Author: pasienrico

Santa Messa dell’inizio del Cammino sinodale

Faenza, cattedrale 17 ottobre 2021.

Cari fratelli e sorelle,

ci troviamo in un momento in cui la Chiesa, sia universale sia locale, desidera celebrare il suo essere più intimo e profondo, ossia il suo essere comunione, partecipazione, missione, il suo camminare insieme o, meglio, il suo essere sinodale. La Chiesa universale ha già iniziato a Roma il Sinodo (2021-2023). Noi, invece, come Chiesa locale, iniziamo oggi un cammino sinodale che si protrarrà per quattro anni (2021-2025). E, dunque, come Chiesa locale, Chiesa della Diocesi Faenza-Modigliana, ci troviamo qui ad intensificare il nostro essere comunione, partecipazione e missione, tre parole chiave per il cammino pastorale. Non si punta subito a celebrare un Sinodo, bensì ad acquisire uno stile sinodale permanente nelle nostre Diocesi, che probabilmente culminerà in un Giubileo o in un Sinodo (2025). In un tempo di pandemia e di successiva rinascita, occorre mettersi in ascolto della vita personale e comunitaria per intercettare nuove domande e tentare nuovi linguaggi, al fine di accompagnare la rigenerazione, di rafforzare quanto di buono e di bello si è fatto. Si tratta, soprattutto, di riaccendere la passione missionaria e pastorale, di rinnovare lo spirito e l’agire ecclesiali, mediante un costante discernimento comunitario cristiano e la preghiera allo Spirito santo, per raggiungere tutti, anche i lontani.

Siamo, dunque, chiamati al risveglio della nostra coscienza missionaria e, prima, della nostra coscienza comunitaria e trinitaria.

Sappiamo che non da oggi è iniziato il nostro essere comunione, partecipazione e missione. Noi siamo in comunione, partecipi e missionari, siamo cammino sinodale da quando la Chiesa è stata istituita da Gesù Cristo e da quando abbiamo incominciato a farvi parte concretamente con il battesimo e la confermazione. Ma dove, più precisamente, incrementiamo e rigeneriamo incessantemente il nostro essere comunione, partecipazione, missione? Nella celebrazione dell’Eucaristia. Per questo oggi, mentre intraprendiamo un cammino sinodale più intenso, con un passo più lesto, facciamo memoria dell’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù Cristo.

Nella celebrazione eucaristica siamo convocati da Dio nella comunione dell’amore con Gesù Cristo e tra di noi. Anzi, siamo chiamati in una comunione più grande. Attraverso la comunione con Cristo e tra di noi, siamo inseriti nella vita di un «noi» infinito, quello della Trinità, comunità dell’amore e della missione per eccellenza. È dall’Eucaristia, che celebriamo ogni giorno e, in particolare, ogni domenica, che la Chiesa trae il suo essere costituita in unità, il suo essere partecipazione alla vita di Dio-Amore e il suo essere missionario. Per noi l’Eucaristia è fons et culmen: è fonte e vertice della comunione, della partecipazione, della sinodalità (del camminare insieme) e della missione. Celebrando l’Eucaristia comunichiamo col centro della Chiesa che è Cristo: incarnato, morto e risorto. Dall’unione con Lui deriva la nostra vita di comunione con Lui e con la sua missione. È così che la Chiesa, come ci ha insegnato Giovanni Paolo II nella sua enciclica Redemptor hominis, accogliendo Cristo, celebrandoLo, percorre la sua stessa via di incarnazione e di redenzione dell’umanità, condivide la sua missione. In tal modo, la Chiesa intera, con tutte le sue componenti, diventa il lievito che fa fermentare il Regno dell’amore e della pace dentro la pasta del mondo, affinché Cristo sia tutto in tutti. Essa non intende dominare le coscienze e occupare gli spazi, bensì permearli e vitalizzarli con la pienezza della vita di Cristo, con il suo Spirito d’amore. Il nostro convenire liturgico di oggi, ma anche quello di domani, sino alla fine dei tempi, avviene per sostenere il nostro camminare insieme evangelizzante. Ne deriva una conseguenza importante per la nostra partecipazione nella vita di comunione e di missione. Senza il convenire eucaristico, senza la celebrazione eucaristica della gratuità di Cristo che muore e risorge per rinnovare le persone, e non per accumulare tesori e potere terreni, non si entra con entusiasmo e in maniera disinteressata nei vari organismi di partecipazione (consigli presbiterali, pastorali, per gli affari economici). Senza il convenire eucaristico, non si evangelizza camminando insieme, superando campanilismi, rivalità e divisioni. Permane il male più grave per i credenti, ossia la separazione tra fede e vita. Senza l’Eucaristia, il Sinodo diventa un parlamento, un discorso meramente umano, che somiglia di più ad una discussione comunitaria che dibatte problemi periferici rispetto all’annuncio di Cristo. La principale sollecitudine di un cammino sinodale è, invece, quella di portare Cristo a tutti, perché tutti vivano di Lui. È sempre attuale l’invito pressante di Cristo: «Andate ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli» (Mt 22,9).

Cari fratelli e sorelle, come soleva ripetere il teologo Yves Congar, mediante il cammino sinodale che ci attende, non bisogna fare un’altra Chiesa ma una Chiesa diversa da quella che viviamo stancamente, con un certo immobilismo e senza ardore. Una Chiesa nuova richiede, piuttosto, conversione e un discernimento guidato dallo Spirito. Anche per questo è stata costituita un’equipe ad hoc a cui seguirà la formazione di gruppi sinodali chiamati a confrontarsi su nuclei tematici individuati dalla Conferenza episcopale ed adattati alla nostra Diocesi. Non dimentichiamo che eravamo già posti entro un percorso sinodale, perseguendo la ristrutturazione e la conversione pastorale delle nostre parrocchie per renderle più missionarie, più partecipate da gruppi ministeriali di laici (cf M. TOSO, Nuova evangelizzazione: luoghi pastorali: Sussidio pastorale per l’anno 2020-2021, Faenza 2020), più capaci di catechesi, più popolate da giovani, costruttori della Chiesa e della società. Non a caso abbiamo celebrato il Sinodo dei giovani (cf DIOCESI DI FAENZA-MODIGLIANA, Collaboratori della vostra gioia. Documento post-sinodale, Faenza 2020). Il camminare insieme diventi principio e via di crescita, di educazione permanente alla fede, modalità distintiva del nostro servire nella comunità cristiana. Gesù Cristo ci sollecita a un tale stile di vita umile e generoso: «[…] il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (cf Mc 10, 35-45).

+ Mario Toso

Vescovo di Faenza-Modigliana

Ecologia integrale dopo il coronavirus

Il saggio di Mons. Mario Toso

Un libro per approfondire le radici teologiche, antropologiche ed etiche dell’enciclica Laudato sì’ e per rinascere, dopo la pandemia Covid 19, attraverso i nuovi paradigmi dell’ecologia integrale indicati, in maniera profetica cinque anni fa, da papa Francesco. E’ disponibile il nuovo saggio scritto dal vescovo di Faenza mons. Mario Toso “Ecologia integrale dopo il coronavirus”, edito dalla società Cooperativa Sociale Frate Jacopa; un volume in cui mons. Toso rilegge l’enciclica papale e indica buone prassi con i quali poterla concretizzare nella società civile perché «tutto è intimamente connesso – scrive mons. Toso – sia sul piano delle idee sia sul piano della realtà sia delle buone pratiche». Questo nuovo volume vuole essere anche un apporto alla preparazione della 49^ Settimana sociale dei cattolici italiani “Il pianeta che siamo. Ambiente, lavoro, futuro” che si svolgerà nel novembre 2021.

Papa Francesco ha recentemente indetto un Anno speciale per riflettere sull’enciclica Laudato sì’, dal 24 maggio 2020 fino al 24 maggio del prossimo anno. Il pontefice è convinto che l’enciclica debba essere accolta, assimilata e sperimentata. In vista di ciò appare fondamentale, come vademecum utile per le scuole, le comunità e le associazioni, questo nuovo volume del vescovo di Faenza. Nell’ampio studio si fa leva sull’espressione ecologia integrale, chiave di volta dell’enciclica. Questa espressione intende focalizzare la connessione intrinseca tra ecologia umana ed ecologia ambientale. Fa capire come l’ambiente non può essere salvaguardato senza una seria educazione ecologica, e che non possiamo pensare di rimanere sani in un mondo malato. Per l’atto creativo di Dio viviamo in una casa comune la cui insensata distruzione influisce ineluttabilmente sul destino dell’umanità.

Vedere, giudicare, agire e celebrare. Il poliedrico saggio di Mario Toso indica, infatti, la metodologia necessaria per l’approccio globale ai contenuti dell’ecologia integrale: la metodologia del discernimento. I molteplici aspetti della questione ecologica vanno assunti assieme. Non possono essere trascurati uno a danno dell’altro. Pena la riduzione dello spessore totale dell’ecologia integrale, che non può essere ridotta a vuota espressione verbale o a realtà monca. Nel saggio, allora, sono affrontati più temi in maniera complessiva e interdipendente: rilettura della Laudato sì’ a cinque anni dalla sua promulgazione; famiglia ed ecologia integrale; economia ecologica e circolare; politica e cittadinanza ecologiche; etica e diritto all’alimentazione; energia e cibo; umanesimo ed energia sostenibile per tutti; acqua, elemento essenziale per tutti; acque irrigue; nuova evangelizzazione del mondo agricolo-rurale.

Mons. Mario Toso è vescovo di Faenza-Modigliana. Già rettore magnifico dell’Università Pontificia Salesiana e segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, ha al suo attivo numerosi saggi e scritti.

Per ordinazioni: info@coopfratejacopa.it – Cell. 3282288455.


Inaugurazione centro diurno Caritas: La Tenda

Faenza, san Domenico 16 novembre 2019

Cari fratelli e sorelle, nel contesto della liturgia della 33.a domenica inauguriamo il Centro diurno «La Tenda». Si tratta di un Centro di accoglienza ove le persone anziane o adulte sole, indigenti e/o senza fissa dimora possano trascorrere la giornata al caldo, condividendo alcune ore del giorno o anche tutta la giornata, partecipando a varie attività relazionali ed educative. Caritas e Comunità papa Giovanni XXIII si sono messe a disposizione per realizzare questo servizio, in collaborazione con i Servizi sociali della Romagna Faentina, Farsi prossimo e la Fondazione Pro Solidaritate. Durante questa celebrazione dell’Eucaristia, che precede la Benedizione dei locali e dei servizi, siamo sollecitati a riflettere sul significato di un’iniziativa che intercetta i bisogni di un numero crescente di persone e intende rispondere ad essi, in vista di un’esistenza più dignitosa.

Il brano del Vangelo di san Luca esordisce così: «In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta”» (Lc 21,5-6). Cosa può dire a noi l’accenno alla distruzione del tempio di Gerusalemme, che era stato costruito come casa del Signore? Ci ricorda il tempo in cui il popolo di Israele discuteva per decidere di costruire per il Signore una casa degna di Lui, mentre era ospitato in una tenda. E ci ricorda anche che il Signore Gesù venne ad abitare con noi, mediante l’incarnazione, ponendo la sua tenda in mezzo al suo popolo. Si tratta di una tenda non come tutte le altre, ossia di una tenda che non è tessuta da mani d’uomo. La tenda che egli assume per vivere in mezzo a noi è l’umanità, intessuta nel grembo di Maria Vergine ad opera dello Spirito santo. Cristo assume la nostra condizione umana, diventa uno di noi, per vivere e camminare con noi. Assumendo la nostra umanità, il Figlio di Dio, che vince la morte e risorge, ci consente di condividere un destino di pienezza di vita e di immortalità. Il corpo glorioso di Cristo, in cui vive il «noi» della nostra comunità, è il nuovo tempio che ci è offerto per vivere in Lui il culto a Dio, il nostro «sacrificio» di amore. In tale tenda, siamo chiamati a vivere, con perseveranza e senza paura, rispetto ad ogni calamità e alla distruzione di ogni tempio fatto dall’uomo con pietre. Tutto in questo mondo passa. Il cielo, la terra, le cose più belle, anche questa maestosa chiesa dedicata a san Domenico passa. Ciò che rimane e resta sempre, come ricchezze che non svaniscono, sono: il Signore Gesù, che è il tempio indistruttibile e il prossimo. Bella, dunque, l’immagine adottata per indicare il Centro di Accoglienza diurno: La Tenda, una tenda che rimanda ad un oltre, ossia a Cristo fattosi carne, unico Corpo nel quale noi tutti siamo e viviamo. Accogliere le persone bisognose nel Centro che si chiama Tenda significa, in definitiva, offrire ad esse, la nostra umanità, che grazie a Cristo, diviene tenda accogliente. Diventa tenda-che-accoglie vivendo nella Tenda, che è stata piantata in mezzo a noi dal Figlio, Uomo-Dio. Questa prospettiva dona uno spessore particolare all’accoglienza che si opererà nel Centro qui attiguo. Si è chiamati a essere e a farsi tenda, che accoglie la stessa «carne» di Cristo, e che nei deserti della vita, presenti anche in questa città, offre il caldo conforto di un’umanità, la nostra, vivente lo stesso amore consolante e rinfrancante di Gesù Cristo che serve.

Cari Responsabili, volontari, operatori, non dimenticate mai, allora, che ciò che farete a ognuno di coloro che accoglierete sarà fatto a Cristo stesso. Questa certezza sosterrà le vostre fatiche e il vostro dono d’amore, pieno di professionalità, attento alla persona di ognuno. Voi sarete le mani e il cuore di Cristo, ma anche le mani e il cuore del vostro Vescovo, della vostra Chiesa. Grazie!

+ Mario Toso

Vescovo di Faenza-Modigliana

S. Messa per giornata dell’unità nazionale

Faenza, Chiesa dei caduti novembre 2019

La Giornata dell’unità nazionale e delle forze armate viene a coincidere, per la Chiesa, con la memoria di san Carlo Borromeo, grande santo, la cui opera riformatrice ha influenzato anche la Romagna, soprattutto per quanto concerne la formazione dei sacerdoti. All’Università di Pavia si era formato nel diritto. Divenne cardinale segretario di Pio IV, suo zio, e in seguito fu fatto arcivescovo di Milano. Come Segretario di Stato lavorò con zelo indefesso per il Concilio di Trento e la pratica attuazione dei decreti. Morto Pio IV, S. Carlo lasciò Roma per recarsi alla sua sede arcivescovile allora ridotta in tale stato da scoraggiare qualsiasi tentativo di riforma; ma non indietreggiò.
Infiammato dal suo zelo apostolico percorse più volte la sua vasta archidiocesi per le visite pastorali. Però dove maggiormente rifulsero la sua carità e il suo zelo, fu nella terribile peste scoppiata a Milano, mentre egli si trovava in visita pastorale nel 1572. Tutti i personaggi più distinti fuggivano terrorizzati: San Carlo invece, tornato prontamente in città, organizzò l’assistenza agli appestati, il soccorso ai poveri, l’aiuto ai moribondi, dappertutto era il primo, ovunque dava l’esempio. Per invocare poi l’aiuto divino, indisse processioni di penitenza, alle quali partecipò a piedi scalzi e prescrisse preghiere e digiuni. Alla peste seguì la più grave miseria, e il santo prelato, dopo aver dato quanto possedeva, vendette i mobili dell’arcivescovado, contraendo anche forti debiti. La Parola di Dio di oggi ci dice che Dio non scrive la storia senza di noi. Proprio perché si serve dell’uomo, i suoi disegni ci appaiono tortuosi. In realtà, la sua volontà si realizza nonostante le nostre infedeltà. Egli fa sì che anche i nostri sbagli contribuiscano alla nostra salvezza (Rm 11, 29-36). Il Vangelo di san Luca (Lc 14,12-14)  ci informa che Gesù ci invita ad imitare l’amore gratuito di Dio, specie servendo i poveri.Che insegnamento ci può derivare da questa Parola di Dio per celebrare degnamente la Giornata dell’unità nazionale e delle forze armate? Dovremmo, innanzitutto, operare ascoltando Dio. Quando si opera senza riferimento alla presenza del suo Spirito nella storia ci si perde per strade lunghe e costose, spesso cariche di fallimenti e di tragedie umane. La conquista della civiltà di un Paese si ottiene camminando con Dio, non opponendosi a Lui. Senza il riferimento ad un fondamento trascendente si perde il senso della vita, della morale, della comunione nei valori. Oggi c’è chi attacca l’unità nazionale, ha detto recentemente il presidente della Repubblica Mattarella, volendo riscrivere la storia, negando l’evidenza, e cioè ignorando le guerre, gli odi razziali, le discriminazioni, le divisioni e le distruzioni del passato. L’unità nazionale non si rafforza ricadendo nei vecchi errori. Noi tutti sappiamo che l’unità nazionale, perseguita strenuamente dai popoli italiani, si è inverata gradualmente in un’unità superiore: la comunità politica italiana, con alla base il rispettivo popolo. È certamente bene celebrare l’unità nazionale. Ma non va dimenticato che essa vive e si consolida nella realtà superiore della comunità politica, sostenuta da un popolo democratico, che può comprendere più Nazioni, etnie, razze, religioni. La comunità politica vive della comunione di beni-valori, dell’unione morale del popolo. La vera sostanza, vivente e libera, della comunità politica è il popolo: moltitudine di persone e di gruppi, uniti sotto giuste leggi, in uno stesso territorio, mossi da mutua fraternità, caratterizzati da una pluralità di tradizioni multietniche e multireligiose, ma convergenti in uno stesso fine che è il bene comune, coordinati dall’autorità politica. Forse, ai nostri giorni, si dimentica l’impegno primario di essere popolo, corpo morale, dato da un insieme di persone responsabili, le quali sono singole sì ma costituiscono insieme un soggetto comunitario, non una entità massa-mediatica o virtuale etero diretta.Ma all’unità nazionale propria di un popolo, corpo  morale come detto, si può attentare anche coniugando in vari atti parlamentari l’individualismo libertario. Al contrario, l’unità nazionale cresce coltivando e alimentando quella cultura personalista, comunitaria, aperta alla Trascendenza che è omologata nella carta costituzionale. È questa la cultura più consona nel rafforzare l’unione morale dei cittadini e dei gruppi attorno ai valori della libertà e della giustizia, passando attraverso solidarietà e sussidiarietà, giungendo al bene comune.Se si sono fatti progressi sulla via della concordia, del dialogo pubblico e sull’uso pacifico delle stesse Forze armate lo si deve proprio all’essere riusciti a coltivare l’ideale di una vera democrazia partecipativa, rappresentativa, deliberativa, inclusiva, fondata sulla cultura della persona, non dell’individio. Solo una cultura della persona, considerata nei suoi doveri e diritti, e non nei suoi arbitri utilitaristici, può costituire il terreno fecondo per crescere nel senso del rispetto altrui e nell’impegno per la libertà, la giustizia e il bene comune dei singoli cittadini e dei popoli. L’uso pacifico delle forze armate si radica proprio in una cultura personalista, solidale, comunitaria. I militari italiani hanno dimostrato così di impegnarsi con sacrificio ed onore nelle operazioni «Strade sicure», «Expo», «Giubileo», «Mare sicuro» e nei territori colpiti da calamità. Alla luce di una cultura di pace le loro missioni internazionali, specie in territori martoriati, hanno in prevalenza salvaguardato i diritti e contrastato il terrorismo, ossia hanno servito alla sicurezza dei Paesi presso cui operano con professionalità ed umanità. In questo nostro incontro nella Chiesa dei caduti, preghiamo per tutti coloro che sono morti nella difesa della nostra Patria. Esprimiamo riconoscenza a tutti coloro che si impegnano per far crescere l’unione morale del popolo italiano e a coloro che operano all’estero per garantire la pace.

Con l’aiuto del Signore e del suo Spirito d’amore possiamo tutti insieme camminare sulla strada di una più alta unione morale e religiosa, indispensabile per rafforzare l’unità nazionale, l’impegno per la pace. Ringraziamo Dio perché continua ad attuare la sua redenzione per tutti, arricchendoci dei suoi doni.

+ Mario Toso

Verso un’economia sostenibile ed inclusiva: l’apporto di Benedetto XVI e Papa Francesco

Conferenza a Torino

Oggi la democrazia è posta fortemente in crisi come democrazia sostanziale a motivo soprattutto del mercatismo imposto dal capitalismo globale e dalla sua radicalizzazione individualistica. Le seduzioni individualistiche ed utilitaristiche del modello neoliberista riducono l’ideale della libertà per tutti a libertà per pochi, approdando alla democrazia di un terzo, vale a dire di una parte circoscritta, la più abbiente, dei cittadini. Con conseguenze deleterie per la globalizzazione che finisce per ospitare quegli atteggiamenti protezionistici e isolazionistici che in questo momento, godono di grande popolarità a Londra come a Washington. Il capitalismo che ha arrecato indubbi vantaggi a quei popoli più poveri, che hanno saputo cogliere le opportunità offerte dal mercato internazionale, diventando capitalismo finanziarizzato, con i suoi aspetti negativi, danneggia gravemente la vita sociale e la stessa economia produttiva, portando i sistemi democratici a mostrare la corda, stressandoli con un progressivo ridimensionamento dei diritti sociali ed economici dei cittadini, accrescendo le diseguaglianze anziché diminuirle. Se l’attuale sistema economico, finanziario e monetario, non verrà profondamente riformato avrà influssi devastanti sulla democrazia sostanziale perché le impedirà di realizzare la giustizia sociale.[1] Senza giustizia sociale la democrazia si indebolisce, non riesce ad affrontare le diseguaglianze, non può realizzare la solidarietà e la inclusività, specie dei poveri. Se si vorrà trovare una via di uscita allo sfinimento di una democrazia rappresentativa, partecipativa, deliberativa, solidale, inclusiva, ossia ad una democrazia di bassa intensità, bisognerà:

  1. a) che siano superate le dottrine economiche neoliberistiche – basti pensare alle teorie della «ricaduta favorevole» o della «mano invisibile» incentrate sull’idea che la semplice crescita economica produce automaticamente equità ed inclusione, sostenibilità -, che ancora oggi conferiscono al mercato, all’economia e alla finanza un’autonomia quasi assoluta rispetto alla politica e al connesso bene comune. Le dottrine economiche neoliberistiche «esentano» la speculazione finanziaria dai controlli statali ed affermano che i mercati e la speculazione produrrebbero automaticamente la ricchezza delle Nazioni, ricchezza per tutti, con il funzionamento spontaneo delle loro regole. Papa Francesco polemizza non con tutti i neoliberisti, bensì con il neoliberismo più radicale, secondo cui il mercato è una divinità imperscrutabile, ove il libero mercato, lasciato a se stesso, ai suoi meccanismi tecnici, autoregolandosi, produce automaticamente maggiore equità ed inclusione sociale. Ma è risaputo che la crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga. Richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificatamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo (cf Evangelii Gaudium 204).[2] Ma, soprattutto, domanda che l’economia politica superi il limite culturale che la struttura e condiziona negativamente. In questione non sono tanto le capacità di calcolo matematico che il modello economico corrente esalta, bensì le premesse antropologiche su cui il modello si fonda. L’immagine dell’homo oeconomicus interessato unicamente al profitto non è più accettabile, perché poco realistica. L’imprenditore e il lavoratore non si muovono solo sulla base di interessi meramente economici. E l’idea di un conflitto tra economia, risorse umane, territorio conduce a risultati catastrofici. I primi a capirlo sono gli stessi imprenditori, che hanno già pagato le conseguenze dell’implosione di un modello economico troppo curvato sull’efficienza mercatista. Lo stesso Luigi Einaudi, nell’immediato dopoguerra del secolo scorso, incoraggiava il sistema bancario ad interessarsi dello sviluppo del territorio prima dei profitti dei banchieri. Se la Chiesa condanna le storture di un’economia globalizzata, non va, però, contro il capitalismo, l’economia di mercato, le Borse, il profitto, la concorrenza, la speculazione in sé. Domanda piuttosto che siano tutelati, promossi e posti al servizio dell’uomo e di tutti i popoli.[3] Richiede, inoltre, che sia regolata alla luce del bene comune globale e da una visione personalista e trascendente dei soggetti economici. La Chiesa ha indicato nella CIV di Benedetto XVI, della quale ricorre il decimo anniversario della promulgazione, la prospettiva di un’economia di mercato funzionale al bene comune nazionale e mondiale, popolata, da un’imprenditorialità plurivalente (imprese profit, finalizzate al profitto; imprese non profit, non finalizzate al profitto; e un’area intermedia tra queste),[1] coadiuvata da leggi giuste, da un’attività redistributiva da parte della politica, da un’economia animata in tutte le sue fasi dalla giustizia (cf CIV n. 37), dai principi della fraternità e della gratuità, dalla logica del dono, che diffondono e alimentano la solidarietà e la responsabilità sociale nei confronti delle persone, del bene comune e dell’ambiente, sollecitando una forma di profonda democrazia economica (cf CIV 39). Detto altrimenti, la Chiesa indica come capace di superare modelli anarco-liberistici e stato-centrici, un’economia strutturata, come già accennato, da un’antropologia relazionale, solidale, retta dal principio della reciprocità, ossia un’economia a stampo trinitario, conforme ad una metafisica della relazione (cf CIV n. 53). Bisogna che la solidarietà giochi un ruolo da protagonista dentro l’economia, non solo accanto ad essa mediante la beneficenza, la filantropia, l’elemosina. Potrebbe sembrare che l’enciclica di Benedetto XVI  sia preda di in una visione astratta ed utopistica dell’economia. Invece, indica esperienze concrete in cui la reciprocità e il principio di fraternità strutturano l’economia. Cita l’economia non profit, l’economia di comunione, la cooperazione di consumo, le cooperative, le banche di credito cooperativo, il microcredito, la finanza etica. A dimostrazione che è possibile un’economia imperniata su una visione antropologica relazionale, a differenza di una visione dominata dall’individualismo e dall’utilitarismo, dalla massimizzazione dei profitti e basta. Detto altrimenti, ad uno sviluppo integrale, maggiormente inclinato a sconfiggere la povertà, è ministeriale una visione di persona che trova ispirazione ed orientamento nella rivelazione cristiana (cf ib.);
  2. b) sarà necessaria una riforma etica dell’economia e della finanza, per poter usufruire di quel bene pubblico che sono i mercati liberi, stabili, trasparenti, «democratici», non oligarchici, bensì funzionali alle imprese, ai lavoratori, alle famiglie, alle comunità locali, al bene comune, all’ecologia integrale. Come si potrà avere una nuova morale economica e finanziaria? Purtroppo oggi l’economia e la democrazia sono ancora influenzate negativamente mediante la costituzione di monopoli e di oligarchie che si sono formati talvolta anche con la complicità della stessa politica, come è stato per il caso della finanza. Questa, ha gradualmente partorito un’autocrazia, a motivo dell’abolizione del Glass-Steagall Act nel 1999 (prima negli USA, poi, negli anni successivi, in Europa e nel resto del mondo), basato sul principio di separazione della banca produttiva dalla banca speculativa. Togliendo la separazione le banche hanno unito in sé l’attività produttiva e l’attività speculativa, giungendo ad utilizzare i risparmi raccolti – prima utilizzabili solo per finanziare l’attività produttiva – in operazioni speculative, mettendoli in serio pericolo. Si aggiunga che all’autonomizzazione del sistema finanziario e allo sviluppo vertiginoso della massa finanziaria, con un’intossicazione a largo raggio del mercato, creando difficoltà sistemiche, ha contribuito pure il cambio di finalità dei contratti cosiddetti «derivati», originariamente di natura assicurativa, in contratti con finalità speculativa. La finanza è divenuta una superpotenza, che non ha confini, non ha regole, non conosce diritti diversi dai suoi, sostiene e sovvenziona in tutte le sedi il suo totalitario «pensiero» mercatista. La sua «cultura» dominante, improntata al neoindividualismo libertario, è soggiogata da una visione antropologica di autosufficienza: l’uomo è convinto ad essere il solo autore di se stesso (cf CIV n. 34). Non è soggetta a corti di giustizia, tende ad influenzare e a tenere sotto controllo le democrazie, rendendole funzionali al suo sistema, indebolendole, come già detto, sempre di più sul piano sociale e della sovranità democratica. Facendo credere, fra l’altro, che il prodotto interno lordo non si fa con l’impresa e con il lavoro, ma con la speculazione. La finanza autocratica comanda su tutti: sugli Stati, sui popoli, sui governi, determinando talora il loro ordine del giorno.

Ovviamente, mercati liberi, stabili, trasparenti, democratici, a servizio dell’ecologia integrale e del bene comune, come anche una nuova morale economica e finanziaria non nascono magicamente. Essi sono frutto: 1) di un’adeguata visione dell’uomo, ossia di un’antropologia relazionale, razionale, comunionale e trascendente; 2) del rigetto della tesi secondo cui la sfera dell’economia va tenuta separata sia dalla sfera dell’etica sia da quella della politica:[4] come ha affermato Benedetto XVI, «la sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente»;[5] 3) del riferimento al grande principio morale dello sviluppo integrale, sostenibile, inclusivo, ben presente sia nella CIV sia nella Laudato sì’;[6] 4) della riscoperta del primato della politica rispetto all’economia e alla finanza. Nell’esortazione EG e nell’enciclica LS,[7] papa Francesco in vista di uno sviluppo integrale, sociale, sostenibile, inclusivo, auspica il recupero del primato della politica sull’economia e sulla finanza. La politica ritornerà ad avere il suo legittimo primato, solo se saprà ricentrarsi sul bene comune, a partire da un’antropologia non individualista ed utilitarista, bensì relazionale, solidale. È la coscienza del bene comune che dei «molti» fa un popolo, unendoli in vista di un obiettivo condiviso. È la ricerca del bene comune, e non già la sottomissione prona alla speculazione senza regole, allo schema assolutizzato della rendita, che può restituire alla politica la sua altissima dignità e «sovranità». Lo schema della rendita, di cui parla il pontefice, non lascia spazio per pensare al lavoro come bene fondamentale per tutti. Così, «all’interno dello schema della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della natura, ai suoi tempi di degradazione e di rigenerazione, e alla complessità degli ecosistemi che possono essere gravemente alterati dall’intervento umano» (LS n. 190). Per la Dottrina sociale della Chiesa, ed anche per papa Francesco, il recupero dell’agire politico al servizio del bene comune è ultimamente favorito dall’incontro con Gesù Cristo, il quale, propiziando la nascita di un nuovo umanesimo, consente la rigerarchizzazione delle varie attività umane. Senza una nuova evangelizzazione non assisteremo mai a cambiamenti significativi, poiché il primato della finanza sulla politica perdurerà con i suoi effetti devastanti per la società, per i più poveri e per l’ambiente. Ecco come appare la situazione attuale agli occhi del pontefice: «Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura» (LS n. 189).

 

  1. c) l’instaurazione di un’economia sostenibile, inclusiva – precondizione di una democrazia altrettanto inclusiva, non potendo concretizzarsi una democrazia politica senza una «democrazia economica» −, mediante l’irrobustimento di un’economia di mercato funzionale al bene comune nazionale e mondiale. L’aspra critica di papa Francesco nei riguardi di «un’economia dell’esclusione e dell’inequità», un’economia che «uccide» (EG n. 53), mira a sollevare una questione morale e non a porre mano direttamente ad una riforma dell’attuale sistema finanziario dal punto di vista strutturale e tecnico. Non è compito specifico della Chiesa elaborare riforme che competono alla politica e allo stesso mondo economico. E tuttavia, la Chiesa, sulla base della sua competenza religiosa e morale prospetta orientamenti etici in vista dell’umanizzazione del sistema monetario e finanziario.

L’intento del papa Benedetto XVI è volto a portare il messaggio etico del Vangelo nel cuore del capitalismo finanziario contemporaneo, la cui impostazione, specie in questi ultimi tempi, sembra prescindere dalle persone, dalle famiglie, dalle imprese, dalle amministrazioni locali, dalla salvaguardia dell’ambiente, preoccupandosi principalmente del profitto a brevissimo termine. E «quando al centro del sistema – afferma papa Francesco in un’intervista – non c’è più l’uomo ma il denaro, uomini e donne non sono più persone, ma strumenti di una logica “dello scarto” che genera profondi squilibri».[8]

L’immediatezza di queste affermazioni stigmatizza la separazione che spesso si viene a determinare tra economia ed etica, così deleteria per tutte le espressioni dell’attività umana oltre che per l’ambiente. Il problema sollevato non è marginale per ciò che oggi si suole chiamare «sviluppo sostenibile», e nemmeno per una riflessione scientifica sul ruolo dell’economia. Conduce, infatti, al nocciolo dell’odierna crisi economica e finanziaria, che, con un effetto domino, ha generato fallimenti, diseguaglianze, nuove povertà e provocato anche suicidi. Trattandosi di una crisi essenzialmente etica, collegata a riduzionismi sociali e antropologici, non può non attirare l’attenzione delle istituzioni culturali, delle associazioni e dei movimenti cattolici o di ispirazione cristiana.

Secondo papa Benedetto XVI e papa Francesco, oggi è doveroso porre a tema la questione, nonché la possibilità, di un’economia sostenibile e dell’inclusione, a partire dal recupero delle sue radici umane e dal superamento di almeno tre riduzionismi. Il primo vede l’uomo come un agente economico mosso soprattutto dall’egoismo, che è una forma degradata di razionalità rispetto alla cooperazione, che per realizzarsi deve essere sostenuta da virtù personali e sociali. Il secondo concepisce i soggetti dell’attività economica – imprese private e pubbliche – come semplici entità indirizzate a produrre beni e servizi o a massimizzare il profitto dei detentori dei capitali, senza tener conto della responsabilità sociale dell’impatto sul territorio, sull’ambiente e delle conseguenze per le generazioni future. Il terzo si riferisce al concetto di «ricchezza delle nazioni», che viene spesso appiattito su beni e servizi prodotti su un territorio in una determinata unità di tempo, tralasciando di considerare in maniera adeguata i beni sociali, culturali e spirituali di un popolo.

  1. d) La crescita della responsabilità sociale delle imprese e degli imprenditori.[9] Un ruolo particolare oggi spetta agli imprenditori, spesso penalizzati dalle politiche, da un sistema finanziario più attento alle transazioni e alla loro redditività anziché agli investimenti a lungo termine nel territorio e nelle imprese. L’imprenditore è una figura fondamentale di ogni buona economia, specie di un’economia a servizio dell’uomo, della società, dell’ambiente. Non c’è buona economia senza buoni imprenditori, senza la loro capacità di creare lavoro, prodotti, senza la loro responsabilità sociale rispetto ad un’economia sostenibile ed inclusiva. Il vero imprenditore conosce i suoi lavoratori, perché lavora accanto a loro, lavora con loro. Se l’imprenditore non ha esperienza della dignità del lavoro, non sarà un buon imprenditore. Condivide le fatiche dei lavoratori, le gioie del lavoro, di risolvere insieme i problemi, di creare qualcosa di nuovo. Se e quando deve licenziare qualcuno è sempre una scelta dolorosa e non lo farebbe, se potesse. Nessun buon imprenditore ama licenziare la sua gente. Chi pensa di risolvere il problema della sua impresa licenziando la gente, non è un buon imprenditore, è un commerciante.

Una malattia dell’economia è la progressiva trasformazione degli imprenditori in speculatori per sé.[10] L’imprenditore non va assolutamente confuso con lo speculatore: sono due tipi diversi. Lo speculatore è una figura simile a quella che Gesù nel Vangelo chiama “mercenario”, per contrapporlo al Buon Pastore. Lo speculatore non ama la sua azienda, non ama i lavoratori, ma vede azienda e lavoratori solo come mezzi per fare profitto. Usa azienda e lavoratori per fare profitto a breve termine (cf CIV n. 40). Licenziare, chiudere, spostare l’azienda non gli crea alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, “mangia” persone e mezzi per i suoi obiettivi di profitto. Quando l’economia è abitata invece da buoni imprenditori, le imprese sono amiche della gente e anche dei poveri. Quando tutto passa nelle mani degli speculatori, tutto si rovina. Con lo speculatore, l’economia perde volto e perde i volti. Diventa un’economia senza volti. Un’economia astratta. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone e quindi non si vedono le persone da licenziare e da tagliare. Quando l’economia perde contatto con i volti delle persone concrete, diventa un’economia senza volto e quindi un’economia spietata. Bisogna temere gli speculatori, non gli imprenditori bravi! Ma paradossalmente, qualche volte il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro. Perché? Perché crea burocrazia e controlli partendo dall’ipotesi che gli attori dell’economia siano speculatori, e così chi non lo è rimane svantaggiato e chi lo è riesce a trovare i mezzi per eludere i controlli e raggiungere i suoi obiettivi. Si sa che regolamenti e leggi pensati per i disonesti finiscono per penalizzare gli onesti. E oggi ci sono tanti veri imprenditori, imprenditori onesti che amano i loro lavoratori, che amano l’impresa, che lavorano accanto a loro per portare avanti l’impresa, e questi sono i più svantaggiati da queste politiche che favoriscono gli speculatori. Ma gli imprenditori onesti e virtuosi vanno avanti, alla fine, nonostante tutto. Mi piace citare a questo proposito una bella frase di Luigi Einaudi, economista e presidente della Repubblica Italiana. Scriveva: «Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con gli altri impegni». Vivono la mistica dell’amore.

  1. e) È pregiudiziale la riforma dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e dell’architettura economica e finanziaria internazionale. Un aspetto da non dimenticare è la dimensione internazionale dell’economia e della finanza. Anche questa va curata. La CIV in proposito raccomanda una governance globale di tipo sussidiario e poliarchico, opponendosi all’idea di un Super Stato, ossia un’autorità politica mondiale costituita in un superpotere assoluto. La CIV, in vista del governo dell’economia mondiale, sollecita a guardare nella direzione di Nazioni Unite che si dotano di una Seconda Assemblea, accanto a quella delle Nazioni, un’assemblea ove siano rappresentati i corpi intermedi. Si tratterebbe di un Consiglio economico e sociale che abbia poteri sanzionatori simili a quelli del Consiglio di sicurezza, per colpire chi specula sul grano, sul petrolio, sull’acqua, sull’ambiente, per regolare i flussi migratori (cf CIV n. 67).

+ Mario Toso

Vescovo di Faenza-Modigliana

 

 

 

 

[1] Su questo si veda: Congregazione per la Dottrina della Fede-Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario (=OEPQ), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2018.

 

 

[2] Cf FRANCESCO, Evangelii gaudium, Libreria Editrice Vaticana 2013.

[3] Cf Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, (= CIV), n. 65.

[4] Si tratta di superare definitivamente la cosiddetta tesi del NOMA (Non Overlapping Magisteria), formulata in economia nel 1829 da Richard Whateley, cattedratico all’Università di Oxford e vescovo della Chiesa anglicana. Nella dottrina sociale della Chiesa ciò è stato sollecitato dai tempi della crisi economica provocata dal crollo della Borsa di New York (1929), nel secolo scorso: tra ordine economico e ordine morale, secondo l’enciclica Quadragesimo anno  del 1931 (= QA, n. 42), non esiste estraneità; tra di essi c’è connessione sebbene siano ordini distinti; l’etica riguarda l’economia perché questa è attività umana e come ogni attività umana è retta dalla legge morale.

[5] BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, n. 36.

[6] Un tale primo principio morale universale consente di valutare la qualità umana ed etica dell’attuale sistema economico-finanziario, nei suoi agenti singoli e collettivi, negli intenti, nei  mezzi, nelle istituzioni, negli effetti e nelle esternalità. In particolare, un tale principio primo permette di offrire una valutazione etica della finanza, delle azioni degli agenti, dell’uso degli strumenti finanziari, delle conseguenze con riferimento alla dignità delle persone e dei popoli, al bene comune, all’ecologia integrale. Dalla considerazione del suddetto primo principio, relativamente alla realtà della economia e della finanza, derivano orientamenti etici, ad esempio: 1) per il benessere: esso non si riduce al solo parametro economico, ma include altri parametri, quali ad esempio la sicurezza, la salute, la crescita del “capitale umano”, la qualità della vita sociale e del lavoro, la salvaguardia dell’ambiente; 2) per la libertà economica: se intesa in modo assoluto, staccata dalla verità e dal bene, genera centri di supremazia ed inclina verso forme di oligarchia finanziaria che nuocciono alla stessa efficienza del sistema economico; 3) per gli agenti economici e politici: la loro alleanza  è fondamentale per garantire che l’uso dei networks economico-finanziari, che agiscono sul piano nazionale e sovranazionale, sia a servizio del bene comune, dell’ecologia integrale.

Secondo l’insegnamento sociale dei pontefici, l’etica non ha una funzione semplicemente regolativa degli eccessi e delle ricadute negative dell’economia sulle persone, sui popoli e sull’ambiente. Ha un particolare ruolo costitutivo e qualificante. L’economia sganciata dall’etica si snatura. Diviene «diseconomia», come ebbe a scrivere don Luigi Sturzo, uno dei più grandi pensatori politici del secolo scorso. Più recentemente, nella CIV Benedetto XVI ha chiaramente ribadito questo concetto: «L’economia, infatti, ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona». Per conseguenza, «occorre adoperarsi – aggiunge poco dopo – non solamente perché nascano settori o segmenti “etici” dell’economia o della finanza, ma perché l’intera economia e l’intera finanza siano etiche e lo siano non per un’etichettatura dall’esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura» (CIV n. 45).

 

[7]Cf Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, nn. 147-149 [=LS]).

 

[8] A. Tornielli-G. Galeazzi, Papa Francesco. Questa economia uccide. Con un’intervista esclusiva su capitalismo e giustizia sociale, Piemme, Milano 2015, p. 206.

[9] «Uno dei rischi maggiori è senz’altro – scrive non a caso Benedetto XVI – che l’impresa risponda quasi esclusivamente a chi in essa investe e finisca così per ridurre la sua valenza sociale. Sempre meno le imprese, grazie alla crescita di dimensione ed al bisogno di sempre maggiori capitali, fanno capo a un imprenditore stabile che si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve, della vita e dei risultati della sua impresa, e sempre meno dipendono da un unico territorio. Inoltre la cosiddetta delocalizzazione dell’attività produttiva può attenuare nell’imprenditore il senso di responsabilità nei confronti di portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l’ambiente naturale e la più ampia società circostante, a vantaggio degli azionisti, che non sono legati a uno spazio specifico e godono quindi di una straordinaria mobilità. Il mercato internazionale dei capitali, infatti, offre oggi una grande libertà di azione. È però anche vero che si sta dilatando la consapevolezza circa la necessità di una più ampia “responsabilità sociale” dell’impresa. Anche se le impostazioni etiche che guidano oggi il dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa non sono tutte accettabili secondo la prospettiva della dottrina sociale della Chiesa, è un fatto che si va sempre più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento. Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi. Anche oggi tuttavia vi sono molti manager che con analisi lungimirante si rendono sempre più conto dei profondi legami che la loro impresa ha con il territorio, o con i territori, in cui opera» (CIV n. 40).

[10] Su questo si veda: Francesco, Discorso nello stabilimento Ilva (Genova, 27 maggio 2017).

Santa Messa per i vescovi defunti

Faenza, cattedrale 3 novembre 2019

Cari fratelli e sorelle, dopo la solennità di Tutti i santi e la Commemorazione dei fedeli defunti, questa liturgia domenicale ci fa riflettere sulla misericordia trasformante di Gesù Cristo. Dopo la sua morte e risurrezione Gesù Cristo, che sbaraglia il peccato e la morte, continua a vivere nel suo popolo attraverso lo Spirito Santo. Ci conduce, attraverso i tempi, sino alla città celeste, accompagnandoci con il suo amore misericordioso. Un amore che incontriamo e ci è proposto quotidianamente come ci è detto oggi dal Vangelo secondo Luca (cf Lc 19, 1-10) che ci presenta la visita che egli compie nella casa di Zaccheo, un tipo poco raccomandabile. Gesù è venuto sulla terra per redimere, ossia per compiere una seconda creazione, dopo la prima, che vide il fallimento dell’umanità, impersonata da Adamo ed Eva. Ebbene, Gesù mentre giunge a Gerico, nel suo cammino verso Gerusalemme, attua la seconda creazione, la redenzione che sconfigge il peccato e la morte. La attua, in particolare,  in Zaccheo, pubblicano che riscuoteva le tasse. È davvero istruttivo l’incontro di Gesù e Zaccheo. È, in un certo modo, paradigmatico dell’opera di redenzione e di trasfigurazione di Gesù Cristo in ogni persona, compresi noi. Tutto inizia da Gesù che si accorge che, nella ressa della folla, una persona, piuttosto piccola, sgomitava e cercava di farsi largo per raggiungere un sicomoro, per vedere meglio il Maestro. Mentre passa sotto l’albero, Gesù alza lo sguardo verso di lui, gli rivolge la parola, si autoinvita a casa sua. Zaccheo, senza se e senza ma, scende prontamente dal sicomoro su cui si era appollaiato e «pieno di gioia» accoglie Gesù. Ricordiamo bene cosa è avvenuto nella casa di Zaccheo e cosa mormoravano le solite persone perbene: «È entrato in casa di un peccatore». Il Signore non vuole distruggere il peccatore bensì il peccato. Condanna il peccato e cerca di salvare il peccatore. Per questo, piuttosto che fare una filippica e redarguire Zaccheo, cerca di conquistarne l’animo, operando in lui un cambiamento di mentalità. È questione di pochi attimi. Zaccheo si sente cercato dall’amore misericordioso di Gesù. Di fronte all’amore di Cristo, amore allo stato puro, Zaccheo si rende subito conto di quanto è meschina la sua vita tutta presa dal denaro, a costo di rubare agli altri e di ricevere il loro disprezzo. Scoprendo di essere amato, nonostante i suoi peccati, all’Amore risponde con l’amore, cambiando atteggiamento di vita, modo di vedere e di usare il denaro. Infatti, decide di dare la metà di ciò che possiede ai poveri e di restituire il quadruplo a quanti ha rubato (cf Lc 19,8).

Quali insegnamenti possiamo trarre dall’incontro di Gesù e Zaccheo? Primo: la salvezza è qualcosa di quotidiano, di domestico, che possiamo accogliere mentre esercitiamo la nostra professione o siamo in casa. Secondo: la salvezza, se noi lo vogliamo, è qualcosa che rimane in noi, nella nostra casa. Gesù dice: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza». Terzo: la permanenza della salvezza in Zaccheo e nella sua casa viene dimostrata da quello che egli fa: da avaro diviene generoso, persona aperta agli altri, ai poveri. Da ultimo, Gesù risponde ai soliti criticoni: «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

In questa Eucaristia, ancora nell’atmosfera liturgica della Commemorazione dei fedeli defunti, ricordiamo i vescovi defunti della nostra Diocesi. Non si tratta solo di un atto di riconoscenza nei loro confronti. È anche l’occasione di riflettere sul loro ministero episcopale. Noi sappiamo che i vescovi hanno il compito di confermare la fede e di rafforzare l’unità dei fedeli con Gesù Cristo e tra di loro. In tal modo, essi non hanno la missione di fare dei credenti una massa di persone, quanto piuttosto di favorire la comunione del presbiterio e dei credenti, affinché costituiscano un popolo nuovo, il popolo di Dio, a servizio dell’annuncio di Cristo, dell’esercizio della carità e della trasfigurazione del mondo. Mentre preghiamo per loro in questa Eucaristia, ricordiamo il loro ministero nell’ammaestrare (munus docendi), nel santificare (munus sanctificandi) e nel governare (munus regendi): sono tre compiti con cui hanno tenuta compatta questa Diocesi e l’hanno fatta avanzare nel tempo, rispondendo ai segni dei tempi. Pensiamo alla loro opera pastorale, che – basti accennare a S. Ecc. Mons. Giuseppe Battaglia – non ha escluso la ricostruzione materiale di diversi luoghi di culto, di canoniche, di ambienti educativi, dopo i danni causati dalla seconda guerra mondiale. Ricordiamo anche la costruzione del grande Seminario di via Stradone: Mons. Battaglia vide la fine dei lavori ma anche l’inizio dello svuotamento. Pensiamo all’impegno coraggioso di S. Ecc. Mons. Francesco Tarcisio Bertozzi nell’indizione, nella celebrazione e nell’attuazione di un  notevole Sinodo pastorale diocesano (1990-1995) che ha praticamente delineato l’ordinamento di quegli Uffici e di quei Centri che sono giunti sino a noi. Ma non vanno dimenticati i vescovi dei quali trovate un elenco sulla colonna a fianco della porta che fa accedere alla sacrestia. Cristo risorto, autore della seconda creazione, ricompensi tutti i vescovi defunti di questa Diocesi con il dono della sua Vita, pienezza di comunione con Dio.

+ Mario Toso

Commemorazione dei defunti

Faenza, Osservanza 2 novembre 2019

Cari fratelli e sorelle, è questo un momento di ricordo dei nostri defunti ma è anche occasione di riflessione sulla nostra vita. La parola di Dio ci fornisce punti di riferimento fondamentali. Ne abbiamo bisogno perché, oltre che sprofondare talora nel dolore, rimaniamo con tanti interrogativi sul nostro destino, sul senso della sofferenza, della morte, delle tragedie naturali. Ma ecco la visione offerta dal profeta Isaia. Dio, a fronte della fame, delle sconfitte, della morte, del buio che avvolge i popoli, risponde in maniera insperata, incredibile. Per l’umanità che cammina nella caligine, che soffre miseria, che patisce fame, malattia e guerre, terremoti, inondazioni, Dio prepara un banchetto di grasse vivande, elimina la morte per sempre, asciuga le lacrime su ogni volto, fa scomparire l’ignominia di ogni popolo povero e schiavo. Tutto ciò sta a significare che Dio procurerà la salvezza. Come? Costituendo ciò che noi sperimentiamo e viviamo oggi, ossia la Chiesa, comunione e missione. Cari fratelli e sorelle, seppur con un linguaggio da profezia, che mostra ma non svela completamente la realtà detta, siamo ricondotti a pensare a quella realtà meravigliosa che è la Chiesa, ove noi battezzati e cresimati, costituiamo una immensa comunione, un popolo nuovo, che grazie alla Parola di Dio è liberato dal buio. Nella Chiesa non solo vediamo più luce e troviamo risposte alle nostre angosce, grazie a Cristo, ma come ci comunica la lettera di san Paolo apostolo ai Romani, siamo guidati dallo Spirito di Dio e di Cristo stesso. Un tale Spirito ci rende figli del Padre, per cui siamo eredi di Dio e coeredi Cristo; ci rende comunione con Dio e tra di noi, ci fa partecipare al grande impegno di Cristo venuto per realizzare, dopo il peccato di Adamo e di Eva, la seconda creazione. Grazie allo Spirito, maturiamo tra le sofferenze – non ci sono mai tolte del tutto – del tempo presente, un nuovo essere in noi, cristoconforme, ossia somigliante a Cristo; collaboriamo a liberare il creato dalla sua caducità, a coltivarlo affinché serva a tutte le generazioni. In quanto inseriti in Cristo siamo chiamati, dunque, alla realizzazione di una seconda creazione: dopo la prima creazione, che è stata deturpata dal peccato di Adamo ed Eva, Egli inaugura una seconda creazione, liberando l’umanità dal peccato e dalla morte. Secondo la visione cristiana della realtà, il Risorto, a partire dall’incarnazione, avvolge misteriosamente tutte le creature e le orienta ad un destino di pienezza. Perché? Perché tutte le cose, sono state create per mezzo di Lui e in vista della pienezza di vita che esiste in Lui. In breve, l’universo in cui ci troviamo si sviluppa in Cristo risorto, che lo riempie tutto, e lo sottopone a trasfigurazione. Per questo, come dice san Paolo, tutta insieme la creazione geme e soffre nelle doglie del parto fino ad oggi, come anche l’uomo che, possedendo le primizie dello Spirito, geme interiormente aspettando la completa adozione a figlio, ed anche la redenzione del suo corpo mortale (cf Rm 8, 14-23).

Se come semplici uomini non sappiamo dove il mondo, martoriato da conflitti e cataclismi, possa andare o finire, come credenti sappiamo, invece, verso dove è incamminato, come anche l’uomo. Siamo chiamati a partecipare al destino del Risorto, a partecipare alla sua pienezza di vita in Dio Padre. Di qui la nostra consolazione: anche nelle tragedie più gravi di questo mondo il cristiano porta in sé la speranza della risurrezione e di una pienezza di vita in Cristo.

Partecipando a Cristo risorto condividiamo il suo disegno di salvezza, che consiste nel ricapitolare tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra, sotto un solo Signore (cf Ef 1,10). La ricapitolazione significa, precisamente, nuova creazione, significa redenzione di tutte le realtà, delle nostre relazioni sociali, significa vivere un’attenzione d’amore, non solo proclamata ma concreta, nei confronti dei poveri, degli affamati, degli stranieri, degli assetati, dei carcerati, degli ammalati, degli schiavi. Saremo giudicati proprio su questo, come ci ha detto il Vangelo secondo Matteo (Mt 25, 31-46). Saremo valutati sul nostro partecipare o no alla seconda creazione di Cristo, che implica impegno per uno sviluppo integrale, sociale, sostenibile ed inclusivo, universale, aperto alla Trascendenza.

Ecco quanto ci deve accompagnare nella riflessione sulla commemorazione dei fedeli defunti e dei nostri cari. A noi spesso sconfortati, scettici è affidata una visione diversa del mondo e della morte. Al centro di tutto c’è Cristo risorto. Egli cammina con noi e ci conduce verso la nuova città di Gerusalemme, verso una nuova creazione. In questo scenario della redenzione di Cristo preghiamo con fiducia per i nostri fratelli defunti. Guardiamo a Cristo pontefice massimo che si rende presente nella nostra Eucaristia. Attraverso Cristo, costituito ponte tra noi, che viviamo sulla sponda della mortalità, e i nostri cari, che sono già approdati sulla sponda dell’immortalità, facciamo giungere a loro le nostre preghiere. Facendo passare le nostre preghiere sul ponte che è Cristo esse giungono ai nostri cari. Sono a loro di aiuto nel bisogno di purificazione. Peraltro, sempre attraverso Cristo, dai nostri defunti che sono presso Dio, stabilizzati nella sua vita, ci arrivano grazie, sovrabbondanza di doni, intercessione.

Quale mistero di solidarietà! Viviamo e celebriamo una sconfinata tenerezza, che travalica  i confini dello spazio e del tempo e ci dà conforto. Nella comunione dei santi con Cristo, l’amore per i nostri cari defunti continua. Il loro affetto per noi non cessa mai. Il Signore tiene vivo e rende eterno il legame d’amore che ci unisce. Mentre facciamo visita alle loro spoglie nel cimitero compiamo un atto di fede. Grazie a Cristo glorioso cresca la nostra speranza nella risurrezione.

+Mario Toso

Solennità di Tutti i Santi

Cattedrale, Faenza 1 novembre 2019

Oggi la Chiesa onora e ricorda tutti i suoi figli, quelli passati e presenti. Nella prima lettura, l’autore del libro dell’Apocalisse li descrive come «una moltitudine immensa» che nessuno può contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua (cf Ap 7,9). Tra di essi sono compresi i santi dell’Antico Testamento, quelli del Nuovo Testamento, i numerosi martiri dall’inizio del cristianesimo e i beati e si santi dei secoli successivi, sino ai martiri e ai testimoni di Cristo del nostro tempo. Li accomuna tutti l’essere di Cristo. Nella moltitudine dei santi non vi sono solo quelli canonizzati, ufficialmente riconosciuti, ma i battezzati di ogni epoca e nazione. Della gran parte di essi non conosciamo i volti. Essi, tuttavia, risplendono, come astri pieni di gloria, nel firmamento di Dio. La Chiesa oggi non festeggia solo i suoi figli che sono in paradiso ma anche coloro che camminano come Chiesa militante su questa terra, verso la meta finale. Sant’Agostino raffigura la Chiesa come un popolo che si muove, quale schiera sterminata di persone, verso la Gerusalemme celeste. Di questo popolo una parte è ancora quaggiù, pellegrino. Un’altra parte è giunto in prossimità di quel tempio di luce ove coloro che vedono il volto di Dio faccia a faccia esultano e gioiscono godendo la sua piena comunione. Si tratta di coloro che debbono ancora purificarsi e perciò si trovano nel pronao, all’entrata del tempio, in attesa di fare il loro ingresso definitivo.

La liturgia di oggi ci esorta, dunque, a concentrare lo sguardo sull’interezza della nostra famiglia. Desidera che ci vediamo per quello che siamo: una grande e sconfinata comunione. Formiamo la comunione dei santi del cielo e della terra. Siamo in compagnia di una grande moltitudine di fratelli e sorelle, tutti partecipi, in maniera diversa, della vita gloriosa di Cristo. La comunione dei santi esiste proprio grazie al Redentore, che incarnandosi ha assunto la nostra esistenza e ci ha arricchiti di vita immortale.

In questa comunione dei santi, attraverso Cristo, sommo sacerdote, pontefice massimo, costituito cioè ponte tra noi che viviamo sulla sponda della mortalità e i nostri cari che sono già approdati sulla sponda dell’immortalità, le nostre preghiere passano. Partendo da noi giungono ai nostri cari e possono aiutarli nel loro bisogno di purificazione. Peraltro, sempre attraverso Cristo, da coloro che sono presso Dio, stabilizzati nella sua vita, ci arrivano grazie, sovrabbondanza di doni, intercessione.

Quale mistero di solidarietà! Viviamo e celebriamo una sconfinata tenerezza, che travalica  i confini dello spazio e del tempo e ci dà conforto. Nella comunione dei santi con Cristo, l’amore per i nostri cari defunti continua. Il loro affetto per noi non cessa mai. Il Signore tiene vivo e rende eterno il legame d’affetto che ci unisce.

In questa solennità, guardando al luminoso esempio dei santi si risveglia in noi il desiderio di essere come loro. Divenire come loro luce del mondo. Risplendere della luce di Cristo, divenendo popolo che annuncia, vive, celebra e testimonia Lui.

Non a caso il titolo della Lettera pastorale di quest’anno è: «Voi siete la luce del mondo». L’identità dei cristiani è l’identità di Cristo. La luce dei cristiani nasce dalla stessa identità di Cristo. È Gesù la luce del mondo. È Lui la luce vera, quella che illumina ogni uomo (Gv 1,9). E, così, i credenti diventano un suo «sacramento» quando sono suoi missionari, si impegnano a trasfigurare con Lui il mondo. Nella Lettera pastorale si riconosce un’urgenza su tutte: quella di formare i formatori della fede. Se non ci dedichiamo alla formazione, specie delle giovani generazioni, pregiudichiamo il futuro delle nostre comunità. Non potranno più essere luce e sale della terra. Guardando la copertina della Lettera vi si può vedere raffigurato il Cristo, giovane, guerriero, che combatte e sconfigge il male non con la spada bensì con la Croce portata sulle spalle mentre regge lo scudo, che è il Libro del Vangelo, recante la scritta: «Io sono via, verità e vita». Calpesta il serpente che sibila tentazione. Alla luce di questa rappresentazione di Cristo, che oggi è al centro della solennità dei Santi, dobbiamo pensarci più che comunità che si compiace – anche questo certamente, grazie all’aiuto del Signore riusciamo a compiere un po’ di bene  -, soprattutto come comunità di risorti, comunità sempre giovane e attiva nel combattimento. Un giovane avendo letto La lettera pastorale mi ha inviato questo messaggino: «Come va come vescovo militante in Cristo»? Mi pare che abbia capito bene il senso della Lettera. La stessa domanda la faccio a voi: «come va come cristiani militanti in Cristo»?

Per capire chi siamo, in occasione della festa di Halloween, invece di organizzare il gruppo dei bambini vestiti da diavoletti, portiamo  ragazzi e giovani a visitare la nostra cattedrale. I nostri amici sono i santi.

Nella nostra cattedrale, guardando e soffermandoci a destra e a sinistra, ma anche al centro troviamo immagini di santi, il corpo di santi e di beati, cari alla nostra comunità, la tomba di sacerdoti e di vescovi, che sono stati e sono luce per noi, perché con l’eroicità della loro vita hanno annunciato l’amore di Cristo, la sua opera di redenzione, di trasfigurazione del mondo. Dopo aver terminato il nostro giro ci troveremo rinfrancati, col cuore pieno di speranza. Ci si sentirà confortati dalla compagnia e dall’esempio anche di coloro che hanno desiderato di essere sepolti più vicini al luogo in cui si celebra l’Eucaristia, il sacrificio di Cristo che consente ed alimenta la comunione dei santi. Impariamo da loro. Insegniamo alle nuove generazioni a pregare e a far celebrare sante Messe per i nostri defunti, per coloro che, sacerdoti e vescovi, catechisti e diaconi, hanno nutrito la nostra fede e sono divenuti per noi luce.

La vista di alcuni fratelli canonizzati o divenuti santi e beati ci confermerà nella convinzione che la santità esige un combattimento continuo, pacifico ma sempre implicante lotta per il bene. La santità è possibile a tutti, perché, più che opera dell’uomo, è anzitutto dono di Dio tre volte Santo (cf Is 6, 3).

La via della santità è tracciata dalle beatitudini che abbiamo sentito leggere. Dice Gesù: beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, i miti, beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, beati i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia (cf Mt 5, 1-12a). Il Signore ci aiuti ad essere luce del mondo.

+ Mario Toso

Ordinazione diaconale di Marco Donati

Faenza, basilica cattedrale di san Pietro 26 ottobre 2019

Cari fratelli e sorelle, è questo un momento in cui Dio onnipotente, come abbiamo pregato, accresce in noi, singoli e comunità, fede, speranza e carità. Contempliamo e riflettiamo sull’origine della salvezza che ci è donata. Consideriamo la nostra chiamata e la molteplice partecipazione al sacerdozio del Signore Gesù.

Caro Marco, chiamato all’ordine del diaconato, sarai di aiuto al vescovo e al suo presbiterio nel ministero della parola, dell’altare e della carità, mettendoti al servizio di tutti i fratelli, specie dei più poveri. In particolare, annunzierai il Vangelo, distribuirai il sacramento del Corpo e Sangue del Signore. Esorterai e istruirai, per conseguenza, nella dottrina di Cristo, anche quanti sono alla ricerca della fede. Guiderai le preghiere, amministrerai il Battesimo, assisterai e benedirai il Matrimonio, porterai il viatico ai moribondi, presiederai il rito delle Esequie.

Quali gli atteggiamenti richiesti per il tuo prezioso ministero? Anzitutto, la dedizione totale, quale discepolo di Cristo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e darsi tutto. In secondo luogo, prontezza nel compiere la volontà di Dio. In terzo luogo, gioia e generosità nel dono di te stesso, mediante il celibato e un cuore indiviso. Tutta la tua vita dev’essere fondata e radicata nella fede, ossia nell’incontro e nell’esperienza di Cristo, accolto, amato, celebrato, testimoniato. Cosa potrà custodire la tua fede? Una coscienza pura, ossia sempre alla ricerca della verità. Chi è scelto per il dono pieno di sé, al servizio del Signore nella Chiesa e nel mondo, non può che sentirsi povero, peccatore, sempre sproporzionato, bisognoso dell’amore risanante e liberante del Padre. Non può sentirsi chissà chi, una persona piena di sé, che fa sfoggio dei suoi meriti e non si umilia.  La preghiera di colui che è inviato nella vigna è come quella del pubblicano. Non è lunga e sbrodolata come quella del fariseo. È molto breve: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18, 9-14). Niente di più. Caro Marco, agisci sempre da persona umile. Non vantarti di quello che fai. Sii mendicante della misericordia del Signore. Solo così, potrai al termine del viaggio della tua vita, affermare come san Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2 Tm. 4, 6-8).

Vieni ordinato diacono in un momento importante della storia della nostra diocesi di Faenza-Modigliana. E precisamente nella fase attuativa del Sinodo dei giovani. Come tuo vescovo, in questa particolare fase storica, oso domandarti, di aiutarmi, di aiutare ugualmente il presbiterio, ad accompagnare soprattutto i giovani sinodali perché non abbiano paura nel formarsi, attraverso esperienze di bene e lo studio teologico, nella fede e nell’appartenenza a Cristo. Senza una fede ben radicata e formata, dal punto di vista affettivo, intellettuale e culturale, c’è il rischio di non riuscire ad aiutare la propria Chiesa ad annunciare coraggiosamente il Vangelo, in un «oggi» caratterizzato da politeismo e dal non-senso. Si corre il rischio di vanificare il Sinodo, di balbettare appena, se mai si riesce, le ragioni della propria speranza. Chi non ha una fede salda difficilmente trova nuovo entusiasmo e forti motivazioni per la missionarietà.  Non si può pensare di essere missionari nei confronti dei giovani lontani dalla Chiesa, se la propria fede è poca cosa, semispenta.

Testimoniare la verità di Cristo, senza possedere una coscienza pura, ossia liberata dal male, in grado di riconoscere, di fronte ai grandi problemi morali e religiosi, una verità, la verità è un’impresa improba. Una coscienza che non coltiva la verità, difficilmente  si apre e si consegna a Gesù Cristo, somma Verità, fonte di libertà. Difficilmente la può consegnare agli altri. Recentemente è stato canonizzato il cardinale John Henry Newman. Egli ci ha insegnato che quel «noi», che è la Chiesa, non ha come obiettivo l’eliminazione della coscienza libera, bensì quello di custodirla, di proteggerla e di farla fiorire, aiutando ogni persona a riconoscere nel proprio intimo la voce di Dio, il suo Verbo fatto carne. Nella coscienza di ogni persona, infatti, è seminato l’anelito all’incontro con Cristo, Amore pieno di verità. Cristo, Via, Verità e Vita è atteso da ogni coscienza. La Chiesa sorge con la missione di diventare Madre delle coscienze, affinché possano incontrare Chi può farle confluire nell’oceano infinito della Verità, che è Dio-Trinità.

Caro Marco, aiuta i credenti a scoprire la voce divina che si trova nel loro cuore. Una tale voce li aiuterà a smarcarsi da ogni totalitarismo, da ogni idolo, e a trovare un varco per giungere nella comunità cristiana che conserva ultimamente quel Senso che è ricercato dal profondo di ogni coscienza. Se la sollecitudine pastorale ti creano insuccessi, cali di popolarità, pensa alla tensione d’amore che vive Cristo sulla croce. Ti porterà luce, desiderio di essere uno col Figlio crocifisso, missionario del Padre, in un mondo assetato di sapienza e di amore. Se vorrai vivere per i tuoi fratelli e sorelle, immedesimati, sempre di più, in Colui che ha dato la vita per tutti, e dei molti ha formato una sola famiglia di figli, per Dio. Con la tua dedizione entusiasta al Signore, insegna a non vivere un cristianesimo sbiadito ed incolore, senza spessore. Cresci con la preghiera nella comunione con il Signore Gesù, per essere completamente suo, per sempre. È bello far parte di un popolo di credenti che, compatti, si dissetano al calice della Salvezza e si nutrono col pane della Vita, mentre camminano, spediti e bramosi, verso la Luce. Essa tutto illumina, colma di senso le fatiche pastorali,  le croci delle incomprensioni, le attese dei germogli e dei frutti copiosi.

Caro Marco, cari genitori e parenti di Marco, cari giovani e fedeli, il Signore ci visita sempre con i suoi doni. Noi, sua Chiesa, accogliamolo, serviamolo, lodiamolo.

+ Mario Toso

Vescovo di Faenza-Modigliana

Pellegrinaggio dei cresimati

Roma, san Giovanni Laterano 8 ottobre 2019

Cari ragazzi, cari catechisti e genitori, cari parroci, durante questa santa Messa, celebrata in san Giovanni Laterano, la Chiesa cattedrale di Roma, la madre di tutte le Chiese di Roma e del mondo, si farà la tradizionale consegna del simbolo degli Apostoli. Esso contiene in forma più breve le principali verità di fede che recitiamo con il Credo della Santa Messa domenicale, il simbolo niceno-costantinopolitano, composto dopo i Concili di Nicea e di Costantinopoli.  Che cos’è il Simbolo degli Apostoli? È, come evoca il nome, una sintesi della fede degli Apostoli. È il primo Credo della Chiesa delle origini. È detto  «Credo degli Apostoli»,  perché, secondo la tradizione di cui parla anche Rufino, ciascuno dei dodici apostoli, ispirati dallo Spirito Santo,[8] il giorno di Pentecoste, avrebbe scritto uno dei dodici articoli di fede contenuti nel Symbolum.[7] È chiamato anche l’antico Simbolo battesimale della Chiesa di Roma, perché era recitato dai  battezzandi. Accolto dalla Chiesa di Roma, ove ebbe la sua sede Pietro, il primo tra gli Apostoli, fu da essa costantemente conservato e tramandato nella sua originale purezza.La consegna a voi del simbolo degli Apostoli, qui a Roma, ha un significato del tutto particolare, cari cresimati. Vi è affidato perché, come la Chiesa delle origini, lo accogliate con stupore, con slancio ed entusiasmo, e perché nei prossimi anni delle scuole superiori  non lo perdiate di vista, ma lo approfondiate. Come? Amando e conoscendo di più Gesù Cristo. Con quale scopo? Per conoscerLo e amarLo sempre di più. L’amore fa vedere e il vedere fa amare. Ricevere con fede il Simbolo, recitarlo attentamente, studiarlo, consente di entrare in comunione con Dio, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, con il loro Amore, con tutta la Chiesa, che ce  lo trasmette. Consente di entrare in sintonia e in connessione con Dio-Amore. Permette di amare e vedere le cose, le persone, i genitori, gli amici come li vede e li ama Lui. Il simbolo degli Apostoli diventa nutrimento per lo spirito, si fa vita di dono. Guardando a Colui che «fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi e il terzo giorno risuscitò da morte», come ci insegna il Simbolo, impariamo l’amore, diventiamo amore. Grazie al Credo apostolico, accolto e pregato, giungiamo a vivere Gesù Cristo, a vivere la sua Chiesa, nel seno della quale noi siamo e viviamo. Arrivando ai 18 anni  potrete fare una professione di fede più convinta. Sceglierete di seguire Gesù Cristo come suoi missionari coraggiosi. Dal profondo del vostro cuore, sentirete di appartenere a Lui in maniera indissolubile. GuardandoLo imparerete ad amare per davvero. Chi ama come Gesù, è bene ripeterlo, vede di più, e chi vede e conosce di più, ama sempre di più. Proverete gioia di essere suoi, di avere come madre la Chiesa. Ne andrete fieri, non arrossirete, nonostante i suoi difetti. Sarete più pronti a rinnovarla, a costruirla, come anche a costruire una società dove  vivere il comandamento nuovo di Gesù.

Cosa vuol dire vivere, amare la Chiesa, costruirla? A chi possiamo guardare per capire meglio cosa significa tutto questo? Penso che faremmo bene guardare a san Francesco d’Assisi, festeggiato qualche giorno fa. Come racconta san Bonaventura, il poverello di Assisi fu visto in sogno da papa Innocenzo III mentre impediva il crollo di questa Chiesa, sorreggendola con una delle sue spalle. Cosa voleva dire il sogno del papa? Che san Francesco, con la sua scelta di vita povera, con il suo esempio, con il suo slancio missionario – partì per convertire il sultano mussulmano -, con la fondazione di una famiglia religiosa numerosa, fatta di tante persone consacrate  (pensiamo solo a santa Chiara, a sant’Antonio di Padova, a san Bonaventura e, più vicino a noi, a padre Kolbe, a Padre Pio), impedì la rovina morale e religiosa della Chiesa. Egli, ancora oggi ci indica come rinnovarla, come renderla più giovane e bella, per non farla cadere rovinosamente.

San Francesco impersonò colui che nel Libro del Siracide (Sir 50, 1. 3-7) è descritto come chi «nella sua vita riparò il tempio, e nei suoi giorni fortificò il santuario». Il Crocifisso, che Francesco pregò nella chiesetta diroccata di san Damiano, lo sollecitò in tal senso: «Va’, Francesco, e ripara la mia Chiesa in rovina». Cari cresimati, accogliete anche voi le parole del Crocifisso rivolte al giovane Francesco. Esse, non solo sollecitano Francesco a riparare materialmente la chiesetta di san Damiano, pietra su pietra. Lo invitano a vedere nello stato rovinoso del piccolo edificio la situazione drammatica ed inquietante della Chiesa del suo tempo. Tra i fedeli dominava una fede superficiale, senza radici. Ossia una fede che non formava e non trasformava la vita. Il clero in generale, alto e basso, era poco zelante, più preoccupato del potere e del benessere materiale. L’amore per Gesù Cristo si era raffreddato. Tutto ciò procurava la distruzione interiore della Chiesa, dando adito anche ad eresie.

Il Crocifisso posto al centro della chiesetta di san Damiano chiamò, dunque, Francesco sia ad un lavoro manuale per riparare concretamente la chiesetta di san Damiano sia ad un lavoro spirituale, missionario, di testimonianza, per rinnovare la Chiesa stessa di Cristo.

Riflettiamo: nel sogno di Innocenzo III fu visto un religioso, piccolo e insignificante, che puntellava la Chiesa con le sue spalle affinché non cadesse. È interessante notare, sottolineò Benedetto XVI nell’udienza generale del 27 gennaio 2010, che non è il Papa a dare l’aiuto affinché la Chiesa non cada, bensì un piccolo religioso, che il Papa riconobbe in Francesco, allorché gli fece visita per chiedergli l’approvazione della Regola. E pensare che Innocenzo III era un Papa potente, di grande cultura teologica, come pure di grande potere politico. Ebbene, non è lui a rinnovare la Chiesa. Cosa vuol dire questo per noi, per voi cresimati? La Chiesa può essere riformata, costruita così come Gesù Cristo la desidera, anche da chi, come noi, è piccolo e insignificante, ossia non è una persona importante e non è molto conosciuta. Basta amare Lui, ascoltarlo, cominciando da giovani, come fece san Francesco. Basta scegliere la «parte buona» che è ascoltare la parola di Gesù, come fece Maria, senza trascurare peraltro di operare, come Marta (cf Lc 10, 38-42). Volete diventare credenti che si fanno carico della propria Chiesa, del suo futuro? Amate Gesù, tifate per Lui, vantatevi del suo amore, un amore certamente costoso, che importa crocifissioni, ma che riempie il cuore di gioia, di tanta amicizia fraterna, di voglia di fare nuove le cose e le persone.

Il Signore Gesù, che si fa cibo e bevanda in questa Eucaristia, san Francesco di Assisi vi e ci aiutino.

+ Mario Toso