Faenza - Chiesa dei PP. Cappuccini, 24 aprile 2015
24-04-2015
Cari fratelli e sorelle,
come abbiamo sentito, celebriamo questa sera la bellezza del nostro Dio, perché nel suo amore ci sceglie e ci costituisce come figli, amici e testimoni. Siamo chiamati, quindi, a sentirci tali e a riconoscere che siamo tutti fratelli. Nell’essere di ognuno di noi è insita una vocazione.
E siamo qui riuniti per pregare per le vocazioni, perché «la messe è molta, ma gli operai sono pochi». Lo stesso Signore Gesù invita i suoi discepoli a pregare affinché «il padrone della messe […] mandi operai nella sua messe» (Lc 10,2).
Ma che cosa significa, in realtà, pregare per le vocazioni? Che cosa implica al lato pratico, dal momento che la vocazione cristiana nasce inserendosi nel dinamismo della vita di Gesù Cristo?
Chi vive Cristo, la sua missionarietà, avverte nel proprio intimo il desiderio gioioso e il coraggio di offrire la propria vita, spendendola per la causa del Regno. Il credente autentico, centrato in Cristo, avverte un impulso all’«esodo» da sé per dedicarsi al servizio del suo Signore, per comunicarlo e donarlo, affinché tutti lo possano incontrare. Nel corpo di Cristo, che è la Chiesa, i credenti sono tutti sollecitati a rispondere ad un’unica chiamata – ad essere figli/figlie nel Figlio –, nella molteplice varietà dei compiti e dei carismi, per cui si può e si deve parlare di più vocazioni all’interno di un’unica vocazione alla santità nella «carità». Proprio perché c’è un’unica vocazione ad essere «figli/figlie nel Figlio», si rende necessario sviluppare una pastorale vocazionale unitaria, che coinvolga ogni azione pastorale educativa. Essa riguarda indistintamente ogni persona e si interessa di tutte le vocazioni: quelle ordinate e di speciale consacrazione, e quelle dei giovani, delle famiglie, dei lavoratori, dei politici: in una parola di tutte le componenti del popolo di Dio, siano esse costituite da individui o da gruppi.
Pregare per le vocazioni significa in primo luogo pregare perché molti abbiano il coraggio di donarsi con gioia, sentendosi chiamati, anzi, direttamente convocati dall’amore di Cristo, rispondendo al suo Amore e diventando interamente suoi, per essere come Lui ci vuole: annunciatori e testimoni della sua pienezza di vita, vale a dire, della sua gioia di essere. Cristo, in quanto purissimo dono di sé, è gaudium essendi, gioia di esistere in totale comunione con l’Amore trinitario. Pregare per le vocazioni, pertanto, significa non solo pregare perché vi siano molti operai nella Sua messe, ma soprattutto perché vi siano molti che, partecipando della pienezza d’essere e di dono di Cristo, siano colmi di gioia e la diffondano con la testimonianza della loro vita, perché la gioia autentica emana la sua fragranza e difficilmente può essere nascosta.
L’essere totalmente aperti all’Altro, alla famiglia di Dio che è la santissima Trinità, ove si riceve e si dà, e della quale noi siamo immagine; essere un’esistenza che, come quella di Cristo, è vita «in uscita da sé», vita missionaria, che si incarna nei vari mondi vitali e trasfigura, significa vivere Cristo. Pregare per le vocazioni, in definitiva, è chiedere che il Signore Gesù ci conceda esistenze missionarie, capaci di vivere come Colui che ogni giorno si incarna e ricapitola in sé tutte le cose.
Non solo. È chiedere di saper crescere persone capaci di essere e di dirsi cristiani, capaci di donare Cristo quale fonte inesauribile di vita piena. Evidentemente, non si dona Cristo come un oggetto. Il credente, inviato ad gentes, si impegna a farlo conoscere affinché anche altri possano incontrarlo come Redentore e Salvatore. Non sono certo i credenti datori di salvezza, bensì Cristo in persona loro tramite. Pertanto, pregare per le vocazioni, significa anche pregare affinché prendiamo consapevolezza di essere moltiplicatori di gioia non tanto in virtù delle nostre forze, ma perché inabitati dalla forza della grazia che ci supera e non ci appartiene.
Don Bosco, finissimo e appassionato educatore, ‘ lo ricordiamo proprio in questi giorni alla vigilia del nostro pellegrinaggio a Torino Valdocco in occasione del bicentenario della sua nascita ‘ infondeva nei suoi giovani proprio la convinzione che accogliere Gesù Cristo e saperlo condividere con gli altri equivale a riempire la propria esistenza di gioia. Al punto che san Domenico Savio, sulla scia del suo Padre e Maestro, poteva ripetere: «Noi qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri». La letizia che il santo piemontese desiderava per i suoi giovani non era segnata da faciloneria, superficialità, ma dalla gioia profonda di essere e di sentirsi figli amati. Era appunto il percepirsi intimamente amati da Dio, e derivava dal vivere nel bene e nel servizio all’altro con il Suo amore. Don Bosco organizzò la vita delle sue case in modo da far sperimentare ai suoi giovani la bellezza di vivere in una famiglia come fratelli, di avere un Padre, di essere amati da Lui. Fece loro scoprire la «mistica» del vivere insieme, dell’incontro, dell’aiuto reciproco, dell’abbraccio, formando una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. Nelle sue scuole, nei suoi oratori, i più grandicelli cercavano di accompagnare i più piccoli durante il gioco, lo studio, la preghiera, diventando esse stessi formatori. È con i suoi giovani che don Bosco ha fondato addirittura una Congregazione, la Congregazione Salesiana.
Noi preghiamo più autenticamente e più efficacemente per le vocazioni, quando la nostra vita ci mostra come essere persone fraterne e gioiose nel dono, «un cuor solo ed un’anima sola». Nelle nostre comunità ecclesiali tanto più cresceranno vocazioni forti, convinte, felici di portare Cristo in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra, quanto più saremo un «noi» di persone capaci di vivere nella comunione e nella condivisione, senza farci la guerra, senza cadere in campanilismi inutili e dannosi, senza vivere quella mondanità spirituale che porta a colonizzare gli spazi apostolici e vocazionali della Chiesa, escludendo l’altro da noi, e in definitiva cercando più il proprio interesse che quello di Cristo (cf esortazione apostolica Evangelii gaudium, nn. 93-98 [= EG]).
Un «corpo», che non coltivi la comunione, preferendo la dispersione o addirittura la diaspora, diventa a poco a poco inefficace dal punto di vista vocazionale e missionario, oltre che ininfluente da quello sociale e culturale. Ciò è vero anche nei confronti delle vocazioni sacerdotali e di vita consacrata. A questo proposito, papa Francesco scrive: «In molti luoghi scarseggiano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Spesso questo è dovuto all’assenza nelle comunità di un fervore apostolico contagioso, per cui esse non entusiasmano e non suscitano attrattiva. Dove c’è vita, fervore, voglia di portare Cristo agli altri, sorgono vocazioni genuine. Persino in parrocchie dove i sacerdoti non sono molto impegnati e gioiosi, è la vita fraterna e fervorosa della comunità che risveglia il desiderio di consacrarsi interamente a Dio e all’evangelizzazione, soprattutto se tale vivace comunità prega insistentemente per le vocazioni e ha il coraggio di proporre ai suoi giovani un cammino di speciale consacrazione» (EG n. 107) .
Una comunità è, dunque, vitale e fertile dal punto di vista vocazionale, se le sue componenti testimoniano «un cuor solo e un’anima sola», un fervore apostolico contagioso.
Siamo, pertanto, qui riuniti anche per pregare affinché fioriscano e maturino vocazioni con la capacità di testimoniare in maniera credibile perché allevate in comunità e gruppi compatti, ricchi di amore vicendevole, aperti alle necessità dei fratelli e alla condivisione.
Ogni battezzato è chiamato a testimoniare, con le parole e con la vita, che Gesù è vivo e presente in mezzo a noi con il suo amore trasfigurante. Il testimone, come ci ha ricordato recentemente papa Francesco, è una persona che ha visto, ricorda e racconta. Vedere, ricordare e raccontare sono i tre verbi che ne descrivono l’identità e la missione. Il testimone autentico ha «visto», come i discepoli di Emmaus, con gli occhi della fede e comprendendone la portata esistenziale e storica, il grande evento della morte e risurrezione di Cristo, significato e realizzato nel memoriale dello «spezzare il pane», che ci struttura come annunciatori. Il testimone non può vivere senza l’Eucaristia. Questa alimenta la comunità, fa la Chiesa. Il testimone che «vede» ricorda, nel senso che fa memoria, attualizza nella sue scelte, nella sua condotta, la vita nuova che Cristo, con la sua morte e risurrezione, gli ha meritato e donato, perché, vivendola, diventi popolo nuovo, costruttore di una storia che sia un cammino di comunione con Dio. Il testimone, che ha visto, racconta non in maniera fredda e distaccata, ma come un innamorato che si è messo in discussione, cambiando vita.
Il contenuto della testimonianza cristiana, in ultima analisi, non è una teoria, una comunicazione asettica di una scoperta scientifica, una prassi procedurale, ma è un evento concreto, anzi, una Persona: è Cristo morto e risorto, il Vivente, l’unico Salvatore della nostra povera umanità. È questo il Cristo che deve essere testimoniato da quanti, nella preghiera e nella Chiesa, fanno esperienza personale di Lui attraverso un cammino che ha il suo fondamento nel Battesimo, il suo nutrimento nell’Eucaristia, il suo sigillo nella Confermazione, la sua continua conversione nella Penitenza. Grazie a questo cammino, sempre guidato dalla Parola di Dio, ogni cristiano può diventare testimone di Gesù risorto. E la sua testimonianza è tanto più credibile quanto più traspare da un modo di vivere evangelico, gioioso, coraggioso, mite, pacifico, misericordioso. Se invece il cristiano si lascia prendere dalle comodità, dalla vanità, dall’egoismo, se diventa sordo e cieco alla domanda di “risurrezione” di tanti fratelli, come potrà comunicare Gesù vivo,come potrà comunicare la potenza liberatrice di Gesù vivo e la sua tenerezza infinita?» (Francesco, Regina coeli, piazza San Pietro, 19 aprile 2015).
In breve, siamo qui convocati per poter essere testimoni che vedono, ricordano e raccontano e per chiedere di essere aiutati ad educare testimoni credibili.
Maria, nostra Madre e Madre della Chiesa, ci sostenga con la sua intercessione, affinché, nonostante i nostri limiti, assistiti dalla grazia della fede, possiamo diventare testimoni del Signore risorto e quindi protagonisti di una pastorale vocazionale unitaria, comunitaria, ricca di tante articolazioni quante sono le chiamate particolari, che il Signore Gesù rivolge a ciascuno dei suoi figli.
+ Mario Toso
come abbiamo sentito, celebriamo questa sera la bellezza del nostro Dio, perché nel suo amore ci sceglie e ci costituisce come figli, amici e testimoni. Siamo chiamati, quindi, a sentirci tali e a riconoscere che siamo tutti fratelli. Nell’essere di ognuno di noi è insita una vocazione.
E siamo qui riuniti per pregare per le vocazioni, perché «la messe è molta, ma gli operai sono pochi». Lo stesso Signore Gesù invita i suoi discepoli a pregare affinché «il padrone della messe […] mandi operai nella sua messe» (Lc 10,2).
Ma che cosa significa, in realtà, pregare per le vocazioni? Che cosa implica al lato pratico, dal momento che la vocazione cristiana nasce inserendosi nel dinamismo della vita di Gesù Cristo?
Chi vive Cristo, la sua missionarietà, avverte nel proprio intimo il desiderio gioioso e il coraggio di offrire la propria vita, spendendola per la causa del Regno. Il credente autentico, centrato in Cristo, avverte un impulso all’«esodo» da sé per dedicarsi al servizio del suo Signore, per comunicarlo e donarlo, affinché tutti lo possano incontrare. Nel corpo di Cristo, che è la Chiesa, i credenti sono tutti sollecitati a rispondere ad un’unica chiamata – ad essere figli/figlie nel Figlio –, nella molteplice varietà dei compiti e dei carismi, per cui si può e si deve parlare di più vocazioni all’interno di un’unica vocazione alla santità nella «carità». Proprio perché c’è un’unica vocazione ad essere «figli/figlie nel Figlio», si rende necessario sviluppare una pastorale vocazionale unitaria, che coinvolga ogni azione pastorale educativa. Essa riguarda indistintamente ogni persona e si interessa di tutte le vocazioni: quelle ordinate e di speciale consacrazione, e quelle dei giovani, delle famiglie, dei lavoratori, dei politici: in una parola di tutte le componenti del popolo di Dio, siano esse costituite da individui o da gruppi.
Pregare per le vocazioni significa in primo luogo pregare perché molti abbiano il coraggio di donarsi con gioia, sentendosi chiamati, anzi, direttamente convocati dall’amore di Cristo, rispondendo al suo Amore e diventando interamente suoi, per essere come Lui ci vuole: annunciatori e testimoni della sua pienezza di vita, vale a dire, della sua gioia di essere. Cristo, in quanto purissimo dono di sé, è gaudium essendi, gioia di esistere in totale comunione con l’Amore trinitario. Pregare per le vocazioni, pertanto, significa non solo pregare perché vi siano molti operai nella Sua messe, ma soprattutto perché vi siano molti che, partecipando della pienezza d’essere e di dono di Cristo, siano colmi di gioia e la diffondano con la testimonianza della loro vita, perché la gioia autentica emana la sua fragranza e difficilmente può essere nascosta.
L’essere totalmente aperti all’Altro, alla famiglia di Dio che è la santissima Trinità, ove si riceve e si dà, e della quale noi siamo immagine; essere un’esistenza che, come quella di Cristo, è vita «in uscita da sé», vita missionaria, che si incarna nei vari mondi vitali e trasfigura, significa vivere Cristo. Pregare per le vocazioni, in definitiva, è chiedere che il Signore Gesù ci conceda esistenze missionarie, capaci di vivere come Colui che ogni giorno si incarna e ricapitola in sé tutte le cose.
Non solo. È chiedere di saper crescere persone capaci di essere e di dirsi cristiani, capaci di donare Cristo quale fonte inesauribile di vita piena. Evidentemente, non si dona Cristo come un oggetto. Il credente, inviato ad gentes, si impegna a farlo conoscere affinché anche altri possano incontrarlo come Redentore e Salvatore. Non sono certo i credenti datori di salvezza, bensì Cristo in persona loro tramite. Pertanto, pregare per le vocazioni, significa anche pregare affinché prendiamo consapevolezza di essere moltiplicatori di gioia non tanto in virtù delle nostre forze, ma perché inabitati dalla forza della grazia che ci supera e non ci appartiene.
Don Bosco, finissimo e appassionato educatore, ‘ lo ricordiamo proprio in questi giorni alla vigilia del nostro pellegrinaggio a Torino Valdocco in occasione del bicentenario della sua nascita ‘ infondeva nei suoi giovani proprio la convinzione che accogliere Gesù Cristo e saperlo condividere con gli altri equivale a riempire la propria esistenza di gioia. Al punto che san Domenico Savio, sulla scia del suo Padre e Maestro, poteva ripetere: «Noi qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri». La letizia che il santo piemontese desiderava per i suoi giovani non era segnata da faciloneria, superficialità, ma dalla gioia profonda di essere e di sentirsi figli amati. Era appunto il percepirsi intimamente amati da Dio, e derivava dal vivere nel bene e nel servizio all’altro con il Suo amore. Don Bosco organizzò la vita delle sue case in modo da far sperimentare ai suoi giovani la bellezza di vivere in una famiglia come fratelli, di avere un Padre, di essere amati da Lui. Fece loro scoprire la «mistica» del vivere insieme, dell’incontro, dell’aiuto reciproco, dell’abbraccio, formando una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. Nelle sue scuole, nei suoi oratori, i più grandicelli cercavano di accompagnare i più piccoli durante il gioco, lo studio, la preghiera, diventando esse stessi formatori. È con i suoi giovani che don Bosco ha fondato addirittura una Congregazione, la Congregazione Salesiana.
Noi preghiamo più autenticamente e più efficacemente per le vocazioni, quando la nostra vita ci mostra come essere persone fraterne e gioiose nel dono, «un cuor solo ed un’anima sola». Nelle nostre comunità ecclesiali tanto più cresceranno vocazioni forti, convinte, felici di portare Cristo in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra, quanto più saremo un «noi» di persone capaci di vivere nella comunione e nella condivisione, senza farci la guerra, senza cadere in campanilismi inutili e dannosi, senza vivere quella mondanità spirituale che porta a colonizzare gli spazi apostolici e vocazionali della Chiesa, escludendo l’altro da noi, e in definitiva cercando più il proprio interesse che quello di Cristo (cf esortazione apostolica Evangelii gaudium, nn. 93-98 [= EG]).
Un «corpo», che non coltivi la comunione, preferendo la dispersione o addirittura la diaspora, diventa a poco a poco inefficace dal punto di vista vocazionale e missionario, oltre che ininfluente da quello sociale e culturale. Ciò è vero anche nei confronti delle vocazioni sacerdotali e di vita consacrata. A questo proposito, papa Francesco scrive: «In molti luoghi scarseggiano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Spesso questo è dovuto all’assenza nelle comunità di un fervore apostolico contagioso, per cui esse non entusiasmano e non suscitano attrattiva. Dove c’è vita, fervore, voglia di portare Cristo agli altri, sorgono vocazioni genuine. Persino in parrocchie dove i sacerdoti non sono molto impegnati e gioiosi, è la vita fraterna e fervorosa della comunità che risveglia il desiderio di consacrarsi interamente a Dio e all’evangelizzazione, soprattutto se tale vivace comunità prega insistentemente per le vocazioni e ha il coraggio di proporre ai suoi giovani un cammino di speciale consacrazione» (EG n. 107) .
Una comunità è, dunque, vitale e fertile dal punto di vista vocazionale, se le sue componenti testimoniano «un cuor solo e un’anima sola», un fervore apostolico contagioso.
Siamo, pertanto, qui riuniti anche per pregare affinché fioriscano e maturino vocazioni con la capacità di testimoniare in maniera credibile perché allevate in comunità e gruppi compatti, ricchi di amore vicendevole, aperti alle necessità dei fratelli e alla condivisione.
Ogni battezzato è chiamato a testimoniare, con le parole e con la vita, che Gesù è vivo e presente in mezzo a noi con il suo amore trasfigurante. Il testimone, come ci ha ricordato recentemente papa Francesco, è una persona che ha visto, ricorda e racconta. Vedere, ricordare e raccontare sono i tre verbi che ne descrivono l’identità e la missione. Il testimone autentico ha «visto», come i discepoli di Emmaus, con gli occhi della fede e comprendendone la portata esistenziale e storica, il grande evento della morte e risurrezione di Cristo, significato e realizzato nel memoriale dello «spezzare il pane», che ci struttura come annunciatori. Il testimone non può vivere senza l’Eucaristia. Questa alimenta la comunità, fa la Chiesa. Il testimone che «vede» ricorda, nel senso che fa memoria, attualizza nella sue scelte, nella sua condotta, la vita nuova che Cristo, con la sua morte e risurrezione, gli ha meritato e donato, perché, vivendola, diventi popolo nuovo, costruttore di una storia che sia un cammino di comunione con Dio. Il testimone, che ha visto, racconta non in maniera fredda e distaccata, ma come un innamorato che si è messo in discussione, cambiando vita.
Il contenuto della testimonianza cristiana, in ultima analisi, non è una teoria, una comunicazione asettica di una scoperta scientifica, una prassi procedurale, ma è un evento concreto, anzi, una Persona: è Cristo morto e risorto, il Vivente, l’unico Salvatore della nostra povera umanità. È questo il Cristo che deve essere testimoniato da quanti, nella preghiera e nella Chiesa, fanno esperienza personale di Lui attraverso un cammino che ha il suo fondamento nel Battesimo, il suo nutrimento nell’Eucaristia, il suo sigillo nella Confermazione, la sua continua conversione nella Penitenza. Grazie a questo cammino, sempre guidato dalla Parola di Dio, ogni cristiano può diventare testimone di Gesù risorto. E la sua testimonianza è tanto più credibile quanto più traspare da un modo di vivere evangelico, gioioso, coraggioso, mite, pacifico, misericordioso. Se invece il cristiano si lascia prendere dalle comodità, dalla vanità, dall’egoismo, se diventa sordo e cieco alla domanda di “risurrezione” di tanti fratelli, come potrà comunicare Gesù vivo,come potrà comunicare la potenza liberatrice di Gesù vivo e la sua tenerezza infinita?» (Francesco, Regina coeli, piazza San Pietro, 19 aprile 2015).
In breve, siamo qui convocati per poter essere testimoni che vedono, ricordano e raccontano e per chiedere di essere aiutati ad educare testimoni credibili.
Maria, nostra Madre e Madre della Chiesa, ci sostenga con la sua intercessione, affinché, nonostante i nostri limiti, assistiti dalla grazia della fede, possiamo diventare testimoni del Signore risorto e quindi protagonisti di una pastorale vocazionale unitaria, comunitaria, ricca di tante articolazioni quante sono le chiamate particolari, che il Signore Gesù rivolge a ciascuno dei suoi figli.
+ Mario Toso