vita bella e sublime, scorresse copiosa e gloriosa, nelle vene del Corpo di Cristo, che è la Chiesa. Proprio per questo pensò e volle l’Ara crucis, quasi «pronto soccorso» ante litteram, anticipando per certi versi il Magistero di papa Francesco, che parla di Chiesa come «ospedale da campo» per l’umanità. Ecco da dove è nata l’Ara crucis, quale pronto soccorso specialmente per i presbiteri! Come possono essere i ministri di Dio un pronto soccorso più efficace per il popolo di Dio se essi stessi cadono sul campo e il loro spirito missionario si affievolisce?

Padre Galluzzi incoraggia le suore dell’Ara crucis così: «Care figliole, il “Pronto soccorso” è il primo che deve dare testimonianza di abnegazione, di sacrificio. Il primo che deve vivere la Quaresima per la Pasqua degli altri. Non si può pensare di appartenere al “Pronto soccorso” se non si ha un grande spirito di abnegazione.

Siate davvero un “Pronto soccorso” e così vivrete una serena, gioiosa, tranquilla Quaresima nello Spirito di Gesù Eterno Sacerdote e con lo stile dei suoi santi. Così, o care figliole, mentre spiritualmente piangete e vi affliggete perché vorreste arrivare da un capo all’altro col vostro spirito d’abnegazione, avrete la certezza di far contento, soddisfatto il Cuore del vostro Gesù Eterno Sacerdote in quanto Egli vede in voi Se stesso che ha fondato il “Pronto soccorso” accettando la volontà del Padre che Lo voleva sacrificato sull’altare della Croce».

La missione delle suore claustrali dell’Ara Crucis è chiamata a conformarsi, secondo padre Galluzzi, all’opera del Buon samaritano, Gesù.

La Chiesa, che è in Faenza-Modigliana, è grata a padre Domenico e a questo monastero da lui fortemente voluto. L’Ara crucis risplende in mezzo a noi come sole che riscalda e vivifica le giornate apostoliche dei credenti e dei sacerdoti. Un continuo palpito d’amore anima la vostra comunità, care sorelle! Riconosciamo in voi un’immagine viva della Comunità trinitaria che inonda il mondo di uno Spirito sempre nuovo: lo Spirito di Dio, Spirito del Padre e del Figlio, uniti in un eterno abbraccio d’Amore. Padre Domenico continui a benedirvi e a proteggervi dal cielo dei santi.

+ Mario Toso