Archivi della categoria: Ultime dalla diocesi

Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

Fratelli-tutti

Come si è detto, rispetto all’impegno culturale e civile richiesto dalla realizzazione di un mondo aperto a tutti, papa Francesco non rinuncia a segnalare la peculiarità dell’apporto dato dalla fede e dal cristianesimo. È perfettamente cosciente degli ostacoli che, sul piano della ragione, delle remore psicologiche, delle fragilità morali e dei pregiudizi ideologici − talora ingigantiti dai mezzi di comunicazione odierni −, impediscono l’affermarsi dell’amore fraterno nelle relazioni interpersonali e nelle comunità. Proprio per questo, già nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2014 (=MGMP 2014) si domandava: «Gli uomini e le donne di questo mondo potranno mai corrispondere pienamente all’anelito di fraternità, impresso in loro da Dio Padre? Riusciranno con le loro sole forze a vincere l’indifferenza, l’egoismo e l’odio, ad accettare le legittime differenze che caratterizzano fratelli e sorelle?».[1]

A tali quesiti rispose indirettamente, invitando anzitutto a superare quello scetticismo antropologico ed etico a cui condanna unaragione di tipo illuminista, che − come aveva già segnalato nell’enciclica Lumen fidei [=LF] −, per la sua chiusura alla Trascendenza impedisce di vivere intensamente l’esperienza della paternità di Dio e, quindi, una chiara e gioiosa percezione della fraternità.[2] La fraternità, priva del riferimento alla Trascendenza, purtroppo non riesce a sussistere. Quando, come nel caso della cultura illuminista, in forza di una ragione sostanzialmente autarchica e non teonoma, Dio è considerato una presenza rarefatta e lontana dalle persone e dai loro problemi concreti, è inevitabile che la proclamazione della fraternità cada nel vuoto. Il trinomio nato con la rivoluzione francese – liberté, fraternité, égalité – ha gradualmente perso la sua forza evocativa e civilizzatrice, proprio a causa dell’inadeguatezza del suo fondamento teologico, antropologico ed etico. La ragione illuminista, che lo ha enucleato, è stata anche il tarlo che lo ha eroso, svuotandolo dall’interno. Le società e le persone, che emarginano Dio e non lo riconoscono vivente in mezzo a loro, difficilmente riescono a percepirsi e a vivere come figlie figlie di uno stesso Padre.[3] Anziché credere in una fraternità trascendente ripiegano, al più, su una fratellanza immanente. Fraternità non ha lo stesso senso di fratellanza, che è relativa ad un concetto immanente e dice appartenenza delle persone alla stessa specie o ad una data comunità di destino. La fraternità è un concetto che pone il suo fondamento nel riconoscimento della comune paternità di Dio. La fratellanza unisce gli amici, ma li separa dai non amici; rende soci (socio è «colui che è associato per determinati interessi»),[4] e quindi chiude gli uniti nei confronti degli altri. La fraternità, invece, proprio in quanto viene dall’alto, dalla paternità di Dio, è universale e crea fratelli, e dunque tende a cancellare i confini naturali e storici che separano persone e popoli. Non crea soci, gruppi sociali, che si aggrappano a un’identità che li separa dagli altri. Crea, invece dei «noi», delle identità comunitarie aperte agli altri.

Al pari della cultura illuminista, le etiche contemporanee proprie del neocontrattualismo, del neoutilitarismo e delle varie teorie dialogiche appaiono incapaci di produrre saldi vincoli di fraternità tra le persone. Non basta proporre la fraternità come un imperativo categorico astratto; non è sufficiente dire che si deve essere fratelli, senza spiegare perché si è chiamati ad esserlo ed agire di conseguenza.Se il cuore non si riscalda e non vive nell’empatia, non prova tenerezza per l’altro. Occorre spiegare perché siamo fratelli e sorelle e, quindi, perché dobbiamo comportarci come persone che appartengono ad una stessa famiglia e si accolgono nel dono reciproco di sé, prendendosi carico l’uno dell’altro. Così, non è ultimamente decisivo e dirimente proporre la fraternità come un bene-valore, fondato sul mero consenso sociale. Un simile fondamento, prettamente sociologico, è incapace di produrre nella volontà delle persone una vera e stabile cogenza morale.

In vista di un’esperienza autentica della nostra apertura profonda alla Trascendenza,  è fondamentale il recupero di una ragione integrale, capace di attingere la stessa dimensione metafisica dell’esistere, nonché di cogliere la tensione morale ad una pienezza umana connotata dalla fraternità. Un conto è percepirsi fratelli e sorelle, perché figli e figlie di uno stesso Padre, che è all’origine di tutti ed è anche il fine comune. Un altro conto è vivere tra persone che si riconoscono, sì, somiglianti in umanità, ma che non condividono la percezione e l’esperienza di un’unica paternità, dell’appartenenza ad una medesima famiglia connotata da uno stesso destino trascendente. Una cosa è la fraternità fondata su una figliolanza divina, che supera il legame umano rinsaldandolo. Un’altra cosa è la fraternità, poggiante solo su un vincolo di genere meramente temporale e terreno. In una prospettiva cristiana, le ragioni del rispetto e dell’amore vicendevole sono più forti e più alte. Sono ragioni che, se accolte, confutano ogni tentativo di ridicolizzare il messaggio cristiano sulla fraternità, considerandola una mera illusione o un sentimento naïf, proprio delle persone deboli, senza muscoli.

In secondo luogo, papa Francesco indica chiaramente che, per ogni uomo e per ogni società, l’accesso all’esperienza della paternità di Dio, e per conseguenza della fraternità, è facilitato dall’accoglienza di Gesù Cristo, il nuovo Adamo riconciliato con Dio, che redime ogni uomo nella sua integrità, ivi compresa la ragione, le cui facoltà vengono ampliate. La fraternità ha un fondamento paterno[5]e una rivelazione cristica. Proprio qui si può cogliere il nesso imprescindibile tra il principio della fraternità e l’impegno di una nuova evangelizzazione, della quale papa Francesco ha parlato nell’esortazione Evangelii gaudium, volta a favorire o a rinnovare l’incontro personale con Gesù Cristo. Mediante la sua incarnazione, morte e risurrezione, il Signore Gesù semina nella storia e nei cuori l’anelito ad un’umanità più fraterna, perché in piena comunione con Dio e, pertanto, più capace di riconoscere e vivere la fraternità con i propri simili e con il creato, anche se su un piano diverso. Il Cristo è lo «spazio» personale della riconciliazione dell’uomo con Dio e dei fratelli tra di loro. In Lui, l’altro viene accolto e amato come figlio e figlia di Dio, come fratello e sorella. Non può essere considerato come un estraneo, tantomeno come un antagonista o addirittura un nemico. Nella famiglia di Dio, ove tutti sono figli di uno stesso Padre e figli nel Figlio, perché innestati in Cristo, non possono esserci persone inutili, «vite di scarto». Tutti godono di un’eguale ed intangibile dignità. Tutti sono amati da Dio, tutti sono stati riscattati dal sangue di Colui che è morto in croce per ogni uomo, indistintamente. È questa la ragione per cui non si può rimanere indifferenti davanti alla sorte dei fratelli.

Cristo costituisce, dunque, il principio del compimento pieno della fraternità. Egli ne è l’universale concreto, non un’astrazione o un anelito velleitario. Dimorando in Cristo, vivendo Lui, è possibile, da parte di tutti, l’esperienza sia di una Paternità trascendente, sia della fraternità in tutto il suo spessore metafisico  e nel suo amore riboccante di sovrannaturale carità.[6] Cristo, «globalizzato» nel mondo, rappresenta la causa prima della fraternità universale, che non pone steccati a chi appartiene a un altro popolo, a un’altra razza, a un’altra fede. La fraternità, che Cristo innerva e stabilizza nell’umanità mediante il suo Spirito, accresce la responsabilità di ogni uomo e donna verso ogni altro. Mette tutti in marcia. Sospinge all’incontro, specie di coloro che, pur facendo parte della nostra stessa famiglia umana, non dispongono dei beni sufficienti per una vita dignitosa come uomini e come figli di Dio.

Qui risiede la novità dell’apporto del cristianesimo in seno all’odierna cultura secolarista ed immanentista, incline ad un umanesimo antropocentrico, che non percepisce la paternità di Dio e, con ciò stesso, genera orfani che vivono in un’estraneità reciproca.

Note

[1] Francesco, Messaggio per la Giornata mondiale della pace (1° gennaio 2014): Fraternità, fondamento e via per la pace, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, n. 3. Su questo Messaggio, che non è solo un testo di occasione, ma rappresenta quasi una carta costituzionaleche sta alla base della vita ecclesiale, della pastorale, della riflessione teologica, antropologica ed etica, della pedagogia, si veda il commento di M. TOSO, Il Vangelo della fraternità, Lateran University Press, Città del Vaticano 2014.

[2] Cf FT 54.

[3] Sul perché di un’eclissi della fraternità e, conseguentemente, della libertà e dell’uguaglianza si legga anche: R. Pezzimenti, Fraternità: il perché di una eclissi, in A. M. Baggio (a cura di), Il principio dimenticato. La fraternità nella riflessione politologica contemporanea, Città Nuova Editrice, Roma 2007, pp. 57- 77.

[4] Cf FT 102.

[5] La conferma viene dalla parabola del Padre misericordioso (Lc 15, 11-32). È la parabola delle due conversioni: quella del servo e quella del figlio; quella pensata dal figlio più giovane e quella pensata dal padre misericordioso; quella che accetta di essere servo pur essendo figlio nella casa del Padre e quella che in questa casa vuole solo figli; quella che ha come protagonista il figlio più giovane, ed è un ritorno, e quella che ha come protagonista il padre, ed è un ribaltamento, un cambio radicale del criterio della conversione; quella che il figlio più giovane non riusciva ad immaginare eppure corrispondeva alla sua attesa più profonda e quella che il padre dona con larghezza di cuore. Non ha veramente senso quindi discutere per un capretto in più o in meno, di fronte all’offerta di una completa e reale condivisione, se cioè «tutto ciò che è mio è tuo». Questa condivisione è tale nel mistero pasquale.

[6] Cf Paolo VI, Ogni uomo è mio fratello (01.01.1971), in Messaggi di pace di Paolo VI e Giovanni Paolo II per le Giornate Mondiali della Pace, Edizioni Paoline, Milano 1986, n. 4.

Il commento

1. Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

2. Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

3. Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

4. La civiltà dell’amore fraterno

5. La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

6. Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

7. A mo’ di conclusione: costruzione di un mondo nuovo mediante una politica samaritana

La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

Fratelli-tutti

Papa Francesco, sulle orme di papa Benedetto XVI,[1] riconosce che la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini, ma non riesce a fondare la fraternità.[2] Senza un’apertura trascendente al Padre di tutti non ci possono essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. È la fedeche ci consente l’accesso alla conoscenza e alla realtà della paternità di Dio e della fraternità trascendente. Dio, mediante Maria, ci dona suo Figlio, il Verbo che si fa carne.Così, Maria è la madre della nostra fraternità, sia dal momento del suo all’invito dell’Angelo ad essere Madre di Dio, sia allorché ricevette sotto la Croce una maternità universale (cf Gv 19,26). Noi siamo chiamati ad accogliere Gesù Cristo come Colui nel quale siamo e viviamo figli nel Figlio, ossia come umanità fraterna. Vivendo in Gesù Cristo – che è lo «spazio», l’«ambiente» di una vita nuova – sperimentiamo sia una Paternità trascendente sia una fraternità universale, in tutto il loro spessore metafisico e il loro traboccante amore che viene dalla Trinità. Incarnandosi, Gesù Cristo innesta e stabilizza nella nostra umanità il principio divino dell’amore trinitario, un amore trascendente, che accresce la consapevolezza della paternità di Dio e la responsabilità fraterna di ogni uomo e di ogni donna nei confronti di tutti gli altri.

Come ha spiegato Benedetto XVI nella CIV, la fraternità trova la sua origine e, quindi, la sua fondazione più che razionale, a partire «da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna».[3] L’unità nella carità del Cristo, che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, ci rivela sia  che Egli è Padre di tutti gli uomini, sia che è all’origine dell’unità del genere umano. In Cristo, vivendo Lui, siamo chiamati alla realizzazione di un’autentica fraternità.[4] «La comunità degli uominipuò essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna – scrive Benedetto XVI – né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente universale: l’unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore».[5]

Se si confrontano la CIV di Benedetto XVI con la FT di papa Francesco si può rilevare facilmente come il pontefice tedesco abbia precorsol’attuale successore di Pietro. Nella CIV si afferma chiaramente che è la carità a spingerci alla realizzazione di un’autentica fraternità. Questa va vissuta anche all’interno della attività economica e non soltanto fuori di essa o «dopo» di essa. La sfera economica, sottolinea papa Benedetto XVI, non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Poiché appartenente all’attività dell’uomo e, quindi, perché è umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente, fraternamente. Facendo leva su un’antropologia relazionale, a impronta trinitaria, il pontefice giunge a proporre, sia a livello di pensiero sia a livello di prassi, un’economia con rapporti mercantili tutt’altro che alieni dai principi dell’etica sociale (trasparenza, onestà, responsabilità), della gratuità, dalla logica del dono, espressioni della fraternità.[6] Non è velleitario pensare, afferma Benedetto XVI, che nel mercato si aprano spazi per attività economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico. Essendo espressione delle persone, soggetti connotati dalla fraternità, la vita economica nazionale o globalizzata ha sicuramente bisogno del contratto, di leggi giuste e di forme di ridistribuzione guidate dalla politica, ma anche di opere che recano impresso lo spirito del dono. Sulle orme di Giovanni Paolo II che già aveva sottolineato come la vita economica nei suoi vari soggetti – mercato, Stato, società civile – si caratterizza anche per essere un’economia della gratuitàe della fratellanza, Benedetto XVI giunge ad affermare: «Oggi possiamo dire che la vita economica deve essere compresa come una realtà a più dimensioni: in tutte, in diversa misura e con modalità specifiche, deve essere presente l’aspetto della reciprocità fraterna. Nell’epoca della globalizzazione, l’attività economica non può prescindere dalla gratuità, che dissemina e alimenta la solidarietà e la responsabilità per la giustizia e il bene comune nei suoi vari soggetti e attori. Si tratta, in definitiva, di una forma concreta e profonda di democrazia economica. La solidarietà è anzitutto sentirsi tutti responsabili di tutti, quindi non può essere delegata solo allo Stato. Mentre ieri si poteva ritenere che prima bisognasse perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse dopo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia. Serve, pertanto, un mercato nel quale possano liberamente operare, in condizioni di pari opportunità, imprese che perseguono fini istituzionali diversi. Accanto all’impresa privata orientata al profitto, e ai vari tipi di impresa pubblica, devono potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici e sociali. È dal loro reciproco confronto sul mercato che ci si può attendere una sorta di ibridazione dei comportamenti d’impresa e dunque un’attenzione sensibile alla civilizzazione dell’economia. Carità nella verità, in questo caso, significa che bisogna dare forma e organizzazione a quelle iniziative economiche che, pur senza negare il profitto, intendono andare oltre la logica dello scambio degli equivalenti e del profitto fine a se stesso».[7]

In definitiva, secondo Benedetto XVI, la carità nella verità, principio vitale di cui Gesù Cristo si è fatto portatore, è forza propulsiva di una nuova economia, ove le varie attività economiche, la finanza, il libero mercato, le istituzioni private e pubbliche, l’imprenditorialità, al proprio interno e nei rapporti esterni, sono chiamate a strutturarsi in termini relazionali più equi, improntati anche alla logica della gratuità, della reciprocità fraterna.

Non va dimenticato che la prospettazione di Benedetto XVI di una figura germinale di teologia dello sviluppo e dell’economia, caratterizzata rigorosamente secondo dimensioni più agapiche e fraterne, non avviene aprioristicamente o deduttivamente, movendo esclusivamente dai contenuti rivelati, secondo cui le persone sono icone viventi della Trinità, circolazione di Verità e di infinito Amore. La riflessione del pontefice tedesco, in maniera analoga a quella di papa Francesco, si avvale anzitutto di un’attenta analisi esperienziale a valenza induttiva, la quale rivela come, nonostante il prevalere di un’economia e di una finanza orientate secondo linee neoliberistiche, si stia affermando progressivamente sia il cosiddetto terzo settore o privato sociale o economia civile, costituito da libere associazioni, volontariato, cooperative di solidarietà sociale, fondazioni e organizzazioni non profit, sia un’area economica intermedia tra il for profit e il non profit. Si tratta di imprese tradizionali, che però sottoscrivono dei patti parasociali di aiuto ai Paesi arretrati; di Fondazioni, espressione di singole imprese; di gruppi imprenditoriali aventi scopi di utilità sociale; e del variegato mondo dei soggetti della cosiddetta economia civile e di comunione.[8]

Facendo leva, dunque, sull’esistenza di istituzioni economiche caratterizzate da rapporti umani più autentici, dall’amicizia, dalla solidarietà fraterna; confortato dal fenomeno di una globalizzazione che, nonostante vari aspetti negativi, coinvolge popoli ed economie entro un dinamismo di maggior interdipendenza ed unificazione, Benedetto XVI giunge a configurare l’ideale storico concretodi un’economia mondiale, protesa alla realizzazione della sua essenza personalista e comunitaria, relazionale e fraterna.

Una tale essenza, colta dalla ragione, attende l’ordine della rivelazione, per completarsi secondo quella vocazione originaria che le è insita, ma è oscurata e indebolita dalla cupidigia, dalla sete di potere, in una parola, dal peccato.

Il pontefice evidenzia così la portata o rilevanza sociale e storica più adeguata di un’economia, di una finanza, di un mondo imprenditoriale, consapevoli di essere finalizzati alla costruzione, dinamica e progressiva, di una famiglia umana più fraterna, più solidale e più giusta.

La stessa impresa è chiamata a vivere il principio della fraternità. Che cosa significa in concreto? Significa, innanzitutto, strutturare l’impresa non solo quale luogo in cui si producono beni e servizi, si attua il principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, ma anche quale istituzione umana in cui le persone si incontrano, interagiscono, stipulano contratti sulla base di una fiducia reciproca generalizzata. I protagonisti dell’impresa sono sollecitati ad agire non solo in quanto soggetti economici, ma anche nella loro qualità di personeinserite in una trama di relazioni sociali più vaste, come la famiglia, la propria Nazione, il mondo. Detto ancora più concretamente, le persone sono richieste di operare nell’impresa come esseri concreti e storici, non svestiti di quelle qualità umane di relazionalità, di solidarietà e di fiducia, che sono indispensabili all’impresa stessa per espletare la propria funzione economica. Proprio per questo, la CIV sollecita a pensare all’impresa – specie in un momento storico in cui si stava registrando un deficit  di fiducia tra persone e istituzioni finanziarie e in cui erano apparse con maggior evidenza le interdipendenze tra i settori economici – come un luogo in cui, oltre alla giustizia commutativa, va vissuta la giustizia socialeintesa soprattutto come giustizia contributiva e non solo distributiva, ossia giustizia che incrementa le forme di fiducia reciproca e di solidarietà. Senza queste espressioni di un particolare senso di fraternità, al mercato e all’impresa viene a mancare quella coesione sociale che è loro necessaria per essere se stessi.[9]

Il principio di fraternità dev’essere sale della vita dell’imprenditore, del manager, delle relazioni interne alle imprese e di quelle che intercorrono tra imprese nel mercato. Un tale principio deve divenire motivazione interna dell’azione in entrambi i campi. Oltre alla motivazione di produrre beni e servizi con il minor dispendio di energie; di perseguire il profitto, fine legittimo dell’impresa; di pagare l’operaio in base alla sua prestazione, ci dev’essere la motivazione che sospinge a dare lavoro, a pagare equamente i lavoratori, perché esseri umani uguali a me, esseri fraterni, esseri aventi responsabilità famigliari, ai quali spetta non solo il minimo sindacale, bensì una remunerazione che tenga anche conto del loro contributo al reddito nazionale e mondiale.

Il principio della fraternità, secondo Benedetto XVI, trova una declinazione privilegiata nell’area intermedia che si va costituendo tra profite non profit, in cui il profitto è perseguito come strumentoper realizzare finalità umane e sociali. Secondo il pontefice, quest’area va accresciuta, perché essa, con i suoi valori di fraternità e solidarietà, costituisce in certa maniera l’humus da cui si alimentano le stesse macroimprese. Proprio per questo, nella CIV si invoca che quest’area intermedia trovi ampia ed adeguata configurazione giuridica e fiscale in tutti i Paesi.[10]

La fraternità, così come è pensata da Benedetto XVI, ossia non come un vago sentimento, bensì come un farsi carico del proprio simile per rispondere alle sue esigenze e alla sua dignità, sollecita al rafforzamento di un’imprenditorialità plurale, plurivalente. Per rispondere ai molteplici bisogni dei cittadini e della società, per conseguire più efficacemente il bene comune, tutti debbono divenire più imprenditivi, attivi e creativi. Urge, come già accennato, dar vita a vari tipi di imprese, che vadano ben oltre il modello di quelle «private» e «pubbliche», con uno scambio e una formazione reciproca tra le diverse tipologie di imprenditorialità e un travaso di competenze dall’una all’altra. In tutto questo, la fraternità svolge la funzione di un potente incentivo: quanto più numerosi sono i bisogni della persona e della società, tanto più debbono essere moltiplicati i vari tipi di impresa; quanto più si vuole rendere il sistema imprenditoriale commisurato alla dignità delle persone e ai bisogni della famiglia, del bene comune, dello sviluppo dei Paesi più poveri, tanto più bisogna incrementare non solo quanto è prescritto dalla legge, ma anche quanto è suggerito dal nostro essere e percepirci un’unica famiglia umana, nella quale la crescita degli uni dipende da quella degli altri, nella quale vi sono doveri che, pur non essendo imposti per legge, sono ugualmente cogenti per il fatto che siamo tutti interdipendenti, partecipi di una stessa umanità fraterna.

Per quanto detto, è anche facile comprendere come la fraternità sia un movente essenziale nella configurazione di un nuovo Stato sociale, che intende produrre beni e servizi sempre più commisurati alle persone concrete, ai loro bisogni che spesso vanno al di là del puro bisogno materiale, perché sono di natura psicologica, affettiva, religiosa. Detto altrimenti, la fraternità diventa criterio di riforma e di innovazione del Welfare State in una Welfare Society, secondo cui il benessere è conseguito dalla società civile conformemente alla dignità della persona umana e al suo bene integrale.

Il principio di fraternità, secondo Benedetto XVI, deve trovare un’adeguata applicazione anche nelle imprese finanziarie,[11] oltre che nella tenuta morale delle società, nella famiglia umana e nei rapporti intergenerazionali, nella distribuzione planetaria delle risorse energetiche, nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e i Paesi altamente industrializzati, nell’ecologia umana a cui è connessa l’ecologia ambientale,[12] nei rapporti tra credenti e non credenti.[13]

Nella FT, papa Francesco evidenzia giustamente che il principio di fraternità sollecita, come già accennato, la globalizzazione dei diritti e dei doveri, dei singoli e dei popoli, la riduzione del debito dei Paesi poveri, un’etica globale di solidarietà e cooperazione.[14] Il fatto che come esseri umani siamo tutti fratelli e sorelle obbliga a nuove prospettive e risposte quanto ai migranti e ai rifugiati (cf capitolo IV). In questo capitolo papa Francesco offre una sintesi più organica del suo pensiero sulle migrazioni e sui rifugiati.

Nel capitolo V, approfondendo il tema della migliore politica, indispensabile alla realizzazione del bene comune, papa Francesco porta la sua riflessione su un piano più elevato, chiaramente trascendente, pienamente cristiano. Perché sia  possibile lo sviluppo plenario di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, il pontefice fa ultimamente appello alla carità, virtù teologale. Una tale virtù implica, ovviamente, la fede in Dio. Il che mette in luce come il pontefice argentino, senza alcuna esitazione, giunge a proporre per la vita politica e per i cittadini, come per i responsabili della cosa pubblica, un umanesimo trascendente, un’esistenza aperta alla vita cristiana, all’amore di Cristo. La maggior forza a servizio dello sviluppo e della politica a servizio del bene comune è un umanesimo cristiano, guidato da un amore pieno di verità. Solo la carità unifica le persone, è in grado di giungere ai fratelli e alle sorelle lontani, a quelli più ignorati. Per attuare il bene comune mondiale c’è, dunque, bisogno dell’amore più grande, ossia della carità. Il motivo? Perché sono realisti e non disperdono niente che sia necessario per una trasformazione della storia a beneficio degli ultimi. Il bene comune mondiale, a sua volta, esige un potere internazionale che da una parte limiti il superpotere finanziario, subordinante a sé la politica, e che dall’altra promuova la sovranità del diritto,[15] favorendo tra gli strumenti normativi gli accordi multilaterali.[16]

Non vi sono, pertanto, alternative all’amore politico – sia a livello nazionale, sia a livello internazionale e sovranazionale – e, in particolare, alla carità, afferma con convinzione papa Francesco. Il che equivale a dire, se siamo ben consci, che per i credenti, che si impegnano nel sociale e nella politica, l’annuncio di Cristo e del suo Amore, è primo e principale fattore della migliore politica. E tutto questo perché ciò è un’esigenza intrinseca sia al riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella, ossia come figlio o figlia di Dio, sia al ricercare un’amicizia sociale che includa tutti. Ne consegue, ovviamente, che qualunque impegno che decida le cose e trovi percorsi efficaci in tale direzione diventa un esercizio alto della carità. Quando ci si unisce ad altri per dare vita a processi sociali di fraternità e di giustizia per tutti, si entra, rimarca papa Francesco, nel campo della più vasta carità politica,[17] una delle forme più alte della carità, in quanto ricerca il bene comune.

Facendo tesoro delle affermazioni di Benedetto XVI, reperibili nella enciclica avente come incipit l’espressione Caritas in veritate, papa Francesco ribadisce che la carità sociale, che anima la costruzione di un mondo più fraterno, giusto e pacifico, è un amore che si accompagna indissolubilmente all’impegno per la verità. Proprio il rapporto con questa favorisce l’universalismo della carità, preservandola dall’essere relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni.[18] Senza la verità, l’emotività si vuota di contenuti relazionali e sociali. Senza di essa, la fraternità non è riconosciuta, il dialogo pubblico e interreligioso si interrompono, vengono meno il retto esercizio dell’autorità, il fondamento del consenso politico,[19] la realizzazione del bene comune,[20] la giustizia e la misericordia.[21]

L’amore politico, amore congiunto alla verità e alla fraternità, si concretizza secondo molteplici direttrici. È diretto verso persone e popoli (amore elicito), a creare istituzioni più sane, ordinamenti più giusti, strutture più solidali (amore imperato), alla preferenza degli ultimi (persone e popoli), a globalizzare i diritti umani essenziali,[22] a eliminare la fame e lo scandalo dello scarto di tonnellate di alimenti, a favorire l’incontro e l’inclusione, a lottare contro l’intolleranza fondamentalista e i fanatismi,[23]a praticare la tenerezza,[24] ad avviare nuovi processi, a sperare.[25]

Note

[1] Cf FT272.

[2] Cf CIV, 19.

[3] Cf CIV19.

[4] Cf ib., 20.

[5] Ib., 34.

[6] Cf ib., 36.

[7] Ib., 38.

[8] Cf CIV46. Terzo settore, non profit, profitsono espressioni oramai di uso comune che entrano per la prima volta in un’enciclica sociale. Sul modo in cui nell’economia si possa essere mossi non solo da interessi personali e dal profitto ma anche dal desiderio di aiutare gli altri, dalla solidarietà e dalla gratuità  si leggano, fra gli altri, L. Bruni-S. Zamagni, Economia civile, Il Mulino, Bologna 2004;L. Becchetti, Oltre l’homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni, Città Nuova, Roma 2009; L. Bruni, L’impresa civile, Egea, Milano 2009.

[9] Cf CIV35.

[10] Cf ib., 46.

[11] Su questo si legga M. TOSO, La speranza dei popoli. Lo sviluppo nella carità e nella verità. L’enciclica sociale di Benedetto XVI, LAS Roma 2010, pp. 53-54.

[12] Cf CIV51. Per salvaguardare la natura è necessaria l’ecologia umana e con essa l’ecologia ambientale. «È una contraddizione  – scrive Benedetto XVI –  chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, quando l’educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell’ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale. I doveri che abbiamo verso l’ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l’ambiente e danneggia la società» (Ib.).

[13] Cf CIV57.

[14] Cf FT121-127.

[15] Cf ib., 174. Anche con riferimento al tema del potere internazionale e la sua configurazione, in ordine a salvaguardare la fraternità e la giustizia mondiali, si può scorgere continuità di pensiero tra Benedetto XVI e papa Francesco. In un contesto mondiale in cui dominano strategie orientate ad un maggior individualismo, in cui esiste l’urgenza di creare un sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli interessi più forti, delle pretese di falsi diritti, in cui si assiste a una perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica, diventa indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più efficacemente organizzate, con autorità designate in maniera imparziale mediante accordi tra i governi nazionali e dotate del potere di sanzionare. «Quando si parla della possibilità di qualche forma di autorità mondiale regolata dal diritto – scrive papa Francesco riferendosi proprio a Benedetto XVI e spiegandone il pensiero -non necessariamente si deve pensare a un’autorità personale. Tuttavia, dovrebbe almeno prevedere il dare vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali» (FT 172). Sempre muovendosi sulla scia di Benedetto XVI, papa Francesco aggiunge: «In questa prospettiva, ricordo che è necessaria una riforma “sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni”» (FT 173).Ciò presuppone limiti giuridici precisi, per evitare che si tratti di un’autorità cooptata solo da alcuni Paesi e, nello stesso tempo, impedire imposizioni culturali o la riduzione delle libertà essenziali delle nazioni più deboli a causa di differenze ideologiche. Infatti, quella internazionale è una comunità giuridica fondata sulla sovranità di ogni Stato membro, senza vincoli di subordinazione che ne neghino o ne limitino l’indipendenza. Ma il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. Bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale. Occorre evitare che questa Organizzazione sia delegittimata, perché i suoi problemi e le sue carenze possono essere affrontati e risolti congiuntamente.

[16] Da papa Francesco viene l’invito di un cambio radicale anche nelle relazioni internazionali. Per avere maggiore certezza della destinazione comune dei beni della terra, della realizzazione della giustizia e della fraternità planetarie non appaiono più sufficienti le forme dei rapporti bilaterali tra gli Stati e i popoli. Paesi potenti e grandi imprese preferiscono trattare con altri Paesi più piccoli o poveri al fine di trarne vantaggi superiori. Francesco auspica rapporti multilaterali, ossia che si raggiungano «accordi regionali con i vicini, che permettano loro di trattare in blocco ed evitare di diventare segmenti marginali e dipendenti dalle grandi potenze» (FT 153).

[17] Cf FT 180.

[18]Cf FT 184.

[19] Cf FT 206: «Il relativismo non è la soluzione. Sotto il velo di una presunta tolleranza, finisce per favorire il fatto che i valori morali siano interpretati dai potenti secondo le convenienze del momento. Se in definitiva “non ci sono verità oggettive né principi stabili, al di fuori della soddisfazione delle proprie aspirazioni e delle necessità immediate, […] non possiamo pensare che i programmi politici o la forza della legge basteranno. […] Quando è la cultura che si corrompe e non si riconosce più alcuna verità oggettiva o principi universalmente validi, le leggi verranno intese solo come imposizioni arbitrarie e come ostacoli da evitare”».

[20] Cf FT 202.

[21] Cf ib.,227.

[22] Cf ib.,189.

[23] Cf ib.,191.

[24] Cf ib.,193-195.

[25] Cf ib.,196. A proposito di nuovi processi e vie di speranza giova la lettura di Francesco, Ritorniamo a sognare, in conversazione con Austen Ivereigh, Piemme, Trebaseleghe (PD) 2020.

Il commento

1. Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

2. Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

3. Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

4. La civiltà dell’amore fraterno

5. La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

6. Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

7. A mo’ di conclusione: costruzione di un mondo nuovo mediante una politica samaritana

La civiltà dell’amore fraterno

Fratelli-tutti

Papa Francesco, come già accennato, propone la costruzione di un mondo nuovo poggiante sui pilastri della fraternità e dell’amicizia sociale. Ma, a loro volta, dove trovano la loro fonte ontologica e morale tali pilastri? Secondo il pontefice essi trovano la loro origine nell’amore aperto a tutti, nell’amore che si estende al di là delle frontiere. Ecco perché, prima di parlare più diffusamente della fraternità e dell’amicizia sociale, papa Francesco nel capitolo terzo della sua enciclica, si ferma a riflettere sull’amore umano edivino, mediante una ragione ispirata cristianamente. L’amore è radice originante della fraternità e dell’amicizia sociale, in quanto dall’intimo di ogni cuore crea legami e allarga l’esistenza facendo uscire la persona da se stessa verso l’altro. E ciò perché siamo fatti per l’amore, perché c’è in ognuno di noi una specie di legge di «estasi»: uscire da se stessi per trovare negli altri un accrescimento di essere.[1]

In tal maniera, il pontefice argentino, cogliendo la tensione morale che struttura le persone, in analogia a san Paolo VI, giunge a proporre la «civiltà dell’amore»,[2] quale anima del mondo nuovo che egli sogna, come mondo aperto a tutti.

È bene sottolineare che inizialmente Papa Francesco nella sua riflessione sull’amore procede noncon un metodo deduttivo o aprioristico, bensì muovendo dall’analisi dell’esperienza  della stessa esistenza umana, ossia con un metodo induttivo. Scrutando dentro i dinamismi psicologici e morali della vita umana giunge a comprendere che il «sogno» di un mondo nuovo, più fraterno, deriva dalla struttura morale della persona stessa, la quale si realizza in pienezza solo attraverso la libertà, il dono sincero di sé. L’umanità raggiunge il proprio compimento umano quando le persone e i popoli vivono relazioni vere, legami di fedeltà, comunione di sentimenti, fratellanza.[3] Ciò è possibile grazie all’amore, quel valore che, come spiegava Tommaso d’Aquino, consente una vita ricca di virtù. Solo l’amore vero orienta adeguatamente gli atti delle varie virtù, rendendoli capaci di costruire sia la vita personale sia la vita in comune. Il semplice amore umano, però, non è in grado, sempre come illustrava l’Aquinate, ma anche san Bonaventura, di garantire da solo una vita virtuosa piena. Occorre la carità che Dio infonde nelle persone. L’amore umano, amore fragile a motivo del peccato originale, dev’essere guarito, integrato e rafforzato dall’amore di Dio, donato e ricevuto. Questo amore trascendente  rafforza il dinamismo di apertura e di unione verso altre persone, perseguendo con determinazione e perseveranza il loro bene in Dio.[4] L’amore trascendente non contraddice le esigenze dell’amore umano, ma le perfeziona. Lo stesso amore donato da Dio, rivelato e realizzato da Cristo, riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, ci aiuta a conoscere meglio il dinamismo interno dell’amore umano. Perché?

Perché la struttura della vita spirituale e morale delle persone  si comprende meglio se si capisce in che cosa consiste quell’esperienza d’amare che Dio rende possibile con la sua grazia, ossia con il dono del suo amore, a cui l’essere umano aspira. Sempre san Tommaso d’Aquino spiegava una tale esperienza come un movimento che pone l’attenzione sull’altro considerandolo come «un’unica cosa con se stesso». L’attenzione affettiva che si presta all’altro provoca un orientamento a ricercare gratuitamente il suo bene. Tutto ciò parte da una stima, da un apprezzamento, che in definitiva sta dietro la parola «carità»: l’essere amato è per me «caro», vale a dire che lo considero di grande valore. L’amore virtuoso è qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di là delle apparenze fisiche o morali. L’amore all’altro per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita, ossia un compimento umano pieno. Solo un amore virtuoso, ossia un amore umano redento e potenziato dall’amore sorgivo del Padre per il Figlio, nello Spirito Santo, rende possibile l’amicizia sociale che non esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti.[5] Detto altrimenti, la pratica delle virtù, quali la fraternità e l’amicizia sociale, ma anche delle altre virtù umane, nella fragilità della condizione umana non sono possibili senza l’aiuto di Dio.[6]

Come si potrà notare, è in  questo punto della sua riflessione che  papa Francesco, sempre seguendo un metodo di analisi esperienziale, rende più palese il legame esistente tra l’amore e la fraternità. La fraternità sboccia dal dinamismo dell’amore stesso. È inscritta nella tensione dell’amore che porta ad una progressiva apertura verso l’altro, facendo riconoscere che c’è una reciproca appartenenza tra le persone. Papa Francesco, senza appellarsi direttamente ai contenuti di fede – lo farà subito più avanti –, giunge a concludere: «Nei dinamismi della storia, pur nella diversità delle etnie, delle società e delle culture, vediamo seminata così la vocazione a formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri».[7] Nella stessa storia umana è inscritto, in concreto, l’anelito alla costruzione di una civiltà dell’amore fraterno, la quale è assicurata a tutti i popoli dall’accoglienza – qui, invece, il pontefice si appella direttamente ai contenuti di fede – dell’amore divino o carità.

Cosa che – è bene precisarlo – può avvenire quanto più Gesù Cristo e il suo amore sono accolti, celebrati, annunciati e testimoniati nel mondo. L’instaurazione di una solida civiltà dell’amore fraterno presuppone l’evangelizzazione, l’annuncio di Gesù Cristo, primo e principale fattore di tale civiltà, per usare il linguaggio che ci ha insegnato papa Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in veritate.[8] Quanto detto evidenzia il particolare impegno pastorale e pedagogico che dev’essere assunto e vissuto da parte delle comunità cristiane, delle associazioni, delle aggregazioni, dei movimenti cattolici o di ispirazione cristiana.

Note

[1] Cf ib., 88.

[2] Su Paolo VI e la civiltà dell’amore rimandiamo a M. TOSO, Paolo VI e la costruzione della civiltà dell’amore, in Aa.Vv., Paolo VI. Fede, cultura, università, a cura di M. Mantovani e M. Toso, LAS, Roma 2003, pp. 153-174.

[3] Cf FT 87.

[4] Cfib., 91.

[5] Cf ib., 94.

[6] Sulla pratica delle virtù umane e sulla vita buona nella fragilità della condizione umana si leggano le considerazioni di G. Abbà, Le virtù per la felicità, LAS, Roma 2018, specie pp. 672-680.

[7] Cf FT 96.

[8] Cf ad es. Benedetto xvi, Caritas in veritate (=CIV), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, 8.

Il commento

1. Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

2. Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

3. Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

4. La civiltà dell’amore fraterno

5. La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

6. Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

7. A mo’ di conclusione: costruzione di un mondo nuovo mediante una politica samaritana

Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

Fratelli-tutti

La parabola del buon Samaritano è impiegata da papa Francesco quale strumento ermeneutico della realtà umana contemporanea, nella complessità di tutte le sue ombre e luci. Secondo il pontefice argentino, una tale parabola interpella chiunque, credente o non credente. Infatti, in essa ci si riferisce sia all’esperienza delle relazioni interpersonali su un piano precipuamente umano sia su un piano di fede. Per i credenti, la relazionalità è umana, ma anche più che umana. È relazionalità trascendente, avente una connotazione divina, ossia una relazionalità quale compete ai figli e alle figlie di Dio, a persone che sono viventi in Cristo. La parabola del buon Samaritano, come insegna la lettura che ne ha fatto nei secoli la Chiesa, e che papa Francesco ripropone nell’oggi, non solo illumina le relazioni tra gli esseri umani in quanto tali, ma anche consente di riconoscere in colui che aiuta il giudeo ferito, Cristo stesso. Incarnandosi si china sull’umanità ferita dal peccato e se ne prende cura salvandola, redimendola. Anche noi, al pari del buon samaritano, suggerisce il pontefice argentino, dobbiamo mostrare prossimità nei confronti delle persone o dei popoli feriti della terra.[1]

Dobbiamo, però, essere non solo buoni samaritani, ma anche quell’umanità che, assunta e vissuta da Cristo, propria dei figli nel Figlio, si fa «vicina» e si prende cura di chi è nel bisogno, con lo stesso amore di Gesù, indipendentemente da dove è nato e da dove viene. Il buon samaritano, fattosi prossimo del giudeo ferito, superando barriere culturali e storiche, per papa Francesco rappresenta sia l’umanità misericordiosa nei confronti dei più fragili sia lo stesso Gesù, Figlio di Dio, che si incarna per amore e viene in soccorso di ogni malcapitato, derubato e picchiato. In sostanza, siamo sollecitati da papa Francesco a superare la dimensione semplicemente umana dell’episodio del buon samaritano. Dobbiamo andare oltre, per coglierne la dimensione trascendente, sino a scorgere nel samaritano, come già accennato, Cristo stesso. Ciò è evidente ove, alla fine del secondo capitolo, il pontefice scrive: «Per i cristiani, le parole di Gesù hanno anche un’altra dimensione, trascendente. Implicano il riconoscere Cristo stesso in ogni fratello abbandonato o escluso (cfr Mt 25,40.45)».[2] Gesù va riconosciuto, dunque, sia come il buon samaritano che aiuta l’umanità ferita dal peccato redimendola, sia come il giudeo ferito, ovvero come ogni persona che è derubata e maltrattata, abbandonata sul ciglio della strada.

A questo punto diventa facile osservare che la parabola del buon samaritano nella FT mette a disposizione non solo delle categorie ermeneutiche terrene per interpretare la realtà, per individuare dei principi di riflessione e dei criteri di giudizio, per avere a disposizione una progettualità germinale in vista della costruzione di un mondo più fraterno, ma consente di comprendere come l’impegno dei credenti nella trasfigurazione delle relazioni e delle istituzioni trova categorie ermeneutiche trascendenti nella comunione con la vita stessa di Cristo, che è venuto per fare nuove tutte le cose, ricapitolandole in sé, mediante l’incarnazione, la morte e la risurrezione. Una tale comunione mette a disposizione le sue radici e le sue coordinate, la sua anima agapica e trasfigurante, derivanti dalla stessa esperienza originaria e primaria della comunità di fede, che fa memoria della salvezza integrale di Cristo e cammina nella storia, accogliendola, celebrandola, annunciandola, testimoniandola.

In ultima analisi, papa Francesco pensa che il segreto della capacità innovatrice dei credenti, che la loro capacità efficace nel servire i poveri e il bene comune, nella costruzione di un mondo nuovo, è da ricercare nella partecipazione ontologica e sacramentale alla vita dell’Uomo nuovo, alfa ed omega, cuore della storia umana, fonte di una vita aperta al dono e alla fraternità. Senza coltivare l’appartenenza alla comunità cristiana, senza una vita partecipata e condivisa nella comunione-comunità, che è la Chiesa, viene meno la capacità di rigenerare e di alimentare, mediante un amore agapico e fraterno, i nostri  molteplici «noi», quali la famiglia, la scuola, la società politica, la famiglia umana, le associazioni. La professionalità, richiesta a ogni persona, perde la sua anima spirituale ed etica. La realtà sociale smarrisce il suo paradigma di relazionalità nella comunione e nel dono reciproco.

In definitiva, la parabola del buon Samaritano che, nella costruzione di un mondo nuovo, induce a riflettere su un «prossimo» senza frontiere, su un amore fraterno universale, aperto a tutti, spalanca uno scenario teologico ed ecclesiologico, in cui per il credente emerge chiaramente che Gesù Cristo, mediante la sua Incarnazione, è comunicazione imprescindibile con una fraternità e una paternità trascendenti, che trova il suo rimando ultimo nelle missioni trinitarie e nel ruolo fontale del Padre che invia il Figlio affinché gli uomini siano tutti fratellifigli nel Figlio, uniti in un’unica famiglia e comunione, tra loro e con il Padre. Quando si comprenda e si viva tutto questo si viene preservati dalla frattura tra fede ed impegno, un virus pericoloso che oggi colpisce non pochi cristiani.

Sull’origine teologica e trinitaria della fraternità si avrà modo di ritornare più avanti.

Note

[1] Cf ib., 79.

[2] Ib., 85.

Il commento

1. Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

2. Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

3. Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

4. La civiltà dell’amore fraterno

5. La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

6. Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

7. A mo’ di conclusione: costruzione di un mondo nuovo mediante una politica samaritana

Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

Fratelli-tutti

Anche l’enciclica FT, in definitiva, viene strutturata secondo il metodo del discernimento che, specie dopo il Concilio Vaticano II, ha esplicitato nell’approccio al reale, nonché nella sua valutazione etica e nell’elaborazione di una nuova progettualità, una dimensione più che filosofica, chiaramente biblico-teologica, incarnata nei classici momenti del vederegiudicare agire. Il metodo del discernimento ha ricevuto dalle varie encicliche, ma soprattutto nella importante costituzione conciliare Gaudium et spes, molteplici riletture e diversi approfondimenti epistemologici. Basti anche solo pensare che nella Laudato si’, l’enciclica immediatamente precedente alla FT, ai tre momenti del vederegiudicare agire, papa Francesco ha aggiunto un quarto momento, quello del celebrare. A conferma che il metodo della Dottrina sociale della Chiesa non è riducibile a quello delle scienze descrittive o empiriche, pur rilevanti, perché corrisponde a un sapere sapienziale particolare, la cui formalità è propria della teologia morale sociale, inclusiva di una interdisciplinarità vissuta in contesto di transdisciplinarità. Il momento del celebrare, particolarmente sottolineato dalla Chiesa latinoamericana, sta ad indicare, in maniera più puntuale, un’ulteriore dimensione intrinseca al discernimento sociale della Dottrina sociale della Chiesa, ovvero una dimensione che ne evidenzia la stretta connessione di esercizio con il radicamento nel mistero dell’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, di cui si fa memoria specie nella celebrazione eucaristica.[1]

Come si dirà fra poco, lo stesso metodo del discernimento sociale è praticato da papa Francesco in una maniera che consente di evidenziarne, attraverso l’utilizzo della parabola del buon Samaritano, le radici cristologiche, eucaristiche, ecclesiologiche,[2] assieme a quelle antropologiche e morali. Prima, però, conviene fermarsi a considerare il momento del vedere, così come è attuato nell’enciclica. Esso è riscontrabile, in particolare, nel primo capitolo, ove il pontefice prende in analisi alcune tendenze del mondo attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale.

A fronte dell’anelito profondo dell’umanità alla fraternità vanno registrati anzitutto i segnidi un ritorno all’indietro, in Europa e in latinoamerica, a motivo del risorgere di nazionalismichiusi, esasperati, risentiti ed aggressivi.[3] Inoltre, si segnala il prevalere di un globalismo che impone un modello culturale unico, che favorisce i più forti, dissolve le identità delle regioni più deboli e povere, rendendole più vulnerabili e dipendenti.[4] Si nota anche la perdita del senso della storia, l’affermarsi di una libertà che pretende di costruire tutto a partire da zero. Restano in piedi unicamente il bisogno di consumare senza limiti e l’accentuarsi di un individualismo libertario.[5]

Le nuove forme di colonizzazione culturale, spiega papa Francesco, si nutrono della dissoluzione della coscienza storica, del pensiero critico, dell’impegno per la giustizia, dei processi di integrazione, a motivo dello svuotamento e della mistificazione dei grandi valori della verità, della libertà, dell’unità e della democrazia. La politica spesso non è più una discussione su progetti a lungo termine per lo sviluppo di tutti e del bene comune. È ridotta a produrre ricette effimere di marketing volte all’immediato, alla distruzione dell’altro, dei legami sociali. Non è a servizio della costruzione di molteplici «noi» che abitano la casa comune, semmai diviene funzionale ad una mentalità che considera le persone – povere, disabili, anziane, nasciture – non un valore primario, bensì un peso o, peggio, uno scarto. Ne è una riprova quanto è accaduto nei confronti degli anziani in alcuni luoghi, a causa del coronavirus. Posposti alle persone più giovani, sono stati crudelmente abbandonati alla morte, separati dai contatti e dagli affetti dei loro cari. L’insufficiente universalizzazione dei diritti umani aggrava il numero di quelle forme di ingiustizia che sono nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul mero profitto, che non esita a sfruttare le persone, in particolare le donne, aventi la stessa dignità e identici diritti degli uomini. Purtroppo, nonostante gli accordi internazionali, persiste il triste fenomeno della schiavitù che, anche con l’appoggio di reti criminali e delle moderne tecnologie, assoggetta milioni di persone, siano esse bambini, uomini e donne. Li si sequestra senza scrupoli, allo scopo di renderli schiavi del sesso o per vendere i loro organi.

Il progetto di una fraternità universale viene infranto da guerre, attentati, persecuzioni, per motivi razziali o religiosi. Si ripresentano paure ancestrali. Con le barriere di autodifesa si rafforza la tentazione di una cultura dei muri nei cuori, nelle varie regioni del mondo. Questo appare contrassegnato da: a) una globalizzazione mossa da un’etica deteriorata e priva di una rotta veramente umana, pervasa da una cultura di indifferenza e da un progresso tecnologico senza maggiore equità e inclusione sociale; b) una cultura digitale che sembra far perdere il gusto della fraternità, allontanando dalla realtà, dal senso di appartenenza e di solidarietà, rendendo prigionieri della virtualità;[6] c) regimi politici populisti e da posizioni economiche liberiste che contrastano un’integrazione controllata, graduale, rispettosa della dignità dei migranti e dei cittadini dei Paesi che li ospitano; d) una comunicazione digitale assoggettata da giganteschi interessi economici, capaci di realizzare forme di controllo tanto sottili quanto invasive, creando meccanismi di manipolazione delle coscienze e dei processi democratici, generatori di fanatismi, di movimenti di odio e di distruzione, di un’informazione senza saggezza, discriminatrice di ciò che non è conforme alla cultura dominante; e) tendenze alla omogeneizzazione del mondo, che livellano le identità, demoliscono l’autostima, creano una nuova cultura al servizio dei più potenti.

Dopo questa panoramica delle principali problematiche sfavorevoli allo sviluppo della fraternità universale, papa Francesco volge lo sguardo a ciò che nel mondo rappresenta dei germi di bene e dei segni di speranza. È a questo punto che il pontefice dedica il secondo capitolo alla parabola del buon Samaritano, narrata da Gesù Cristo. Egli la propone come una sorta di griglia di letturadella questione sociale contemporanea. In tal modo, ripropone ed illustra il tipo di lettura e di valutazione della realtà che il discernimento della Dottrina sociale della Chiesa è chiamata a compiere, giungendo ad indicare orientamenti pratici per la soluzione dei principali problemi odierni. Non si tratta, come già accennato, di una analisi e di una valutazione meramente sociologiche, empiriche o filosofiche, bensì di tipo biblico-teologico, che avvengono alla luce della Parola di Dio e della fede. Il rifarsi all’esempio del buon Samaritano fa parte dello stile pastorale di papa Francesco, che rifugge dal fare discorsi teorico-astratti, ma preferisce la concretezza dell’esperienza. E, quindi, per dire e dimostrare che cosa è e come si realizza la fraternità universale, sceglie di farlo ricordando l’insegnamento che deriva dalla parabola del buon Samaritano.[7]

Note

[1] Cf su questo M. Toso, Ecologia integrale dopo il coronavirus, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2020, pp. 23-26.

[2] Con riferimento alle dimensioni teologiche, ecclesiologiche e pastorali del discernimento sociale è rilevante l’approfondimento di papa Benedetto XVI. A questo proposito si legga M. TOSO, Il realismo dell’amore di Cristo. La «Caritas in veritate»: prospettive pastorali e impegno del laicato, Edizioni Studium, Roma 2010, specie 9-58.

[3] Cf FT10-11.

[4] Cf ib., 12.

[5] Cf ib., 13.

[6] Cf ib., 43.

[7] Cf B. Sorge,Perché l’Europa ci salverà. Dialoghi al tempo della pandemia con Chiara Tintori, Edizioni Terra Santa, Milano 2020,  p. 116.

Il commento

1. Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

2. Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

3. Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

4. La civiltà dell’amore fraterno

5. La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

6. Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

7. A mo’ di conclusione: costruzione di un mondo nuovo mediante una politica samaritana

Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

Fratelli-tutti

È importante sottolineare, sin dall’inizio, sia l’obiettivo che persegue il pontefice argentino sia la modalità. Per quanto concerne il primo, egli afferma che intende raccogliere in un’enciclica i molti interventi fatti relativamente alle questioni legate alla fraternità e all’amicizia, ponendoli e sviluppandoli «in un contesto più ampio di riflessione», in un tutto coeso, quasi tasselli di un unico grande mosaico.[1] In effetti, la nuova enciclica rappresenta un testo ove sono esposti organicamente vari pronunciamenti fatti durante il pontificato del papa argentino. Sembra che Francesco intenda offrire un compendio delle sue scelte pastorali per farci capire meglio la sua linea. In tal modo, vengono ripresi i discorsi e le affermazioni attinenti, ad esempio, alla cultura dell’indifferenza e dello scarto, all’ecologia integrale, alle migrazioni, ai rifugiati, alla guerra,[2] alla pena di morte,[3] alla crisi della democrazia rappresentativa e partecipativa, ai populismi, ai sovranismi,[4] ai liberismi,[5] all’urgenza della riforma della finanza e delle istituzioni internazionali, ai movimenti popolari, al dialogo pubblico e interreligioso, tanto per citare i principali problemi ospitati nella FT. E così, il pontefice riconferma l’intrinseco valore etico e la rilevanza magisteriale di alcune sue prese di posizione su alcune questioni cruciali come, ad esempio, la guerra e la pena di morte.[6] Nello stesso tempo intende sottolineare la loro valenza universale, cosa meno evidente quando sono state espresse legandole a questa o a quella contingenza, a questo o a quell’incontro o viaggio. Un conto è se una affermazione è fatta durante un’udienza del mercoledì, un’altra cosa è se la stessa affermazione entra a far parte di un’enciclica, indirizzata a tutti i vescovi, alla cristianità e  a tutti gli uomini del mondo intero. Un’enciclica possiede una valenza magisteriale superiore ad un’omelia o ad un discorso rivolto ad una categoria particolare di professionisti, come le ostetriche, i medici o a un gruppo di imprenditori o di politici.

Per quanto concerne la modalità del suo insegnamento contenuto nell’enciclica, indirizzata anche, come accennato, alle persone non credenti e di buona volontà, papa Francesco afferma esplicitamente: «Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà».[7] Si tratta di una sottolineatura importante, specie per i credenti, che sono chiamati ad accogliere la FT, ad approfondirla, a celebrarla, ad annunciarla e a testimoniarla nel mondo. Se si parla della fraternità dialogando con le persone che non sono credenti, ma esprimono buona volontà nell’impegno del bene, non vuol dire che si debba dimenticare la propria identità, la peculiarità della propria cultura. La propria fede cristiana non impedisce di intavolare un discorso razionale, ossia un dialogo sulla base della ragione umana. La fede del credente è sempre la fede di una persona razionale, e quindi capace di comunicare e di argomentare razionalmente, come sono in grado di fare tutti gli uomini. In chi crede la ragione non viene meno. Anzi, viene rafforzata, purificata, migliorata nel suo funzionamento dalla Rivelazione. In definitiva, il credente che intende veicolare le encicliche nel dialogo pubblico, nell’incontro con culture diverse dalla propria, non ricava nessun vantaggio dal mettere tra parentesi o dal dimenticare la propria fede cristiana, i contenuti di fede. Metterebbe, piuttosto, a rischio l’efficacia della sua «comunicazione razionale». Non solo. Prescindere dalla radici teologiche delle encicliche significherebbe togliere a esse le ragioni della loro specificità e della loro novità culturale e sociale. Equivarrebbe a perdere, di fatto, quel principio antropologico ed etico trascendente caratterizzante la cultura cattolica e che è dato dall’Incarnazione di Cristo nell’umanità e nella storia. Senza una tale specificità l’incontro culturale con gli altri sarebbe più povero, meno franco ed  arricchente. Più volte papa Francesco nella FT ripete che il dialogo è fecondo se ognuno mantiene la ricchezza della propria cultura e della propria identità, rimanendo però tutti aperti alla verità.[8] La specificità del messaggio cristiano, dovuta alla «divinizzazione» delle persone, non impoverisce e non ostacola il dialogo, la fioritura dell’umano, della ragione, bensì li sostiene e li promuove. E questo perché  in Cristo viene svelato pienamente l’uomo all’uomo. La Chiesa, posta sul fondamento del Figlio di Dio, Uomo-Dio, possiede in proprio una visione globale dell’uomo e dell’umanità. La carità non esclude il sapere, anzi lo richiede, lo promuove e lo anima dall’interno. Il sapere non è mai solo opera dell’intelligenza umana. Il sapere-sapienza è integrato dall’amore pieno di verità, dalla Rivelazione.[9]

Nel capitolo ottavo, papa Francesco esprime in maniera efficace le sue convinzioni sull’importanza dell’identità cristiana, del Vangelo di Gesù Cristo, quanto alla comunicazione del pensiero sociale, quanto al dialogo con gli uomini di buona volontà, con coloro che professano un’altra fede. Ecco le sue parole, che meritano di essere riportate per esteso: «La Chiesa apprezza l’azione di Dio nelle altre religioni, e “nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che […] non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”. Tuttavia come cristiani non possiamo nascondere che “se la musica del Vangelo smette di vibrare nelle nostre viscere, avremo perso la gioia che scaturisce dalla compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati. Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna”. Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo. Da esso “scaturisce per il pensiero cristiano e per l’azione della Chiesa il primato dato alla relazione, all’incontro con il mistero sacro dell’altro, alla comunione universale con l’umanità intera come vocazione di tutti”».[10]

Note

[1] Cf ib., 5.

[2] La guerra non è un fantasma, bensì una minaccia costante. Viviamo, infatti, in una condizione di «terza guerra mondiale a pezzi», perché i conflitti non sono finiti, ma si moltiplicano. La guerra è negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente, rammenta papa Francesco (cf FT 257). Trattando di un tema delicato e complesso, il pontefice non poteva non affrontare la posizione del Catechismo della Chiesa Cattolica, ove è contemplata la possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, purché si osservino alcune rigorose condizioni di legittimità morale. Rispetto a ciò Francesco osserva che le guerre contemporanee si appellano facilmente al diritto di legittima difesa, cadendo facilmente in un’interpretazione troppo larga dello stesso diritto. Perché? Si dà, infatti, il caso che con lo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, si concede «alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti». In verità, «mai l’umanità ha avuto tanto potere su se stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene». «Dunque – ecco la conclusione del pontefice – non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!» (FT 258).

[3] Sulla pena di morte papa Francesco riprende il pensiero di Giovanni Paolo II, il quale nella sua enciclica Evangelium Vitae ha affermato in maniera chiara che essa è inadeguata sul piano morale e non è più necessaria sul piano penale. Rifacendosi anche ad autori come Lattanzio, Papa Nicola I o sant’Agostino, che sin dai primi secoli della Chiesa si mostravano contrari a tale pena, afferma con chiarezza che «la pena di morte è inammissibile» (FT 263).

[4] Per passare dalla globalizzazione dell’indifferenza alla globalizzazione della fraternità, occorre sconfiggere l’individualismo, da cui nascono il populismo e il sovranismo. Per papa Francesco, il populismo è pericoloso perché finisce, al lato pratico, per cancellare la nozione stessa di popolo e quindi per mettere in discussione la democrazia. Nei populismi di fatto non esiste il popolo, esistono il leader e la massa. Non a caso, il populismo viene anche definito come quell’atteggiamento culturale e politico che mentre da una parte esalta genericamente il popolo, dall’altra parte nutre un forte sospetto nei confronti della democrazia rappresentativa. Al momento delle votazioni si ricerca il consenso della gente. E, tuttavia, una volta giunti nella camera dei bottoni i problemi della gente sono disattesi dagli eletti. Il sovranismo non risponde alla realtà, in quanto la sovranità degli Stati, in un contesto di globalizzazione, è erosa di per sé. Si assiste, infatti a una perdita del potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economica finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica (cf FT 172). L’espressione «popolo» come anche la sovranità del popolo sono spesso evocate per giustificare le proprie scelte anche se queste, in ultima analisi, non corrispondono alle vere istanze della gente, bensì agli umori temporanei che assicurano «legittimazione» ai leader più capaci di manipolazione dell’opinione pubblica (cf FT 159). Essi dicono di agire per conto e nell’interesse del popolo ma, in fin dei conti, ascoltano solo alcuni cittadini selezionati e bypassano i rappresentanti dei corpi intermedi.

[5] Nell’enciclica FT, Francesco critica il neoliberismo e le politiche neoliberiste. Molti confondono il liberalismo, che è una particolare filosofia politica, con il liberismo, che invece è una teoria economica. Si può essere liberali, ma non liberisti. Il Papa sa bene la differenza tra liberalismo e liberismo, per questo critica il neoliberismo – come aveva già fatto nell’Evangelii gaudium – perché basato sulle teorie della “ricaduta favorevole”. Queste presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggior equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante (cf Evangelii Gaudium 54). Su questo si legga anche M. Toso, Il Vangelo della Gioia. Implicazioni pastorali, pedagogiche e progettuali per l’impegno sociale e politico dei cattolici, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma 2014, pp. 30-36.

[6] Cf FT 255-270.

[7] Ib., 6.

[8] Cf ad es. FT 199-203. «Alcuni – scrive papa Francesco – provano a fuggire dalla realtà rifugiandosi in mondi privati, e altri la affrontano con violenza distruttiva, ma “tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre possibile: il dialogo. Il dialogo tra le generazioni, il dialogo nel popolo, perché tutti siamo popolo, la capacità di dare e ricevere, rimanendo aperti alla verità. Un Paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media”» (FT 199). «L’autentico dialogo sociale – afferma il pontefice argentino qualche paragrafo dopo – presuppone la capacità di rispettare il punto di vista dell’altro, accettando la possibilità che contenga delle convinzioni o degli interessi legittimi. A partire dalla sua identità, l’altro ha qualcosa da dare ed è auspicabile che approfondisca ed esponga la sua posizione perché il dibattito pubblico sia ancora più completo. È vero che quando una persona o un gruppo è coerente con quello che pensa, aderisce saldamente a valori e convinzioni, e sviluppa un pensiero, ciò in un modo o nell’altro andrà a beneficio della società. Ma questo avviene effettivamente solo nella misura in cui tale sviluppo si realizza nel dialogo e nell’apertura agli altri. Infatti, “in un vero spirito di dialogo si alimenta la capacità di comprendere il significato di ciò che l’altro dice e fa, pur non potendo assumerlo come una propria convinzione. Così diventa possibile essere sinceri, non dissimulare ciò in cui crediamo, senza smettere di dialogare, di cercare punti di contatto, e soprattutto di lavorare e impegnarsi insieme”. La discussione pubblica, se veramente dà spazio a tutti e non manipola né nasconde l’informazione, è uno stimolo costante che permette di raggiungere più adeguatamente la verità, o almeno di esprimerla meglio. Impedisce che i vari settori si posizionino comodi e autosufficienti nel loro modo di vedere le cose e nei loro interessi limitati. Pensiamo che “le differenze sono creative, creano tensione e nella risoluzione di una tensione consiste il progresso dell’umanità”» (FT 203).

[9] Cf Benedetto xvi, Caritas in veritate (=CIV), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, 19.

[10] FT 277.

Il commento

1. Obiettivo e modalità della «Fratelli tutti»

2. Il discernimento proposto dalla «Fratelli tutti»

3. Il realismo teologico, antropologico e morale della parabola del buon Samaritano

4. La civiltà dell’amore fraterno

5. La fondazione trascendente della fraternità: Benedetto XVI e papa Francesco

6. Un approfondimento: Cristo «universale concreto della fraternità»

7. A mo’ di conclusione: costruzione di un mondo nuovo mediante una politica samaritana

Preghiera ecumenica in comunione da casa propria

Venerdì 30 ottobre, secondo lo spirito di Taizé

Venerdì 30 ottobre ci sarebbe stata la veglia di preghiera ecumenica secondo lo spirito della comunità di Taizé alle 20.45 nella chiesa di Pieve Thò a Brisighella. Vista l’attuale situazione della pandemia Covid19, si invita ciascuno a pregare da casa propria nella stessa sera e allo stesso orario; il sussidio di preghiera può essere scaricato dalla pagina Facebook TaizeFaenza (formato jpg),oppure da questo link (formato PDF).


Van Thuan: libero tra le sbarre, video integrale dell’evento del 15 ottobre

van thuan toso

Un incontro pubblico che ha permesso di conoscere meglio la vita del cardinale vietnamita François-Xavier Van Thuan: un testimone della speranza, creativo dell’evangelizzazione e che, nel corso di una vita nella quale la luce ha sempre vinto le tenebre, ci indica la via – attraverso la Croce che costruì e pregò durante i 13 anni di prigionia – dalla quale ripartire non solo come singoli, ma come comunità.

La figura del cardinale è stata raccontata in Duomo, giovedì 15 ottobre, nella serata “Van Thuan, libero tra le sbarre” attraverso testimonianze di persone che direttamente, o indirettamente, l’hanno conosciuto e la presentazione del libro a cura di Teresa Gutiérrez de Cabiedes.
L’evento, organizzato da Comunione e Liberazione, ha visto intervenire il vescovo mons. Mario Toso; il dott. Waldery Hilgemman e la dott.ssa Dama Luisa Melo, rispettivamente postulatore e incaricata amministratrice della Causa di Beatificazione. A moderare l’incontro il giornalista Elio Pezzi.

Video


Due nuovi diaconi: il 25 ottobre l’ordinazione di Emanuele Casadio e Michel Arséne Bom

Domenica 25 ottobre la Diocesi di Faenza-Modigliana annuncia con gioia che alle ore 16, alla chiesa cattedrale di Faenza, saranno ordinati diaconi Emanuele Casadio e Michel Arséne Bom, attraverso l’imposizione delle mani e la preghiera consacratoria di S.E. Mons. Mario Toso, vescovo.

La cerimonia si svolgerà nel rispetto delle normative anti-Covid vigenti e sarà trasmessa in diretta sul canale YouTube ‘Sinodo dei giovani – Faenza’


Partono le lezioni alla scuola diocesana di teologia

Un servizio per la formazione dei laici, nelle due sedi di Faenza e Bagnacavallo

Martedì 20 ottobre riprendono le lezioni della scuola diocesana di formazione teologica S. Pier Damiani. Quest’anno viene attivato il corso base nelle sedi di Faenza e di Bagnacavallo, e il primo anno del ciclo triennale nella sede di Faenza. La scuola si occupa anche della formazione teologica dei ministri della comunione.

L’iscrizione viene fatta esclusivamente online attraverso l’indirizzo email scuolateologiafaenza@gmail.com. Nel rispetto delle normative per il contenimento del Covid19, per la frequenza è necessario indossare la mascherina.

Scarica la brochure dell’anno accademico 2020-21.