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Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

Fratelli-tutti

La parabola del buon Samaritano è impiegata da papa Francesco quale strumento ermeneutico della realtà umana contemporanea, nella complessità di tutte le sue ombre e luci. Secondo il pontefice argentino, una tale parabola interpella chiunque, credente o non credente. Infatti, in essa ci si riferisce sia all’esperienza delle relazioni interpersonali su un piano precipuamente umano sia su un piano di fede. Per i credenti, la relazionalità è umana, ma anche più che umana. È relazionalità trascendente, avente una connotazione divina, ossia una relazionalità quale compete ai figli e alle figlie di Dio, a persone che sono viventi in Cristo. La parabola del buon Samaritano, come insegna la lettura che ne ha fatto nei secoli la Chiesa, e che papa Francesco ripropone nell’oggi, non solo illumina le relazioni tra gli esseri umani in quanto tali, ma anche consente di riconoscere in colui che aiuta il giudeo ferito, Cristo stesso. Incarnandosi si china sull’umanità ferita dal peccato e se ne prende cura salvandola, redimendola. Anche noi, al pari del buon samaritano, suggerisce il pontefice argentino, dobbiamo mostrare prossimità nei confronti delle persone o dei popoli feriti della terra.[1]

Dobbiamo, però, essere non solo buoni samaritani, ma anche quell’umanità che, assunta e vissuta da Cristo, propria dei figli nel Figlio, si fa «vicina» e si prende cura di chi è nel bisogno, con lo stesso amore di Gesù, indipendentemente da dove è nato e da dove viene. Il buon samaritano, fattosi prossimo del giudeo ferito, superando barriere culturali e storiche, per papa Francesco rappresenta sia l’umanità misericordiosa nei confronti dei più fragili sia lo stesso Gesù, Figlio di Dio, che si incarna per amore e viene in soccorso di ogni malcapitato, derubato e picchiato. In sostanza, siamo sollecitati da papa Francesco a superare la dimensione semplicemente umana dell’episodio del buon samaritano. Dobbiamo andare oltre, per coglierne la dimensione trascendente, sino a scorgere nel samaritano, come già accennato, Cristo stesso. Ciò è evidente ove, alla fine del secondo capitolo, il pontefice scrive: «Per i cristiani, le parole di Gesù hanno anche un’altra dimensione, trascendente. Implicano il riconoscere Cristo stesso in ogni fratello abbandonato o escluso (cfr Mt 25,40.45)».[2] Gesù va riconosciuto, dunque, sia come il buon samaritano che aiuta l’umanità ferita dal peccato redimendola, sia come il giudeo ferito, ovvero come ogni persona che è derubata e maltrattata, abbandonata sul ciglio della strada.

A questo punto diventa facile osservare che la parabola del buon samaritano nella FT mette a disposizione non solo delle categorie ermeneutiche terrene per interpretare la realtà, per individuare dei principi di riflessione e dei criteri di giudizio, per avere a disposizione una progettualità germinale in vista della costruzione di un mondo più fraterno, ma consente di comprendere come l’impegno dei credenti nella trasfigurazione delle relazioni e delle istituzioni trova categorie ermeneutiche trascendenti nella comunione con la vita stessa di Cristo, che è venuto per fare nuove tutte le cose, ricapitolandole in sé, mediante l’incarnazione, la morte e la risurrezione. Una tale comunione mette a disposizione le sue radici e le sue coordinate, la sua anima agapica e trasfigurante, derivanti dalla stessa esperienza originaria e primaria della comunità di fede, che fa memoria della salvezza integrale di Cristo e cammina nella storia, accogliendola, celebrandola, annunciandola, testimoniandola.

In ultima analisi, papa Francesco pensa che il segreto della capacità innovatrice dei credenti, che la loro capacità efficace nel servire i poveri e il bene comune, nella costruzione di un mondo nuovo, è da ricercare nella partecipazione ontologica e sacramentale alla vita dell’Uomo nuovo, alfa ed omega, cuore della storia umana, fonte di una vita aperta al dono e alla fraternità. Senza coltivare l’appartenenza alla comunità cristiana, senza una vita partecipata e condivisa nella comunione-comunità, che è la Chiesa, viene meno la capacità di rigenerare e di alimentare, mediante un amore agapico e fraterno, i nostri  molteplici «noi», quali la famiglia, la scuola, la società politica, la famiglia umana, le associazioni. La professionalità, richiesta a ogni persona, perde la sua anima spirituale ed etica. La realtà sociale smarrisce il suo paradigma di relazionalità nella comunione e nel dono reciproco.

In definitiva, la parabola del buon Samaritano che, nella costruzione di un mondo nuovo, induce a riflettere su un «prossimo» senza frontiere, su un amore fraterno universale, aperto a tutti, spalanca uno scenario teologico ed ecclesiologico, in cui per il credente emerge chiaramente che Gesù Cristo, mediante la sua Incarnazione, è comunicazione imprescindibile con una fraternità e una paternità trascendenti, che trova il suo rimando ultimo nelle missioni trinitarie e nel ruolo fontale del Padre che invia il Figlio affinché gli uomini siano tutti fratellifigli nel Figlio, uniti in un’unica famiglia e comunione, tra loro e con il Padre. Quando si comprenda e si viva tutto questo si viene preservati dalla frattura tra fede ed impegno, un virus pericoloso che oggi colpisce non pochi cristiani.

Sull’origine teologica e trinitaria della fraternità si avrà modo di ritornare più avanti.

Note

[1] Cf ib., 79.

[2] Ib., 85.

Il commento

1. Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

2. Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

3. Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

4. La civiltà dell’amore fraterno

5. La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

6. Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

7. A mo’ di conclusione: costruzione di un mondo nuovo mediante una politica samaritana

Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

Fratelli-tutti

Anche l’enciclica FT, in definitiva, viene strutturata secondo il metodo del discernimento che, specie dopo il Concilio Vaticano II, ha esplicitato nell’approccio al reale, nonché nella sua valutazione etica e nell’elaborazione di una nuova progettualità, una dimensione più che filosofica, chiaramente biblico-teologica, incarnata nei classici momenti del vederegiudicare agire. Il metodo del discernimento ha ricevuto dalle varie encicliche, ma soprattutto nella importante costituzione conciliare Gaudium et spes, molteplici riletture e diversi approfondimenti epistemologici. Basti anche solo pensare che nella Laudato si’, l’enciclica immediatamente precedente alla FT, ai tre momenti del vederegiudicare agire, papa Francesco ha aggiunto un quarto momento, quello del celebrare. A conferma che il metodo della Dottrina sociale della Chiesa non è riducibile a quello delle scienze descrittive o empiriche, pur rilevanti, perché corrisponde a un sapere sapienziale particolare, la cui formalità è propria della teologia morale sociale, inclusiva di una interdisciplinarità vissuta in contesto di transdisciplinarità. Il momento del celebrare, particolarmente sottolineato dalla Chiesa latinoamericana, sta ad indicare, in maniera più puntuale, un’ulteriore dimensione intrinseca al discernimento sociale della Dottrina sociale della Chiesa, ovvero una dimensione che ne evidenzia la stretta connessione di esercizio con il radicamento nel mistero dell’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, di cui si fa memoria specie nella celebrazione eucaristica.[1]

Come si dirà fra poco, lo stesso metodo del discernimento sociale è praticato da papa Francesco in una maniera che consente di evidenziarne, attraverso l’utilizzo della parabola del buon Samaritano, le radici cristologiche, eucaristiche, ecclesiologiche,[2] assieme a quelle antropologiche e morali. Prima, però, conviene fermarsi a considerare il momento del vedere, così come è attuato nell’enciclica. Esso è riscontrabile, in particolare, nel primo capitolo, ove il pontefice prende in analisi alcune tendenze del mondo attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale.

A fronte dell’anelito profondo dell’umanità alla fraternità vanno registrati anzitutto i segnidi un ritorno all’indietro, in Europa e in latinoamerica, a motivo del risorgere di nazionalismichiusi, esasperati, risentiti ed aggressivi.[3] Inoltre, si segnala il prevalere di un globalismo che impone un modello culturale unico, che favorisce i più forti, dissolve le identità delle regioni più deboli e povere, rendendole più vulnerabili e dipendenti.[4] Si nota anche la perdita del senso della storia, l’affermarsi di una libertà che pretende di costruire tutto a partire da zero. Restano in piedi unicamente il bisogno di consumare senza limiti e l’accentuarsi di un individualismo libertario.[5]

Le nuove forme di colonizzazione culturale, spiega papa Francesco, si nutrono della dissoluzione della coscienza storica, del pensiero critico, dell’impegno per la giustizia, dei processi di integrazione, a motivo dello svuotamento e della mistificazione dei grandi valori della verità, della libertà, dell’unità e della democrazia. La politica spesso non è più una discussione su progetti a lungo termine per lo sviluppo di tutti e del bene comune. È ridotta a produrre ricette effimere di marketing volte all’immediato, alla distruzione dell’altro, dei legami sociali. Non è a servizio della costruzione di molteplici «noi» che abitano la casa comune, semmai diviene funzionale ad una mentalità che considera le persone – povere, disabili, anziane, nasciture – non un valore primario, bensì un peso o, peggio, uno scarto. Ne è una riprova quanto è accaduto nei confronti degli anziani in alcuni luoghi, a causa del coronavirus. Posposti alle persone più giovani, sono stati crudelmente abbandonati alla morte, separati dai contatti e dagli affetti dei loro cari. L’insufficiente universalizzazione dei diritti umani aggrava il numero di quelle forme di ingiustizia che sono nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul mero profitto, che non esita a sfruttare le persone, in particolare le donne, aventi la stessa dignità e identici diritti degli uomini. Purtroppo, nonostante gli accordi internazionali, persiste il triste fenomeno della schiavitù che, anche con l’appoggio di reti criminali e delle moderne tecnologie, assoggetta milioni di persone, siano esse bambini, uomini e donne. Li si sequestra senza scrupoli, allo scopo di renderli schiavi del sesso o per vendere i loro organi.

Il progetto di una fraternità universale viene infranto da guerre, attentati, persecuzioni, per motivi razziali o religiosi. Si ripresentano paure ancestrali. Con le barriere di autodifesa si rafforza la tentazione di una cultura dei muri nei cuori, nelle varie regioni del mondo. Questo appare contrassegnato da: a) una globalizzazione mossa da un’etica deteriorata e priva di una rotta veramente umana, pervasa da una cultura di indifferenza e da un progresso tecnologico senza maggiore equità e inclusione sociale; b) una cultura digitale che sembra far perdere il gusto della fraternità, allontanando dalla realtà, dal senso di appartenenza e di solidarietà, rendendo prigionieri della virtualità;[6] c) regimi politici populisti e da posizioni economiche liberiste che contrastano un’integrazione controllata, graduale, rispettosa della dignità dei migranti e dei cittadini dei Paesi che li ospitano; d) una comunicazione digitale assoggettata da giganteschi interessi economici, capaci di realizzare forme di controllo tanto sottili quanto invasive, creando meccanismi di manipolazione delle coscienze e dei processi democratici, generatori di fanatismi, di movimenti di odio e di distruzione, di un’informazione senza saggezza, discriminatrice di ciò che non è conforme alla cultura dominante; e) tendenze alla omogeneizzazione del mondo, che livellano le identità, demoliscono l’autostima, creano una nuova cultura al servizio dei più potenti.

Dopo questa panoramica delle principali problematiche sfavorevoli allo sviluppo della fraternità universale, papa Francesco volge lo sguardo a ciò che nel mondo rappresenta dei germi di bene e dei segni di speranza. È a questo punto che il pontefice dedica il secondo capitolo alla parabola del buon Samaritano, narrata da Gesù Cristo. Egli la propone come una sorta di griglia di letturadella questione sociale contemporanea. In tal modo, ripropone ed illustra il tipo di lettura e di valutazione della realtà che il discernimento della Dottrina sociale della Chiesa è chiamata a compiere, giungendo ad indicare orientamenti pratici per la soluzione dei principali problemi odierni. Non si tratta, come già accennato, di una analisi e di una valutazione meramente sociologiche, empiriche o filosofiche, bensì di tipo biblico-teologico, che avvengono alla luce della Parola di Dio e della fede. Il rifarsi all’esempio del buon Samaritano fa parte dello stile pastorale di papa Francesco, che rifugge dal fare discorsi teorico-astratti, ma preferisce la concretezza dell’esperienza. E, quindi, per dire e dimostrare che cosa è e come si realizza la fraternità universale, sceglie di farlo ricordando l’insegnamento che deriva dalla parabola del buon Samaritano.[7]

Note

[1] Cf su questo M. Toso, Ecologia integrale dopo il coronavirus, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2020, pp. 23-26.

[2] Con riferimento alle dimensioni teologiche, ecclesiologiche e pastorali del discernimento sociale è rilevante l’approfondimento di papa Benedetto XVI. A questo proposito si legga M. TOSO, Il realismo dell’amore di Cristo. La «Caritas in veritate»: prospettive pastorali e impegno del laicato, Edizioni Studium, Roma 2010, specie 9-58.

[3] Cf FT10-11.

[4] Cf ib., 12.

[5] Cf ib., 13.

[6] Cf ib., 43.

[7] Cf B. Sorge,Perché l’Europa ci salverà. Dialoghi al tempo della pandemia con Chiara Tintori, Edizioni Terra Santa, Milano 2020,  p. 116.

Il commento

1. Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

2. Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

3. Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

4. La civiltà dell’amore fraterno

5. La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

6. Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

7. A mo’ di conclusione: costruzione di un mondo nuovo mediante una politica samaritana

Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

Fratelli-tutti

È importante sottolineare, sin dall’inizio, sia l’obiettivo che persegue il pontefice argentino sia la modalità. Per quanto concerne il primo, egli afferma che intende raccogliere in un’enciclica i molti interventi fatti relativamente alle questioni legate alla fraternità e all’amicizia, ponendoli e sviluppandoli «in un contesto più ampio di riflessione», in un tutto coeso, quasi tasselli di un unico grande mosaico.[1] In effetti, la nuova enciclica rappresenta un testo ove sono esposti organicamente vari pronunciamenti fatti durante il pontificato del papa argentino. Sembra che Francesco intenda offrire un compendio delle sue scelte pastorali per farci capire meglio la sua linea. In tal modo, vengono ripresi i discorsi e le affermazioni attinenti, ad esempio, alla cultura dell’indifferenza e dello scarto, all’ecologia integrale, alle migrazioni, ai rifugiati, alla guerra,[2] alla pena di morte,[3] alla crisi della democrazia rappresentativa e partecipativa, ai populismi, ai sovranismi,[4] ai liberismi,[5] all’urgenza della riforma della finanza e delle istituzioni internazionali, ai movimenti popolari, al dialogo pubblico e interreligioso, tanto per citare i principali problemi ospitati nella FT. E così, il pontefice riconferma l’intrinseco valore etico e la rilevanza magisteriale di alcune sue prese di posizione su alcune questioni cruciali come, ad esempio, la guerra e la pena di morte.[6] Nello stesso tempo intende sottolineare la loro valenza universale, cosa meno evidente quando sono state espresse legandole a questa o a quella contingenza, a questo o a quell’incontro o viaggio. Un conto è se una affermazione è fatta durante un’udienza del mercoledì, un’altra cosa è se la stessa affermazione entra a far parte di un’enciclica, indirizzata a tutti i vescovi, alla cristianità e  a tutti gli uomini del mondo intero. Un’enciclica possiede una valenza magisteriale superiore ad un’omelia o ad un discorso rivolto ad una categoria particolare di professionisti, come le ostetriche, i medici o a un gruppo di imprenditori o di politici.

Per quanto concerne la modalità del suo insegnamento contenuto nell’enciclica, indirizzata anche, come accennato, alle persone non credenti e di buona volontà, papa Francesco afferma esplicitamente: «Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà».[7] Si tratta di una sottolineatura importante, specie per i credenti, che sono chiamati ad accogliere la FT, ad approfondirla, a celebrarla, ad annunciarla e a testimoniarla nel mondo. Se si parla della fraternità dialogando con le persone che non sono credenti, ma esprimono buona volontà nell’impegno del bene, non vuol dire che si debba dimenticare la propria identità, la peculiarità della propria cultura. La propria fede cristiana non impedisce di intavolare un discorso razionale, ossia un dialogo sulla base della ragione umana. La fede del credente è sempre la fede di una persona razionale, e quindi capace di comunicare e di argomentare razionalmente, come sono in grado di fare tutti gli uomini. In chi crede la ragione non viene meno. Anzi, viene rafforzata, purificata, migliorata nel suo funzionamento dalla Rivelazione. In definitiva, il credente che intende veicolare le encicliche nel dialogo pubblico, nell’incontro con culture diverse dalla propria, non ricava nessun vantaggio dal mettere tra parentesi o dal dimenticare la propria fede cristiana, i contenuti di fede. Metterebbe, piuttosto, a rischio l’efficacia della sua «comunicazione razionale». Non solo. Prescindere dalla radici teologiche delle encicliche significherebbe togliere a esse le ragioni della loro specificità e della loro novità culturale e sociale. Equivarrebbe a perdere, di fatto, quel principio antropologico ed etico trascendente caratterizzante la cultura cattolica e che è dato dall’Incarnazione di Cristo nell’umanità e nella storia. Senza una tale specificità l’incontro culturale con gli altri sarebbe più povero, meno franco ed  arricchente. Più volte papa Francesco nella FT ripete che il dialogo è fecondo se ognuno mantiene la ricchezza della propria cultura e della propria identità, rimanendo però tutti aperti alla verità.[8] La specificità del messaggio cristiano, dovuta alla «divinizzazione» delle persone, non impoverisce e non ostacola il dialogo, la fioritura dell’umano, della ragione, bensì li sostiene e li promuove. E questo perché  in Cristo viene svelato pienamente l’uomo all’uomo. La Chiesa, posta sul fondamento del Figlio di Dio, Uomo-Dio, possiede in proprio una visione globale dell’uomo e dell’umanità. La carità non esclude il sapere, anzi lo richiede, lo promuove e lo anima dall’interno. Il sapere non è mai solo opera dell’intelligenza umana. Il sapere-sapienza è integrato dall’amore pieno di verità, dalla Rivelazione.[9]

Nel capitolo ottavo, papa Francesco esprime in maniera efficace le sue convinzioni sull’importanza dell’identità cristiana, del Vangelo di Gesù Cristo, quanto alla comunicazione del pensiero sociale, quanto al dialogo con gli uomini di buona volontà, con coloro che professano un’altra fede. Ecco le sue parole, che meritano di essere riportate per esteso: «La Chiesa apprezza l’azione di Dio nelle altre religioni, e “nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che […] non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”. Tuttavia come cristiani non possiamo nascondere che “se la musica del Vangelo smette di vibrare nelle nostre viscere, avremo perso la gioia che scaturisce dalla compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati. Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna”. Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo. Da esso “scaturisce per il pensiero cristiano e per l’azione della Chiesa il primato dato alla relazione, all’incontro con il mistero sacro dell’altro, alla comunione universale con l’umanità intera come vocazione di tutti”».[10]

Note

[1] Cf ib., 5.

[2] La guerra non è un fantasma, bensì una minaccia costante. Viviamo, infatti, in una condizione di «terza guerra mondiale a pezzi», perché i conflitti non sono finiti, ma si moltiplicano. La guerra è negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente, rammenta papa Francesco (cf FT 257). Trattando di un tema delicato e complesso, il pontefice non poteva non affrontare la posizione del Catechismo della Chiesa Cattolica, ove è contemplata la possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, purché si osservino alcune rigorose condizioni di legittimità morale. Rispetto a ciò Francesco osserva che le guerre contemporanee si appellano facilmente al diritto di legittima difesa, cadendo facilmente in un’interpretazione troppo larga dello stesso diritto. Perché? Si dà, infatti, il caso che con lo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, si concede «alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti». In verità, «mai l’umanità ha avuto tanto potere su se stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene». «Dunque – ecco la conclusione del pontefice – non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!» (FT 258).

[3] Sulla pena di morte papa Francesco riprende il pensiero di Giovanni Paolo II, il quale nella sua enciclica Evangelium Vitae ha affermato in maniera chiara che essa è inadeguata sul piano morale e non è più necessaria sul piano penale. Rifacendosi anche ad autori come Lattanzio, Papa Nicola I o sant’Agostino, che sin dai primi secoli della Chiesa si mostravano contrari a tale pena, afferma con chiarezza che «la pena di morte è inammissibile» (FT 263).

[4] Per passare dalla globalizzazione dell’indifferenza alla globalizzazione della fraternità, occorre sconfiggere l’individualismo, da cui nascono il populismo e il sovranismo. Per papa Francesco, il populismo è pericoloso perché finisce, al lato pratico, per cancellare la nozione stessa di popolo e quindi per mettere in discussione la democrazia. Nei populismi di fatto non esiste il popolo, esistono il leader e la massa. Non a caso, il populismo viene anche definito come quell’atteggiamento culturale e politico che mentre da una parte esalta genericamente il popolo, dall’altra parte nutre un forte sospetto nei confronti della democrazia rappresentativa. Al momento delle votazioni si ricerca il consenso della gente. E, tuttavia, una volta giunti nella camera dei bottoni i problemi della gente sono disattesi dagli eletti. Il sovranismo non risponde alla realtà, in quanto la sovranità degli Stati, in un contesto di globalizzazione, è erosa di per sé. Si assiste, infatti a una perdita del potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economica finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica (cf FT 172). L’espressione «popolo» come anche la sovranità del popolo sono spesso evocate per giustificare le proprie scelte anche se queste, in ultima analisi, non corrispondono alle vere istanze della gente, bensì agli umori temporanei che assicurano «legittimazione» ai leader più capaci di manipolazione dell’opinione pubblica (cf FT 159). Essi dicono di agire per conto e nell’interesse del popolo ma, in fin dei conti, ascoltano solo alcuni cittadini selezionati e bypassano i rappresentanti dei corpi intermedi.

[5] Nell’enciclica FT, Francesco critica il neoliberismo e le politiche neoliberiste. Molti confondono il liberalismo, che è una particolare filosofia politica, con il liberismo, che invece è una teoria economica. Si può essere liberali, ma non liberisti. Il Papa sa bene la differenza tra liberalismo e liberismo, per questo critica il neoliberismo – come aveva già fatto nell’Evangelii gaudium – perché basato sulle teorie della “ricaduta favorevole”. Queste presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggior equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante (cf Evangelii Gaudium 54). Su questo si legga anche M. Toso, Il Vangelo della Gioia. Implicazioni pastorali, pedagogiche e progettuali per l’impegno sociale e politico dei cattolici, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2014, pp. 30-36.

[6] Cf FT 255-270.

[7] Ib., 6.

[8] Cf ad es. FT 199-203. «Alcuni – scrive papa Francesco – provano a fuggire dalla realtà rifugiandosi in mondi privati, e altri la affrontano con violenza distruttiva, ma “tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre possibile: il dialogo. Il dialogo tra le generazioni, il dialogo nel popolo, perché tutti siamo popolo, la capacità di dare e ricevere, rimanendo aperti alla verità. Un Paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media”» (FT 199). «L’autentico dialogo sociale – afferma il pontefice argentino qualche paragrafo dopo – presuppone la capacità di rispettare il punto di vista dell’altro, accettando la possibilità che contenga delle convinzioni o degli interessi legittimi. A partire dalla sua identità, l’altro ha qualcosa da dare ed è auspicabile che approfondisca ed esponga la sua posizione perché il dibattito pubblico sia ancora più completo. È vero che quando una persona o un gruppo è coerente con quello che pensa, aderisce saldamente a valori e convinzioni, e sviluppa un pensiero, ciò in un modo o nell’altro andrà a beneficio della società. Ma questo avviene effettivamente solo nella misura in cui tale sviluppo si realizza nel dialogo e nell’apertura agli altri. Infatti, “in un vero spirito di dialogo si alimenta la capacità di comprendere il significato di ciò che l’altro dice e fa, pur non potendo assumerlo come una propria convinzione. Così diventa possibile essere sinceri, non dissimulare ciò in cui crediamo, senza smettere di dialogare, di cercare punti di contatto, e soprattutto di lavorare e impegnarsi insieme”. La discussione pubblica, se veramente dà spazio a tutti e non manipola né nasconde l’informazione, è uno stimolo costante che permette di raggiungere più adeguatamente la verità, o almeno di esprimerla meglio. Impedisce che i vari settori si posizionino comodi e autosufficienti nel loro modo di vedere le cose e nei loro interessi limitati. Pensiamo che “le differenze sono creative, creano tensione e nella risoluzione di una tensione consiste il progresso dell’umanità”» (FT 203).

[9] Cf Benedetto xvi, Caritas in veritate (=CIV), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, 19.

[10] FT 277.

Il commento

1. Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

2. Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

3. Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

4. La civiltà dell’amore fraterno

5. La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

6. Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

7. A mo’ di conclusione: costruzione di un mondo nuovo mediante una politica samaritana

Preghiera ecumenica in comunione da casa propria

Venerdì 30 ottobre, secondo lo spirito di Taizé

Venerdì 30 ottobre ci sarebbe stata la veglia di preghiera ecumenica secondo lo spirito della comunità di Taizé alle 20.45 nella chiesa di Pieve Thò a Brisighella. Vista l’attuale situazione della pandemia Covid19, si invita ciascuno a pregare da casa propria nella stessa sera e allo stesso orario; il sussidio di preghiera può essere scaricato dalla pagina Facebook TaizeFaenza (formato jpg),oppure da questo link (formato PDF).


Van Thuan: libero tra le sbarre, video integrale dell’evento del 15 ottobre

van thuan toso

Un incontro pubblico che ha permesso di conoscere meglio la vita del cardinale vietnamita François-Xavier Van Thuan: un testimone della speranza, creativo dell’evangelizzazione e che, nel corso di una vita nella quale la luce ha sempre vinto le tenebre, ci indica la via – attraverso la Croce che costruì e pregò durante i 13 anni di prigionia – dalla quale ripartire non solo come singoli, ma come comunità.

La figura del cardinale è stata raccontata in Duomo, giovedì 15 ottobre, nella serata “Van Thuan, libero tra le sbarre” attraverso testimonianze di persone che direttamente, o indirettamente, l’hanno conosciuto e la presentazione del libro a cura di Teresa Gutiérrez de Cabiedes.
L’evento, organizzato da Comunione e Liberazione, ha visto intervenire il vescovo mons. Mario Toso; il dott. Waldery Hilgemman e la dott.ssa Dama Luisa Melo, rispettivamente postulatore e incaricata amministratrice della Causa di Beatificazione. A moderare l’incontro il giornalista Elio Pezzi.

Video


Due nuovi diaconi: il 25 ottobre l’ordinazione di Emanuele Casadio e Michel Arséne Bom

Domenica 25 ottobre la Diocesi di Faenza-Modigliana annuncia con gioia che alle ore 16, alla chiesa cattedrale di Faenza, saranno ordinati diaconi Emanuele Casadio e Michel Arséne Bom, attraverso l’imposizione delle mani e la preghiera consacratoria di S.E. Mons. Mario Toso, vescovo.

La cerimonia si svolgerà nel rispetto delle normative anti-Covid vigenti e sarà trasmessa in diretta sul canale YouTube ‘Sinodo dei giovani – Faenza’


Partono le lezioni alla scuola diocesana di teologia

Un servizio per la formazione dei laici, nelle due sedi di Faenza e Bagnacavallo

Martedì 20 ottobre riprendono le lezioni della scuola diocesana di formazione teologica S. Pier Damiani. Quest’anno viene attivato il corso base nelle sedi di Faenza e di Bagnacavallo, e il primo anno del ciclo triennale nella sede di Faenza. La scuola si occupa anche della formazione teologica dei ministri della comunione.

L’iscrizione viene fatta esclusivamente online attraverso l’indirizzo email scuolateologiafaenza@gmail.com. Nel rispetto delle normative per il contenimento del Covid19, per la frequenza è necessario indossare la mascherina.

Scarica la brochure dell’anno accademico 2020-21.

Messa di inizio anno scolastico: per chi abita la scuola tutti i giorni

La celebrazione sarà lunedì 12 ottobre nel cortile del monastero S. Umiltà

La pastorale scolastica diocesana invita a partecipare alla Messa di inizio anno scolastico, aperta a tutti coloro che abitano la scuola ogni giorno. La celebrazione, presieduta dal vicario generale mons. Michele Morandi, sarà all’aperto nel cortile del monastero S. Umiltà (via Bondiolo 34, Faenza). Per informazioni ci si può rivolgere all’incaricata prof.ssa Silvia Nannini (335 6323 267).


Van Thuan, libero tra le sbarre: in Duomo il 15 ottobre una serata di approfondimento

Giovedì 15 ottobre serata organizzata da Comunione e Liberazione

Un libro e un incontro pubblico per conoscere meglio la vita del Cardinale vietnamita Van Thuan, vissuto per anni in condizioni di prigionia e che rappresenta per noi un esempio di come sia possibile vivere intensamente da uomini liberi in qualunque circostanza. La figura del Cardinale verrà raccontata nella Basilica Cattedrale di Faenza giovedì 15 ottobre alle ore 21 nel corso della serata “Van Thuan, libero tra le sbarre” attraverso il dialogo con alcune persone che lo hanno conosciuto direttamente e la presentazione di un libro a cura di Teresa Gutiérrez de Cabiedes

I relatori

Durante la serata, organizzata da Comunione e Liberazione, interverranno: S. E. Mons. Mario Toso, vescovo di Faenza-Modigliana; il dott. cav. Waldery Hilgemman, Postulatore della Causa di Beatificazione; la dott.ssa Dama Luisa Melo, incaricata e amministratrice della Causa di Beatificazione. Modera l’incontro il giornalista Elio Pezzi. Al fine di poter garantire il rispetto delle norme Covid vigenti, per accedere all’incontro sarà obbligatorio indossare la mascherina. Potrà essere rilevata la temperatura corporea.

Van Thuan: dopo 13 anni in prigione, la liberazione nel 1988

François-Xavier Nguyễn Văn Thuận (Huế, 17 aprile 1928 – Roma, 16 settembre 2002) è stato un cardinale e arcivescovo cattolico vietnamita. È venerabile della Chiesa cattolica. Nominato vescovo di Nha Trang il 13 aprile 1967, nel 1975 fu nominato arcivescovo coadiutore di Saigon; due giorni dopo fu arrestato dalla polizia. Trascorse 13 anni in prigione, di cui nove in isolamento. Venne liberato il 21 novembre 1988, giorno nel quale la Chiesa cattolica celebra la festa della Presentazione al Tempio della Beata Vergine Maria; proprio per questa coincidenza di data disse: «La Madonna mi libera».

Nel 1998 papa Giovanni Paolo II lo nominò presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Fu incaricato, sempre da Giovanni Paolo II, di tenere gli esercizi spirituali per la quaresima del 2000 per tutta la curia romana. Papa Giovanni Paolo II lo elevò al rango di cardinale nel concistoro del 21 febbraio 2001. Morì alle 6 del 16 settembre 2002 all’età di 74 anni. In tale occasione papa Giovanni Paolo II ne scrisse: «Lascia il ricordo indelebile di una vita spesa nell’adesione coerente ed eroica alla propria vocazione».