Author: pasienrico

Omelia per l’Epifania

La parola Epifania ci indica la manifestazione del Signore (cf Ef 3,6) come Colui nel quale l’umanità viene resa partecipe della salvezza. Cristo si rivela come Redentore a tutte le genti, rappresentate dai Magi. Il loro arrivo dall’Oriente è il segno della manifestazione del Re universale ai popoli.

Gesù, come abbiamo rivissuto in questi giorni, si manifesta, però, ai piccoli della terra, ai pastori, ai Magi che cercano la verità. Non si rivela ai grandi che abitano nei palazzi, che sono pieni di se stessi e sono solo preoccupati di conservare il loro potere. Dio, che è Luce, è accolto da chi gli spalanca il cuore e la mente. Come ci ricorda il profeta Isaia (cf 60,2), mentre la luce viene la tenebra ricopre la terra, una fitta nebbia avvolge i popoli. Se ben rammentiamo, lo stesso san Giovanni evangelista, nel giorno di Natale, ci ha ammoniti: veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo… eppure il mondo che è stato fatto per mezzo di Lui non l’ha riconosciuto. Ma anche i suoi connazionali non lo riconobbero: venne fra i suoi, e i suoi non l’hanno accolto (cf Gv 1, 1-18). Quanto detto da Giovanni vale ancora oggi per noi popolo cristiano. Tutte le volte che non incarniamo nella nostra esistenza la vita nuova che Egli ci porta ci chiudiamo alla Luce.

Dobbiamo imparare dai Magi. Occorre che prima ci mettiamo in cammino verso la Luce, per rivestirci di Cristo, che è la Luce. Solo i Magi vedono la stella in cielo: non gli scribi, non Erode, nessuno altro a Gerusalemme. Per trovare Gesù bisogna ascoltare quell’innato impulso a cercarlo che è stato scritto dentro di noi. Bisogna riconoscere che abbiamo bisogno della verità, della luce di Dio. Non basta sapere che Gesù è nato, come Erode, se non lo incontriamo. I Magi mostrano una disponibilità e un’apertura radicali a Lui. Vanno dal Signore non solo per portare i loro doni (oro, incenso e mirra) ma per donare se stessi totalmente. Questo dobbiamo ricordare a noi e insegnarLo alle nuove generazioni. Domandiamoci: l’Epifania è l’occasione per fare e ricevere altri doni, dopo quelli di Natale, e basta, ossia senza regalare Gesù, senza dare noi stessi a Lui? Quanti doni circolano nelle nostre famiglie, nelle nostre associazioni: prima a santa Lucia, poi a Natale e ora all’Epifania, ma poca partecipazione all’Eucaristia, poco incontro con il Signore, poca preghiera. Quanti giovani vivono il Natale come semplice occasione per una settimana bianca, per feste continue tra amici, tutte cose belle e legittime, ma senza il Festeggiato che è Gesù Cristo, senza Lui che è il Dono da ricevere e a cui donarsi. La manifestazione di Gesù a tutti i popoli non è, poi, riscoprire la nostra dimensione missionaria come singoli e come Chiesa? Qualche sera fa un adolescente, terminata la celebrazione Eucaristica, in sacrestia, a bruciapelo mi ha posto questa domanda: ma tu perché ti sei fatto prete? Gli ho risposto, io che sono salesiano: perché desideravo portare Gesù Cristo ai giovani, come te. Senza tante parole, il giovane mi ha lasciato con: Ah! Va bene. L’incontro fugace mi ha consentito di ricordare il mio impegno missionario giovanile, che ora è diventato l’impegno missionario anche di un vescovo, che non perde mai di vista i giovani.

Non dimentichiamolo: siamo chiamati a far risplendere nel mondo la luce di Cristo, riflettendoLo in noi stessi come la luna riflette la luce del sole. Vivendo il mistero dell’Epifania non possiamo non notare tutta l’insufficienza del nostro essere testimoni luminosi, coraggiosi. Quanti timori di essere e di dirsi di Cristo, anche nelle nostre associazioni, organizzazioni cattoliche o di ispirazione cristiana. Quanta incapacità ed indolenza nell’incarnare la vita di Gesù nelle nostre famiglie, nella scuola, nelle leggi e nelle istituzioni, nella cultura? Noi dovremmo vivere inquieti finché nel mondo la dignità umana è calpestata, le persone subiscono la tratta oppure restano in mezzo al mare, in balia delle onde e delle tempeste, perché gli Stati Europei non hanno ancora messo a punto una strategia comune per l’accoglienza di migranti e di profughi che fuggono dalle guerre e da povertà estreme, sicché sfidano pericoli, segregazioni, umiliazioni, disposti a perdere la loro vita. Dovremmo, invece, gioire tutte le volte in cui notiamo che l’umanità nuova che ci ha portato Cristo viene accolta, vissuta e incarnata nelle leggi e nelle istituzioni, negli stili di vita.

Preghiamo in questa Eucaristia per tutti i missionari, per le nostre associazioni missionarie, per l’AMI. Maria ci aiuti a portare Gesù, convinti che solo Lui ci può salvare dal nostro egoismo e dalla nostra povertà spirituale. Solo Lui ci può rendere come Lui, luce del mondo.

                                             + Mario Toso

Omelia per la Giornata mondiale della pace

All’inizio di un Nuovo anno festeggiamo la divina maternità di Maria. Nell’espressione “Dio mandò il suo Figlio nato da donna” si trova condensata la verità fondamentale su Gesù come Persona divina che ha pienamente assunto la nostra natura umana. Egli è il Figlio di Dio, è generato dallo Spirito santo e al tempo stesso è figlio di una donna, Maria. Viene da lei. È da Dio e da Maria. Per questo la Madre di Gesù si può e si deve chiamare Madre di Dio.

Questo titolo fu definito dogmaticamente nel 431, dal Concilio di Efeso.

Fin dall’antichità, pertanto, la Madonna venne onorata con titolo di Madre di Dio (Theotókos). In occidente, tuttavia, non si trova per tanti secoli una specifica festa dedicata alla maternità divina di Maria. La introdusse nella Chiesa latina il Papa Pio XI nel 1931, in occasione del 15° centenario del Concilio di Efeso, e la collocò all’11 ottobre. Fu poi il santo Paolo VI, nel 1969, riprendendo un’antica tradizione, a fissare questa solennità al primo gennaio e a connetterla con la Giornata Mondiale della Pace. Festeggiare la Madre di Dio, che è Madre del Principe della pace, significa impegnarsi a costruire la pace sulle orme del Redentore.

In occasione del 1 gennaio, a partire dal santo Paolo VI, ogni pontefice è ormai abituato ad indirizzare ai popoli e alle nazioni del mondo, ai Capi di Stato e di Governo, nonché ai responsabili delle comunità religiose e delle varie espressioni della società civile, un Messaggio per la Celebrazione della Giornata mondiale della Pace. Il Messaggio di papa Francesco per la 52a Giornata porta questo titolo: La buona politica è al servizio della pace. Si tratta di un Messaggio impegnativo sebbene scritto in maniera semplice e piuttosto breve. In esso si spiega che se si vuole la pace nel mondo è fondamentale che, nei vari Paesi, nella famiglia dei popoli, sia vissuta una buona politica, ossia un’azione comunitaria di servizio al bene comune. Tutti sono chiamati – cittadini e rappresentanti dei cittadini – a realizzare il bene comune, non andando in ordine sparso, bensì collaborando insieme, creando le condizioni sociali che consentono ad ogni persona, ad ogni famiglia, ad ogni gruppo umano, ad ogni popolo il conseguimento della propria pienezza umana in Dio. Perché la politica sia buona, cittadini e rappresentanti dei cittadini debbono essere educati a servire il bene comune (ma dove lo facciamo?), acquisendo tutta una serie di virtù umane (giustizia, equità, rispetto reciproco, sincerità, onestà), ma anche vivendo la virtù delle virtù teologali, ossia la Carità. Detto altrimenti, la politica richiede di essere redenta, come tutte le altre attività dell’uomo, mediante un’evangelizzazione del sociale. Solo così la politica può essere buona e porsi efficacemente al servizio dei doveri-diritti umani, della pace. Una politica animata dalla Carità, da un Amore pieno di verità, come ha insegnato Benedetto XVI, può meglio riconoscere la verità dei doveri-diritti, che non sono e non possono essere un qualcosa di arbitrario, frutto di scelte libertarie, come si sta sempre più verificando nei parlamenti. Per conseguire una buona politica, occorre, per conseguenza, che siano combattuti i vizi della politica che distruggono la vera politica, il bene umano che sta al centro del bene comune, togliendo credibilità sia ai cittadini sia ai rappresentanti, indebolendo la democrazia, mettendo in pericolo la pace. Quali sono i vizi che debbono essere sconfitti? Papa Francesco ne elenca alcuni: il disprezzo per il diritto, la noncuranza  delle regole comunitarie, l’arricchimento illegale, la xenofobia, il razzismo, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali a motivo di un profitto immediato. Pone al primo posto fra tutti i vizi, la corruzione, nelle sue molteplici forme di appropriazione indebita dei beni pubblici o di strumentalizzazione delle persone. Perché papa Francesco è molto severo e tranciante nei confronti della corruzione, giungendo a dire: «peccatori sì, corrotti no»? Perché la corruzione è come una peste che infetta la politica e la distoglie dal suo obiettivo primario: il bene comune. La prima radice della corruzione è il cuore umano che si attacca smodatamente al denaro, al potere, al successo personale, mettendoli al posto di Dio. La corruzione più che un peccato è l’origine di tutti i peccati in politica, ma non solo. Il corrotto vive una condizione di vita che impedisce a Dio di perdonarlo. Di fronte a Dio che non si stanca di perdonare, il corrotto si erge come autosufficiente, come colui che, in definitiva, è stanco della trascendenza, non crede in Dio. Adora solo se stesso. Il corrotto, in particolare, non si sogna nemmeno di chiedere perdono perché ritiene di non aver niente da farsi perdonare: che male c’è nel comportarsi come tutti (o quasi) si comportano non appena possono avvalersi di un qualche privilegio o approfittare di una posizione di forza e di potere per commettere soprusi ed ingiustizie? Che male c’è nel corrompere col proprio denaro o con il miraggio di una carriera facile conseguita o offerta a questo o a quella persona? Il corrotto non prova alcun rimorso, e non vede di che cosa pentirsi. I politici, ma anche i cittadini per vivere una buona politica debbono piuttosto riconoscere i propri limiti e i propri peccati. I credenti sanno che per vivere una politica buona non sono necessarie solo le virtù umane. C’è bisogno della Carità di Dio, del suo Amore pieno di verità, come appena detto. Essa abilità al servizio dei diritti umani, del bene di tutti, aprendo i vari «io» al «noi», all’unità e alla forza morale del vivere solidali, in comunità e comunione, prendendosi cura del bene di tutti, operando per il bene degli altri, del popolo intero, vivendo il comandamento nuovo come legge fondamentale dell’azione politica.

Per realizzare la pace occorre diventare esperti di grandi progetti. Occorre sognare in grande e coinvolgere tutti, specie le nuove generazioni. La politica infatti si sviluppa su più livelli: nazionale, regionale e mondiale, e ha bisogno dell’apporto di tutti. Chi, poi, intende militare nella politica attiva dovrebbe sapere che la pace, ossia le condizioni del bene di tutti, non si riducono solo alle condizioni economiche o ai diritti sociali. La pace è frutto del conseguimento dell’insieme dei diritti: civili, politici, sociali, religiosi e culturali. Chi vuole la pace non può combattere il diritto alla vita. Peraltro, chi vuole opportunità economiche per tutti non può dimenticare la dimensione etica della politica e dell’economia. Sono tre le dimensioni indissociabili della pace interiore e comunitaria: la pace con se stessi, con l’altro, con il creato. Maria, Madre del Cristo Salvatore e Regina della Pace ci aiuti a volerla, amarla e a realizzarla con lo Spirito d’amore del Figlio, uno Spirito di verità.

+ Mario Toso

Omelia per la Santa Messa di ringraziamento

Cari fratelli e sorelle, alla luce della Parola di Dio, in particolare della Lettera di san Paolo apostolo ai Galati (cf Gal 4, 4-7), alla fine di un anno e all’inizio di uno nuovo, siamo invitati a ringraziare Dio perché ci ha aiutati ad incarnare in noi la figliolanza del Figlio, perché siamo sicuri che non cesserà di mandare nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio anche nel prossimo anno solare.

Alla chiusura di un anno si è soliti innalzare a Dio un Te Deum di ringraziamento. Con ciò si vuole riconoscere la presenza amorevole di Dio negli avvenimenti della nostra storia. Con il Te Deum è tutto il popolo cristiano che innalza e fa sentire il suo canto di lode, unendosi agli Angeli, ai Profeti e a tutta la creazione. Infatti, la salvezza che Dio realizza è per tutti, compreso il cosmo.

Viene spontaneo ringraziare Dio, perché, quale Chiesa intera, nonostante infedeltà, difficoltà, stanchezze, l’uccisione di migliaia di cristiani, di decine di sacerdoti e suore missionari, il primo annuncio è risuonato in molti luoghi: «Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti».

Ma Dio va anche ringraziato perché nella catechesi, seppur non sempre incisiva ed estesa agli adulti, la formazione cristiana è stata guidata dall’obiettivo di far capire che credere in Gesù Cristo, vivere Lui, è una cosa bella, capace di colmare la vita di nuovo splendore e di una gioia profonda.

Sentiamo, poi, il bisogno di ringraziare Dio per il Sinodo dei giovani che ha coinvolto tutta la Chiesa che è in Faenza-Modigliana. Il suo compiersi ha smosso il cuore di molti giovani e già si possono scorgere i germogli di una Chiesa che si rinnova e si impianta radicandosi nella vita delle nuove generazioni.

L’accompagnamento dei processi innescati per la preparazione, la stessa celebrazione del Sinodo hanno sollecitato anche gli adulti ad intraprendere una nuova tappa nell’annuncio, a partire dall’ascolto dei giovani.

Ringraziamo Dio, inoltre, perché con il nuovo anno pastorale, iniziato nello scorso mese di settembre, ci siamo messi in marcia per vivere assieme il mistero del Verbo che si fa carne, ossia come popolo intero: popolo che accoglie la vita divina che viene in noi, tra noi, e la diffonde imprimendola sempre più nelle nostre vite, nelle leggi e nelle istituzioni. La Parola non va solo ascoltata, ma anche celebrata e, soprattutto, annunciata e testimoniata. Solo così cambia i cuori, le mentalità, trasfigura l’umanità e le culture, compresa la politica. Solo così fa albeggiare una nuova creazione, carica di speranza per tutti.

Un grazie al Signore va rivolto per le nuove vite con cui ha arricchito la popolazione del nostro territorio, ed anche per i nostri Seminaristi e i giovani Propedeuti, la cui giovinezza, gioiosa nell’impegno e nel dono, riempie i nostri cuori di motivi di riconoscenza al Padre, che continua ad inviare operai nella sua messe.

Ci sentiamo confortati perché la presenza di Dio suscita propositi di bene, nuovi progetti di accoglienza, come quello diurno che sarà allestito negli ambienti attigui alla Chiesa di san Domenico in Faenza dalla Caritas diocesana.

Siamo, peraltro, addolorati, perché nel mondo allignano troppe guerre, divisioni, diseguaglianze, ma anche le piaghe della fame e della povertà; perché non si è ancora provveduto a riformare profondamente l’attuale sistema monetario e finanziario mondiale; perché troppi bambini sono stroncati sul nascere e continua per il nostro Paese l’inverno demografico, come anche la disoccupazione specie per i giovani, ma non solo; perché, pur non essendo pochi i Paesi che hanno sottoscritto, in questo dicembre 2018, a Marrakech, il Compact Global con riferimento ai rifugiati e ai migranti, poco si sta facendo sul piano politico tra gli Stati in vista di un’accoglienza, protezione, integrazione sicure, legali, rispettose dei diritti e doveri di tutti, proporzionate alle reali disponibilità dei Paesi ospitanti; perché, a fronte di problemi cruciali, prevalgono la retorica, ideologie distorte circa l’identità delle Nazioni e la partecipazione deliberativa dei popoli. E potremmo continuare nell’elenco dei nostri mali.

Eccoci, dunque, Signore davanti a Te, con i nostri slanci di bene, ma anche con le nostre cadute. Spesso siamo affaticati, anche perché, sebbene parliamo di fraternità e di camminare insieme, in realtà inseguiamo i nostri piccoli punti di vista con caparbietà quasi indomabile. E così, ci troviamo dispersi, disarticolati, incapaci di comunicazione e di comunione, di considerarci entro un futuro comune. Investiamo più energie su quello che ci divide e sulla riuscita dei nostri «io», anziché sull’unità e sulla forza del «noi», dell’essere comunità.

Trovandoci con poco da offrirti, accogli il dono del nostro piccolo cuore, perché tu possa colmare la sua sete di infinito, di Te. Conservaci nel tuo Amore pieno di Verità. Effondi mille volte il tuo Spirito. Donaci un futuro pieno di un incontenibile amore per Te, per la vita. Che la pace sia servita da una buona politica, come ci propone il Messaggio per la Giornata Mondiale della pace 2019.

La Beata Vergine delle Grazie ci accompagni. Sia nostra Madre e Maestra di pace.

+ Mario Toso

Omelia per la Santa Messa della notte di Natale

Il Bambino Gesù che è nato per noi in questa notte, – anzi che nasce in ogni momento della nostra storia – è definito dal profeta Isaia Figlio di Dio, Principe della pace. Egli è luce, moltiplica la nostra gioia, aumenta la letizia, perché ci consente di amare in maniera più piena, come Lui ama. Libera da gioghi iniqui, da ogni sopruso (cf Is 9, 1-6). Salva portando per noi una nuova umanità, pacificata, consolidata nel diritto e nella giustizia, «restaurata», ossia riportata al suo stato primigenio di piena comunione con Dio. Redime divenendo uno di noi, consentendoci di vivere la vita di Dio, il suo Amore.

In Gesù Cristo, Dio e uomo, la natura divina sposa la natura umana. Dio diventa uomo. L’uomo diventa Dio. Come ebbe a scrivere sant’Agostino si compie un mirabile scambio. Il Verbo, Parola eterna del Padre, divenendo uomo, deve imparare a parlare per dire “mamma”, “papà”, “amici”, “fratelli”; deve imparare a lavorare nella bottega del falegname Giuseppe, suo padre putativo; Lui che è la Vita del mondo deve sperimentare la morte e imparare il soffrire, e prima piange la morte degli amici e delle persone care: tutto ciò è da Lui compiuto per essere, sino in fondo, figlio dell’uomo. È solo così, conoscendolo ed amandolo quale figlio dell’uomo, vero uomo, Uomo Nuovo, che noi abbiamo la possibilità di imparare a vivere come figli di Dio. Gesù Cristo, divenendo uno di noi, come Dio e uomo insieme, ci insegna il mestiere d’uomo, quale dovrebbe essere per noi da figli. Ci aiuta ad essere umanità ricreata, trasfigurata dal suo Spirito d’amore, mediante il quale ci costituisce popolo coeso, che annuncia e testimonia il Verbo incarnato. Assunti e incorporati in Lui col Battesimo e la Cresima, siamo chiamati a vivere la sua vita,  che è essenzialmente Amore. La nostra vocazione personale e di popolo cristiano è l’amore: essere  e vivere l’amore di Dio che si incarna per realizzare una nuova creazione.

Il suo amore, dunque, ci fa crescere come umanità nuova, trasfigura la nostra vita e ci sollecita a seminare la vita nuova, che Cristo ci dona (un’umanità sanata, elevata, ossia non schiacciata o umiliata, bensì potenziata e divinizzata), oltre che in noi, nella nostre famiglie, nelle relazioni tra persone, nelle leggi, nelle istituzioni, nell’economia, nell’ecologia integrale. La nascita di Gesù Bambino ci sprona, dunque,  a divenire popolo, che porta ed incarna la vita nuova di Cristo in tutti i momenti dell’esistenza, belli o tristi. Dobbiamo essere nella storia popolo che continua l’incarnazione di Cristo, per sanare e trasfigurare l’umanità. Dovremmo, senza dubbio, chiamarci popolo del Verbo incarnato, perché popolo che coltiva il progetto di cambiare la storia umana, liberandola dai suoi mali, dalle sue piaghe, dalle sue schiavitù. Se, però, con le nostre scelte, e cioè con il peccato e il disprezzo per l’altro fratello, mostriamo indifferenza nei suoi confronti, siamo ingiusti, calpestiamo la vita del più debole e la dignità delle persone, non le aiutiamo allorché sono povere, senza lavoro, devastate dalla solitudine, dalla droga, dalla schiavitù del vizio; se non educhiamo i più giovani ad accogliere e ad amare Gesù, ad amare per sempre, se nella stessa politica non si organizza il bene comune in modo da favorire lo sviluppo integrale di tutti, in definitiva – ecco la conclusione che dobbiamo trarre – ostacoliamo la stessa venuta dell’Uomo Nuovo, impediamo l’incarnazione della nuova umanità che Gesù Cristo porta e che da noi credenti dovrebbe essere calata in nuovi stili di vita, dentro nuove leggi ed istituzioni, sempre più commisurate alla dignità delle persone. Detto altrimenti, possiamo vanificare il Natale. Possiamo renderlo una festa senza il Festeggiato, una corsa frenetica per acquistare doni senza però accogliere il Dono, che è Gesù Cristo: dono da ricevere e da donare. In tale contesto, diventa inevitabile farci questa domanda amara: perché veneriamo e cantiamo il Bambino che nasce per noi, se poi con la nostra vita non gli consentiamo di  giungere nel cuore di ogni persona, di essere Principe della pace, redentore che umanizza e trasfigura il mondo? Perché ci dimentichiamo di essere portatori del suo Spirito d’amore?

Se come ci ha ricordato il Vangelo di Luca “oggi nasce per noi il Salvatore, che è Cristo Signore” è chiaro che dovrà essere nostra costante premura farne crescere la presenza nelle persone, nelle nostre famiglie e comunità ecclesiali, mediante soprattutto la preghiera, una rinnovata catechesi che coinvolge anche i genitori; mediante la formazione permanente, sia dei fedeli laici sia dei presbiteri; mediante una più approfondita conoscenza della Parola – chi non conosce la Bibbia non conosce Cristo -; mediante un’assidua pratica della Carità di Cristo in tutti gli ambienti di vita, non solo nell’assistenza, ma anche nel sociale e nel politico; mediante l’assunzione di una pastorale integrata, per una evangelizzazione comunitaria e corale, sinodale.

Che il Bambino Gesù, che si incarna anche nel pane e nel vino, transustanziandoli, diventi nutrimento per il nostro cammino, cibo di vita piena. Buon Natale a tutti, piccoli e grandi, giovani ed anziani, malati e soli. Cristo luce, porti pace e serenità a tutti.

+ Mario Toso

Omelia: SOLENNITÀ DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE

Cari fratelli e sorelle, la Parola di Dio, tratta dal libro della Genesi (Gen 3, 9-15.20), ci parla del peccato che si è introdotto nella storia dell’umanità. Avvenne agli inizi, con Adamo ed Eva, ma continua ancora oggi. Si tratta di un inganno macchinato dal nemico di Dio, da Satana, raffigurato dal serpente che parla alla donna ed induce a disobbedire al comando del Creatore. Ecco il punto nodale. L’umanità, nell’unità duale di uomo e donna, creata da Dio per amore, per vivere in piena armonia con Lui, si allontana dal Padre e flirta con chi porta divisione in essa, nonché confusione e perdita di coscienza della propria identità, quella di figli di Dio. Ma distaccandosi da Dio non si sa più chi si è, per chi si è. Viene meno il senso profondo della vita.

La solennità dell’Immacolata è per la Chiesa intera l’occasione per festeggiare in Maria di Nazareth l’umanità che finalmente risponde all’amore di Dio e non delude alle sue attese. Celebrare l’Immacolata è onorare ed amare la Madre del Redentore, di una nuova umanità. È comprendere che, come Lei, ognuno di noi, uomo o donna, giovane o anziano, siamo chiamati a metterci a disposizione di Dio, per consentire a suo Figlio Gesù, di diventare cuore del mondo, amore incarnato del Padre.

Come Maria immacolata, accogliamo, dunque, con fede Gesù e con amore doniamolo al mondo, perché ogni persona possa amare e servire Dio col cuore di Cristo.

Ma, chiediamoci, davvero noi oggi desideriamo donare al mondo un’umanità nuova, davvero lavoriamo per un nuovo rinascimento, per una nuova primavera, come la Madre di Gesù?

Non è, forse, che spesso ci mimetizziamo dietro proposte culturali e politiche che nulla hanno da spartire con i valori umani ed evangelici e che, anzi, sono in aperta contraddizione con l’insegnamento di Gesù Cristo? E, poi, non è vero che spesso siamo persone timorose, che rinunciano ad un annuncio gioioso e coraggioso di Gesù agli altri per paura di essere tacciati come retrogradi, portatori di una perniciosa superstizione? Così, già nei primi secoli veniva bollato il cristianesimo. Alle volte, poi, non sembriamo, a fronte delle sfide odierne, quali l’individualismo libertario e la cultura fluida del mondo digitale che ostacola la percezione della propria identità,truppe in ritirata che non sanno affrontare i problemi, senza credere di avere un proprio apporto originale da offrire, proponendo una visione di persona ad immagine di Dio, fatta per il dono? Non raramente i credenti generano la sensazione di essere un popolo di rassegnati, incapaci di reagire all’emarginazione prodotta da parte di culture materialistiche, tecnocratiche, chiuse alla trascendenza. Essi danno l’impressione di essere incapaci di portare la speranza ad un mondo in balia del non senso.

Ma chiediamoci anche: siamo, davvero, membra vive della comunità ecclesiale? Perché questa domanda? Perché emerge che in non poche occasioni, adulti e giovani, abbracciamo la nostra fede in maniera quasi consumistica, tenendola per noi, ripiegandoci nella coltivazione della nostra serenità interiore, pensando solo al nostro benessere spirituale, senza preoccuparci della salvezza integrale degli altri? Non è vero, forse, che ponendoci di fronte all’Immacolata preghiamo solo per la nostra famiglia, per noi stessi e non pensiamo che dobbiamo pregarla e supplicarla per il mondo intero? Ricordiamoci che non ci salviamo da soli. È importante che anche le nostre comunità ed associazioni siano redente e trasfigurate. Dobbiamo, poi, vigilare per non essere soprafatti dalla psicologia della tomba, che poco a poco ci trasforma in portatori di un pessimismo sterile, capaci di vedere solo rovine e guai attorno a noi. Il Figlio di Dio, regalatoci dal Padre e dalla Vergine Maria Immacolata, ci sollecita a superare la sfiducia permanente nelle persone, la paura dell’altro, gli atteggiamenti meramente difensivi, per diventare umanità sempre più capace di accoglienza, di convivialità, di servizio al bene comune. Maria Immacolata ci mostra un’umanità che ricerca gli interessi di Dio, desidera innalzare la civiltà dell’amore. Si presenta a noi come un persona umile, ma non per nulla rassegnata di fronte al male, all’idolatria e alla ingiustizia. Appare determinata nel collaborare con Dio, nel costruire il nuovo popolo di Dio, che è la Chiesa. Mentre avanziamo incontro a Dio che viene, guardiamo a Maria che «brilla come segno di sicura speranza e di consolazione per il popolo di Dio in cammino» (Lumen gentium, n. 68). La Vergine dell’ascolto e della contemplazione, la Madre dell’Amore, la serva del Signore (cf Lc 1, 26-38), interceda per tutti noi, per la sua Chiesa, perché non sia popolo delle catacombe e non si fermi mai nell’instaurare il Regno di Dio.

In questa Eucaristia preghiamo per coloro che questa notte sono morti nella discoteca di Corigliano in provincia di Ancona. Preghiamo perché i nostri giovani non solo possano andare in discoteche sicure ma anche nelle loro comunità religiose per onorare Maria Immacolata, «Vergine Madre, Figlia di suo Figlio, umile ed alta più che creatura» (Dante, Paradiso XXXIII, 1-3).

+ Mario Toso

AVVENTO 2018

Ci avviciniamo all’Avvento, momento importante dell’anno liturgico perché avvia un nuovo anno di Grazia per noi. L’Avvento viene celebrato perché ricordiamo e rendiamo presente nei nostri giorni l’opera della salvezza di Cristo. La redenzione va continuata e completata nelle nostre vite, nelle comunità, che si inoltrano nel tempo, verso la città celeste. L’Avvento ci sollecita all’attesa di Colui che viene ad abitare tra noi, con noi, in noi. Ci chiama all’impegno ad accogliere Chi ci salva e ci divinizza e, pertanto, viene a far nuove tutte le cose: le nostre relazioni, le famiglie, le società, il dialogo pubblico, interreligioso e interculturale. Siamo chiamati ad essere sempre, ogni anno, ogni giorno, popolo dell’attesa, dell’accoglienza di Dio, dell’incarnazione della sua Nuova Umanità: in noi, nelle legislazioni, nelle istituzioni, nelle città, nei rioni. L’attesa si traduce, spontaneamente, in operosità solerte. Il mondo è assetato di Dio e della sua giustizia. Il tempo scorre veloce, passa inesorabilmente, ma non dev’essere invano o comunque. L’uomo cerca ansiosamente la sua ragione di esistere. Non possiamo non essere popolo del Verbo che si fa carne e che viene ad accompagnarci nel nostro cammino con il suo Spirito d’amore, potente nel vincere il male e la morte, glorioso nel seminare ogni bene. La Chiesa del Verbo incarnato è popolo missionario di Cristo, che si pone al centro delle nostre esistenze, del mondo e della storia, come principio e fine. Continuiamo la sua incarnazione liberante e generativa di vita nuova nelle nostre comunità, nelle nostre associazioni e movimenti. In questo facciamoci aiutare dagli Orientamenti per l’anno pastorale 2018-2019: Un popolo in cammino verso Dio. Chiedete ai vostri parroci e ai responsabili delle associazioni che ve li presentino e ve li spieghino. Non dimentichiamoci di pregare per il Sinodo diocesano dei giovani, affinché diventino sempre più parte attiva e responsabile della Chiesa, popolo del Verbo che si incarna nel mondo per trasfigurarlo. Andiamo incontro al Signore che viene con le mani colme di opere buone. Tra queste, la nostra Diocesi domanda umilmente la solidarietà nei confronti della Casa del clero, che ospita i presbiteri anziani ed ammalati. La prima domenica di Avvento le diverse comunità parrocchiali sono chiamate ad organizzare una colletta per questo fine. Buon Avvento!

+ Mario Toso

OMELIA PER LA COMMEMORAZIONE DEI FEDELI DEFUNTI

Faenza, 2 novembre 2018

Cari fratelli e sorelle, ieri nella solennità di tutti i santi abbiamo riflettuto su quello che siamo: siamo una grande e sconfinata comunione. Formiamo la comunione dei santi del cielo e della terra. E ciò grazie a Cristo, del quale facciamo parte, formando il Corpo mistico che è la Chiesa. Venendo a celebrare l’Eucaristia qui, nel cimitero, come Chiesa viviamo l’affetto delle comunità cristiane per i defunti, per coloro che dormono il sonno della pace, in attesa della risurrezione del corpo.

La comunità ecclesiale genera, mediante il battesimo e la Confermazione, e con tutti gli altri sacramenti, nuovi figli per la famiglia di Dio. Si tratta di una moltitudine sconfinata di credenti di ogni nazione, razza e lingua (cf Ap 7,9), che formano un unico popolo, composto: da coloro che sono già giunti, secondo anche l’immagine di sant’Agostino, nella città santa, la Gerusalemme celeste, ove esultano alla presenza di Dio Padre e del Figlio Risorto e Glorioso; da quelli che attendono di entrare in essa dopo la purificazione dei peccati; e da tutti noi, pellegrini sulla terra. Una grande teoria di persone che attraversano i tempi e gli spazi per stabilizzarsi nella esultante comunità dell’Amore della famiglia di Dio, la Trinità.

La Chiesa, che è madre, coi suoi figli pellegrini su questa terra, si reca in questi giorni, in maniera comunitaria, presso i cimiteri o i dormitori, ove sono custodite e venerate le spoglie mortali di tanti fratelli e sorelle che sono vissuti e vivono in comunione con noi e le cui anime – come dice la Scrittura – «già sono nelle mani di Dio» (cf Sap 3,1).

In questa Chiesa e in questo cimitero, cari fratelli e sorelle, siamo venuti per onorare e ricordare i nostri defunti con una preghiera collettiva. Qui compiamo ed offriamo atti di fede, di speranza e di carità. Qui professiamo la nostra fede: «il terzo giorno Gesù è risuscitato, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine». Qui pronunciamo: «aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà». Qui viviamo l’amore di Cristo che è venuto per essere nostro cibo e viatico nel cammino verso la intramontabile luce di Dio, per aiutarci a trasfigurare la terra che attraversiamo, per sconfiggere la morte, e per trasferirci, resi immortali, nel suo Regno di amore.

Con una partecipazione corale al sacrificio eucaristico, possiamo intercedere per la loro salvezza eterna e, ancora una volta, sperimentare la più profonda comunione tra noi, che siamo in questo mondo e coloro che ci hanno preceduto nel segno della fede, in attesa di ritrovarci insieme. Saremo ancora, sia pure in maniera diversa, chiesa domestica unita alla grande famiglia di Dio. Grazie a Gesù Cristo, il pontefice massimo che unisce la sponda della mortalità con quella dell’immortalità – Egli è Uomo-Dio – le nostre suppliche e preghiere possono giungere ai nostri cari. Nella santa Messa, in cui facciamo memoria della morte e risurrezione di Cristo, assumendo la medicina di immortalità che è Cristo stesso, viviamo nei confronti dei nostri defunti non solo una tenerezza individuale, personale. Grazie a Cristo, che ci unisce nel suo Corpo, viviamo una tenerezza comunitaria: ossia la tenerezza di un popolo; una tenerezza ampliata, senza confini, perché vissuta in quella di Dio Padre, Figlio e Spirito santo. Mediante l’Eucaristia viviamo un amore non semplicemente umano ma divino.

Celebrando il sacrificio eucaristico non onoriamo da soli i defunti. Tutta la Chiesa, assieme a noi, fa giungere ai defunti il suo affetto e la sua solidarietà. Che mistero! Che consolazione! Che fortuna per noi cristiani. Anche se noi ci dimenticassimo dei nostri defunti, la Madre, che è la Chiesa, che a differenza dei suoi figli terreni non diviene arteriosclerotica, continuerà, sino alla fine dei tempi, a pregare per i defunti, senza fine. In un mondo in cui le persone sono diminuite nella loro dignità, sono scartate e quasi rimosse da prepotenti gesti di autoaffermazione solitaria, è davvero rasserenante pensare che continueremo ad essere ricordati e, in un certo senso, tenuti sulle ginocchia di quel popolo che Dio  ha costituito come comunione, famiglia.

L’Eucaristia è un momento unico, che ci fa sperimentare nei confronti dei nostri parenti defunti una commozione e un’empatia collettive e senza pari. Tutti ricordiamo non solo i defunti della nostra singola famiglia, bensì tutti i defunti. Siamo riconoscenti a tutti i defunti, perché grazie ad essi siamo stati resi partecipi della comunità cristiana, la comunità che comprende tutti i popoli della terra,  e in cui ognuno di noi è stato accolto e cresce. Lo sappiamo: non possiamo crescere da soli nella fede. La nostra fede cresce nella comunità, con la comunità, ossia grazie al dono di una comunione più ampia di quella semplicemente famigliare. Noi cresciamo come credenti in una comunione di persone, che è tale grazie alla nostra comunione con Cristo.

Davanti ai resti mortali dei nostri parenti è naturale che ci invada, con le lacrime, un mondo di emozioni, sentimenti d’affetto. Ricordiamo il loro amore per noi, le cure di cui ci hanno circondato, il bene che ci hanno voluto per farci crescere capaci di vero, di dono e di Dio. In un modo simile, le nostre comunità qui rappresentate, davanti a tutti i defunti si inteneriscono, provano riconoscenza per coloro che hanno piantato il Vangelo nelle nostre vite e nelle nostre comunità. Siamo grati a tutti i nostri fratelli defunti per averci aiutati a crescere come popolo ove la vocazione di servire le persone e Dio è un distintivo divino. Le preghiere per i nostri defunti rivolte a Cristo ci facciano crescere sempre di più nella comunione dei santi. Il ricordo dei nostri defunti ci restituisca alle nostre famiglie e alle nostre comunità cristiane orgogliosi e rinfrancati per aver sperimentato, ancora una volta, la forza potente della comunione dei santi, comunione tra noi e con Cristo. Tramite tale comunione possiamo beneficare i nostri defunti ed essere, a nostra volta, beneficati da loro. Maria, Madre della Chiesa, della comunione tra noi e con Cristo, ci protegga e ci accompagni nel nostro cammino verso la città santa, la nuova Gerusalemme.

+ Mario Toso

OMELIA PER LA SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

Faenza, cattedrale 1 novembre 2018

Celebriamo oggi con grande gioia la solennità di Tutti i Santi. La Chiesa ci appare come un «giardino», in cui lo Spirito di Dio, con mirabile fantasia, ha suscitato una moltitudine di santi e sante di ogni lingua, popolo e cultura, di ogni età e condizione sociale. Ognuno è diverso dall’altro, con l’unica e irripetibile singolarità della propria personalità umana e del proprio carisma spirituale. Tutti, però, recano impresso il «sigillo» di Gesù (cf Ap 7,3), che è l’impronta del suo amore, testimoniato attraverso la Croce. Il sigillo comune ci fa intravedere l’unità che li collega tra di loro.

Oggi, infatti, celebriamo la festa dei molti santi, non tanto considerandoli come mere individualità, come atomi impreziositi da Dio. Facciamo la festa della Chiesa intera, Chiesa come insieme di credenti: di quelli che sono già nella città santa, la Gerusalemme celeste; di quelli che attendono di entrarvi mediante la purificazione; di quelli che, come noi, sono ancora pellegrini sulla terra. Oggi è la festa della Chiesa come unica famiglia, soprattutto come comunione di persone, perché parte di Cristo, del suo Corpo mistico, che le unisce in un unico popolo.

È festa della riconoscenza. Siamo in festa non tanto per i nostri meriti, bensì grazie all’amore che Dio nutre per noi. E, quindi, non è una festa di autocompiacimento. È, bensì, momento di rendimento di grazie, di gioia esultante, perché abbiamo Dio come Padre. Un Dio che ci ama perdutamente, che ci associa alla pienezza della sua eterna felicità, destinandoci a partecipare alla sua vita senza fine.

In definitiva, non si tratta di fare festa perché siamo persone diligenti e buone. Anche per questo, certamente. Ma siamo gioiosi e festanti, soprattutto perché persone amate, perché unite da una relazionalità profonda, perché costituite comunione di popolo: un popolo nuovo nel mondo, che cammina verso il futuro, che è l’Amore della Comunità trinitaria.

Il ricordo di tutti i santi, infine, lo celebriamo sperimentando un grande desiderio di bene, di vita immacolata nell’amore. I santi contemplati suscitano il desiderio intenso di essere simili a loro, persone totalmente pervase dalla luce di Dio. Ci spronano ad essere dinamici.

La festa odierna non è, dunque, semplice fruizione, di gioia fine a se stessa, per persone che si fermano nella beatitudine di un momento. È festa che mette in cammino, sospinge ad accelerare il passo nella costruzione di un mondo migliore, ad essere attivi contemplando, guardando in profondità e in avanti. Essere santi significa, certamente, vivere nella vicinanza di Dio, nella sua luce, vivere nella sua famiglia, ascoltare il Signore Gesù, ma significa in particolare seguirlo, camminare dietro a Lui, con Lui, senza perdersi d’animo di fronte alle difficoltà, alla Croce. È imboccare la strada delle beatitudini (cf Mt 5, 3-10). È percorrere la via che è Cristo. È Lui, infatti, il vero povero in spirito, l’afflitto, il mite, l’affamato ed assetato di giustizia, il misericordioso, il puro di cuore, l’operatore di pace. È Lui il perseguitato a causa della giustizia.

La nostra gioia di essere popolo di Dio, pertanto, sarà più grande se ci percepiremo come credenti attivi e responsabili, lievito nel nostro territorio, gente di fede che incide nei rapporti, nelle famiglie, nelle istituzioni, perché capaci di incarnare l’umanità nuova portataci da Cristo, il Beato per eccellenza.

Rispetto al compito di trasfigurare la vita sociale, di rendere più fraterne e giuste le relazioni, ciascuno di noi dovrebbe rattristarsi se non vi riuscissimo. Il divenire insignificanti e irrilevanti rispetto al bene comune dovrebbe farci arrossire, non perché punti nell’orgoglio, ma perché, in definitiva, non saremmo degni di essere membra vive del Corpo di Cristo. Dovrebbe allora inquietarci la parola di Cristo stesso, il quale stigmatizzò il sale insipido, che non insaporisce e a null’altro serve se non ad essere gettato via.

È, dunque, nella coincidenza con la solennità di tutti i santi, che si è deciso di rendere noti gli Orientamenti pastorali per l’anno 2018-2019, non a caso aventi per titolo: Popolo in cammino verso Dio. Nei brevi orientamenti, stilati dal vescovo e che i vostri parroci vi illustreranno, si sollecita la nostra Diocesi a fissare lo sguardo su Cristo incarnato, oltre che su Cristo Risorto. Egli è il Signore che vive in noi, nelle nostre comunità, e le sottopone al parto di una nuova umanità, alla nascita di una nuova tradizione di santità nella letizia.

Il popolo pellegrino, che noi siamo, è allora chiamato a trasfigurare la terra che attraversa, mentre si incammina verso Dio. Come anche cercano di far capire gli Orientamenti, la santità non dev’essere solo delle singole persone. Per diffondere il Regno di Dio in maniera efficace, è necessario essere soprattutto un popolo santo, che avanza nell’insieme delle sue componenti, con un cuore solo ed un’anima sola, per una stessa missione. Per servire meglio il mondo, dobbiamo vivere la gioia di sentirci popolo, popolo che immette nelle vene dell’umanità la linfa vivificante e divinizzante delle beatitudini. La santità, che siamo chiamati a vivere, è santità collettiva e comunitaria, ossia di popolo interamente missionario, inclusivo  dei giovani.

È proprio per questo che stiamo celebrando il Sinodo dei giovani.

Vivendo e testimoniando una santità comunitaria, sarà più facile affrontare le sfide che ci attendono. Saremo maggiormente in grado di esprimere una formazione permanente sia dei presbiteri sia dei fedeli laici, al fine di poter disporre di validi catechisti e catechiste, di docenti di religione preparati dal punto di vista non solo professionale, ma anche relazionale e didattico. Saremo anche più capaci di rinnovare la pastorale vocazionale e giovanile, nonché quella familiare. Ricordiamo che papa Francesco, nell’udienza del mercoledì in cui ha ricevuto anche i nostri cresimati, ha sollecitato ad istituire un catecumenato per i fidanzati. Ed, inoltre, saremo più impegnati nella pastorale sociale, scolastica, della comunicazione. I nostri credenti, diventando adulti, potranno così testimoniare una fede viva, pensata, generante una cultura cristiana, che li aiuterà ad essere luce splendente, a rendere efficacemente ragione della speranza che vive in loro.

Lungo il cammino, il vigore sarà dato dal Pane che viene dal cielo e che Gesù stesso ha spezzato nella sosta di Emmaus. Lo spezzare il pane è il gesto liturgico originale, che ci fa riconoscere come comunità che, mentre fa memoria della Pasqua, è costituita nel mondo fonte di una profonda rivoluzione morale e spirituale.

Nella celebrazione eucaristica che stiamo vivendo, accresceremo la gioia di essere popolo in comunione. Rinfrancati dalla comunione con Cristo e tra di noi, domani commemoreremo tutti i fedeli defunti. La comunione nel Corpo mistico di Cristo ci consente di far giungere il nostro suffragio a coloro che ci hanno generati alla vita e alla fede con tanto amore.

+ Mario Toso

CONFERENZA STAMPA: RIAPERTURA BIBLIOTECA CARD. GAETANO CICOGNANI

Siamo giunti ad un momento importante per la nostra Diocesi di Faenza-Modigliana: la riapertura della Biblioteca del Seminario Card. Gaetano Cicognani, che è la Biblioteca non pubblica più grande della Regione Emilia-Romagna. Per un’istituzione culturale e formativa quale è il Seminario della Diocesi, la Biblioteca è un polo imprescindibile. Il polo principale è costituito dalla Cappella ove è offerto il cibo spirituale, il pane celeste. La biblioteca offre alle persone un cibo prettamente culturale.La riapertura della Biblioteca, che è stata e sarà anche al servizio del territorio, rappresenta il ripristino di uno dei pilastri della formazione e dell’educazione cristiane programmate normalmente nella Diocesi, nelle parrocchie, nelle associazioni. La Biblioteca non è solo un patrimonio librario che conserva insigni testimonianze culturali e sociali della tradizione cristiana – tradizione religiosa e sociale -, di altre tradizioni, della letteratura in genere, della riflessione teologica, filosofica, sociologica, della sapienza umana, ma è luogo in cui, mediante ricerca, conoscenza approfondita e critica delle fonti, si entra in relazione, per quanto a noi possibile, con lo spirito e l’ethos di varie civiltà. Entrando nel cuore della storia di diverse generazioni si ha l’opportunità di arricchire il proprio pensiero, le nostre informazioni, l’umanesimo che ci appartiene e che vuole essere espressione di un impegno costante di crescita morale, spirituale e culturale, procedendo in avanti.

Ci saranno, però, altre occasioni per parlare sull’incidenza e sulla rilevanza di una Biblioteca rispetto al popolo di Dio e alla sua missione, al territorio.

Qui mi limito a ringraziare tutti coloro che, a cominciare da don Michele Morandi, Rettore di questo Seminario, don Ugo Facchini bibliotecario, Giovanni Gardini vicebibliotecario, hanno creduto nel progetto della riapertura. Un tale progetto ha importato dedizione su più fronti, quello della sicurezza, delle risorse economiche, della catalogazione, del reperimento del personale, per tenerla aperta non solo ai Seminaristi ma anche al pubblico, non solo di giorno, ma fino ad ora tarda per facilitare gli studenti che in città non possono usufruire di altri luoghi di studio. E, inoltre, auspico che la nostra Biblioteca non solo sia sempre più aggiornata per l’acquisizione di nuovi studi, collane, ma anche sia sempre più inserita nella rete delle biblioteche ecclesiastiche e civili, sul piano nazionale ed internazionale. L’obiettivo dev’essere quello di sviluppare un’istituzione moderna, rispondente alle esigenze attuali, concretizzando una felice sintesi tra la biblioteca tradizionale – concepita come luogo di consultazione e conservazione di testi a stampa – e la biblioteca elettronica, che non è ubicata fisicamente in un solo luogo, ma è un insieme di risorse dislocate in diverse istituzioni ed organizzazioni, disponibili in rete ventiquattro ore su ventiquattro.

La costituzione di una biblioteca che armonizza le prestazioni usuali con quelle più aggiornate, come l’organizzazione di eventi culturali, di circoli-laboratori di nuovo pensiero e di nuove esperienze di vita, facilita lo studio e la promozione dello spessore culturale delle persone; consente una migliore distribuzione e diffusione di beni culturali che prima erano meno accessibili; potenzia la collaborazione e lo scambio con altre biblioteche, con i centri culturali e le università del mondo. Un’«utopia» potrebbe essere, rimanendo però su un piano locale, in modo analogo alla rete che si va istituendo tra Curia e parrocchie, l’istituzione di una rete tra la Biblioteca del Seminario e le bibliotechine delle parrocchie e delle associazioni con sede nelle varie unità pastorali, nei centri delle varie istituzioni culturali. Naturalmente tutto ciò significa – ecco un altro impegno – coinvolgimento e preparazione di persone interessate a questo progetto.

+ Mario Toso