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Aperte le iscrizioni al corso per animatori musicali della liturgia

Fognano, 28 luglio-4 agosto 2019

Il corso estivo 2019 per animatori musicali della liturgia sarà dal 28 luglio (cena) al 4 agosto (mattina) a Fognano di Brisighella (RA).

PROGRAMMA
Il Corso è articolato su più livelli, con attività comuni / specifiche / a scelta. Gli iscritti sono tenuti alla frequenza di tutte le attività previste dal corso. Inoltre: presentazione critica di materiale editoriale e discografico liturgico-musicale in commercio o inedito, animazione della Celebrazione Eucaristica prefestiva (presso una chiesa parrocchiale vicina).

SEDE
Casa di accoglienza Istituto Emiliani, Suore Domenicane del SS. Sacramento, Via Emiliani, 54 – 48010 Fognano (Ravenna).

DISPONIBILITÀ
50 posti, in ordine di iscrizione.

DESTINATARI e REQUISITI
Animatori del canto, Direttori di coro, Coristi, Salmisti, Organisti, Chitarristi, Strumentisti…; svolgere (o prepararsi a farlo) un servizio liturgico-musicale in una comunità cristiana; avere almeno 16 anni d’età.

INFORMAZIONI & CONTATTI
Sito internet: www.universalaus.it. E-mail: info@universalaus.it. Referente: don Paolo Gozzi.

QUOTA COMPLESSIVA:
€ 90 (acconto) + € 250 (saldo) per STUDENTI
€ 90 (acconto) + € 330 (saldo) per ADULTI
Comprende il materiale didattico

ISCRIZIONE
il termine è fissato per il 30 giugno; dopo tale data, prima di versare l’acconto, verificare la disponibilità dei posti sul sito internet www.universalaus.it. La segreteria provvederà a comunicare l’avvenuta iscrizione insieme a notizie pratiche e organizzative.


Madonna delle Grazie

Angelo Card. Amato, SDB

1. Il mese di maggio è connotato da una fervida devozione mariana. In questo mese delle rose la Chiesa onora la madre del Signore con splendide celebrazioni liturgiche e con gesti affettuosi di pietà popolare, come, ad esempio, le novene, le processioni, la pratica dei fioretti. Per il popolo cristiano, infatti, Maria è il grande segno, dal volto materno e misericordioso, della presenza di Dio in mezzo a noi.Per questo la devozione mariana – affermava San Paolo VI – è un elemento qualificante e intrinseco della genuina pietà della Chiesa e del culto cristiano.2 Il popolo credente, infatti, considera la Chiesa come la famiglia, che ha per madre la Madre di Dio.3

Nella sua visita a Faenza il 10 maggio 1986, San Giovanni Paolo II parlava della grande devozione dei faentini alla Beata Vergine, con il titolo di Madonna delle Grazie. Egli accenna anche ai piccoli segni della vostra filiale devozione mariana: «Le porte stesse delle vostre case sono spesso segnate dalla presenza dell’immagine della Vergine, la quale si presenta di frequente nelle forme gentili e delicate di quell’arte della ceramica, che ha reso la vostra Città famosa in tutto il mondo».

2. È ancora vivo in diocesi il ricordo della solenne celebrazione, nell’anno 2012, VI Centenario del culto alla B.V.delle Grazie. La diocesi di Faenza, letteralmente costellata da santuari, chiese e cappelle mariane, si è mobilitata per rendere festosa la ricorrenza, ringraziando la Beata Vergine delle grazie, spesso sconosciute, sparse con generosità nei cuori dei fedeli, nelle famiglie, nei bisognosi, nei sofferenti e nella stessa società umana, mantenendola nella fraternità e nella pace.

La pietà mariana appartiene all’identità del popolo faentino. La scrittrice Luisa Donati Renzi ha dedicato un prezioso volume alla Madonna, intitolato: La Beata Vergine delle Grazie di Faenza. Sei secoli di protezione e di devozione. Ella introduce il suo scritto con un gentile ricordo infantile: «Ho imparato dalla mia mamma che, tenendomi in braccio, mi invitava a “buttare un bacio alla Madonnina” e dai miei nonni che ogni sera pregavano in famiglia con il Rosario ad amare Maria».4

3. Rileggiamo ora un brano di cronaca antica, redatta prima del 1531 da un frate domenicano, che narra l’origine della devozione dei faentini alla Madonna delle Grazie. Egli scrive: «È l’anno 1412: l’Italia, la Romagna e Faenza sono colpite dalla peste. La desolazione regna ovunque; le chiese sono affollate, mentre i sacerdoti e i religiosi invitano alla preghiera. I domenicani di S. Andrea in Vineis raccomandano non solo opere di espiazione, ma anche preghiere insistenti alla Madre di Dio, rifugio dei peccatori. Un giorno una signora di nome Giovanna si presenta al Padre superiore Fra Michele e racconta di aver visto la Vergine Santissima che, mostrandole in ogni mano tre frecce spezzate, le ha detto: come queste frecce, sarà spezzata la collera divina se il Vescovo indirà un digiuno universale e per tre giorni una processione di penitenza. Il frate la crede un’esaltata, ma alla sua insistenza la conduce dal Vescovo, il quale le crede e impone il digiuno e le tre processioni. Passati i tre giorni, secondo le promesse della Vergine, la peste cessa e in segno di riconoscenza è fatta dipingere l’immagine della Madonna come si era mostrata alla pia persona, cioè ritta in piedi, con le braccia aperte a forma di croce e le frecce spezzate nella mani».5

Fin qui la narrazione dell’apparizione mariana. Ad essa fece subito seguito una serie di miracoli, segni concreti della protezione di Maria. Il primo narra di un lupo affamato, che rapisce un bambino nella culla, lasciato per un momento incustodito dalla mamma. Ma il lupo, invece di far del male al piccolo, improvvisamente torna indietro e deposita delicatamente il piccolo tra le braccia della madre, che aveva invocato l’aiuto della Madonna. Il secondo racconta del salvataggio di una bambina che cade da un ponte e rimane miracolosamente illesa per l’intercessione di Maria, che le era apparsa. Ancora, un faentino accusato e imprigionato ingiustamente, chiede alla Beata Vergine la grazia che venga riconosciuta la sua innocenza, e così avviene. Il quarto evento prodigioso riguarda una donna, che in pericolo di vita per un parto difficile, fu salvata per l’intercessione di Maria.

Non sono che pochi esempi delle numerose grazie elargite da Maria’ ai faentini. Tenendo conto di questa potente intercessione mariana, il nostro sommo Poeta, in due canti del Paradiso, pone per ben due volte (canto XXXI v. 100-101; canto XXXII v. 13-15) sulla bocca di San Bernardo una preghiera a Maria come datrice di grazia. Cito solo quella più conosciuta: «Donna, sei tanto grande e tanto vali / che quel vuol grazia e a te non ricorre / sua disianza vuol volar senz’ali». Come i santi, anche Maria, la madre dei santi, ha il privilegio da parte di Dio di dispensare grazie e favori spirituali e temporali a quanti ricorrono a lei.

4. Siamo ancora nel tempo pasquale, periodo che ci fa contemplare con gioia il trionfo di Gesù risorto, e cioè la vittoria della vita sulla morte, della grazia sul peccato, della misericordia divina sulla miseria umana.

La solennità della Beata Vergine delle Grazie si inserisce bene in questo quadro di gioia pasquale. Ella, infatti, è la figlia prediletta del «Padre delle misericordie» (cf. LG n. 56); è madre del Figlio, misericordia divina incarnata; è tempio dello Spirito Santo, misericordia e carità divina fatta persona. Maria è la «piena di grazia» (cf. Lc 1,28). In lei il Padre ha riversato la pienezza della sua misericordia, in vista della sua maternità messianica.

Per questo la Chiesa si appella con fiducia alla protezione misericordiosa di Maria, come testimonia l’invocazione della Chiesa antica (sec. III): «Sotto la tua misericordia, ci rifugiamo».6

In una omelia del secolo X, un teologo orientale, così parla di Maria: «So che la Madre del Misericordioso non può essere senza misericordia. Lo provano, mentre ancor era in vita, il suo amore per i poveri, l’ospitalità, le intercessioni, le guarigioni dell’anima e del corpo per chi ne aveva bisogno; ora che è stata assunta, lo provano i miracoli pubblici e privati, in ogni luogo, di ogni tipo, superiori ad ogni parola, più numerosi della sabbia; e ancor lo provano, perché beni superiori e più sublimi, le conversioni e le continue riconciliazioni dei peccatori, il cammino e la custodia dei giusti, e per dire tutto in una sola parola, la salvezza e la divinizzazione, sia comune che personale, della razza che le è imparentata».7

Maria – afferma S. Alfonso – è la madre «tutta occhi, al fine di sovvenire noi miseri su questa terra».8

Come si vede, il titolo Madonna delle Grazie ha un profondo significato. Dice che Maria, la piena di grazia, è l’interceditrice potente presso il Figlio Gesù a favore dei suoi figli. È quindi distributrice insuperabile delle grazie e dei favori divini. San Bernardo afferma con audacia: «Dio ha voluto che noi non ricevessimo nulla senza che sia passato dalle mani di Maria».9

Ricorriamo allora con fiducia alla nostra Madre celeste, pregandola di rivolgere sempre a noi i suoi occhi misericordiosi.

Oggi, festa della mamma, affidiamo alla protezione della Madonna del grazie tutte le mamme del mondo, protagoniste benedette del futuro della società e della Chiesa.

Ripetiamo insieme: «Madonna delle grazie, prega per noi».


1 Omelia tenuta a Faenza il 12 maggio 2019
2 Marialis cultus, Introd. 56.
3 Puebla, n. 285
4 LUISA DONATI RENZI, La Beata Vergine delle Grazie di Faenza. Sei secoli di protezione e di devozione, Tipografia Faentina Edititrice 2012, p. 11
5 PATRIZIA CAPITANIO, Maria protettrice della nostra gente, Carta Bianca Editore, Faenza 2012, p.
6 Cf. FEUILLEN MERCENIER, L’Antienne Mariale grecque la plus ancienne, in “Le muséon” 52 (1939) p. 229-233.
7 TMPM II p. 966.
8 Le glorie di Maria, p.I cap. I, Valsele Tip., Materdomini 1987, p. 221.
9 BERNARDO DI CHIARAVALLE, Sermo in Nativitate, B.M.V, 4-7 e 18.


ESEQUIE DI DON POGGIOLINI

Tredozio, 10 maggio 2019

Eccellenza, Signora Sindaco, reverendissimo don Massimo Monti, Nipoti, sacerdoti, cari fedeli, la liturgia della Parola ci accompagna nella celebrazione delle esequie del caro don Leonardo Poggiolini. La conversione di san Paolo, presentata negli Atti degli apostoli (At 9, 1-20),  ci dà l’occasione di parlare della vocazione del giovane Leonardo e del suo ministero presbiterale. Solitamente nella descrizione della conversione dell’Apostolo delle genti poniamo attenzione agli eventi esteriori che l’hanno accompagnata: la luce folgorante dal cielo, la caduta da cavallo, l’accecamento, la voce che dice «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». È, però, anche importante cogliere ciò che avviene nel mondo interiore di colui che perseguitava accanitamente i primi cristiani. Nel divenire apostolo di Cristo si verifica nel suo spirito un terremoto, un capovolgimento totale di vedute e di sentimenti. Cristo, da odiato, e da annientare assieme ai suoi discepoli, diventa accolto, amato, perno centrale della sua vita, fulcro dei suoi pensieri, il «fuoco» delle sue prospettive. Perché? Cristo lo ghermisce, lo afferra, non con una forza dominatrice, ma con la potenza del suo Amore che fonde il male annidato nel cuore. Trasforma l’animo di Paolo, lo attira e lo orienta pienamente a sé. Il persecutore cambia radicalmente non attraverso un processo psicologico, mediante una lenta evoluzione intellettuale e morale. Il suo mutamento interiore viene dall’esterno, dal forte incontro-«impatto» con Gesù risorto. Un tale incontro fa «morire» il Paolo che desiderava distruggere la Chiesa nascente e, nello stesso tempo, lo fa risorgere, ri-vivere, stravolgendo i suoi obiettivi, offrendogli nuove e audaci motivazioni di azione. Dopo l’incontro improvviso con la persona del Risorto, a Paolo di Tarso importa solo Gesù Cristo. Tutto il resto diventa «spazzatura», una perdita, un nulla. Ciò che vale, sopra ogni cosa, è il Figlio di Dio. Ciò che importa è vivere Cristo-Amore. Cristo è il vero guadagno della sua vita. La mente, il cuore, i parametri di riferimento abituali vengono sostituiti.

In noi e in don Leonardo da giovane, l’orientamento a Cristo non è avvenuto in maniera repentina ed irresistibile, bensì nella gradualità, passo dopo passo. Anche don Leonardo è giunto a toccare il cuore di Cristo, ha sentito che Cristo, sempre più affettuosamente, toccava il suo cuore con un Amore attrattivo, «seducente». Tant’è che fece la scelta di divenire sacerdote, alter Christus. Venne ordinato il 29 giugno 1951, assieme a don Alfio Alpi e don Luigi Maretti. In seguito fu cappellano qui a Tredozio con il pievano Bandini, poi vescovo. Nel 1956 divenne parroco di san Cesario in Cesata. Nel tempo, dopo il progressivo spopolamento della sua parrocchia, era generosamente disponibile, con la celebrazione dei sacramenti e la sua colta e sapida predicazione nella valli dell’Unità pastorale «Madonna delle Grazie», ma anche a San Severo e a Felisio, per diversi anni. Note costanti del suo servizio pastorale sono state: la passione nella fede, il coraggio dell’annuncio, sulle orme di don Antonio Tabanelli, il don Alfonso descritto da don Poggiolini in uno dei suoi preziosi volumetti editi da “Il Piccolo”; la convinzione del fermento civilizzatore del cristianesimo, che genera nella storia rinascimenti, umanesimi aperti alla trascendenza; l’impegno per la giustizia e la pace, come esigenza intrinseca dell’amore a Cristo; l’indispensabilità delle istituzioni cattoliche (scuole, circoli, persino banche)  per l’incarnazione del Vangelo nella vita degli uomini. Don Poggiolini ha coltivato i valori del cattolicesimo sociale e, soprattutto, ha inverato in sé una delle principali caratteristiche dell’apostolato di san Paolo: sentirsi inviato, mandato, essere apostolo di Cristo (1 Cor 1,1): «tutto io faccio per il Vangelo, […] guai a me se non lo predicassi» (1 Corinzi 9, 16.19.22-23). Chi sente di appartenere a Cristo, comprende di essere  inviato a redimere la vita umana, la storia, a trasfigurarle, proprio con l’Amore di Cristo.

La missione sacerdotale ha aiutato don Leonardo a vivere in maniera intensa e originale la sua stessa passione di pittore, scultore, di scrittore. Personalità davvero poliedrica, possedeva un eccezionale spirito di osservazione, vivacità intellettuale, capacità espressiva. Gli splendidi scenari della sua terra erano interiorizzati e rivissuti. Li esprimeva, poi, a livello artistico, con una fantasia brillante e creatrice. Infondeva nelle sue tele e nella materia, nei suoi scritti, una trasfigurazione unica, la risignificazione del creato, dell’uomo e della donna, della vita sociale. La chiesa di Ottignana, a un paio di chilometri da Tredozio, in un’altra sua pubblicazione, l’Atelier, è definita «civettuola», perché a vederla dalla strada pare occhieggi ai passanti col suo piccolo rosone per suscitare in loro un pensiero al buon Dio (cf L’Atelier, p. 2). Una perla di saggezza della sua esperienza educativa può essere considerata l’affermazione: «Rifare le teste, occorrerebbe non raffazzonarle con rinzaffi[1] di calce culturale slavata» (Ib., p. 31). In sostanza, bisognerebbe ricominciare dalle fondamenta, costruendo menti granitiche e aperte, con una cultura robusta, non superficiale. La guida spirituale, cresciuta in lui, raccontando di quel monaco ignorante della Tebaide, visitato e inutilmente istruito dall’Archimandrita che voleva aiutarlo a pregare con proprietà di formule, l’ha portato  a concludere: «Nella preghiera è lo spirito che conta» (ib., p. 32). Se non si riesce a memorizzare perfettamente tutte le parole, conta il cuore.

Don Leonardo, che si dedicava ad organizzare mostre in varie parti d’Italia, per esporre i suoi quadri e i suoi lavori plastici, non ha mai cessato, celebrando l’Eucaristia, di offrire il pane disceso dal cielo, il pane che fa vivere in eterno, di cui ci parla il Vangelo di Giovanni (cf Gv 6, 52-59). Non si tratta del pane materiale, ma di Cristo stesso. Se il pane vivo, disceso dal cielo, il Figlio di Dio incarnato, non entra in noi, non ci alimenta, soprattutto non facciamo comunione profonda con la divinità, con la sua vita e la sua capacità di Amore. Per amare come ama Lui, per vivere con quell’Amore da cui proveniamo e per il quale ci muoviamo e siamo stati fatti, dobbiamo nutrirci di Cristo. Egli diventa cibo per noi sulla mensa. La comunione con Cristo ci mette in comunione con i fratelli e le sorelle e, quindi, anche con don Leonardo, con tutti i defunti per i quali celebriamo l’Eucaristia. La Beata Vergine delle Grazie, della quale don Leonardo era devoto e della quale stiamo celebrando la festa diocesana come nostra Patrona, lo accolga e lo accompagni nella Gerusalemme del cielo.

+ Mario Toso

[1] Il rinzaffo è uno strato di intonaco costituito da malta piuttosto liquida con sabbia molto grossa. Ha lo scopo di rendere più ruvida la superficie di fondo, di migliorare l’adesione dello strato di intonaco da realizzare successivamente e di livellare le irregolarità della muratura.

56a GIORNATA MONDIALE PER LE VOCAZIONI E AFFIDAMENTO ALLA BEATA VERGINE DELLE GRAZIE

Faenza, cattedrale 10 maggio 2019.

Beata Vergine delle Grazie,

le nostre parrocchie cittadine, con rinnovata gratitudine per la tua presenza materna, sono giunte sin qui ed uniscono la loro voce a quella di tutte  le generazioni che hanno sperimentato il tuo aiuto.

Ti ringraziano e ricorrono a te, ancora una volta, per offrirti le loro comunità e la città intera.

Accogli con benevolenza di Madre l’atto di affidamento che ti è stato rivolto con fiducia dinanzi a questa tua immagine divenuta a tutti noi tanto cara.

Siamo certi che ognuno di noi è prezioso ai tuoi occhi: piccoli e grandi, mamme e papà, nonni, presbiteri, religiosi e claustrali. Possiamo dire, con san Bernardo, che davvero nessuno sia ricorso a te senza che non abbia sperimentato il tuo soccorso. Grazie, o Madre benedetta!

Proprio perché tutti siamo figli nel tuo Figlio Gesù, ricorriamo a te, rivolgendoci al tuo dolce sguardo, chiedendoti la protezione dai mali materiali, spirituali e morali, simboleggiati dalle frecce che tieni spezzate tra le tue mani.

Guarda al tuo popolo che ti supplica.

Quanto abbiamo bisogno della tua intercessione. Innanzitutto, perché le nostre famiglie crescano compatte nell’amore fedele e in quella pedagogia della tenerezza con cui ti sei presa cura del Bambino Gesù. Abbiamo bisogno del tuo accompagnamento per i nostri giovani, perché possano pensare alla loro esperienza sinodale come l’occasione di essere Chiesa a servizio di Cristo e della società, pronunciando il loro «eccomi».

Le nostre comunità parrocchiali vivano sempre più in quel camminare insieme che, mentre riempie la città dell’insegnamento di Cristo (cf At 5, 27-33) – come avvenne nella Gerusalemme delle origini -, congiunge le forze di tutti su progetti pastorali  condivisi. Soccorrici, dunque, perché cresca, in ognuno e in tutti uno spirito missionario appassionato, comunitario, che non trascura di prendersi cura gli uni degli altri.

Aiuta, o Madre, la nostra fede!
Apri il nostro ascolto alla Parola, perché riconosciamo la voce di Dio e la sua chiamata a contribuire alla crescita del Regno di Dio. La pastorale vocazionale e giovanile, specie in occasione della 56.a Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, ricevano da te impulso e coraggio. Trovino in te, che sei stata a Cana, un modello di umanità da presentare a tutte le vocazioni: un’umanità attenta al bisogno degli altri, un’umanità che prega il Figlio e agisce sollecitando tutti a compiere quello che il Signore Gesù dice di fare (cf Gv 2,5); un’umanità che, ultimamente, indica il vero Sposo presente nella storia della nostra vita, venuto per portarci quel vino  della festa, che è sempre Lui, e che trasforma le nostre vite da acqua in un amore che le rende buone, belle e feconde.

Sveglia in noi il desiderio di seguire i passi di Colui che sale sulla croce per sconfiggere il Maligno, il principe del male. Non è possibile avvicinarsi a tuo Figlio evitando la Croce. È con l’amore crocifisso che ogni uomo viene redento. La potenza trasfiguratrice della sua Passione ci aiuta a far nuove tutte le cose.

Facci progredire nella grazia dell’unità tra preghiera ed azione, perché nel camminare quotidiano e nell’incontrare le persone possiamo riconoscere il volto del tuo Figlio Gesù.

Custodisci la nostra vita tra le tue braccia: rafforza ogni desiderio di bene; ravviva ed alimenta la fede; sostieni ed illumina la speranza; suscita ed anima la carità.

Guida tutti noi nel cammino della santità, che è la Carità di Cristo accolta e vissuta. Come ci insegni con la tua vita, «l’amore fa vedere e il vedere fa amare».[1] Fa’ che guardando a Dio impariamo l’amore, diventiamo amore. La misura della nostra santità è data dalla statura che Cristo-Amore raggiunge in noi.[2]

Insegnaci, in particolare, la tua predilezione per i piccoli e i poveri, per gli esclusi e i sofferenti, per i peccatori e gli smarriti di cuore. Raduna tutti sotto la tua protezione e tutti portaci al tuo diletto Figlio, il Signore nostro Gesù. Amen

+Mario Toso

[1] BENEDETTO XVI, Per Amore, Libreria Editrice Vaticana-Edizioni Cantagali, p. 16.

[2] Cf FRANCESCO,  Gaudete et exsultate, n. 21.

Nuove nomine per la catechesi in diocesi

Il settore diocesano catechesi ha dei nuovi incaricati

Lo scorso 30 aprile il vescovo Toso ha affidato a don Massimo Geminiani il settore diocesano della catechesi, in qualità di incaricato; nello stesso tempo il prof. Marco Piolanti è stato nominato vice incaricato. Insieme a Cesare Missiroli, vice incaricato per catechesi e disabilità, si forma una equipe di lavoro diocesana per la trasmissione della fede a bambini, ragazzi, adulti.

Le nomine si sono rese necessarie in seguito alla morte di don Antonio Taroni, che precedentemente ricopriva l’incarico.


FESTA DI SAN GIUSEPPE E DEI LAVORATORI

Bagnacavallo, 1 maggio 2019

Oggi, primo maggio, nel contesto della Pasqua, celebriamo la festa di san Giuseppe lavoratore e, insieme, la festa dei lavoratori. Grazie all’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, l’uomo viene associato all’opera di redenzione del Signore Gesù, che è un’opera di liberazione e di umanizzazione, di trasfigurazione. Mediante il dono dello Spirito d’amore di Cristo gli apostoli diventano una comunione di persone, unite nell’impegno dell’annuncio del Vangelo e di una vita nuova per tutte le attività, compresa la cooperazione.

La cooperazione promossa da cristiani, come ha ben detto papa Francesco ai membri della Confederazione delle cooperative italiane nel marzo scorso,[1] è espressione della novità di vita seminata da Cristo nei cuori e nei solchi della storia. Il modello di impresa cooperativa, secondo l’ispirazione cristiana, diventa efficace nel cambiamento del mondo economico proprio perché attinge forza innovativa e trasfiguratrice dalla vita nuova donata da Cristo. Tale vita sollecita un modello alternativo di cooperazione, ossia una cooperazione sociale in grado di coniugare insieme la logica dell’impresa e della solidarietà, la logica del profitto e della responsabilità sociale, promovendo la civilizzazione dell’economia. Dalla vita nuova portata da Cristo deriva una visione nuova della persona e della cooperazione, basata non solo sul profitto, ma in modo particolare su relazioni solidali e sulla Trascendenza. Il camminare e il lavorare insieme, a servizio delle persone e del bene comune, vengono rafforzati, lievitati dall’amore di Cristo. In tal modo, la cooperazione diviene più capace di affrontare le difficoltà e le fatiche della gente, di liberare dalla solitudine e dalla disperazione chi è senza lavoro, facendo sperimentare vicinanza e tenerezza. La parabola degli amici che, a causa della folla, scoperchiano il tetto della casa per calare davanti a Gesù il paralitico è assunta ad emblema da papa Francesco per spiegare l’aspetto prodigioso, quasi «miracoloso», della cooperazione (cf Mc 2, 1-5). Gli amici del paralitico («amici» perché hanno a cuore il suo bene) compiono un gesto «miracoloso» proprio perché si mettono insieme. Mediante una simile strategia, che si mostra creativa e vincente, trovano il modo non solo di prendersi cura del paralitico come uomo, dal punto di vista fisico, ma anche di aiutarlo ad incontrare Gesù che può cambiare la sua vita, rimettendogli i peccati. È importante la sottolineatura fatta dal pontefice. Egli evidenzia che Gesù si rivolge al paralitico vedendo la loro fede, cioè la fede di tutto il gruppo che si adopera nell’aiutarlo. Gesù non solo compie un miracolo nei confronti del paralitico. Lo compie gioendo nel vedere la fede, l’ingegnosità, la strategia di squadra degli amici. Detto altrimenti, cari cooperatori e cooperatrici, il Signore gioisce quando vede una cooperazione che aiuta nel suo nome il povero e i giovani bisognosi di un lavoro, «scoperchiando il tetto» di un’economia che rischia di produrre beni ma a costo dell’ingiustizia sociale. Il Signore gioisce quando con la vostra attività cooperativa sconfiggete l’inerzia dell’indifferenza e dell’individualismo facendo qualcosa di alternativo e non soltanto lamentandovi. Gioisce e benedice il vostro lavoro quando fondate cooperative perché credete in un modo diverso di produrre, in un modo diverso di lavorare, in un modo diverso di stare nell’economia e nella società. Gioisce e compie «miracoli» con voi quando aprite un varco nel muro di un’economia che assolutizza il profitto ed adora la tecnocrazia, mostrandosi indifferente del più debole, sino ad escluderlo. In sostanza, il Signore gioisce quando con la vostra ostinazione ed ingegnosità vincete la paralisi di una società e di una politica che bloccano ed impediscono di trovare soluzioni, giungendo addirittura a disprezzare e a mettere «sotto schiaffo» il mondo della solidarietà, la democrazia partecipativa, come sta avvenendo con il rallentamento dei decreti attuativi relativi alla riforma del Terzo settore.

La cooperazione promossa da cristiani crea, dunque, nei territori un popolo che trasfigura l’economia, andando controcorrente rispetto alla mentalità dominante, per la quale il fattore decisivo dello sviluppo sostenibile sono i beni materiali anziché le persone e le buone relazioni. Quando la cooperazione si struttura come imprenditoria incentrata sul perno dell’amore cristiano diventa più umana. La Lettera ai Colossesi ci indica il segreto perché la cooperazione sia sempre più vitale, generativa di bene comune, ossia: fare tutto di buon animo, «come per il Signore e non per gli uomini». Occorre intendere bene il senso di questa affermazione. Se si serve prima il Signore ne deriva un impegno più motivato ed incisivo per la cooperazione e le persone. Togliere il Signore dal primo posto, per assegnarlo ai beni materiali, all’efficienza, porta alla decadenza spirituale e morale, al fallimento della stessa cooperazione, che viene snervata del suo slancio umanitario ed etico. E, dunque, come dice san Paolo: «Qualunque cosa facciate, in parole ed opere, tutto avvenga nel nome del Signore» (Col 3,17).

[1] Cf FRANCESCO, Discorso ai membri della Confederazione delle cooperative italiane, 16 marzo 2019.

+Mario Toso

Mostra fotografica dal sud del mondo

In un vortice di polvere, 25 aprile - 12 maggio 2019

Farsi Prossimo e Caritas Diocesana Faenza-Modigliana presentano IN UN VORTICE DI POLVERE, fotografie di Annalisa Vandelli a cura di Tatiana Agliani e Uliano Lucas.

Dal 25 aprile al 12 maggio 2019 a Faenza, Casa Ragnoli – via Torricelli 28. Inaugurazione: mercoledì 24 aprile ore 18.00.

“… Dieci anni di parole e immagini, dieci anni di notizie e riflessioni, che ci interrogano su un Sud del mondo che continuiamo a non vedere, a non considerare, malgrado migliaia di migranti ce ne portino quotidianamente i drammi e i problemi con le loro vite spezzate, malgrado le nostre scelte di vita e le nostre politiche abbiano condizionato la sua storia recente e passata. Quasi che i confini del mondo ancora oggi si fermassero alle Colonne d’Ercole. (…) E hai fatto tutto questo con una delicatezza che si scopre negli sguardi che ti vengono restituiti dalle persone ritratte. Con una fotografia partecipe che abbandona il mito dell’obiettività per entrare nella vita dei protagonisti delle immagini” (Uliano Lucas e Tatiana Agliani).

Le fotografie sono accompagnate da testi, video, parole e musiche, che mescolano emozioni e conoscenze attraverso linguaggi diversi.


VEGLIA PASQUALE 2019

Faenza, cattedrale 20 aprile 2019

Stiamo vivendo la Veglia più grande dell’anno liturgico, la Madre di tutte le veglie. In essa la Chiesa ci presenta i misteri fondamentali della nostra fede mediante ricchezza e splendore di simboli: fuoco, luce, acqua, il canto gioioso dell’alleluia. Grazie a questi segni eloquenti, che ci richiamano, in certo modo, gli elementi costitutivi del mondo, tutto il nostro essere – corpo, sensi, percezione, spirito, intelligenza di verità, volontà d’amore – viene coinvolto ad accogliere e a sperimentare l’evento della morte e risurrezione di Gesù Cristo.

I segni della Veglia pasquale parlano di una realtà che, mediante l’incarnazione di Cristo, già riguarda la struttura del nostro essere umano. Dopo l’incarnazione, la nostra umanità non può più considerarsi estranea al Verbo fattosi carne e che sottopone l’umano e tutto il creato ad un impulso di rinnovamento. La nostra vita, come quella di ogni uomo, a motivo dell’incarnazione, morte e risurrezione di Cristo, sono redente nelle loro fondamenta, nelle loro radici.

Se è realmente così – come tante volte ci viene spiegato nelle celebrazioni – perché le radici della vita di Cristo piantate, in certo modo, nel nostro DNA, non sempre germogliano, non fioriscono, non fruttificano? Se davvero siamo persone redente, trasfigurate, perché le nostre comunità rimpiccioliscono nel tempo, i giovani sono sempre più assenti, i matrimoni cristiani diminuiscono, i credenti, pur presenti nella società civile e nelle varie istituzioni, non sembrano riuscire ad incidere su di esse, in modo da renderle più umane? Non abbiamo, forse, cominciato a vivere un grande «sabato santo», giorno dell’assenza di Dio? Non si diffonde, come aveva già previsto il giovane teologo Ratzinger, un paganesimo intra-ecclesiale, ossia un senso di autosufficienza tra i credenti, al punto da ritenere di essere salvezza a se stessi? Non si sta diffondendo la convinzione che il cristianesimo non è quanto viene proposto dalla Chiesa ma un qualcosa che ognuno deve confezionare da sé, scegliendo ciò che più gli aggrada dal Vangelo, tralasciando il resto? Non cresce in molti il convincimento che la morte di Dio porta più libertà?

Le radici cristiane di cui tanto si è parlato e che si sarebbe voluto codificare nella costituzione europea sono radici «letterarie», concetti astratti, eterei, o realtà concrete, vitali, parte integrante del nostro essere?

In occasione del disastroso incendio della cattedrale Notre Dame di Parigi si è parlato a proposito e a sproposito del cristianesimo e della sua impronta sull’Europa. Anche nel contesto di questa veglia pasquale non è inutile che ci poniamo la domanda: di quale cristianesimo, dopo che il Verbo si è fatto carne, vogliamo farci portatori? Di un cristianesimo mero schema concettuale, costruzione nostra o guscio vuoto, privo ormai del suo abitante? Può sussistere un cristianesimo senza cristiani autentici? Perché preoccuparsi del destino delle chiese senza tuttavia considerare il problema serio che Cristo sta scomparendo dall’orizzonte valoriale delle nuove generazioni? Possiamo disquisire finché vogliamo. Rimane indubitabile che il cristianesimo diviene fonte di civiltà quando i credenti sono realmente tali e con la loro fede riescono a portare nel mondo il fermento di Dio, la vita nuova di Cristo. Essi non possono pensare di essere luce del mondo, sale della terra, se la vita quotidiana che conducono non trova alimento e, quindi, connessione con le radici cristiane, che Cristo ha piantato nel nostro essere con la sua morte e risurrezione.

Occorre essere preoccupati sia della presenza della gente alle celebrazioni dei misteri di Cristo sia della capacità di far sì che la vita comunicata dalla partecipazione ad essi si diffonda nel mondo, nelle istituzioni, nelle legislazioni, nella famiglia, nella scuola, nella cultura. Chi è redento da Cristo non è destinato a vivere chiuso in recinti, bensì è mandato ad annunciare il Risorto a tutti i popoli. Così, non si può ignorare che se le singole gocce d’acqua, ovvero i cristiani, rimangono separati e non divengono un fiume d’acqua viva difficilmente possono irrigare la terra riarsa, facendola germogliare e fruttificare. La fecondità del cristianesimo dipende sicuramente dall’incarnazione dei valori evangelici nella cultura. Prima ancora, però, dipende dalla comunione con Cristo. Bisogna che, partecipando a questa solenne celebrazione pasquale, fonte e culmine della vita cristiana, giungiamo ad accrescere la nostra fede. Essa non è tanto un cumulo più o meno voluminoso di nozioni, o una moltitudine di gesti ripetuti meccanicamente durante i nostri incontri, quanto piuttosto un arrivare a «toccare» la mano di Dio, che viene tra noi, per stare con noi. Una fede vera è ascoltare la sua Parola col cuore, è vivere empaticamente con Chi è per noi Amore pieno di verità. Non dobbiamo dimenticare che è soprattutto l’Amore di Cristo, accolto, celebrato, testimoniato che consentirà alla Chiesa di rinnovarsi e di apparire agli uomini come la patria che dà loro vita, più umanità, speranza oltre la morte.

I cristiani, vedono in Cristo il loro Tutto. Essi non sono tanto innamorati delle idee del bene e del vero, della povertà in sé, ma di Cristo. Non devono essere innamorati delle loro opere e delle loro istituzioni, pur importanti e necessarie per testimoniare il loro servizio all’uomo, ma soprattutto di una Persona, che è Gesù Cristo. Diventano luce per il mondo quando il loro io è misticamente immerso in quello di Gesù Cristo, ossia quando riescono a far vedere agli altri quanto sono innamorati di Lui.

+ Mario Toso

VENERDI’ SANTO

Faenza, Cattedrale 19 aprile 2019

Il brano tratto dal profeta Isaia (Is 52, 13-53, 12) descrive, in un’intensa visione profetica, la passione del Signore Gesù: essa, lo sappiamo, è una passione d’amore per il Padre e per l’umanità. Rapito da un’intuizione sovrannaturale, il grande profeta intravvede in anticipo il momento culminante della redenzione e della morte del Servo sofferente. Coglie la grandezza e l’incommensurabilità dell’Amore di Dio per l’umanità e nello stesso tempo la stupidità dell’uomo che rifiuta il dono della salvezza, della trasfigurazione. L’uomo rifugge dall’incontrare Dio, il suo volto umano, per chiudersi in sé, come chi pensa di poter salvarsi da solo, senza Dio. Ma l’uomo che rinuncia a guardare il volto di Dio fattosi uomo giunge a non riconoscersi più per quello che è, ossia a perdere il criterio e la misura dell’umano. Chi non vuole guardare il volto del Verbo incarnato – noi per comprendere la novità e la contemporaneità del linguaggio del profeta Isaia abbiamo a disposizione l’apporto dei filosofi francesi Emmanuel Lèvinas e Paul Ricoeur, i quali sono giunti a dirci che il volto rappresenta la persona – perde l’immagine dell’uomo compiuto, che ha vita in pienezza. L’uomo senza Dio resta meno umano, rischia di diventare disumano. Grazie alla passione e morte di Gesù Cristo l’umanità trova, finalmente, la via del suo compimento secondo la misura dell’Uomo nuovo.

Riflettiamo solo qualche istante sul testo del profeta Isaia e comprendiamo la stoltezza dell’uomo che rifiuta Dio, sino ad eliminarlo dalla terra dei viventi.

Sebbene il Servo del Signore, Gesù Cristo, incarnandosi, abbia desiderato farsi umanità per renderla più simile a sé, questa, come «vede» il profeta Isaia, si è divincolata dal suo abbraccio, si è addirittura rivoltata e ribellata contro di Lui. L’umanità, secondo Isaia, sarebbe giunta a sfigurare l’aspetto di uomo del Messia, flagellandolo, sputandogli addosso, caricandolo con una croce, facendolo stramazzare a terra nella polvere che gli ha ricoperto il volto. Il proposito è stato quello di annientare in Cristo la somiglianza con noi, per non condividere nulla di Lui. L’umanità sembra presa da un’insana follia: cancellare qualsiasi traccia di Dio in sé. Con questo si rivolta contro se stessa, volendo sradicare l’immagine secondo cui è stata creata. Disprezzato e reietto dagli uomini, Cristo diventa l’uomo dei dolori, una persona irriconoscibile. Diventa «come uno davanti al quale ci si copre la faccia» per non vederlo e per non riconoscerlo come un proprio simile, come uno che ci appartiene ed è la nostra intima struttura d’essere e di volere. Non si vuole avere nulla da fare con Lui. Lo si crocifigge fuori dalle mura della città, a dire l’estraneità con Lui.

La stoltezza dell’umanità mostra così di giungere al massimo. Rifiuta, umilia, uccide Chi la crea, l’ama, incarnandosi per guarirla, per liberarla dalla schiavitù del peccato, per colmarla di vita, per eternizzarla. Cristo, peraltro, si carica delle nostre sofferenze, si addossa i nostri dolori, entra nella morte per aiutarci a viverli con il suo Amore. Mentre eravamo sperduti come un gregge e ognuno di noi seguiva la sua strada, con il suo sangue ci  costituisce popolo unificato con Dio Padre: un popolo che attraversa la storia come fermento di una nuova umanità. Imprimiamo nella nostra mente tutto questo per baciare, al termine di questa celebrazione del Venerdì santo, il Crocifisso con sincerità di amore e di riconoscenza. Se non giungeremo a farlo saremo più poveri, meno vivi e meno umani.

+Mario Toso